Cassazione Penale, Sez. 4, 05 marzo 2020, n. 8859 - Sottrazione e soppressione parziale del cadavere di un lavoratore in nero


 

 

 

Presidente: DI SALVO EMANUELE Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 11/02/2020

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza, impugnata dagli imputati, con la quale il Tribunale di Asti il 28 novembre 2016, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto A.M. e V.O. responsabili dei reati di omicidio colposo del lavoratore "in nero" I.M., con violazione della disciplina antinfortunistica (capo A), e di sottrazione e distruzione/soppressione parziale del cadavere di I.M. (art. 411 cod. pen.: capo B), fatti commessi entrambi l'8 giugno 2009, e, in conseguenza, li ha condannati alle pene stimate di giustizia, oltre al risarcimento dei danni alle parti civili, per quanto in questa sede rileva, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del solo A.M. esclusivamente in relazione al reato di cui al capo B), perché estinto per prescrizione, ed ha eliminato la relativa pena nei confronti di A.M.; con conferma quanto al resto.
2. I fatti, in estrema sintesi, come ricostruiti concordemente dai giudici di merito.
Il rinvenimento casuale di un cadavere in via di decomposizione ed irriconoscibile, essendo il volto schiacciato da un divano, e recante tracce di vernice sugli abiti, da parte di due cacciatori di cinghiali in una zona di campagna isolata del Piemonte, con segni di pneumatici nei pressi, ha dato avvio alle indagini che hanno condotto al processo.
Le qualifiche soggettive degli imputati sono le seguenti: socio accomandante e amministratore di fatto della impresa edile "Nuova Reform" s.a.s. di R. S. & C. e ritenuto datore di lavoro di fatto di I.M., quanto ad A.M.; e di titolare dell'impresa edile individuale "Edil2002" e, a sua volta, di ritenuto datore di lavoro di fatto di I.M., quanto a V.O..
Entrambi gli imprenditori, secondo i giudici di merito, lavoravano in un cantiere presso una villetta alla via Belluco di Venaria Reale (TO), avvalendosi - anche - di un dipendente "in nero", il muratore A.I., il quale reperì un altro operaio "in nero", individuato da A.I. in I.M. . Quest'ultimo l'8 giugno 2009, mentre stava lavorando in piedi sopra un cavalletto, senza alcun sistema di protezione e senza alcuna formazione, maneggiando un martello pneumatico, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, sarebbe caduto, provocandosi un gravissimo trauma al capo, con esito mortale.
Avendo A.I. scoperto il corpo senza vita ed avendo subito avvisato A.M. e V.O., questi, sopraggiunti, avrebbero intimato - si è ritenuto - al primo, anche mediante minacce, di non denunciare l'accaduto e di stare zitto.
Il cadavere, sempre secondo la ricostruzione operata nelle sentenze di merito, sarebbe poi stato trasportato dagli imputati ovvero nell'interesse degli imputati con un autoveicolo in una lontana località ed abbandonato in una zona umida e boschiva, a circa sessanta chilometri da Venaria reale, zona non lontana dalla casa della madre di V.O. e da un deposito di materiali usato dallo stesso V.O. e da A.M. per la loro attività nel settore dell'edilizia.
Il corpo, come si è accennato, era coperto da un divano, che era proveniente proprio dall'abitazione di via Belluco di Venaria Reale, come affermato con sicurezza, in base a determinate caratteristiche dell'oggetto (colore e fantasia dei tessuti), dall'ex proprietario dell'immobile, il quale al momento della compravendita aveva lasciato lì il divano.
3. Ricorrono per la cassazione della sentenza gli imputati, tramite un medesimo ricorso curato dallo stesso difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi con i quali si denunzia difetto di motivazione,; motivazione che sarebbe, ad avviso dei ricorrenti, contraddittoria e manifestamente illogica.
