Cassazione Civile, Sez. Lav., 29 gennaio 2020, n. 2012 - Infortunio sul lavoro: spese sanitarie e apparecchi di protesi dentale


 

Presidente: NOBILE VITTORIO Relatore: AMENDOLA FABRIZIO Data pubblicazione: 29/01/2020

 

Fatto

 


1. La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 2 dicembre 2011, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannò l'Inail al rimborso delle sole spese sanitarie e per gli apparecchi di protesi dentale effettivamente sostenute da N.P., rese necessarie a seguito del l'infortunio occorso al lavoratore il 7 aprile 2002, ma non al pagamento di quelle preventivate.
La Corte territoriale ritenne che "in presenza di spese per prestazioni di cura medico-chirurgica meramente ipotizzate per la garanzia dell'iter di guarigione dell'assicurato non può sussistere alcun diritto al rimborso (anticipato) essendo carente per un verso la necessaria presupposta attualità curativa e per altro non potendosi escludere che il processo di guarigione richieda una misura di intervento qualitativo e quantitativo difforme da quello pur credibilmente preventivato".
2. Avverso tale pronuncia propose ricorso per cassazione R.G. n. 15608/2012 il soccombente, con tre motivi, con la resistenza dell'Inail.
3. Con ordinanza n. 1925 del 25 gennaio 2018 questa Corte ha dichiarato ìmprocedibile il ricorso condannando il N.P. al pagamento delle spese di lite.
Posto che il ricorso per cassazione risultava notificato alla controparte in data 28 maggio 2012, si è ritenuto violato l'art. 369, co. 1, c.p.c., secondo cui "il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di venti giorni dall'ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto". Ha affermato che il ricorso del N.P. risultava depositato nella cancelleria della Corte il 25 giugno 2012, oltre il termine di venti giorni dalla notifica.
4. Per la revocazione di tale ordinanza ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., il soccombente ha nuovamente adito questa Corte, esponendo che la pronuncia impugnata sarebbe incorsa in errore di fatto risultante dagli atti di causa per aver considerato la data del deposito del precedente ricorso, mentre lo stesso era stato spedito con plico postale in data 18 giugno 2012 ai sensi dell'art. 134 disp. att. c.p.c., nel rispetto dunque del termine di venti giorni di cui all'art. 369 c.p.c..
Il N.P. ha concluso per la revocazione della ordinanza impugnata e per l'accoglimento dei tre motivi dell'originario ricorso; ha resistito con controricorso L'Inail.
5. Con ordinanza interlocutoria del 3 luglio 2019, la Sesta Sezione civile di questa Corte, sul presupposto dell'ammissibilìtà del ricorso per revocazione, ha rimesso la causa all'udienza pubblica, in prossimità della quale il N.P. ha comunicato memoria ex art. 378 c.p.c..
 

 

Diritto

 

