MODELLO DI DETERRENZA E “VIRTU' D’ IMPRESA” NEL

D.LGS. N. 231/01. PRESUPPOSTI E INCENTIVI[1]

 

Gabriele Marra[2]

Paolo Polidori[3]

 

 

“I mercati economicizzano […] le virtù”

(V. L Smith, Razionalità costruttivista

e razionalità ecologica, 2005)

 

 
Sommario: 0. Premessa. - 1. Introduzione. - 2. Uno sguardo d’insieme: gli scenari; 2.1. I riflessi; 2.2. Scopi e metodi; 2.3. I contenuti; 2.4. Le competenze; 2.5. Le incertezze. – 3. Gli strumenti di analisi; 3.1. I termini della riflessione; 3.1.1. Precisazioni; 3.2. Quale razionalità, quali soggetti?; 3.2.1. La razionalità complessa dell’ agire collettivo; 3.2.2. Ridescrizione al margine; 3.2.3. Lettura correttive; 3.3. Analisi costi/benefici, deterrenza ottimale e democrazia. – 4. Gli elementi strutturali del modello regolativo; 4.1. Gli attori; 4.1.1. Gli incentivi; 4.2. I compliance programs; 4.2.1. La struttura; 4.2.2. La dinamica; 4.2.2.1. La funzione di controllo interno; 4.3. Le sanzioni; 4.3.1. Uno sguardo economico. - 5. Quale percorso verso la “virtù d’impresa”; 5.1. L’evidenza; 5.1.1. L’applicazione giudiziale; 5.1.2. La prassi aziendale, 5.2. L’evoluzione. – 6. Conclusioni

 
 
0. Premessa. Di fronte ad un provvedimento articolato e complesso la sintesi è un esercizio che rischia di fuorviare la comprensione del merito delle scelte legislative. A maggior ragione se si ha la pretesa di cogliere l’essenza del Dlgs n. 81/08 con una parola. Si è tuttavia convinti che l’operazione sia tutt’altro che impossibile e non priva di utilità per lo sviluppo dell’analisi. Possibile, perché non ci si allontana troppo dal vero se si identifica l’essenza dell’interno provvedimento nell’organizzazione della valutazione del rischio e della sua gestione (articolo 28 e 29 Dlgs n. 81/08), utile perché si esalta una chiave di lettura che consente di comprendere appieno alcuni dei più intricati nodi della disciplina. In un simile contesto sistematico, l’estensione anche al settore dei reati colposi commessi a danno della salute dei lavoratori della responsabilità da reato delle persone giuridiche (Dlgs n. 231/01) non è un semplice tributo che il legislatore ha inteso pagare per rimediare all’originaria timidezza che ne aveva caratterizzato l’azione rispetto alla legge di delegazione (l.n.300/00). L’ampliamento del catalogo dei reati per i quali la società può rispondere se commessi a suo vantaggio o interesse da persone che agiscono per suo conto (articolo 25 septies come previsto dall’ articolo 9 l.n.123/07) sembra infatti poter essere meglio compreso intendendolo come necessaria misura di completamento di una infrastruttura disciplinare ispirata ad istanze di organizzazione della prevenzione del rischio per i lavoratori. Il favore di cui siffatta lettura beneficia è anche testimoniato dall’impegno che il legislatore delegato ha profuso nella definizione di una speciale disciplina per quello che rappresenta in cuore pulsante dell’intera riforma operata, sulla spinta di fonti comunitarie, dal legislatore nel 2001. A fronte di un modello di responsabilità già permeato da istanze di prevenzione del rischio-reato mediante organizzazione della sua prevenzione intra-aziendale, l’introduzione dell’articolo 30 Dlgs n. 81/08 (“modelli di organizzazione e di gestione”), non casualmente incluso nella sezione dedicata alla disciplina dei cardini del sistema di risk management, testimonia il rilievo riconosciuto a questa inedita filosofia preventiva ma soprattutto la sua piana corrispondenza al modello organizzativo prescelto dal legislatore per riuscire finalmente a garantire elevati livelli di protezione a favore di quanto sono esposti al rischio tipicamente generato all’interno della singola impresa. In quest’ottica l’introduzione della responsabilità da reato delle persone giuridiche è sembrato lo strumento più opportuno per riuscire a garantire quello che sembra essere la più ambiziosa aspirazione del legislatore in questa materia: la trasformazione della sovrastruttura regolamentare riguardante la definizione delle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro in un modello infrastrutturale di organizzazione dell’intera conduzione dell’attività d’impresa.

La rilevanza del compito che il legislatore delegato ha così finito per attribuire ai “modelli di organizzazione e gestione” non sembra però giustificare eccessi di ottimismo, quasi si trattasse di una chiave magica che con facilità può aprire tutte le porte dell’insicurezza per lasciarvi penetrare le necessarie misure di minimizzazione del rischio. E’ quindi sembrato doveroso vagliare quelle aspirazioni al fine di definire le condizioni di effettività del modello di organizzazione della prevenzione. Un esame condotto in una duplice prospettiva: i) quella della la capacità di deterrenza di una così importante ‘novella’ dell’apparato regolamentare vigente in materia; ii) quella attinente all’adeguatezza della riforma rispetto al quadro empirico nel quale la nuova ipotesi di responsabilità da reato delle persone giuridiche è destinata ad operare.

La definizione di alcune generali condizioni di contesto è parso quindi un passaggio necessario per avviare la riflessione su questa importantissima riforma, nella consapevolezza che la sicurezza dei lavoratori in larga parte dipende dall’effettività del sistema di organizzazione della prevenzione del rischio: dalla sua capacità di imporsi come infrastruttura essenziale di ogni scelta aziendale. Obiettivo che a sua volta dipende dalla ‘virtù’ del decisore: non importa se indotta edogenamente attraverso l’implementazione della sua propensione e capacità di cooperare con l’ordinamento al fine di garantire una reale riduzione al minimo dei rischi o se imposta in modo esogeno dalla effettività del modello di deterrenza predisposto nei confronti delle scelte di quanti rifiutano logiche cooperative privilegiando, invece, il proprio tornaconto personale.[4]

    

1. Introduzione. Giovandosi dell’irresistibile spinta proveniente da importanti strumenti normativi internazionali[5], il legislatore ha introdotto, con il D.lgs  n. 231/01, una sin qui inedita  responsabilità diretta delle società per reati commessi nel loro interesse da persone che agiscono per loro conto.

Preso atto che societas delinquere potest, il dato positivo deve ora essere analizzato nella sua reale portata anche per mettere in luce i razionali di fondo che sostengono gli istituti che innervano la nuova disciplina. In altri termini: occorre verificare come il D.lgs n. 231/01 allochi la responsabilità penale in campo alla persona giuridica e quali siano le dimensioni teleologiche in cui lo stesso si colloca.

L’ ipotesi di lavoro è che il sistema di prevenzione della criminalità d’ impresa può essere descritto come un modello regolativo del rischio-reato capace di promuovere la nascita di sistemi incentivanti interni all’ impresa in grado di generare un percorso virtuoso di allontanamento della stessa da dinamiche criminose. A condizione, però, di sviluppare percorsi di lettura congrui alle specificità che lo connotano.

Le riflessioni che si intendono sviluppare utilizzeranno categorie proprie del diritto penale e dell’ economia.

 

2. Uno sguardo d’ insieme: gli scenari. Non pare eccessivo definire il D.lgs in commento una riforma di sistema. Si tratta infatti di un corpo normativo che riposiziona, ruotandolo di 180° gradi, un asse portante dell’ ordinamento penale vigente (societas delinquere non potest), modificando, altresì, la sostanza degli strumenti e degli obbiettivi attraverso i quali il diritto criminale usualmente realizza la sua funzione di controllo sociale. Si tratta, al contempo, di una riforma che produce riflessi significativi anche sulla disciplina civilistica dell’ attività d’ impresa realizzata in forma societaria e su alcuni degli assetti dell’ attuale diritto azionario e del mercato finanziario[6].

Queste precisazioni sono sufficienti per profilare l’ articolato scenario in cui l’ analisi del dato positivo deve per necessità collocarsi. Soprattutto per mettere in luce la necessità di non trascurare l’ impatto che ogni decisione riguardante la soluzione di problemi interpretativi produce al di fuori dei ristretti confini del sistema penale.

 

2.1. I riflessi. Se tutto ciò è vero si può ipotizzare che l’ interprete del D.lgs n. 231/01 rappresenta uno snodo della dinamica del sistema  sulla quale si catalizzano esigenze che non sempre corrispondono a logiche omogenee. Circostanza che, senza alcun dubbio, rende più difficile di quanto già non sia l’interpretazione delle disposizioni legislative.

Difficoltà acuite, nella più limitata ottica penalistica, dalla scelta legislativa di realizzare una riforma così significativa, peraltro da lungo tempo attesa e “preparata” dalla scienza del diritto penale[7], ricorrendo ad una disciplina che, ad onta della qualificazione “amministrativa” che ufficialmente la qualifica, realizza una evidente funzione punitiva, tanto palese da poter essere considerata in termini sostanzialmente penalistici.

La centauresca soluzione, se da un lato aggira alcune indubbie difficoltà sul piano della legittimazione della nuova normativa, dall’ altro si dimostra foriera di ulteriori ostacoli sul piano interpretativo.

Basti considerare la circostanza che lo statuto “costituzionale” proprio dell’ illecito penale limita l’ intervento punitivo vincolandolo al rispetto di una cospicua serie di garanzie, sul piano sostanziale ma anche su quello processuale, poste a protezione dell’ individuo e dei suoi diritti indisponibili. Limiti ai quali il legislatore non è invece tenuto ad uniformarsi qualora decida di provvedere alla tutela di determinati interessi, collettivi o individuali, ricorrendo a strumenti sanzionatori di diversa natura (amministrativi o civilistici)[8]. E’ evidente che viene così viene a crearsi una frizione tra nominalismo e “natura delle cose” che può essere ricomposta, e non è detto che lo possa essere sul piano strettamente interpretativo, solo attraverso procedimenti ermeneutici non banali.

A questo proposito ed alla luce dell’ ampia considerazione delle esigenze di garanzia propria del D. lgs n. 231/01, non sono mancati gli inviti a non sopravalutare l’ importanza della questione, evidenziando il rischio, se così non fosse, di dar vita ad una discussione puramente concettuale priva di utilità per la soluzione dei nodi realmente problematici. Monito che può essere condiviso nella consapevolezza, però, che i risultati di analisi di questo tipo non sono del tutto irrilevanti: quanto meno sotto il profilo politico criminale e metodologico[9].

 

2.2. Scopi e metodi. Per evitare che tutto ciò si trasformi in un comodo mantello per coprire soluzioni interpretative prive di una coerente linea di sviluppo razionale, fin da ora accreditabili di guasti sul piano della giustizia e dell’ efficienza, occorre fissare un preciso obbiettivo finalistico, approssimativamente esprimibile con la formula “è meglio prevenire che curare”, da affiancare ad una metodologia di indagine sufficientemente articolata da non costringere l’ interprete ad appiattirsi su poco utili riduzionismi. Solo così si può impedire che la responsabilità ex delicto delle persone giuridiche si trasformi nell’ “uovo di Colombo” alle cui risorse si può a man bassa attingere per sanare le contraddizioni che solcano il moderno diritto penale dell’ economia rispetto all’ idealtipo classico, anche allo scopo di porre un freno alla sua endemica ineffettività[10]. Evenienza non meno problematica di ciò che accadrebbe qualora, abbagliati da una malintesa esigenza di efficienza economica o produttiva, si sterilizzasse fino all’ impotenza l’ indubbia capacità di controllo del crimine d’ impresa di cui è portatore il D.lgs n. 231/01. La sola circostanza che l’ attuale climax scientifico-giudiziario sia tale da far apparire quest’ ultima ipotesi un caso di scuola, non è motivo sufficiente per marginalizzare queste preoccupazioni. A maggior ragione qualora si condivida l’ idea che un sovraccarico delle potenzialità punitive della nuova disciplina, innescando fenomeni di overdeterrence, può fatalmente condurre a crisi di rigetto nei destinatari della stessa e ad una sterilizzazione del surplus di prevenzione al quale il D.lgs sembra aspirare. Breve: ad una sostanziale impotenza dei nuovi strumenti di prevenzione e contrasto del crimine d’ impresa.