3.1. In particolare, con il primo motivo (pp. 1-21 del ricorso), richiamata, in estrema sintesi, la nozione di indizio e la disciplina codicistica in tema di valutazione delle prove e, in particolare, delle chiamate in reità, essendo necessario un primo vaglio di credibilità intrinseca e poi estrinseca, tramite "riscontri esterni", si assume che i giudici di merito non si sarebbero attenuti ai criteri di inferenza logica previsti dall'art. 192 cod. proc. pen., in conseguenza giungendo alla pronuncia di condanna in contrasto con le effettive risultanza processuali.
Secondo i ricorrenti, una minor parte di elementi emersi dall'istruttoria sono dati di fatto certi, mentre una maggior parte si baserebbe esclusivamente sulle dichiarazioni di A.I., indagato, archiviato, e successivamente chiamante in reità, la cui attendibilità soggettiva è stata oggetto di valutazione che si stima errata da parte dei giudici di merito, i quali avrebbero svolto un ragionamento "circolare", di tipo auto-referenziale: quanto alle "cattive frequentazioni" degli imputati; quanto alla ritenuta mancanza di interesse da parte di A.I., che lavorava anche in proprio, ad occultare il cadavere; quanto alla presenza della vittima nel cantiere di via Belluco; quanto alla conoscenza anche da parte di A.I. delle zone ove è stato trovato il cadavere; e quanto alle - si assume - riscontrate bugie dell'uomo.
Sotto il profilo dei riscontri esterni alle dichiarazioni di A.I., non vi sarebbe motivazione sufficiente in ordine a numerosi aspetti: né sul periodo sino al quale il divano trovato sopra il cadavere sia rimasto nella villetta di via Bellucco e quando sia stato portato via e da chi; né sul tema della esclusiva disponibilità da parte degli imputati di mezzi di trasporto, avendo invece il fratello del defunto affermato che A.I. aveva un camioncino; né sul fatto che in quel periodo nel cantiere in questione non si effettuassero lavori di verniciatura; né sulla decisività della circostanza del trascinamento del cadavere ad opera di almeno due persone, non necessariamente gli odierni imputati; né sull'assenza di sangue sui vestiti della vittima; né sul punto in cui sono state riscontrate le lesioni al capo; né sulla presenza di cavalletti in quel periodo in quel cantiere; né sulla implausibilità dell'episodio dell'incontro minaccioso nel bar tra gli imputati ed il dichiarante, subito dopo la scoperta del cadavere; né infine sulla attendibilità delle dichiarazioni dei coinquilini del defunto I.M..
Quanto ai profili di colpa relativi al reato di omicidio colposo con violazione della disciplina antinfortunistica di cui al capo A), si osserva che i giudici di merito si affiderebbero, in sostanza, alle dichiarazioni auto-referenziali di A.I., in quanto gli operai escussi non hanno dichiarato che nel giugno 2009 si lavorasse nel cantiere di via Bellucco, mentre hanno affermato di essere stati muniti dei presidi di sicurezza; inoltre, la sentenza della Sezione lavoro del Tribunale di Torino su ricorso di A.I. ha accertato che lo stesso ha lavorato da settembre 2009 in poi, non prima; quanto alle dichiarazioni circa il ruolo direttivo di V.O., prima indicato come semplice operaio, poi come persona che impartiva ordini, talvolta indicato come collaboratore comunque subordinato a A.M., esse sarebbero contraddittorie ed incerte, sicché - si legge nel ricorso - si sarebbe dovuto escludere il ruolo direttivo di V.O., quantomeno a livello dubitativo.
In relazione all'esame degli imputati, si osserva come i giudici di merito ne abbiano sottolineato le contraddizioni, traendo da esse elementi di convincimento circa la colpevolezza, trascurando però ingiustamente il tempo trascorso, le difficoltà nel ricordare fatti lontani nel tempo e non documentabili, l'imbarazzo arrecato agli stessi, imputati di gravi fatti, a causa della conduzione dell'esame; non senza considerare che sarebbero state tollerate e, anzi, giustificate difficoltà mnemoniche ed imprecisioni nel ricordo dell'accusatore, mentre la mancanza di ricordo è diventata elemento di accusa per gli imputati.