1. Il ricorso per revocazione deve essere accolto.
L'ordinanza qui impugnata ai sensi dell'art. 395, co. 1, n. 4, c.p.c., ha ritenuto che l'originario ricorso per cassazione fosse stato depositato in data 25 giugno 2012; da ciò ne ha tratto la conseguenza dell'improcedibilità per non essere stato lo stesso depositato nel termine di venti giorni di cui all'art. 369 c.p.c. decorrenti dalla notificazione pacificamente avvenuta il 28 maggio 2012.
In realtà risulta invece dagli atti che l'originario ricorso per cassazione è stato spedito con plico postale alla cancelleria della Corte di cassazione in data 18 giugno 2012 e, quindi, nel rispetto del termine stabilito dall'art. 369 c.p.c., considerato che il 17 giugno 2012 era domenica.
Infatti, ai sensi dell'art. 134 disp. att. c.p.c. "Gli avvocati che hanno sottoscritto il ricorso o il controricorso possono provvedere al deposito degli stessi e degli atti indicati negli artt. 369 e 370 del codice mediante l'invio per posta, in plico raccomandato, al cancelliere della Corte di cassazione" (co. 1) e "il deposito e le varie integrazioni ... si hanno per avvenuti, a tutti gli effetti, alla data di spedizione dei plichi con la posta raccomandata" (co. 5); "nel fascicolo di ufficio il cancelliere allega la busta utilizzata per l'invio del ricorso o del controricorso" (co. 6).
La piana lettera della norma è stata interpretata da questa Corte nel senso che al fine di stabilire la tempestività, ai sensi dell'art. 369, primo comma, c.p.c., del deposito del ricorso per cassazione inviato a mezzo posta, deve tenersi conto, ex art. 134 disp. att. c.p.c., della data di spedizione del plico risultante dal timbro impresso dall'ufficio postale di partenza, e non già della data del suo arrivo in cancelleria (Cass. n. 1981 del 1996; Cass. SS.UU. n. 7103 del 1995).
Pertanto, sussistendo l'errore di percezione rispetto ad una data di deposito che non è quella corrispondente a quella effettiva ed avendo deciso dell'improcedibilità dell'originario ricorso per cassazione supponendo l'esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa (in caso analogo v. Cass. n. 17112 del 2016), l'ordinanza n. 1925 del 2018 di questa Corte deve essere revocata ai sensi dell'art. 391 bis c.p.c. in quanto frutto di una svista materiale su fatti influenti su elementi  decisivi che hanno determinato la pronuncia (Cass. n. 24334 del 2014), emergente dalla lettura di atti interni al giudizio di legittimità (Cass. n. 14420 del 2015).
2. Può essere dunque deciso il ricorso oggetto della decisione revocata (cfr. Cass. n. 22520 del 2015) e, affermata la procedibilità del medesimo, possono essere come di seguito sintetizzati gli originari motivi di gravame.
Con il primo motivo il N.P., denunciando nullità della sentenza a mente del n. 4 dell'art. 360 c.p.c., in riferimento agli artt. 112 e 434 c.p.c., lamenta l'ultra petizione della pronuncia impugnata assumendo che essa avrebbe "adottato la propria decisione avulsa dai motivi sollevati nell'appello".
Si sostiene che "il tema del rimborso delle spese future" non sarebbe mai stato "oggetto di specifico motivo di appello".
Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 86 D.P.R. n. 1124 del 1965 censurando la sentenza impugnata per avere escluso il rimborso delle spese in mancanza di "attualità curativa"; si rammenta che in primo grado il giudice avrebbe "cristallizzato la situazione del danno subito, attualizzando la spesa futura per il recupero della capacità lavorativa del N.P., onerandolo, però, di provare - attraverso la produzione di idonea fattura - di aver sostenuto la spesa per chiederne il rimborso all'Inail".
Con il terzo motivo si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la Corte barese omesso "di spiegare perché il criterio adottato dal Tribunale - ovvero il rimborso previa esibizione di fattura da parte del N.P. - sia illegittimo". Si aggiunge che nelle more del giudizio di appello il lavoratore aveva anticipato le spese per le cure odontoiatriche e, previa esibizione di fatturazione all'Inail, ne aveva ottenuto il rimborso; viene depositata tale documentazione in sede di legittimità.
3. Il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento perché inammissibilmente formulato.
Parte ricorrente, infatti, ha omesso di indicare specificamente ed adeguatamente nel corpo di esso i contenuti degli atti processuali - nella specie appello di controparte - su cui fonda la doglianza di violazione dell'art. 112 c.p.c. (v. Cass. 14301 del 2017). 