La chiarezza dei metodi e delle finalità appare significativa anche se considerata da un altro punto di osservazione. Può infatti contribuire a minimizzare le preoccupazione ed il senso di disagio che molti interpreti del diritto penale, ed in special modo dei protagonisti della sua prassi applicativa, hanno da tempo manifestato per quella che, a loro dire, sarebbe una distorsione dei loro compiti istituzionali, realizzata con l’ affidamento ad essi dell’ improprio ruolo di agenzia di prevenzione di comportamenti economici scorretti o di agenti della moralità d’ impresa[11]. Un giudizio che, come dimostra anche l’ esperienza comparata, può condizionare l’ approccio alla materia ed alimentare ritrosie all’ impiego delle potenzialità di controllo messe a disposizione degli apparati di law enforcement dal D.lgs n. 231/01[12]. Un cortocircuito dal quale si può uscire solo incamminandosi nella direzione appena sopra indicata.

 

2.3. I contenuti. La necessità di mettere a disposizione dell’ interprete strumenti di lavoro congrui alla specificità che caratterizza la disciplina della responsabilità ex delicto delle persone giuridiche, si evidenzia già a partire dall’ enucleazione delle rilevanti modifiche apportate agli schemi di realizzazione del controllo del crimine d’ impresa. Il tradizionale modello repressivo fondato sulla previsione, e successiva applicazione, di una pena per comportamenti inosservanti di divieti fissati autoritativamente dal legislatore, viene infatti integrato da un riferimento alla mancata predisposizione di strumenti di prevenzione dei fatti di reato e alla loro mancata o insufficiente implementazione come criteri di ascrizione della responsabilità all’ impresa (il riferimento è agli schemi di controllo del rischio reato interni all’ azienda, del tutto simili ai compliance programs di origine statunitense).

Ciò che rileva non è solo la commissione di un fatto di reato nell’ interesse della società  - secondo uno schema, consueto nel diritto comparato, di strict liability - ma la circostanza che la corporation non ha fatto tutto quanto in suo potere per prevenirne la commissione. Un ambiente normativo in cui la visuale ex post factum che caratterizza la tradizionale rappresentazione della funzione della giustizia penale cede il passo ad una impostazione incentrata sul mancato controllo anticipato dei fattori di rischio ed alla finalizzazione dell’ intervento punitivo al soddisfacimento di esigenze di prevenzione anticipate rispetto alla commissione del singolo fatto illecito[13]. Una prospettiva che, protesa a valorizzare scopi di prevenzione ex ante, enfatizza particolarmente l’ analisi del sistema di incentivi anche dopo che il singolo fatto di reato è stato commesso (cfr. artt. 6, 7, 17, 49, 65, 78 D.lgs n. 231/01)[14]. Non è difficile notare che si tratta di una prospettiva molto vicina a schemi abitualmente utilizzati dalla scienza economica ed in particolare dalla teoria delle decisioni e dalle valutazioni sull’ analisi del rischio.[15]

 

2.4. Le competenze. Ridescritte nei termini suddetti le più evidenti specificità dell’ intervento punitivo nei confronti delle persone giuridiche, il legislatore ha altresì preso atto della necessità di prevedere una rinnovata ripartizione delle competenze in materia di prevenzione e repressione dei corporate criminal behaviours. Tale compito, ormai da tempo riservato all’ esclusiva competenza statuale, nel contesto della nuova disciplina viene invece ripartito, sia detto in estrema sintesi, tra il livello pubblico statuale e quello privato (le società commerciali e gli enti che istituzionalmente le rappresentano). In altri termini: la commissione di fatti penalmente rilevanti viene iscritta nella folta schiera di rischi che la moderna impresa economica deve fronteggiare nell’ interesse proprio ed in quello della collettività, sia pure nel rispetto dei limiti  prefissati dalla legge.

Questa indubbia peculiarità può essere spiegata ricorrendo ad un duplice ordine di motivazioni.

I rischi per loro natura non sono neutralizzabili se non vietando tout court l’ attività che li genera. Ma in molti casi ciò non è possibile, almeno se si vogliono evitare gli effetti socialmente ed economicamente svantaggiosi che questa radicale scelta comporterebbe. In quelle stesse situazioni, connotabili in termini di potenziale pericolo ma anche di indubbia utilità sociale dell’ attività, non sembra però neppure possibile agire come se tali pericoli non esistessero. In ultima analisi. Conciliare utilità sociale e difesa degli interessi esposti a pericolo significa, scartati gli estremi, che l’ alea deve essere gestita allo scopo di minimizzare il potenziale impatto delle esternalità negative generate da una determinata attività riportandolo ad una misura socialmente adeguata. La teoria della colpa molto insegna in proposito[16]. E’ dunque compito primario del legislatore fissare la misura del rischio consentito, bilanciando, nei termini sopra indicati, la coesistenza dei due interessi contrapposti.

Tuttavia, le specificità di alcune di queste situazioni, tra le quali rientra anche il problema del controllo e prevenzione della criminalità d’ impresa, sono tali da costringere il legislatore a prender atto che il suo tradizionale contributo definitorio, se inteso in termini di esclusività, finisce per rivelarsi tutt’ altro che esaustivo e, in ultima analisi, controproducente[17]. In tutti questi casi, infatti, la funzione disciplinare generale ed astratta che è propria della legge, prima ancora per il contrasto che si determinerebbe con gli assunti dei teorici della path dependance[18], rende difficoltoso l’ apprezzamento della diversità di contesto in cui la singola entità organizzata si trova ad operare, ed impossibile la considerazione della sua storia, delle sue unicità. Tutti fattori dai quali dipende la qualità del rischio attivato ed il giudizio sulla sua tollerabilità, la cui mancata valorizzazione inertizza la spinta dinamica necessaria ad assicurare il conseguimento degli ambizioni obbiettivi di tutela della collettività e del mercato. 

Per supplire all’ esistenza delle lacune implicite nel ricorso ad un modello legale puro, il D.lgs. n. 231/01 chiede alla singola società di farsi parte attiva nel controllo dei fattori che dal suo interno possono attivare il rischio-reato, integrando la disciplina di fonte legale per renderla maggiormente aderente alla realtà concreta. Non diversamente, peraltro, da quanto l’ impresa già fa per fronteggiare il rischio economico, finanziario, ambientale, ecc.[19]

Va infine sottolineato che tale opzione regolativa ha un valore aggiunto anche in termini più strettamente politici, contribuendo ad attenuare l’ impatto di uno dei più esplosivi effetti collaterali prodotti dalla c.d. società del rischio: l’estensione della sovranità politica “fin nell’ intimità del management di fabbrica”[20]. La creazione di un’ architettura di co-gestione del rischio si lascia dunque apprezzare anche per la sua capacità di realizzare un soddisfacente bilanciamento tra l’ interesse alla prevenzione dei reati e la libertà organizzativa d’ impresa che, al di là di tutto, rappresenta pur sempre un interesse costituzionalmente garantito (art. 41 Cost.).

 

2.5. Le incertezze. A differenza della scelta di emanciparsi dalla tradizionale ipoteca rappresentata dal principio societas delinquere non potest, l’ opzione legislativa illustrata non rappresenta un’ assoluta novità. Come esaustivamente chiarito dalla Relazione che accompagna il D.lgs n. 231/01, la scelta di incentrare la responsabilità degli enti collettivi su di un articolato sistema di risk managment a competenze ripartite è in larga parte mutuata da precedenti esperienze maturate in settori seminali per il controllo penale dell’ attività d’impresa quali sono, ad esempio, la sicurezza dei luoghi di lavoro (D.lgs n. 626/94 ed ora D.lgs n. 81/08), la disciplina antiriclaggio (D.lgs n. 56/04 ed ora D.lgs n. 231/08) e quella sulla protezione dei dati personali (D.lgs n. 196/03).[21]

Tuttavia, nonostante la già maturata esperienza sul campo, la scienza penalistica, fatte salve alcune fondamentali eccezioni, non sembra ancora aver fatto i conti fino in fondo con questa nuova prospettiva e con i sostanziosi cambiamenti che essa comporta.[22]

 

3. Gli strumenti di analisi. Su questo punto si innesta la già palesata intenzione di questo studio di esplorare le suggestioni offerte dall’ analisi economica del diritto.

Si tratta di uno schema interpretativo con cui il cultore delle materie penalistiche sembra avere scarsa familiarità e verso il quale in molti casi manifesta un pregiudiziale rifiuto in ragione di una ritenuta incompatibilità del suo pragmatismo con i valori di “immensa portata” che il diritto penale fisiologicamente mette in discussione.[23]

Pur condividendo alcune di queste preoccupazioni[24], si ritiene che tale chiave di lettura possa convenientemente contribuire ad avviare a soluzione alcune delle più rilevanti questioni sollevate dall’ analisi del D.lgs n. 231/01, offrendo criteri “euristici” di soluzione armonici con le aspirazioni di un sistema punitivo “orientato alle conseguenze”[25]. Ovvero: pragmaticamente attento ad analizzare in termini di bilanciamento costi-benefici i legami tra interesse alla prevenzione del reato d’ impresa e l’ altrettanto importante interesse all’ efficienza dei meccanismi della produzione economico-industriale che gli attori della nuova filosofia del controllo del rischio-reato devono pur sempre perseguire. Nella speranza di evitare i già citati e perniciosi effetti di ultradeterrenza (ovvero: la paralisi di attività lecite e socialmente utili confinanti con quella sanzionata)[26] e non meno discutibili forme di prevenzione ineffettiva, specie se realizzate de-responsabilizzando i vertici societari.[27]

In limine va sottolineato che non si tratta di una scelta opportunistica che, giovandosi dell’ accennata discrasia tra qualificazione formale e sostanza e della non chiara articolazione dei rapporti tra effettività e garanzia, cerca di introdurre strumenti analitici che, pur consueti tra i cultori della scienza economica, sono considerati altrimenti inammissibili nel contesto più propriamente penalistico: si è infatti convinti che la chiave di lettura adottata rappresenti comunque una legittima tecnica interpretativa anche nell’ ambito del sistema penale alla sola condizione di non esagerarne le potenzialità, di non assolutizzarne la portata, di non enfatizzarne eccessivamente la naturale schematicità[28]. Ciò rimane vero anche quando scompaiono dall’ orizzonte operativo i fattori di contesto che rendono l’ analisi economica non facilmente emulsionabile con la materia penale in ragione della assoluta irriducibilità di quest’ ultima all’ assolvimento di finalità di esclusiva massimizzazione del benessere collettivo di breve periodo.[29] Si tratta, infatti, di una prospettiva d’ indagine pur sempre vocata ad uno studio dei fenomeni sociali dichiaratamente parziale che, ad esempio, trascura in modo programmato i profili distributivi implicati nelle decisioni riguardanti regole giuridiche per concentrarsi  esclusivamente sul conseguimento dell’ obbiettivo dell’ ottimo paretiano.

 

3.1. I termini della riflessione. Quanto detto significa che l’ articolata stratificazione dei molteplici fattori che influenzano l’ interpretazione del dato legale deve essere considerata un’ esigenza vitale, tanto più quando il contesto di riferimento è rappresentato dalla materia “dei delitti e delle pene”. In altri termini: rappresenta una risorsa preziosa per un sistema chiamato a disciplinare situazioni sociali connotate da un elevato grado di complessità. Non può invece significare che la prospettiva dell’ analisi economica del diritto non possa convivere con il complesso dei principi “orientati ai valori” che permeano la struttura costituzionale del diritto penale. Deve semmai prendersi atto che essi rappresentano un fattore di contesto che non è possibile dimenticare.[30]

Volendo sintetizzare un discorso assai più complesso: è condivisa la necessità di uscire da uno schema classico di separazione, quando non di contrapposizione, tra economia e diritto penale, le cui intersezioni sono state fino ad oggi limitate a momenti specifici e circoscritti (valutazione degli effetti di deterrenza della sanzione, efficacia di tecniche premiali, analisi di specifici mercati del crimine al fine di ricavarne indicazioni di policy)[31], per privilegiare, invece, il significato ed il ruolo che riveste per le due pur diverse tecniche di disciplina dei sistemi sociali (soziale Steuerung) la presenza di una prospettiva funzionale comune, individuabile, almeno in prima approssimazione, nella ben nota idea della “maggior felicità per il maggior numero”.[32]

Una precisazione che, per evitare di incorrere nelle giuste critiche che hanno spesso investito il nocciolo duro dell’ utilitarismo penale illuministico, richiede di essere declinata in termini consoni ai tempi[33].