Né dal contenuto delle intercettazioni dei colloqui degli imputati dopo i fatti sono emersi elementi di responsabilità o anche solo di sospetto nei loro confronti.
3.2. Con il secondo motivo (pp. 21-22 dell'impugnazione) i ricorrenti lamentano l'omesso riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati contestati.
La motivazione al riguardo della Corte di appello (p. 18), incentrata sulla non ravvisabilità del nesso tra reato colposo (capo A) e reato doloso (capo B), 
sarebbe insufficiente, in quanto, «nel caso di specie, pur trattandosi di fattispecie dolosa e di fattispecie colposa e, quindi, astrattamente difficilmente riconducibili ad un'unicità di disegno criminoso, occorre sottolineare come concretamente il trattamento sanzionatorio più favorevole può essere riconosciuto laddove nel reato colposo possa essere individuato l'elemento soggettivo come colpa cosciente o con previsione. Nell'ipotesi di violazione delle norme antinfortunistiche sul luogo di lavoro è chiaro che il titolare dell'impresa, nel momento in cui non adotti le necessarie cautele previste dalla normativa in materia, lo faccia "con coscienza", rappresentandosi il rischio che consegue alla violazione della normativa ma escludendone i! verificarsi. La contestazione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 2 c.p. in entrambi i capi d'imputazione, e, quindi, tra un reato colposo ed una doloso, costituisce il riconoscimento di un vincolo tra reati contestati: il nesso teleologico, Infatti, è sintomo anche dell'identità del disegno criminoso che permette il riconoscimento del concorso formale, con conseguente riduzione della pena. Su questo punto la Corte d'Appello ha omesso completamente qualsiasi motivazione» (così, testualmente, alla p. 22 del ricorso).
3.3. Mediante l'ultimo motivo (pp. 22-23 del ricorso) ci si duole, infine, del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Le ragioni al riguardo svolte nella sentenza impugnata (p. 19) costituirebbero, ad avviso dei ricorrenti, una «motivazione insufficiente e contraddittoria in quanto prende in esame gli stessi elementi già utilizzati per la quantificazione della pena per singole condotte di reato contestate, utilizzando, in tal modo, la stessa motivazione anche a livello circostanziale» (cosi alle pp. 22-23 del ricorso).
Si chiede, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
1.1.Quanto al primo motivo, esso è costruito in fatto e mira, ma inammissibilmente, a contestare la credibilità dei dichiarante A.I., di cui si contesta la attendibilità intrinseca ed estrinseca, e ad introdurre il dubbio che potesse essere stato lui, come imprenditore autonomo, ad assumere alle proprie dipendenze in nero la vittima, a cagionarne colposamente la morte e, poi, a farne sparire il cadavere.
Si tratta di temi già ampiamente affrontati in entrambe le sentenze di merito, che sono adeguatamente e logicamente motivate, non senza considerare che nella complessiva economia delle decisioni le dichiarazioni di A.I. (in precedenza indagato e poi archiviato) non sono, a ben vedere, prova unica di responsabilità degli imputati e nemmeno il nucleo centrale del ragionamento ma il "collante" di una pluralità articolata di elementi indiziari, documentali, consulenziali, dichiarativi e logici (cfr. specc. pp. 6-9 e 13 della sentenza di primo grado e pp. 10-16 di quella impugnata), ridotti ad unità con ragionamento logico e congruo, che peraltro non trascura di prendere in considerazione, per motivatamente escluderle, ipotesi alternative quali quella della responsabilità del dichiarante, coltivata nel ricorso, in continuità con le impugnazioni di merito.
Inoltre, le impugnazioni sono meramente reiterative delle doglianze già svolte in appello ed alle quali è stata data adeguata risposta sotto tutti gli aspetti, non senza considerare che lamentano difetto di motivazione in presenza di doppia conforme, senza nemmeno denunziare travisamenti, peraltro non ravvisabili nel caso di specie.