Né può soccorrere alla parte ricorrente la qualificazione giuridica del vizio lamentato come error in procedendo, in relazione al quale la Corte è anche "giudice del fatto", con la possibilità di accedere direttamente all'esame degli atti processuali del fascicolo di merito. Invero le Sezioni unite della Cassazione hanno statuito che, nei casi di vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità, pur non dovendo limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, "è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4)" (Cass. SS. UU. n. 8077 del 2012). Dunque la parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il "fatto processuale" di cui richiede il riesame, affinché il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (Cass. n. 9888 del 2016; Cass. n. 19410 del 2015; Cass. n. 17049 del 2015; Cass. 26900 del 2014; Cass. n. 22544 del 2014; Cass. n. 9734 del 2004; Cass. n. 6225 del 2005), senza limitarsi a meri stralci o generici rinvìi (Cass. n. 17252 del 2016).
Così è stato argomentato che, pure in tali casi, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l'ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell'ambito di quest'ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali (Cass. n. 18 del 2015; Cass. n. 18037 del 2014, con la giurisprudenza ivi citata). Il principio ha trovato dunque applicazione nella sua rigorosa estensione nel caso di nullità dell'atto introduttivo di un giudizio di lavoro (Cass. n. 896 del 2014; Cass. n. 2886 del 2014), di operatività del principio di non contestazione (Cass. n. 301 del 2014), di motivi d'appello (Cass. n. 2143 del 2015; Cass. n. 12664 del 2012; Cass. n. 86 del 2012), di violazione dell'art. 112 c.p.c. (Cass. n. 8008 del 2014), anche ove si eccepisca la mancata pronuncia su motivi di gravame (Cass. n. 17049 del 2015; Cass. n. 26155 del 2014).
Ove, in particolare, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice dì legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all'adempimento da parte del ricorrente - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio "per relationem" agli atti della fase di merito - dell'onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (Cass. n. 6361 del 2007; Cass. n. 21226 del 2010; Cass. n. 4220 del 2012; Cass. n. 1435 del 2013; Cass. n. 8569 del 2013; Cass. n. 15367 del 2014).
Orbene, ciò posto, il motivo in esame risulta formulato in violazione degli orientamenti di legittimità innanzi richiamati: infatti parte ricorrente si limita a riportare degli atti processuali rilevanti una mera sintesi rielaborata nel corpo del motivo stesso e scarni passaggi testuali ovvero meri rinvìi alle pagine di detti atti di cui non viene riportato l'esatto contenuto, sì da rendere impossibile a questa Corte di verificare, sulla base di tali inadeguate indicazioni, la sussistenza del denunciato vìzio di omessa corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
Inoltre il profilo di censura relativo all'inammissibilità dell'ingresso nel giudizio di appello della questione in controversia risulta pure infondato in quanto tale questione riguarda l'esatta interpretazione e qualificazione giuridica del thema decidendum e quindi è una questione di diritto. La soluzione di simili questioni è governata dal principio ¡ura novit curia di cui all'art. 113 c.p.c., la cui applicazione comporta che le suddette questioni possono essere sollevate, anche d’ufficio, in qualunque momento purché nel rispetto del principio del contraddittorio e purché il loro esame non si traduca nella sostituzione d'ufficio di una diversa azione a quella formalmente proposta (v., tra le altre: Cass. n. 11934 del 1995; Cass. n. 7080 del 1995; Cass. n. 7190 del 2010).
4. Il secondo e terzo motivo, esaminabili congiuntamente per connessione, sono infondati.
Il ricorrente lamenta essenzialmente che la Corte territoriale avrebbe errato ad interpretare l'art. 86 del D.P.R. n. 1124 del 1965 disconoscendo il pagamento a carico dell'Inail delle spese per cure mediche e chirurgiche non ancora sostenute dall'assistito ma preventivate. 
L'art. 66 del D.P.R. citato individua tra le prestazioni oggetto di assicurazione, al n. 5, "le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici".
In base all'art. 86 del decreto presidenziale - che è l'unica disposizione normativa rispetto alla quale parte ricorrente lamenta l'errore di diritto - si stabilisce che: "L'istituto assicuratore è tenuto a prestare all’assicurato, nei casi di infortunio previsti nel presente titolo, e salvo quanto dispongono gli articoli 72 e 88, le cure mediche e chirurgiche necessarie per tutta la durata dell'inabilità temporanea ed anche dopo la guarigione clinica, in quanto occorrano al recupero della capacità lavorativa".
Quanto alle modalità di erogazione della prestazione l'art. 88 richiamato dalla disposizione citata recita:
"Per l’esecuzione delle cure di cui agli articoli precedenti ed anche a scopo di accertamento, l’Istituto assicuratore può disporre il ricovero dell’infortunato in una clinica, ospedale od altro luogo di cura indicato dall’Istituto medesimo.
Se il ricovero avviene in ospedali civili, per la spesa di degenza è applicata, quando non sia stipulata un'apposita convenzione e quando l'infortunato non abbia diritto all'assistenza gratuiti, la tariffa minima che i singoli ospedali praticano per la degenza a carico dei Comuni.
Qualora la cura importi un atto operativo, l'infortunato può chiedere che questo sia eseguito da un medico di sua fiducia: in tal caso, però è a suo carico l'eventuale differenza fra la spesa effettivamente sostenuta e quella che avrebbe sostenuto l'istituto assicuratore, se avesse provveduto direttamente alla cura.
L'istituto assicuratore, anche nel caso previsto nel comma precedente, ha diritto di disporre controlli a mezzo di propri medici fiduciari. Qualora sorga disaccordo fra il medico dell'infortunato e quello dell'istituto assicuratore sul trattamento curativo, la decisione è rimessa ad un collegio arbitrale costituito in conformità dello stesso art. 87 e con le modalità stabilite in detto articolo".
Dal secondo comma della norma si ricava che già in precedenza, in caso di ricovero in ospedali civili, le spese di degenza, e sempre che l'infortunato non avesse diritto all'assistenza gratuita, erano a carico dei Comuni e non a carico dell'Inail.
Successivamente questa Corte ha affermato (Cass. n. 545 del 1989, Cass. n. 1787 del 1991, Cass. n. 6160 del 1991, Cass. n. 4453 del 2000; Cass. n. 7634 del 2001) che, "a seguito dell'entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978 n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, anche le prestazioni di assistenza sanitaria curativa e riabilitativa in favore degli invalidi del lavoro, di cui all'art. 57 comma quarto, parte prima, della citata legge, in tutte le forme previste e garantite dalle leggi in materia, e segnatamente dal D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale e non già degli Enti previdenziali gestori dell'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali".
Quanto all'ipotesi in cui l'infortunato decida di non avvalersi del Servizio Sanitario Nazionale, bensì di un medico "di sua fiducia" per provvedere alla cura, dal terzo comma dell'art. 88 citato si ricava il principio per cui l'Istituto assicuratore è debitore solo della differenza dì spesa rispetto a quella che avrebbe sostenuto se avesse provveduto direttamente alla cura ma sempre che detta spesa sia "effettivamente sostenuta" e non, quindi, meramente preventivata.
Inoltre non si può agire in sede giudiziale - come ha fatto il N.P. chiedendo il pagamento di somme per il rimborso per prestazioni "ancora da eseguirsi secondo la spesa stimata dalla disponenda ctu" - per ottenere una condanna in futuro, che il nostro ordinamento non conosce né consente, al di fuori delle ipotesi eccezionali espressamente previste, non estensibili per analogia (v. Cass. n. 8405 del 2014; Cass. n. 12997 del 2007; Cass. n. 10970 del 2004), mentre sono ammesse le sentenze condizionali, nelle quali l'efficacia della condanna è subordinata al verificarsi di un determinato evento futuro ed incerto, o di un termine prestabilito, o di una controprestazione specifica, sempreché il verificarsi della circostanza tenuta presente non richieda ulteriori accertamenti di merito da compiersi in un nuovo giudizio di cognizione (cfr. Cass. n. 978 del 1991).
Pertanto la sentenza impugnata non merita le censure che le sono mosse dal punto di vista dell'interpretazione delle norme di diritto, mentre ogni altro profilo sollevato attiene a questioni di fatto legate alla vicenda storica, che non possono essere rivalutate in sede di legittimità, tanto più attraverso la produzione di documenti (quali quelli relativi alla fatturazione di spese mediche) depositati al di fuori dei limiti posti daH'art. 372 c.p.c..
5. Conclusivamente, revocata l'ordinanza n. 1925 del 2018 di questa Corte, l'originario ricorso iscritto al R.G. n. 15608 del 2012 va respinto.
Stante la novità della questione e l'alterna soccombenza nelle fasi del giudizio rescindente e rescissorio ricorrono le condizioni per la compensazione delle spese dei giudìzi di legittimità.
Poiché il ricorso per revocazione è stato accolto non sussistono i presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
 

 

P.Q.M.
 

 

La Corte revoca la sentenza impugnata e, decidendo sull'originarìo ricorso, lo rigetta; compensa le spese.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del DPR n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 novembre 2019