Il contesto attuale impone infatti di riservare al diritto penale (rectius: ai principi costituzionali della responsabilità penale) la funzione di criterio di selezione dei canoni e delle modalità di allocazione economica delle risorse scarse (ad esempio: la prevenzione degli illeciti). Al diritto penale, qui inteso nella sua accezione di strumento di riduzione al minimo dell’ impatto che la minaccia e l’ inflizione della pena produce sulle libertà individuali, va riconosciuto lo statuto di garanzia di secondo grado dell’ efficienza, finalizzato, in un’ ottica di non breve periodo, alla realizzazione di una imprescindibile funzione di politica sociale volta all’ ottimizzazione del benessere collettivo (potenziali rei inclusi) in misura congrua al contesto disegnato dalle specificità dell’ attuale ordinamento costituzionale e democratico. In altri termini. Guardando al futuro i principi di garanzia propri del diritto penale decretano l’ ostracismo a soluzioni punitive che nel breve si dimostrano funzionali al soddisfacimento di esigenze di efficace prevenzione del crimine ma che nel lungo sono ritenute foriere di soluzioni inammissibili, perché in definitiva si rivelano portatrici di benefici netti negativi, giudicati tali secondo una determinazione generale realizzata dall’ ordinamento e sottratta all’ influenza di mutevoli maggioranze per essere stata dotata di rilievo costituzionale.

Non ci si può nascondere che tali precisazioni sono ben lontane dal risolvere il problema, se non altro per la loro incapacità di descrivere le dinamiche interne tra i due poli. Sono però sufficienti per ridimensionare la tradizionale antinomia tra efficienza e garanzia e con essa le resistenze che fino a tempi recenti sono state tenacemente mostrate rispetto alla possibilità di un dialogo tra diritto penale ed economia.

 

3.1.1.  Precisazioni. Non è però possibile approssimarsi alle questioni di dettaglio che sono specifico oggetto di questo studio senza aver prima messo in luce ulteriori profili di rilievo sia per la complessiva economia dell’ indagine sia per la completezza dei dati necessari a corroborare le sue conclusioni.

Il primo, come è ovvio, riguarda la compatibilità fra analisi economica e diritto penale o meglio se sia lecito applicare le categorie tipicamente utilizzate dall’ economia all’ analisi della criminalità d’ impresa. In questa sede si è optato per non entrare, se non marginalmente, nel merito di questo dibattito, propendendo per una sostanziale ammissibilità del percorso di dialogo fra le due discipline. Anche perché l’ assenza dalla scena della Persona rende la questione assai meno scottante di quanto normalmente non sia.

La scelta, in parte implicita in quanto sopra osservato ma non riducibile per intero a quelle indicazioni, è stata quindi operata per due ordini di motivazioni: il primo, molto pragmatico, trova la sua origine nella ricchezza del dibattito giuridico (principalmente) anglosassone e (recentemente) italiano sul tema, il quale fornisce, pur con tutte le cautele del caso, diverse posizioni a favore dell’ esperimento[34]. Il secondo riguarda invece la sostanziale convinzione, già espressa nei suo lineamenti generali, che le ragioni che allontanano l’ analisi economica da quella giuridica siano molto meno forti di quanto si possa pensare[35]. Infatti si possono riconoscere alle due discipline una serie di tratti comuni ascrivibili alle categorie dell’ efficacia e dell’ efficienza. Dove con la prima si fa riferimento alla necessità di operare per conseguire un determinato risultato[36] e con la seconda alla necessità di valutare gli effetti, costi e benefici (in senso lato), che l’ azione normativa produce sui comportamenti individuali e sociali, nel breve e nel lungo periodo, proporzionando nel miglior modo possibile risorse impiegate e risultati conseguiti. L’ enfasi sugli aspetti temporali dell’ applicazione di una norma appare particolarmente significativa quando si opera nel campo del diritto penale nel quale, l’ attenzione ai “valori” sopra richiamati può essere interpretata come una sensibilità particolare alla correlazione esistente fra norme sociali e norme legali che, come già accennato, si esplica principalmente attraverso un’ analisi di lungo periodo degli effetti che la normativa produce sui comportamenti individuali e sulle dinamiche sociali.[37]

Dunque, poiché le norme determinano la struttura degli incentivi dei soggetti ed influenzano le condizioni sottese a determinate decisioni e poiché l’ economia si occupa degli effetti prodotti da un determinato sistema di incentivi in tutte le situazioni sociali in cui si prendono delle decisioni[38], ci sembra possibile analizzare la responsabilità da reato delle società anche attraverso gli strumenti offerti dalla teoria delle decisioni, cui può essere ricondotta l’ economia del diritto, identificando e studiando gli attori, le regole e gli incentivi posti in essere dalla  norma oggetto di studio.

 

3.2. Quale razionalità, quali soggetti? La prospettiva d’ indagine prescelta presuppone risolta la questione relativa alla razionalità dell’ attore criminale collettivo, intesa quale attitudine dello stesso ad orientare le sue scelte esclusivamente basandosi sulla coerente valutazione dei costi e benefici che ciascuna di esse produce[39]. In altri termini: l’ esistenza della  capacità di porsi come profit maximizer sensibile agli stimoli esterni che modificano la funzione di utilità attesa.

Sebbene l’ ipotesi che identifica la società commerciale con la figura ideale dell’ homo oeconomicus sia dotata di un altissimo grado di accreditamento a livello sociale e scientifico[40], non è affatto scontato che tale ipotesi abbia un valore incondizionato.

Poiché il concetto di razionalità fatto proprio dai giuseconomisti postula il soddisfacimento di almeno quatto condizioni preliminari (prevedibilità degli effetti della decisione; valutabilità delle conseguenze, utilizzo di criteri coerenti di valutazione, propensione assoluta alla scelta della best solution), ove anche una soltanto di esse dovesse venir meno occorrerebbe prender atto di trovarsi di fronte ad un soggetto che agisce, nella migliore delle ipotesi, sulla base di una razionalità limitata (bounded rationality).[41]

In coerenza rispetto a ciò si dovrebbe poi decidere se ritenere impraticabili le chiavi di letture offerte dall’ analisi economica del diritto – per incompatibilità del soggetto – o riformulare, su basi diverse, una teoria giuseconomica dell’ agire in condizioni di razionalità limitata (behavioral law and economics).[42]

 

 

3.2.1. La razionalità complessa dell’agire collettivo. Una recente indagine sull’’’economia della pena” ha finemente approfondito il problema sostenendo l’ idea che, dal punto di vista dei modelli di razionalità, la persona giuridica dovrebbe essere descritta come un soggetto bipolare.[43] In essa convivono infatti momenti di pura razionalità “chicagoana” ed elementi di razionalità di altro tipo, quando non di irrazionalità vera e propria[44]. Affermazione suffragata dal richiamo ai risultati raggiunti in ormai classici studi sulla criminalità dei colletti bianchi e compendiabile nella formula: esistono, anche all’ interno dell’ agire di impresa, momenti di razionalità tradizionale, in senso weberiano,[45] che disallineano i processi decisionali interni a soggetti pluripersonali, ma organizzati in vista del raggiungimento di uno scopo, dai punti di riferimento usualmente fissati per descrivere i tratti essenziali della razionalità dell’ homo oeconomicus[46]. Argomento di per sé sufficiente a porre in crisi l’ automatica identificazione tra persona giuridica ed uomo economico e, di conseguenza, tra impresa criminale e soggetti puramente razionali, rendendo oltremodo dubbia l’ utilità di richiami all’ analisi economica del diritto anche in questo specifico settore della disciplina penalistica.[47]

 

3.2.2. Ridescrizione al margine. Non può esser certo questa la sede più opportuna per approfondire la questione in tutti i suoi aspetti. Non sembra però nemmeno possibile astenersi dall’ articolare, sia pur in modo sommario, una posizione in merito, se non a pena di non poter proseguire la  ricerca nei termini di cui si è detto.

La presenza di aree dell’ agire d’ impresa presidiate da modelli decisionali fondati su presupposti divergenti rispetto a quelli assunti come idealtipici dalla tradizionale “ragione economica” non può essere negata. Ciò non significa, di per sé, che si debbano considerare detti comportamenti come irrazionali.

Infatti, sul presupposto che la persona giuridica attraverso l’ iterazione tra le sue diverse componenti istituzionali (managment, soci, organi di controllo, interni ed esterni,  stakeholders) può incidere sulla cultura di impresa e sulle specificità dei processi decisionali dei suoi membri, si deve considerare la possibilità di valutarli in termini di razionalità (intesa nell’ accezione utilizzata, ad esempio, dai più autorevoli analisti economici del sistema penale)[48]. Non si può infatti escludere che la persistenza di aree di “razionalità tradizionale” sia mantenuta vitale perché strumentale alla realizzazione di obbiettivi di impresa quando la politica gestionale della stessa metta in conto la possibilità di raggiungere l’ obbiettivo economico prefissato “costi quel che costi”, anche attraverso la commissione di fatti di reato.

Rispetto all’ ipotesi appena descritta non può essere fatto valere, in senso contrario, il carattere di impermeabilità rispetto ai condizionamenti esterni tipica delle subculture criminali, perché è lo stesso soggetto che genera quelle culture a poter imporre dall’ interno le regole dell’ agire collettivo conforme agli standards legali.

 

3.2.3. Letture correttive. D’ altra parte occorre prendere atto delle modifiche intervenute nel generale modo di percepire il problema della razionalità, tendente ad evolversi, ogni giorno di più, dallo stato primario, disegnato dal riferimento all’ homo oeconomicus, ad uno stadio più evoluto, rappresentato “dall’ uomo di K[ahnemann]/T[versky]”[49] i cui processi decisionali non sono, al contempo, “né razionali, né capricciosi”[50]. Condizionati da molteplici fattori che ne disturbano la linearità, rispetto al puro perseguimento dell’ interesse individuale, ma non per questo privi di una intrinseca conformità a ragione, nel senso in cui la intende la rational economics, nel momento in cui si tratta di optare tra alternative decisionali di diverso impatto sull’ interesse personale. La psicologica cognitiva ha infatti messo definitivamente in luce che l’ intero agire umano si muove secondo “mappe di razionalità limitata”, chiarendo, altresì, che non si tratta di un modello alternativo all’ impostazione tradizionale ma di un paradigma da affiancare ad esso in funzione integrativa.[51]

Per quanto ora interessa, l’ apparire sulla scena di modelli decisionali che si basano “su un numero limitato di principi euristici” orientandosi su “mappe di razionalità limitata” che possono condurre, con più facilità di quanto comunemente non si creda, “ad errori gravi e sistematici”[52], non mette in crisi gli strumenti di analisi predittiva impiegati dalla scienza economica, limitandosi a richiedere una loro integrazione con altre prospettive di analisi. Anche nello specifico settore del law enforcement[53]. In breve: rimane intatta la premessa che la persona giuridica è un’ entità sensibile agli incentivi e disincentivi introdotti dalle regole legali.[54]

 

3.3. Analisi costi/benefici, deterrenza ottimale e democrazia. Rimane invece aperta, dal lato del corpo sociale, la questione se la responsabilità da reato delle persone giuridiche possa essere convenientemente trattata facendo applicazione di criteri decisionali ascrivibili ad una logica costi/benefici. Una parte della ricerca empirica evidenzia infatti una forte resistenza, per lo meno di facciata, delle componenti del sistema ad un approccio di questa caratura.

Da un lato si è messo in luce che tutte le volte in cui l’ azienda ha proposto in sede giudiziale letture dei problemi di sicurezza in termini di analisi costi/benefici è andata incontro a “catastrofiche” conseguenze sul piano del trattamento sanzionatorio in modo del tutto indipendente dalla correttezza del procedimento di calcolo e dalla razionalità della valutazione operativa adottata sulla base di quest’ ultimo[55]. Ricerche altrettanto significative hanno altresì illustrato la sostanziale estraneità delle formule che descrivono le condizioni della deterrenza ottimale rispetto alle valutazioni operate dalle giurie e dai giudici in relazione alla commisurazione della sanzione[56]. Quanto basta per evidenziare la presenza di vincoli ulteriori nelle decisioni riguardanti il sistema penale approssimativamente riconducibili alla presenza di “protected values”[57] – per i quali si nega la possibilità di tradurli in denaro, reagendo con vigore alla loro violazione – e a distorsioni del processo decisionale provocate dalla vistosa interferenza di “euristiche morali”[58].