Al riguardo, è appena il caso di richiamare il consolidato orientamento della S.C. secondo il quale, dinanzi ad doppia pronuncia di eguale segno, c.d. "doppia conforme", come nel caso di specie, in cui l'unica modifica di quanto statuito dal Tribunale ad opera della Corte di appello è consistita nella riduzione della pena per un imputato, conseguente alla presa d'atto della avvenuta estinzione per prescrizione di uno dei reati, fermo il resto, il vizio di travisamento della prova (nell'accezione di vizio di tale gravità e centralità da scardinare il ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio non considerato ovvero alterato quanto alla sua portata informativa, secondo la nozione pacificamente accolta nella giurisprudenza di legittimità: v., ex plurimis, Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207) può essere rilevato in sede di legittimità soltanto nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.
Invero, sebbene in tema di giudizio di cassazione, in forza della novella dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46, risulti sindacabile il vizio di travisamento della prova (che sia desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti specificamente indicati dal ricorrente), travisamento che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (cfr., tra le tante, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi e altro, Rv. 258438; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; oltre alle già citate Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; più recentemente, Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L. e altro, Rv. 272018, secondo cui «Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nei caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui ii giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dai primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti.»).
Nel caso di specie i giudici di appello hanno riesaminato lo stesso identico materiale probatorio già sottoposto al Tribunale, senza operare richiami a dati probatori non esaminati dal primo giudice né introdurne di nuovi, e, dopo aver preso atto delle censure dell'appellante, sono giunti alla medesima conclusione quanto all'an della responsabilità degli imputati.
Quanto alla lamentata violazione dell'alt. 192 cod. proc. pen., deve darsi continuità al tradizionale insegnamento, secondo cui «Poiché la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è in tai modo sanzionata» (v., tra le altre, Sez. 4, n. 51525 del 05710/2018, M., Rv. 274191).
1.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, si premette che esso è riferito ad entrambi gli imputati indistintamente ma che, in realtà, non può che riguardare unicamente V.O., in quanto è risultato estinto per prescrizione il capo B), limitatamente a A.M., essendo V.O. recidivo (pp. 19-20 della sentenza impugnata).
Ciò posto, il ragionamento svolto dalla Corte di appello (alla p. 18) è ineccepibile e corretto in diritto (infatti, non può aversi continuazione tra dolo e colpa, presupponendo l'istituto la medesimezza del disegno criminoso ex art. 81, comma 2, cod. pen.); ad esso il ricorrente oppone argomenti manifestamente infondati, non confrontandosi con il contenuto effettivo delle sentenze di merito, che hanno tenuto ben separati i due reati; né la colpa cosciente quanto al capo A) è stata mai contestata né accertata.
1.3. Anche l'ultimo motivo di ricorso, incentrato sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, è manifestamente infondato, in quanto le attenuanti ex art. 62-bis cod. pen. (peraltro nemmeno chieste nell'appello di A.M. Antonino) sono state escluse per avere gli imputati leso uno dei beni essenziali dell'individuo, dissacrandone l'identità (p. 14 della sentenza del Tribunale), con sottolineatura, quindi, della estrema gravità del fatto, poi ripresa dalla Corte territoriale ed integrata con il riferimento al deprecabile intento di depistaggio, alla mancanza di ravvedimento dopo il fatto ed al disinteresse manifestato per la vittima ed i familiari (p. 19).
Nessuna "duplicazione indebita", dunque, di parametri quanto ai criteri per la individuazione della sanzione intra-edittale (p. 19 della sentenza di appello e p. 14 di quella del Tribunale) e motivazione che risulta, in definitiva, congrua, logica ed immune da vizi sindacabili in sede di legittimità.
2. Essendo, dunque, i ricorsi inammissibili e non ravvisandosi ex art. 616 cod. proc. pen. assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Costituzionale, sent. n. 186 del 13 giugno 2000), alla condanna al pagamento delle spese consegue anche quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura - che si stima equa - indicata in dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 11/02/2020.