Cassazione Penale, Sez. 7, 20 gennaio 2020, n. 1937 - Omicidio colposo con violazione delle norme di sicurezza. La lamentata "pressione" subita dalla committenza non può che essere negativamente incidente sulla valutazione del fatto


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: BRUNO MARIAROSARIA Data Udienza: 11/12/2019

 

Fatto

 

1. La Corte d'appello di Palermo, con la sentenza in epigrafe indicata, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Palermo con cui P.E. e P.S., ritenuti responsabili del reato di omicidio colposo con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono stati condannati alla pena di anni quattro di reclusione ciascuno.
Hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati, a mezzo del difensore, deducendo violazione di legge e carenza di motivazione con riferimento agli aspetti riguardanti il diniego delle circostanze attenuanti generiche ed il trattamento sanzionatorio prescelto.
2. I ricorsi sono inammissibili.
Si osserva che la decisione impugnata risulta sorretta da conferente apparato argomentativo sia in relazione alla decisione riguardante il diniego delle circostanze attenuanti generiche, sia in relazione ai criteri di determinazione della pena inflitta. Per altro verso, il ricorso si sostanzia in una pedissequa ripetizione dei motivi di appello adeguatamente vagliati in sede di merito.
Quanto al primo profilo di doglianza, la Corte di merito dopo avere evidenziato la gravità del fatto e l'elevato grado di colpa degli imputati, i quali avevano lasciato che il lavoratore operasse in condizioni di evidente pericolo e di assoluta insicurezza, ha affermato che non si individuano agli atti elementi di positiva valutazione idonei a consentire un'attenuazione della pena mediante concessione dell'invocato beneficio. La circostanza addotta dalla difesa riguardante le lamentate "pressioni" subite dagli imputati da parte della committenza, finalizzate al veloce completamento del lavoro, si legge in sentenza, non possiede alcun valore significativo ai fini di una diversa considerazione dei fatti.
La risposta fornita è certamente conforme ai principi di diritto stabiliti in sede di legittimità, in base ai quali, l'imposizione di modalità di lavoro basate su ritmi di produzione eccessivamente elevati, nei quali si trascura l'osservanza delle norme di sicurezza e l'uso di tutti i mezzi di protezione non può che essere negativamente incidente sulla valutazione del fatto, (sull'argomento Sez. 4, n. 254 del 15/10/1981, dep. 13/01/1982, Rv. 151558 - 01).
Quanto al trattamento sanzionatorio, in base al principio normativamente codificato all'art. 132, cod. pen., la determinazione delle entità della pena da infliggersi, nei limiti della legge, è compito affidato esclusivamente alla valutazione discrezionale del giudice, che deve compiere tale scelta in base ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., indicando i motivi che giustificano la sua scelta.
Trattandosi di una potestà interamente affidata alla discrezionalità del giudice, il controllo sulla corretta applicazione della legge può essere esercitato soltanto sulla motivazione che sorregge la decisione.
La giurisprudenza di questa Corte, in materia, si è dedicata alla individuazione dei requisiti motivazionali minimi che il giudice deve rispettare onde potersi ritenere soddisfatto il relativo obbligo. Si è affermato, da lungo tempo, che deve ritenersi adempiuto il dovere motivazionale in materia di dosimetria della pena allorché siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva, dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. (così ex multis Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, Rv. 258410).
Ebbene, nel caso in esame, il giudice ha adempito adeguatamente all'obbligo richiestogli, evidenziando gli elementi ritenuti rilevanti ai fini dell'individuazione della pena irrogata, in piena aderenza ai principi stabiliti dalla Corte di legittimità, esplicitando le ragioni della scelta della pena inflitta, riconducibili, secondo i parametri indicati dall'att. 133, cod. pen., alla gravità del fatto ed alla intensità della colpa.
3. Consegue alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché, a norma dell'alt. 616 cod. proc. pen., al versamento della somma di euro 3000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000),
 

 

P.Q.M.
 

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di tremila euro alla Cassa delle Ammende.
In Roma così deciso il 11 dicembre 2019