La riscontrata discrasia democratica è davvero sufficiente per mettere fuori gioco il ricorso all’ analisi costi/benefici quando si tratti di discutere questioni attinenti alla responsabilità penale? Sebbene non sembri discutibile che “i numeri non possono sostituire un’ indagine completa sugli elementi in gioco”[59] dovrebbe essere altrettanto evidente che anche la “democrazia penale” non può accontentarsi di produrre decisioni docilmente subordinate alla volontà della maggioranza popolare, non foss’ altro - escludendo ogni sottolineatura dei non virtuosi effetti degli irrigidimenti per questa via introdotti - per l’ incombente rischio della “tirannide […] dell’ opinione e dei sentimenti predominanti”[60]. Le preferenze dei cittadini, lungi dal rappresentare l’ unico criterio decisionale di riferimento,[61]  prima di trasformarsi in legge devono essere vagliate secondo parametri propri del discorso razionale a partire dalla realtà dei fatti. In quest’ ottica il ricorso ad uno strumento di analisi ad elevato contenuto pragmatico e analitico, quale indubbiamente è l’ analisi costi/benefici, apporta un contributo positivo alla discussione, anche sotto il profilo della gestione dei processi decisionali realizzati in sede giudiziaria, contribuendo a chiarire la posta in gioco e, in ultima analisi, a realizzare lo scopo in vista del quale la normativa è stata introdotta. Aiutando a separare gli errori cognitivi dalle decisioni orientate ai valori aumenta il grado di trasparenza del processo decisionale in modo consono agli schemi di una democrazia autenticamente deliberativa.

Il suo agnosticismo rispetto alle questioni fondamentali, che pur giocano un ruolo importante nelle decisioni delle persone e delle istituzioni, non preclude che si adottino soluzioni divergenti rispetto alle indicazioni fornite da questo tipo di analisi. In tutti questi casi sapendo a cosa si va incontro si assume con maggior consapevolezza la responsabilità della decisione, a maggior ragione quando ci si muove in uno sfondo normativo che valorizza fortemente la logica di scopo e le istanze di effettività della disciplina normativa considerata[62].

Una conclusione che ancor più vale quando ci si confronti con i problemi posti dalla responsabilità  ex delicto delle persone giuridiche[63].

 

4. Gli elementi strutturali del modello regolativo. L’ analisi del D.lgs n. 231\01 verrà effettuata cercando di isolare la relazione esistente fra comportamento di impresa e struttura della norma (o se si preferisce, si procederà ad una analisi della struttura degli incentivi che influenzano gli attori in gioco: enti, amministratori, dipendenti, stakeholder).

 

4.1. Gli attori. Per quanto attiene all’ individuazione degli attori, l’ asse portante della disciplina è costituita dall’ art. 5. Disposizione alla quale il legislatore affida il compito di selezionare le diverse categorie di soggetti che possono impegnare la responsabilità della società, distinguendo tra organi di vertice, i c.d. soggetti apicali (amministratori, direttori generali e soggetti che esercitano il controllo dell’ impresa societaria) e sottoposti (ovvero tutti coloro che agiscono all’interno della società nel suo interesse). Secondo la lettera dell’art. 5, tutti i reati nominati negli “elenchi” di cui agli artt. 24 ss.[64] possono impegnare la responsabilità della società se commessi, da uno dei soggetti appena sopra ricordati, nell’ interesse o a vantaggio della società stessa.

Nell’ economia del D.lgs in parola questa distinzione assume un rilievo fondamentale, poiché il legislatore associa ai reati commessi da soggetti che appartengono a diverse categorie una disciplina ben diversa dei criteri di imputazione del reato alla società. Basti pensare alla diversa ripartizione dell’ onere della prova circa l’ avvenuta efficace implementazione dei modelli di controllo interno che distingue gli illeciti commessi da soggetti in posizione apicale e non. Nel primo caso infatti è la società a dover dare positiva dimostrazione delle iniziative di prevenzione intraprese e fornire la prova della loro idoneità ed effettiva applicazione (art. 6 comma 1). Nel caso dei sottoposti vige invece la regola generale che disciplina la ripartizione dell' “onere della prova” nel processo penale.

 

4.1.1. Gli incentivi. La distinzione può essere agilmente ricondotta alle modalità con cui l’ analisi economica valuta il peso dell’ informazione nei modelli comportamentali che determinano strategie decisionali dei diversi attori. E’ generalmente condivisa l’ idea che la responsabilità dovrebbe ricadere sul soggetto maggiormente informato e quindi in posizione migliore per evitare i rischi del fatto illecito. Di conseguenza appare coerente che la società possa essere ritenuta a sua volta responsabile qualora i suoi organi direzionali, potremmo dire il suo cervello, siano autori di uno dei reati individuati dalla norma. Infatti poiché il cervello di una società non è composto da uno ma da più soggetti (fatta eccezione forse per le imprese molto piccole), nell’ ipotesi che gli organi direzionali abbiano accesso alla medesima informazione, non appare logico, in caso di condotta delittuosa, circoscrivere la responsabilità alla sola persona fisica senza chiamare in causa la società nella sua interezza. Attraverso tale scelta si ottiene un efficace incentivo al controllo interno attraverso l’ effetto indiretto che le sanzioni rivolte alla società avrebbero nei confronti dei soggetti che la compongono o che con essa operano. Gli schemi di controllo interno assumono un’ importante funzione di trasferimento di informazioni rilevanti o di segnalazione (signalling nel linguaggio economico) nei confronti degli stakeholder esterni all’ azienda, i quali possono verificare il grado di controllo che esiste all’ interno del loro partner economico valutando, così, il grado di rischio delle loro transazioni nella prospettiva che possa verificarsi un evento che ricade nelle fattispecie che interessano il D.gls  n. 231\01 e il sistema sanzionatorio in esso contenuto.

La questione è semmai come valutare la posizione di soggetti che sebbene dotati di un livello di informazione inadeguato subiscono gli effetti indiretti di sanzioni rivolte alla società per la quale lavorano, o con la quale fanno affari, senza avere la possibilità di utilizzare adeguati strumenti di controllo o di dissuasione del reato. Il problema assume così contorni forse non più solo efficientistici ma anche redistributivi.

Inoltre, ritornando così alla questione della diversa ripartizione dell’ onere della prova, si può osservare come, anche in questo caso, sia individuabile una decisione legislativa ispirata a medesimi criteri. La soluzione di prevedere un “aggravamento” (art. 6 comma 1) della posizione della persona giuridica quando si tratti di illeciti commessi per suo conto da soggetti in posizione apicale ripropone lo schema “maggiore informazione = maggiori responsabilità”.

 

4.2. I compliance programs. Proprio per questa ragione, a differenza di quanto avviene in modelli fatti propri da importanti esperienze legislative straniere[65] l’ evenienza della commissione di un fatto di reato di per sé non è stato ritenuto sufficiente per chiamare sul banco degli imputati la società nel cui interesse l’ illecito è stato commesso.

 

4.2.1. La struttura. In omaggio al principio costituzionale della personalità della responsabilità consacrato dall’ art. 27 comma 1 Cost.[66] il legislatore ha infatti introdotto un ulteriore criterio di imputazione: la mancata adozione o inefficace implementazione di sistemi di controllo interno del rischio-reato (c.d. compliance programs).  Questi hanno la funzione di tutelare le parti meno informate attraverso meccanismi automatici di dissuasione del reato via procedure di controllo.

In estrema sintesi può dirsi che in questo modo il legislatore ha finito per istituzionalizzare un articolato sistema di gestione del rischio che si compone (artt. 6 e 7):

a) di un momento di “valutazione” delle aree di rischio e della consistenza dello stesso;

b) di una formalizzazione delle regole “cautelari” ritenute indispensabili per fronteggiare il pericolo della commissione di reato nell’ interesse della società;

c) di una predisposizione di modelli di organizzazione interna idonei a “minimizzare” il rischio-reato (tra i quali spicca l’ onere di istituire un soggetto interno all’ impresa specificatamente destinato a controllare la funzionalità di tali procedure e a riportare agli organi apicali le eventuali disfunzioni riscontrate);

d) di una autonoma fase di implementazione del modello “organizzativo-cautelare” attraverso iniziative di sensibilizzazione dei soggetti che lavorano all’ interno della società.

Va però sottolineato che a differenza di quanto avviene in altri settori (i.e. sicurezza del lavoro D.lgs n. 626\94 ora D.lgs n.81/08), ai quali la Relazione espressamente dichiara di essersi ispirata, il legislatore non ha lasciato soli i soggetti tenuti ad istituire siffatti programmi di controllo interno. Il D.lgs n. 231\01 ha infatti introdotto un canovaccio delle procedure da adottare e delle strutture interne da istituire. Si tratta, però, di indicazioni che non esauriscono per intero l’ onere di cui è gravata la società nel caso di commissione di un reato nel suo interesse da parte di uno o più dei soggetti indicati all’ art. 5. Le indicazioni fornite dal legislatore dovranno infatti essere calate nella concreta realtà operativa della singola azienda ed adattati alle sue peculiarità. E’ questo un compito che grava in via esclusiva sulle spalle della società, che sarà anche l’ unico soggetto a dover pagare, nel caso di commissione di un reato nel suo interesse o a suo vantaggio, le conseguenze della loro mancata adozione o della loro ineffettiva implementazione.

 

4.2.2. La dinamica. Tali sistemi, che trovano la loro compiuta disciplina negli artt. 6 e 7,  costituiscono il cuore pulsante della riforma. Rappresentano, al contempo, il criterio di imputazione delle responsabilità ed uno strumento con cui l’ ordinamento si propone di incidere in profondità sugli assetti di controllo e di distribuzione dell’ informazione all’ interno delle strutture societarie. Un settore fino ad oggi sottratto alla sfera di interesse del diritto penale e\o punitivo perchè affidato alle cure esclusive del diritto commerciale, del diritto dei mercati finanziari (codice di autodisciplina di Borsa italiana s.p.a) o alla pura e semplice autoregolamentazione delle singole società (corporate governance)[67].

Il realismo induce a ritenere che nessuna delle opzioni appena sopra elencate possa vantare un sufficiente grado di efficacia rispetto alla necessità di realizzare gli obbiettivi di fondo che hanno mosso il legislatore nel 2001. Si spiega così la scelta di afferrare le corna del toro e di imporre alle singole società l’ adozione di predefiniti sistemi di gestione del rischio-reato. Tuttavia, l’ integrale realizzazione di questa strategia di politica criminale comportava una vistosa interferenza con l’ autonomia privata, con il connesso rischio di determinare improprie funzionalizzazioni dell’ attività dell’ impresa privata per finalità pubblicistiche di prevenzione di fatti illeciti. Di dubbia compatibilità con il dettato costituzionale[68].

Per sgombrare il campo da queste possibili obiezioni si è così preferito escludere l’ imposizione di obblighi ripiegando sulla meno impegnativa figura dell’ onere. L’ adozione di sistemi di controllo interno del rischio-reato è stata infatti qualificata come comportamento richiesto dalla legge solo per il conseguimento di effetti favorevoli (non applicazione delle sanzioni) per il soggetto in capo al quale tale onere è fissato. Quest’ ultimo rimane quindi formalmente libero di non adottarli, qualora ritenga di non realizzare in futuro comportamenti illeciti, o di seguire percorsi prevenzionali a-tipici, qualora valuti che tale soluzione possa comunque esser sufficiente per impedire la commissione di reati nel suo interesse da parte di soggetti che lo rappresentano. Una scelta che può essere influenzata anche da considerazioni economiche orientate a valutazioni di costi/benefici, come pacificamente riconosciuto anche dai critici del modello di indagine qui proposto.[69]

Dovrebbe però essere sufficientemente chiaro che vi è uno specifico interesse del legislatore ad impedire il proliferare di autonome forme di controllo interno del crimine d’ impresa, nella misura in cui il modello standard fissato degli artt. 6 e 7 è accreditato della capacità di fissare nel modo più soddisfacente la misura socialmente adeguata del rischio consentito.

Fondamentale appare dunque l’ approfondimento della tipologia e qualità dei meccanismi incentivanti che possono determinare la convenienza dell’ impresa ad adottare ed implementare efficacemente sistemi di compliance interna – che, converrà ripetere, costituisce l’ obbiettivo primario dell’ azione del legislatore – nel contesto di una struttura legale costruita in modo tale da non intaccare la sostanziale autonomia organizzativa dell’ impresa.

Rispetto all’ormai classica formulazione della funzione di “Supply of Offences” dovuta a G. Becker secondo la quale, per un soggetto j,

O= O(p, f, u)

(dove O è il numero dei reati che un soggetto commetterebbe durante un determinato periodo di tempo, p la probabilità di condanna, f l’entità della sanzione e u un insieme residuale di variabili tra le quali rientra anche il rispetto individuale della legalità) il “modello 231” modifica tutte le variabili diminuendo la propensione al reato. I sistemi di compliance agiscono sulle variabili p e u rendendo più difficoltosa la realizzazione di condotte illecite aumentando la probabilità (p) di individuare eventuali responsabilità. Consentono altresì l’attuazione di forme di controllo esterno da parte, ad esempio, degli stakeholders che finiscono per agire sulla variabile u[70].

Non occorrono particolari sforzi di fantasia per vedere il ruolo assegnato alla deterrenza. Il legislatore sembra cioè essersi riferito ad un schema (stick and carrot) che ripropone, seppur in termini aggiornati ai tempi moderni, il consueto modello del padrone che mostra al cane il bastone per ottenere da questo comportamenti conformi ai suoi comandi. La circostanza che così facendo il legislatore mira comunque ad ottenere un’ efficace prevenzione speciale rispetto alla possibile commissione di fatti illeciti[71], non appare sufficiente per negare il ruolo assegnato nell’ economia complessiva dell’ intervento legislativo alla deterrenza. E’ semmai motivo per sottolineare la novità di approccio alla materia e l’ occasione per ribadire i rischi impliciti nella scelta di valorizzare unicamente questa prospettiva[72].

Tuttavia, e senza poter considerare nel dettaglio tali profili, è altamente probabile che ciò non esaurisca il set di incentivi che possono essere valorizzati allo scopo di ottenere da parte della persona giuridica comportamenti osservanti. Effetti reputazionali. Ricadute sul piano delle opportunità di business. Facilità di accesso al credito. Sono, come si è già visto, leve utilizzabili per ottenere che il baricentro operativo ed organizzativo dell’ attività di impresa venga fissato senza ignorare i protocolli comportamentali fissati dagli artt. 6 e 7.

Vi sono però più che fondate ragioni per ritenere che tali a-tipici fattori incentivanti al perseguimento di obbiettivi virtuosi siano ampiamente insufficienti a sostituire l’ ordinario schema di lavoro proprio del diritto penale[73]. La peculiare struttura dei soggetti che operano nel mercato italiano; le forti contro indicazioni che, sotto il profilo equitativo ed efficientistico, presenta l’ implementazione di un sistema di contenimento del crimine di impresa davvero capace di creare le condizioni perché tali incentivi producano il loro effetto,[74] sono tutti fattori che consigliano, quantomeno, la massima cautela nell’ abbandonare prematuramente l’ idea che il diritto punitivo e penale in specie non abbia più alcuna utilità come strumento di controllo della criminalità economica.[75] L’ indubbia difficoltà che il diritto penale incontra quando è chiamato ad intervenire in contesti connotati da elevata complessità è semmai uno stimolo a pensare strategie di intervento adeguate e, sul piano interpretativo, ad elaborare metodologie consone ad evitare che la strutturale funzione conservativa di quest’ ultimo si riveli inadeguata a fornire risposte adeguate ad una bilanciata salvaguardia degli interessi che vengono in gioco.

 

4.2.2.1. La funzione di controllo interno. Un discorso a parte va riservato all’ organo di controllo interno. La decisione di includere l’ istituzione di una specifica funzione di compliance tra i requisiti essenziali del modello di prevenzione del rischio reato (art. 6 comma 1 lett.b) può essere considerata quanto mai opportuna: oltre che per assicurare la necessaria separazione tra il momento della decisione in merito all’ adozione del sistema di organizzazione e gestione da quello riguardante la verifica della loro implementazione, la scelta si giustifica per la sua capacità di mitigare un profilo deficitario della strategia incentivante sottesa al D.lgs n. 231/01. La previsione di un compliance officer dotato di “autonomi poteri di iniziativa e controllo” consente infatti di disinnescare i già segnalati rischi di effetti indiretti ed indesiderati su soggetti che, per le più varie ragioni, risultano sprovvisti di adeguati poteri di controllo o di sufficienti informazioni per poter valutare la convenienza di entrare in rapporti con aziende che presentano un rischio reato alto. La funzione in esame consente infatti di bilanciare tale gap assicurando la presenza di un organismo aziendale che per la posizione rivestita è in grado di farsi carico degli interessi di quei soggetti.

A tal fine è però assolutamente necessario che all’ organo di controllo interno venga assicurata la più ampia indipendenza rispetto al management dell’ azienda. Solo a queste condizioni diviene infatti possibile garantire l’ efficacia dei poteri di monitoraggio rispetto alla salvaguardia degli interessi dei soggetti terzi. Un attributo che scorrendo anche velocemente la “prassi” dei modelli organizzativi e le linee guida elaborate dalle associazioni rappresentative di enti (art. 6 comma 3)sembra essere stato scarsamente considerato.

Alla luce delle annunciate modifiche al catalogo dei reati che, si spera in futuro prossimo, potranno impegnare la responsabilità diretta della persona giuridica (tutela dell’ambiente in primis) merita di essere messa ben in luce la possibilità di ridurre tale deficit in ragione della presenza di soggetti caratterizzati da una marcata terzietà rispetto all’ impresa e, quindi, potenzialmente idonei a bilanciare l’ eventuale lassismo dimostrato dai soggetti istituzionalmente preposti al controllo dei sistemi di compliance ma privi della necessaria separazione rispetto alle più alte istanze decisionali interne all’ impresa. Le figure, caratteristiche della disciplina in tema di sicurezza dei luoghi di lavoro, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del medico competente, del rappresentate dei lavoratori per la sicurezza, per non dire della valorizzazione dei principi della responsabilità sociale di impresa, rappresentano tutte istanze di verifica capaci di intervenire positivamente sulle dinamiche interne relative all’ adozione ed all’ implementazione dei sistemi di controllo, accreditandosi come funzioni in grado di supplire eventuali inerzie da parte dell’ organo di cui all’ art. 6 comma 1 lett. b). Un risultato importante, nonostante le carenze che certamente caratterizzano anche queste istanze di controllo, specie sotto il profilo degli incentivi[76], che non è ad oggi conseguito nel settore delle violazioni della normativa ambientale, al cui interno la disciplina di riferimento non prevede l’ istituzione di soggetti preposti alla gestione del rischio diversi dai soggetti apicali dell’ azienda ed eventuali loro delegati. Il problema del grado di autonomia dei soggetti preposti al monitoraggio dei sistemi anticrimine sembra riproporsi immutato e con esso la segnalata lacuna nei modello incentivante della “virtù d’ impresa”, sebbene già oggi non manchino le risorse concettuali per sviluppare efficaci correttivi ulteriori all’ implementazione dell’ indipendenza dell’ organo di vigilanza richiesta dal D.lgs n. 231/01.

 

4.3. Le sanzioni. Il sistema sanzionatorio contenuto nel decreto (art. 9) è incentrato su di uno schema binario composto da sanzioni pecuniarie e interdittive, alle quali si aggiungono ipotesi ablative (confisca) e stigmatizzanti (pubblicazione della sentenza di condanna).

Soffermiamo dapprima l’attenzione sulle sanzioni pecuniarie e sulle misure interdittive. La principale novità in tema di pena pecuniaria consiste nell’ inedito meccanismo commisurativo. Il classico sistema monistico adottato dal codice penale è sostituito da un modello a due fasi in cui la pena applicabile (art. 11) è la risultante di una valutazione c.d. per quote nei limiti di ambiti edittali determinati solo numericamente[77]. Il quantum complessivo della pena da irrogare deve essere commisurato, da un lato, alla gravità del fatto, al grado di responsabilità dell’ ente e all’ eventuale attività riparatoria posta in essere nella fase post delittuosa (risarcimento del danno o attività prestata per l’ attenuazione delle conseguenze dell’ illecito), all’ adozione di condotte idonee a prevenire la commissione di ulteriori futuri illeciti (istituzione o adeguamento dei modelli organizzativi interni). Dall’ altro, dopo avere determinato il numero delle quote, si dovrà invece valutare la consistenza patrimoniale dell’ ente al fine di calibrare l’ importo della singola quota sull’ esatta realtà patrimoniale della persona giuridica.

Lo schema, anche in questo caso, sembra seguire una logica rivolta alla calibrazione degli incentivi al fine di aumentare la capacità di deterrenza dell’ apparato sanzionatorio. Ma se questa è la logica del provvedimento appaiono motivate le preoccupazioni di quanti hanno espresso dubbi strutturali sulla reale capacità preventiva della pena pecuniaria nel controllo della criminalità di impresa[78], evidenziando il rischio che tale sanzione, a maggior ragione alla luce degli ambiti edittali fissati all’ art. 10 commi 2 e 3, finisca per rappresentare nulla più di un costo di produzione che può apparire irrisorio nel caso di imprese di grandi dimensioni[79]. Alcune delle quali, peraltro, sono state le artefici degli illeciti che hanno convinto il legislatore d’ oltreoceano, seguito a ruota da quello comunitario e nazionale, della necessità di prevedere interventi draconiani, ma l’ aggettivo si attaglia solo alle misure introdotte dal Saarbanes-Oxley Act del 2002, di repressione di fatti di criminalità economica: si pensi, per limitarsi alla più recente attualità, ai casi Enron, WorldCom, Tyco, Arthur Andersen, Global Crossing, Vivendi, Cirio, Parmalat, Bancopoli, ecc.

L’ applicazione di una sanzione pecuniaria i cui ambiti edittali non superano, in via ordinaria i 1.549.000 Euro, rischia infatti di risolversi, specie nelle realtà societarie di medie e grandi dimensioni ed alla luce di ormai consolidate filosofie della prassi commisurativa, in un semplice costo operativo, privando così il sistema dell’ unico strumento in grado di spingere l’ente, ex ante o ex post, verso l’ adozione di quei programmi interni di gestione a cui è affidata l’ effettiva realizzazione di quella legalità preventiva che costituisce l’obbiettivo  ultimo del  D.lgs n. 231/01.

Un’ indicazione di cui il legislatore sembra aver fatto tesoro al momento di por mano alla riforma della disciplina penalistica degli abusi di mercato. L’ art. 25 sexies prevede infatti, rispetto a classi di comportamenti criminologicamente assimilabili, un severo inasprimento della comminatoria edittale prevista per le ipotesi di responsabilità ex delicto delle società per i reati di insider trading  e di manipolazione del mercato commessi a loro vantaggio. Somma che potrà essere aumentata fino a dieci volte nel caso in cui l’ illecito abbia generato un profitto di rilevante entità.[80]

Per ovviare a questi inconvenienti il legislatore ha però fin dall’ inizio ampliato l’ ambito applicativo della confisca (art. 6 comma 3 e art. 19)[81] e, soprattutto, ha introdotto per i casi più gravi penetranti misure inabilitative quali l’interdizione dall’ esercizio dell’ attività, la sospensione di titoli abilitativi, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni o finanziamenti, il divieto di pubblicizzare beni o servizi (art. 9 comma 2)[82]. Prevedendo altresì la possibilità di nominare un commissario giudiziale, quando l’ applicazione del sanzione interdittiva dovesse apparire eccessivamente gravosa. A quest’ ultimo spettano i poteri indispensabili a far proseguire l’ attività d’ impresa ma, per quanto più interessa in questa sede, anche quelli necessari all’ adozione ed efficace implementazione dei modelli di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (art. 15 comma 3). Queste sanzioni puntano a disinnescare, seppur per vie diverse, la più evidente delle motivazioni che possono indurre l’ impresa a delinquere o a progettare o tollerare politiche di impresa che mettano esplicitamente in conto tale possibilità, traducendo in termini legali l’ antico detto “il crimine non paga”.  Obiettivo che si intende perseguire con strumenti sanzionatori la cui applicazione genera costi all’impresa che, secondo uno schema classico di ottima deterrenza[83], dovrebbero ridurre la propensione al reato della stessa innalzando la sanzione attesa (cioè il costo della sanzione ponderato per la probabilità di essere dichiarati colpevoli del reato di cui si è chiamati a rispondere). Senza alcuna possibilità, almeno nel breve periodo, di esternalizzare le perdite inflitte con l’ applicazione di una di queste sanzioni o di metterle economicamente in conto nell’ ipotetico business plan stilato per fissare il conto economico della progettata politica criminale d’ impresa.

Resta invece tutta da discutere l’ efficacia di scelte legislative (ad esempio artt. 25 ter e sexies) che mirano a compensare il divieto di applicare misure interdittive innalzando l’ importo delle sanzioni pecuniarie, disarticolando il prezioso equilibrio originariamente disegnato dal legislatore[84].

L’ architettura del sistema sanzionatorio si completa con la previsione di significative misure lato sensu premiali espressione di una consapevole scelta di politica criminale consona al teleologismo preventivo che permea il D.lgs n. 231/01[85].  L’ impianto complessivo del D.lgs manifesta, infatti, la tendenza ad offrire all’ ente gli incentivi sostanziali e le opportunità processuali necessari a stimolare la persona giuridica ad adottare positive condotte riparatorie (risarcimento del danno) o interventi strutturali di prevenzione della recidiva. Ne sono espressione: le attenuazioni disciplinate dall’ art. 12 comma 2 lett. a), b); le ipotesi previste dall’ art. 17; la struttura del procedimento cautelare (in particolare artt. 49 e 50); la sospensione del processo introdotta dall’art. 65 e, infine, la disciplina della conversione delle sanzioni interdittive disposte in sede esecutiva (art. 72) [86]. Tutti questi elementi offrono lo spunto per futuri ulteriori passi nell’analisi del decreto anche attraverso gli strumenti offerti dalla teoria (economica) delle negoziazioni.[87]

 

4.3.1. Uno sguardo economico. La struttura del sistema sanzionatorio che si viene a delineare presenta alcuni tratti particolari.

In primo luogo i costi delle sanzioni inabilitative saranno diversi a seconda della tipologia e delle dimensioni dell’impresa oggetto del provvedimento. Per cui tali sanzioni saranno in grado di ridurre il rischio-reato in funzione dell’attore cui vengono irrogate. Ne consegue che l’efficacia della norma potrà essere valutata, almeno da un punto di vista teorico, solamente attraverso un supplemento di indagine in grado di coniugare la portata delle sanzioni accessorie con la struttura delle aziende che possono essere oggetto del provvedimento.

In secondo luogo assume particolare rilievo la capacità del giudice di valutare discrezionalmente, caso per caso, quale sia la tipologia di sanzione più efficace relativamente all’ impresa oggetto del provvedimento. Poiché l’ elemento della discrezionalità rende la sanzione attesa incerta, l’efficacia di tali sanzioni in termini di deterrenza si potrà ottenere solamente nel medio-lungo periodo, cioè quando l’accumularsi delle sentenze sarà in grado di produrre un flusso di informazioni sui comportamenti dei giudici capaci di influenzare le aspettative degli attori in merito alla reale struttura del sistema sanzionatorio. È evidente che l’ omogeneità dei giudizi diviene un elemento rilevante ai fini dell’efficacia della norma.

 

5. Quale percorso verso la “virtù d’impresa”. L’ analisi del modello proposto dal D.lgs n.231/01 suggerisce due ordini di considerazioni in merito alla sua capacità di ridurre, da un lato, gli illeciti d’impresa e, dell’altro, di accrescere comportamenti “virtuosi” di autoregolamentazione. Comportamenti che dovrebbero e potrebbero essere portatori di maggiore trasparenza e rigore sia riguardo alle procedure di controllo interne all’impresa sia riguardo alla trasmissione verso l’esterno di informazioni sulla “rispettabilità” dell’impresa stessa. L’analisi potrà essere scomposta in una prospettiva di breve ed una di più lungo periodo.

 

5.1. L’ evidenza. Ricercare nelle cifre una conferma o meno alle congetture fino a questo punto formulate è impresa tutt’ altro che agevole. Alla patologica assenza di congrue rappresentazioni statistiche che endemicamente affligge il sistema penale, si aggiunge l’ obbiettiva penuria di “numeri e casi” che sembra allo stato caratterizzare l’ esperienza applicativa del D.lgs n. 231/01. Tuttavia le esistenti informazioni, anche nella loro scarsezza, possono offrire dati non trascurabili che, pur scontando il rischio di evidenti incompletezze, meritano di essere evidenziati. 

 

5.1.1. L’ applicazione giudiziale. Per quanto concerne gli effetti di breve periodo la giurisprudenza degli ultimi anni sembra essere in linea con quanto poteva essere congetturato dall’ analisi degli elementi strutturali del modello regolativo studiato.

Dai dati forniti dalle non numerose decisioni sin qui edite si può evincere che il numero delle istruttorie avviate a seguito dell’ entrata in vigore del D.lgs n.231/01 appare esiguo e principalmente concentrato nelle regioni del centro-nord. Emerge altresì come la giurisprudenza si trovi impegnata ad offrire letture della trama normativa sostanzialmente tese ad implementare la presa repressiva della disciplina. Consentendo, ad esempio, l’ applicabilità in via cautelare (art.45 ss) di una delle misure interdittive anche nei casi in cui il reato sia stato commesso nell’ interesse della persone giuridica ma non abbia apportato ad essa alcun vantaggio patrimoniale.[88] Non si è invece ancora manifestato un orientamento preciso per quanto riguarda il giudizio di effettività sui compliance programs, soprattutto perché in quasi tutti i casi affrontati o non erano presenti o dovevano ragionevolmente considerarsi meri adempimenti di facciata. Si segnalano però alcune decisioni di merito che hanno affrontato la questione, riuscendo a fornire indicazioni preziose e meritevoli di più ampia considerazione che, per economia dell’ indagine, non possono però essere qui ulteriormente sviluppate.

Ad una valutazione di sintesi non ci si può sottrarre al dovere di sottolineare nuovamente il rarefatto numero di decisioni che ad oggi hanno interessato la materia. Considerazione che fa immediatamente sorgere una domanda radicale. Scartata l’ ipotesi che la mancata applicazione della normativa in esame sia dovuta a fenomeni di decremento o di assenza di significative patologie societarie, è tutto ciò sufficiente per decretare, anche per il futuro, il fallimento del D.lgs. n. 231/01 e relegarlo al “cimitero” delle leggi ineffettive e solo simboliche?

Si è convinti che una risposta positiva netta è da considerarsi quantomeno prematura. Prima di poter formulare un giudizio minimamente avvertito vanno infatti considerati alcuni profili che possono contribuire a fissare l’ idea che i dati fotografano una situazione contingente, peraltro neppure sintomatica di una inadeguatezza strutturale della normativa o di una sua incapacità di raggiungere gli obbiettivi prefissati.

Procedendo in rapida sintesi, e con l’ auspicio di poter ritornare ad affrontare la questione con l’ attenzione che gli è dovuta, si possono elencare:

a) un trend sicuramente in crescita, come testimoniano le cronache di tutti i processi relativi ai più recenti scandali finanziari e la sempre più frequente apparizione nei repertori di decisioni in merito. Circostanza che, pur tacendo altro, sembra testimoniare il superamento delle perplessità inizialmente manifestate da alcune agenzie di law enforcement;  

b) la presenza, nella trama del D.lgs n. 231/01, di meccanismi normativi (art. 58) capaci di istituzionalizzare una consistente sacca di “cifra oscura”, consentendo il potenziale diffondersi di prassi sfocianti nell’ adozione di decisioni (archiviazione del p.m.) che in larghissima parte sfuggono alla rilevazione statistica; alla certificazione dei cataloghi giurisprudenziali; alla pubblicità delle riviste scientifiche. Pur a fronte della loro indubbia capacità di realizzare gli obbiettivi fissati dalla normativa di riferimento. Tale procedura ed il suo provvedimento conclusivo consentono infatti al pubblico ministero di imporre all’ impresa, sia pure solo ex post factum e con un procedimento assai più snello ed informale di quello disegnato per l’ ordinario, l’ “obbligo” di adottare efficaci sistemi di controllo interno, facoltizzandolo a negoziare, in cambio di tale comportamento virtuoso da parte dell’ impresa, l’ adozione di un provvedimento archiviativo della posizione di quest’ ultima. Evenienza resa possibile dalla scelta, ben diversamente motivata dalla Relazione che accompagna il D.lgs n. 231/01[89], di affidare alla sola decisione del pubblico ministero il potere di disporre l’ archiviazione del procedimento che rimane così sottratto a qualsiasi forma di controllo giurisdizionale[90].

Se quanto sin qui osservato coglie nel segno, non sfugge che questa inedita forma di “mediazione” si segnala, anche alla luce del dato comparato[91], come importante momento di elaborazione e di fissazione di criteri di valutazione della misura di legittimità degli standards precauzionali societari ed efficace strumento di realizzazione degli obbiettivi prefissati dal legislatore che, purtuttavia, sfugge alla pubblicità, trovando nel suo opposto un elemento incentivante alla funzionalità della procedura;

c) la percezione del fatto, come insegna anche la ormai lunga esperienza statunitense,[92] che la verifica sull’ effettività del sistema va condotta anche con riferimento all’ eventuale decremento del numero complessivo di reati commessi dai singoli, obbiettivo al quale la responsabilità delle persone giuridiche è espressamente preposta.

Si ritorna così al punto di partenza e alle perplessità che si possono avanzare rispetto al grado di effettività che il D.lgs n. 231/01 è riuscito fino ad oggi a garantire.

 

5.1.2. La prassi aziendale. In ragione delle argomentazioni sin qui sviluppate, questo genere di informazioni non esaurisce il quadro dei dati significativi. Importanti appaiono anche le notizie, relative all’ adozione, dichiarata ed in assenza di interventi di enforcement, di effettivi sistemi di controllo interno; le informazioni concernenti la diffusione dei modelli per tipologie omogenee di imprese[93]; le indicazioni relative alla quantità delle informazioni rese disponibili “all’ esterno” relativamente al processo di adozione ed implementazione di sistemi di compliance; le cognizioni riguardanti la metodologia ed i criteri impiegati per la loro costruzione[94].

In merito a questi punti la ricerca può vantare un maggior agio.

Per quanto concerne l’adozione dei sistemi di controllo interno pratica segnata da un trend crescente almeno nell’ ambito di rilevazioni effettuate tra società quotate[95], questa è complessivamente stimabile, all’ anno 2003, ad un livello pari all’ 84 % delle società esaminate[96]. I dati disponibili illustrano altresì che solo le imprese di grande dimensione sembrano essersi dotate di modelli di valutazione del rischio-reato originali creati ad hoc[97]. La maggior parte delle imprese di dimensioni medie e piccole non ha provveduto ad implementare nessun modello di controllo o, se lo ha fatto, ha utilizzato piattamente gli schemi standard proposti dalle principali associazioni industriali (Confindustria, Abi, Ania, Assonime ecc.)[98]. Questo sembra dipendere dalla natura stessa del decreto. Capace di trasmettere la sua forza e la sua capacità di deterrenza principalmente nei confronti delle imprese che sono in grado di stimare e quindi valutare sia i costi potenziali associati alle sanzioni di tipo interdittivo e stigmatizzante sia i benefici ottenibili, sul sistema produttivo, dall’implementazione delle procedure di controllo e dei meccanismi informativi che sono parte stessa dei compliance programs.

Inoltre si deve anche riconoscere che per le imprese di più grande dimensione è sicuramente più facile e meno oneroso, anche in ragione della preesistente esistenza di idonee infrastrutture organizzative e relative competenze professionali, riuscire ad adattare, nella prospettiva del D.lgs n. 231/01, sistemi interni di controllo già esistenti ed utilizzati per scopi diversi quali, ad esempio, la sicurezza dei dati aziendali od il rispetto delle normative sulla privacy.

A quanto detto si può infine aggiungere che l’efficacia del decreto dipende anche, in larga misura, dalla capacità che gli interpreti hanno di riuscire ad utilizzare e calibrare, in campo economico, gli strumenti a disposizioni al fine di ottenere l’adeguato effetto deterrente che il decreto stesso si propone. Forse in questo senso le possibilità offerte da questa norma non sono state ancora del tutto esplorate.

 

5.2. L’ evoluzione. Qui si dischiude la possibilità di congetturare gli effetti che tale norma potrebbe avere in una visione di più lungo periodo. Infatti il decreto introduce, seppur sottovoce, una prospettiva originale di contenimento del rischio-reato incentrata su elementi di valutazione esterni ed interni all’impresa che potrebbero essere in grado di modificare profondamente lo schema di regolazione dell’ attività d’ impresa.

Dal lato della magistratura si affaccia con decisione la prospettiva di un percorso di specializzazione in “criminalita d’ azienda”. Si potrebbe così accrescere la capacità degli interpreti della norma di leggere i fatti economici e di saper valutare i legami causali esistenti fra norme e comportamento delle società,  così da poter dosare efficacemente gli strumenti sanzionatori messi a disposizione dal decreto. Nonché di riuscire a conoscere, sempre più approfonditamente, i meccanismi  di funzionamento ed organizzazione dei sistemi aziendali non solo con riguardo alle grandi imprese ma piuttosto delle piccole e medie vero motore del sistema produttivo di questo paese e non meno esposte alle tipologie di illecito oggetto della norma qui studiata.

Dal lato delle imprese l’ auspicio è che l’ uso equilibrato di strumenti quali il D.lgs n. 231/01 aumenti sempre di più l’ utilizzo di sistemi di autoregolamentazione che sembrano poter promuovere un graduale processo di accrescimento di quella che in questo lavoro abbiamo chiamato la “virtù d’impresa”. I sistemi di autocontrollo del rischio reato possono consentire di sfruttare al meglio gli elementi informativi interni all’impresa. Questi potranno essere indirizzati verso un percorso virtuoso di costruzione di compliance programs solo attraverso un utilizzo adeguato dei due momenti di valutazione esterna. Quello del mercato, che tramite la conoscenza dei sistemi di “conformità” adottati dalle imprese potrà stimare la solidità economico-istituzionale delle stesse, e quello del sistema giudiziario, che li utilizzerà per definire il grado di responsabilità del soggetto giuridico in presenza di un comportamento illecito.

La strada aperta dal D.lgs n.231/01 sembra dunque interessante e ricca di elementi di discussione e di approfondimento. Un percorso necessario visto il ruolo che le imprese ed i mercati finanziari hanno nel processo di sviluppo dei sistemi economici.

 

6. Conclusioni. Ogni qualvolta la stabilità e la credibilità dei sistemi economico-finanziari è scossa da forme diverse e pervasive di illecito societario si assiste all’ immancabile riapparizione sulla scena di posizioni che invocano l’ etica d’impresa e degli affari come principale medicamento per sistemi economici malati. Sembra quasi che la “virtù d’impresa” sia il Cincinnato dei mercati finanziari. Necessaria per risolvere situazioni d’ emergenza ma destinata a scomparire nell’anonimato non appena le crisi appaiono lontane.

E’ fin troppo ovvio che questo non può essere un modo corretto di ragionare. Confidare esclusivamente nell’etica degli affari, che all’occasione si dovrebbe manifestare attraverso moti endogeni, ha senso solo se si ritiene che questo sia l’unico rimedio di fronte all’incapacità di definire assetti normativi e regolatori in grado di contenere al minimo dinamiche d’ impresa deviate e lesive della concorrenza e del buon funzionamento dei mercati. Al contrario, se si pensa che l’ etica d’impresa sia sì causa ma anche e soprattutto effetto di un sano ambiente economico la riflessione deve spostarsi sull’ efficacia (sul rispetto) e l’ efficienza  delle regole che lo governano. In questo lavoro, sulla scorta degli elementi contenuti nel D.lgs n. 231/01, si è cercato di costruire una riflessione che permettesse di avvicinare elementi propri della dottrina penalistica a  temi più vicini all’analisi economica, per ragionare sulle concrete possibilità d’incentivare, attraverso gli strumenti del diritto penale ed in particolare attraverso il decreto in oggetto, meccanismi virtuosi di (auto)regolamentazione d’ impresa.

            Il percorso proposto è ancora relativamente poco battuto, ricco di questioni non risolte e tuttora oggetto di analisi e discussione, ma nondimeno di estremo interesse poiché affronta una serie di temi di grande importanza quali la relazione: fra valori giuridici, regole ed efficienza dei mercati; fra regole (esogene ed endogene) e dinamiche d’impresa; fra interpretazione delle norme, dinamiche d’impresa e comportamenti dei soggetti che di essa fanno parte.

            Per arrivare a parlare di criminalità d’ impresa utilizzando alcune categorie dell’ analisi economica si è scelto di affrontare solo di passaggio alcune questioni propedeutiche fra le quali la robustezza delle più generali connessioni fra diritto penale ed economia. Si tratta di una scelta dettata da ragioni di focalizzazione dell’ analisi supportate dal fatto che anche nella dottrina più recente, a fronte di non unanime posizioni sull’ ammissibilità del processo di contaminazione, si assiste a tesi più convergenti quando si discute della possibilità di studiare le persone giuridiche con la lente dell’ analisi economica. Sono state comunque fornite delle suggestioni per il superamento di alcune delle critiche classiche, quali ad esempio la non facile applicabilità della figura dell’ homo oeconomicus ai soggetti criminali, siano essi persone o società, contrarie alla visione giuseconomica. In particolare si è fatto riferimento ai contributi proposti dalla behavioral law and economics.

Il tema centrale della lavoro è stato analizzare il D.lgs n. 231/01 in una prospettiva penal-economica cercando di interpretare la struttura degli incentivi forniti dal decreto nei suoi effetti di breve e di più lungo periodo. L’ accento sulle dinamiche temporali è particolarmente importante perché su di esso si è tentato di costruire la relazione fra efficienza e “valori”. Quasi come se il sistema dei valori non fosse altro che il risultato di una ricerca di efficienza di lungo periodo dove, a causa dell’ incertezza, la promozione di tutele e di comportamenti di tipo precauzionale emerge con tutta la sua forza, offuscando, ma non negando, elementi di valutazione che sono più facilmente codificabili, come fa l’ economia, nel breve periodo. Si è volutamente deciso di mettere l’ accento su una diversa sensibilità che l’ analisi economica e la scienza penalistica hanno nell’ affrontare uno stesso problema. Diversa sensibilità che non significa necessariamente incapacità di comunicare o soddisfacimento di obiettivi diversi.

Dall’ analisi sono emersi in particolare alcuni punti.

Nel breve periodo la capacità di deterrenza del decreto non sembra particolarmente efficace per quanto concerne il sistema edittale per quote previsto per la sanzione pecuniaria, se non nel caso di applicazione a società di piccole dimensioni. Più utili sembrano essere le sanzioni interdittive in quanto sono più gravose rispetto alle prime, non foss’ altro per la possibilità di essere applicate in via preventiva-cautelare, e, in aggiunta, potrebbero imporre alla società colpita un costo che è funzione della sua immagine pubblica, la quale è spesso correlata con le dimensioni stesse dell’ impresa. Appare dunque esserci una relazione inversa fra certezza delle sanzioni e capacità di deterrenza, sia per quanto concerne la natura delle sanzioni interdittive sia per la discrezionalità che gli interpreti hanno nell’ applicazione della norma. A ciò si aggiunge che, inevitabilmente, gli elementi di garanzia propri del diritto penale tendono ad “alleggerire” la forza deterrente della disciplina legale.

Lo stesso può dirsi per quanto riguarda l’ introduzione dei sistemi di compliance i quali per loro natura non possono produrre effetti nel breve periodo e, comunque, costruiscono la loro efficacia attraverso un sistema di procedure endogene all’ impresa nelle cui elaborazione il giudice penale entra in maniera dinamica, direttamente o indirettamente, lungo tutto il loro processo di costruzione dei sistemi di autoregolamentazione.

I risultati di più lungo periodo dipendono da come gli interpreti utilizzeranno gli strumenti sanzionatori messi a loro disposizione. Molto dipenderà dalla capacità che essi avranno di riuscire a leggere la tipologia e la struttura economico societaria dell’ impresa cui viene imputato l’ illecito. Operazione prodromica alla efficiente definizione del quantum e del quomodo della sanzione applicabile.

A questo riguardo si può osservare che, da  una prima analisi, la dimensione societaria dalle imprese italiane non sembra generalmente favorire dinamiche virtuose di autoregolamentazione. Il modello è più adatto per imprese di dimensioni medio grandi. Sarebbe forse necessario riuscire a calibrare meglio la norma per evitare che le piccole imprese, le quali rientrano a tutti gli effetti fra i soggetti cui il decreto è rivolto, si facciano carico di costi per l’ adozione e per l’ elaborazione di sistemi standard di compliance che poi corrono il concreto rischio di rivelarsi privi d' effetto in sede giudiziaria ed anche inutili in quanto alla capacità dell’ impresa di valorizzare i flussi di informazioni che derivano proprio dall’elaborazione degli stessi.

 

 



[1] Il lavoro è frutto di una comune discussione preparata da una lunga attività di confronto e di letture “incrociate” che si avvertiva necessaria a far convergere linguaggi e sensibilità diverse. Ciononostante, trattandosi di argomento di matrice penalistica, vale anche per questa ricerca il principio personalistico della responsabilità individuale per gli errori. Sono così da attribuire a Gabriele Marra la stesura dei §§ 1, 2 e 3 e a Paolo Polidori quella dei §§ 4, 5 e 6.  L’articolo è in corso di pubblicazione nella Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia.

[2] Professore associato di Diritto penale Università di Urbino “Carlo Bo”

[3] Professore associato di Scienza delle finanze Università di Urbino “Carlo Bo”

[4] Per un più ampio approfondimento sul punto, volendo, Ga. MARRA, Prevenzione mediante prganizzazione e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2009.

[5] La Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 1995; La Convenzione OSCE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 1997 e, infine, la Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli stati membri dell’ Unione. Volendo v. Ga. MARRA, Note a margine dell’ art. 6 D.lgs n. 3915 contenente una “delega la Governo per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, Indice penale, n. 2, 2000, 827 ss.

[6] G. ROSSI, Il conflitto epidemico, Milano, 2003, 139; P. SFAMENI, La responsabilità delle persone giuridiche: fattispecie e disciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, (a cura di) A. Alessandri, Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002; N. IRTI, Due temi di governo societario (responsabilità “amministrativa” – codici di autodisciplina, GC, 2003, 693 ss.  Utili notazioni comparatistiche sono fornite da C. De MAGLIE, L’ etica e il mercato, Milano, 2002, 137 ss.

[7] F. BRICOLA, Il costo del principio “societas delinquere non potest” nell’ attuale dimensione del fenomeno societario, Riv. it. dir. proc. pen., 1970, 951 ss. Per un quadro generale cfr. C. De MAGLIE, L’ etica e il mercato, cit., 303 ss.

[8] C. E. PALIERO, Il D.lgs 8 giugno 2011, n. 231: da ora in poi societas delinquere (et puniri) potest, Corr. Giur., 2001, 845 ss.

[9] D. PULITANO’, La responsabilità «da reato» degli enti collettivi, Aa.Vv. Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, Roma, 2003, 9 s

[10] Si tratta di una scelta che determina una forma appariscente di “delegated enforcement” meritevole della più attenta considerazione, quantomeno per le sue implicazioni costituzionali. L. K. GRIFFIN, Compelled Cooperation and the New Corporate criminal procedure, Resarch paper, 2007, www.ssrn.com, 3 ss. V. però K. VOLK, La responsabilità penale di enti collettivi nell’ ordinamento tedesco, Aa.Vv. Societas punir ipotest, Padova, 2003, 189 ss ma spec. 199 s.

[11] Una preoccupazione registrata anche dall’ esterno da chi ha paventato i rischi di “una ingerenza della magistratura nel sistema economico nazionale” – A. PALMIERI, Modelli organizzativi, diligenza e “colpa” amministrativa dell’ impresa, Dir.prat.soc., 2001, n.10, 9 –, che ha giocato un ruolo non marginale nella scelta di sottodimensionare la portata applicativa del D.lgs n. 231/01 rispetto quanto “imposto” dalla legge delega (l. n. 300/2000) e suggerito dalla ricerca criminologica. Sul punto, per una più articolata valutazione, G. De VERO, La responsabilità dell’ ente collettivo dipendente da reato: criteri di imputazione e qualificazione giuridica, Aa.Vv. Responsabilità degli enti collettivi per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, 2002, 7 ss.

[12] S. GIAVAZZI, La responsabilità penale delle persone giuridiche: dieci anni di esperienza francese, Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 593 ss ma spec. 596 s.

[13] C. PEDRAZZI, Corporate governance e posizioni di garanzia, Studi in onore di Guido Rossi, Milano, vol. II, 2002, 1367 ss.

[14] D’ ora in avanti le citazioni di disposizioni legislative prive di ulteriori riferimenti si intendono riferite al D.lgs n. 231/01.

[15] M. POLINSKY / S. SHAVELL, Theory of Public Enforcement of Law, Handbook of Law and Economics, 2007. Sul tema dell’analisi economica dei comportamenti criminali si veda anche E. EIDE, Economics of criminal behaviour, (a cura di) B. Bouckaert / G. de Geest, Encyclopedia of law and economics, Aldershot, 1999; P. SCHMIDT / A. WITTE, An economic analysis of crime and justice: theory, methods and applications, New York, 1984. Mentre per una analisi economica più orientata allo studio del crimine organizzato e delle economie criminali si veda G. FIORENTINI,  Organized crime and illegal markets, (a cura di) B. Bouckaert / G. de Geest, cit.; S. GIACOLMELLI / G. RODANO, Denaro sporco, Roma, 2001.

[16] G. MARINUCCI, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965.

[17] Corte cost., n. 312/1996. Critici D. PULITANO’, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 435 s: G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche. Costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 29 ss ma spec. 31 ss. Si vedano, però, anche le considerazioni proposte da L. MONTUSCHI, Corte costituzionale e gli standard di sicurezza del lavoro, Arg. dir. lav., 2006, 3 ss.

[18] G. ROSSI, Il conflitto epidemico, cit., 72 ss.

[19] Un quadro generale in F. CAFAGGI, Un diritto privato europeo della regolazione?, Pol.dir., 2004, 205 ss;  Id., La responsabilità dei regolatori privati. Tra mercati finanziari e servizi professionali, Mercato concorrenza e regole, n. 1, 2006, 1 ss.

[20] U. BECK, Società del rischio, trad. it., Milano, 2000, 31.

[21] Volendo Ga. MARRA, La responsabilità ex delicto delle persone giuridiche. Il modello italiano, Jurisprudencia Argentina, 2006, 43 ss.

[22] Fondamentale F. STELLA, Giustizia e modernità, Milano, 20033. V. anche D. A. KAHAN, The Theory of Value Dilemma. A Critique of Economic Analisys of Criminal Law, Yale Law School, Research papers, 1999, www.ssrn.com. Utili indicazioni sono fornite dalle osservazioni sviluppate, seppur in un’ ottica di analisi non coincidente, da M. PIETH, Multistakeholder Initiatives to Combat Money Laundering and Bribery, Basel Institute on Governance working papers, n. 2, 2006, ed ivi ulteriori riferimenti.

[23] F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., 3 ss; 387 ss; K. LÜDERSSEN, Il declino del diritto penale, Milano, 2005.

[24] Per tutti G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche, cit.,  29 ss.

[25] A. BONDI, Problematiche dell’ aggiotaggio, Studi urbinati, 2001, 69 ss;  M. DONINI, Il volto attuale dell’ illecito penale, Milano, 2004; C.E. PALIERO, L’ economia della penale (un work in progress), Riv. it  dir. proc. pen., 2005, 1336 ss.

[26] J. ARLEN, The Potentially Perverse Effect of Corporate Criminal liability, Journal of legal studies, 1994, 833

[27] S. GIAVAZZI, La responsabilità penale delle persone giuridiche nell’ ordinamento francese. Dieci anni di esperienza, Riv.trim.dir.pen.econ, 2005.

[28] Sul tema A. BONDI, Diritto penale ed analisi economica. Prove di dialogo, (dattiloscritto in corso di pubblicazione), 4 ss. Per una analisi della “schematicità” ma anche della ricchezza di modelli economici diversi applicati al crimine si veda Economic models of crime, International Economic Riview numero monografico, 2004.

[29] G. MARINUCCI, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche, cit.,  34 ss.

[30] F. DENOZZA, Norme efficienti,  Milano, 2002.

[31] R. POSNER, Economic Analisys of Law, Boston, 20036, 215 ss.

[32] C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Bologna, 1996.

[33] L.  MONACO, Prospettive della “idea dello scopo” nel diritto penale, Milano, 1984.

[34] V.S. KAHANNA, Corporate Criminal Liability: what purpuose does it serve, Harv. L. Rev., 1996, 1477 ss; B. HAFFKE, Die Legitimation des staatlichen Strafe zwischen Effizienz, Freiheitsverbügung und Symbolik, FS C. Roxin, Berlin et a., 2001, 955 ss; A. ALESSANDRI, Attività d’ impresa e responsabilità penale, Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 537 ss; C.E. PALIERO, L’ economia della pena, cit., 1399 ss.

[35] Anche se tale convinzione non verrà approfonditamente argomentata in questa sede.

[36] Citando un classico: “il […] metro per apprezzare le leggi e i metodi della loro osservanza è di accertarsi se sono o meno efficienti per salvaguardare l’ordine sociale che mirano a preservare”; L. VON MISES, L’azione umana, trad. it., Torino, 1959.

[37] Per gli scopi di questo lavoro ci è sufficiente richiamare il legame esistente fra norme sociali e norme legali senza approfondire alcuna questione relativa alla direzione ed alla intensità nei nessi di causalità. Per una analisi dell’ampia letteratura sul tema delle Social Norms si veda E. RASMUSEN, Norms in law and economics, Handbook of law and economics, cit.; S. BOWLES, Endogenous preferences: the cultural consequences of markets and other economic institutions, Journal of Economic Literature, Vol. 36. Per un studio dei legami fra diritto e norme sociali R. COOTER, Three effects of social norms on law: expression, deterrance and internalization, Oregon Law Review, 79 (1), 2000 e nella particolare prospettiva suggerita dalla teoria dei giochi E. POSNER, Law and Social Norms, Harvard University Press, 2000.

[38] La definizione sull’ oggetto di studio dell’economia è di R. MYERSON, Nash equilibrium and the history of economic theory, Journal of Economic Literature, Vol. 37.1999, p. 1068.

[39] T. S. ULEN, Rational Choice Theory in Law and Economics, (eds) B. Bouckaert / Gerrit de Gest Encyclopedia of Law and Economics, vol. I, Cheltenham et al., 2000, 790 ss.

[40] Cfr., nel contesto di una critica a tutto campo all’ idea di una responsabilità penale delle società D. R. FISCHEL / A. O. SYKES, Corporate Crime, J. Leg. Stud., 1996, 319 ss.

[41] P. WITTIG, Der rationale Verbrecher. Der ökonomische Ansatz zur Erklärung kriminellen Verhaltens, Berlin, 1993, 51 ss.

[42] C. JOLLS / C. SUNSTEIN / R. THALER, A Behavioral Approach to Law and Economics, (eds) C. R. Sunstein, Behavioral Law & Economics, Cambridge, 2000, 13 ss. Si veda anche F. PARISI, Scuole e metodologie nell’ analisi economica del diritto, 2005, mimeo.

[43] C.E. PALIERO, L’ economia della pena, cit., 2005, 1385 ss

[44] C. JOLLS / C.R.SUNSTEIN / R. THALER, Theories and Tropes: A Reply to Posner and Kelman, Stan. L. Rev., 1998, 1593 ss.

[45] “Il comportamento rigorosamente tradizionale […] è assai sovente una specie di oscura reazione a stimoli abitudinari, che si svolge nel senso di una disposizione una volta acquistata”. Così M. WEBER, Economia e società. Vol.I, Teoria delle categorie sociologiche, Milano, 1986, 22. A questo proposito meritano però di essere segnalate le acquisizioni della moderna psicologia cognitiva dirette a sottolineare la presenza, anche in simili contesti, di  momenti di razionalità volta a promuovere la risoluzione del problema decisionale secondo il criterio dell’ interesse del decisore. Cfr., anche per i necessari richiami, D. Mc FADDEN, Razionalità per economisti, (a cura di) M. Motterlini e M. Piattelli Palmarini, Critica della ragione economica, Milano, 2005, 39 ss.

[46] Cfr. la  classica descrizione di E. H. SUTHERLAND, Il crimine dei colletti bianchi, Milano, 1990.

[47] C. E. PALIERO, L’ economia della pena (un work in progress), cit., 1380 ss.

[48] Per tutti G. BECKER, Crime and Punishment. An Economic Approach, Journal of Political Economy, 1968, 168 ss.

[49] D. Mc FADDEN, Razionalità per economisti, (a cura di) A. Motterlini / M. Piattelli Palmarini, Critica della ragione economica, cit., 65.

[50] M. MOTTERLINI / M. PIATTELLI PALMARINI, Galleria degli errori in economia, (a cura di) A. Motterlini / M. Piattelli Palmarini, Critica della ragione economica,  cit.,  236.

[51] D. KAHNEMANN, Mappe di razionalità. Indagine sui giudizi e le scelte intuitive, (a cura di) A. Motterlini / M. Piattelli Palmarini Critica della ragione economica, cit.,  2005, 126.

[52] D. KAHNEMANN / A. TVERSKY, Prospect Theory. An Analisis under Risk, Econometrica, n.47, 1979, 263 ss.

[53] M. ZANCHETTI, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, 84 ss; C. JOLLS, On Law Enforcement with Boundedly Rational Actors, Discussion papers, 2004, www.ssrn.com., 2 ss.

[54] D. C. LAGENVOORT, Organized Illusions: A Behavioural Theory of Why Corporations Mislead Stock Market Investors (and Cause other Social Harms), (eds) C. R. Sunstein, Behavioural Law & Economics, 2000 144 ss.

[55] W. KIP VISCUSI, Corporate Risk Analisys: A Reckless Act?, Stan. L. Rev., 2000, 547 ss.

[56] C.R.SUNSTEIN / D. SCHKADE / D. KAHNEMANN, Do people want optimal deterrence?, J. Legal Stud., 2000, 237 ss.

[57] J. BARON / M. SPRANCA, Protected values, Org. Behaviour and Human Decision Process, 1997, 1 ss

[58] C. R. SUNSTEIN, Moral Heuristics, working papers, 2003, www.ssrn.com.

[59] C. R. SUNSTEIN, Quanto rischiamo, Milano, 2004, 146

[60] J. S. MILL, Sulla libertà, trad. it., Milano, 1990, 24 s.

[61] Così, invece, L. HEINZERLING, Regulatory Costs of Mythic Proportions, Yale L. J., 1998, 1981 ss.

[62] C. E. PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, Riv. it. dir proc. pen., 1990, 431 ss.

[63] C. PIERGALLINI, I modelli di prevenzione del rischio-reato, Relazione al Workshop: La responsabilità da reato delle società e degli enti collettivi nel D.lgs n. 231/01: profili teorici-applicativi e progettazione dei modelli organizzativi, Jesi 11-12 maggio 2007, 3 (del dattiloscritto).

[64] In questa sede non si affronterà il tema, seppure di grande rilievo, della congruità del catalogo dei reati ascrivibili agli enti con il generale obiettivo di scongiurare derive “non virtuose” dei comportamenti d’ impresa. Ci si concentrerà solo sull’ analisi degli aspetti strutturali del modello. Merita però di essere segnalata la prevista estensione della responsabilità degli enti ai reati di omicidio e lesioni colpose commessi in violazione delle norme antinfortunistiche inizialmente contenuta nell’ articolo 1 lettera f) nr. 4 dello schema di disegno di legge recante: “Delega al Governo per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e per la riforma della salute e sicurezza sul lavoro” ed oggi consacrata dagli artt. 30 e 300 del D.lgs n.81/08. Si tratta infatti di un ampliamento di notevole significato quantitativo data la generalità dell’ impatto sul sistema economico e qualitativo per l’estensione a comportamenti illeciti non intenzionali. Non meno significativa appare la scelta, fatta propria da un recente disegno di legge, di estendere l’ ambito di applicazione della responsabilità da reato delle persone giuridiche al settore della criminalità ambientale. Per un commento “a prima lettura” cfr. C. E. PALIERO, Per ambiente e lavoro il rebus della colpa, Il Sole-24 Ore, 26 aprile 2007.

[65]  Cfr. le statunitensi Federal Sentencing Guidelines for Organizations (1991) dove l’ adozione di un “effective program to prevente and detect violations of law” costituisce semplice fattore attenuante la responsabilità dell’ ente. C. De MAGLIE, L’ etica e il mercato, cit., 64 ss. La recente modifica di molti punti delle linee guida riguardanti la commisurazione della pena nei confronti delle persone giuridiche, imposta dal Saarbanes-Oxley Act ed entrata in vigore il 1 novembre 2004, non ha intaccato questa scelta.

[66] Principio che, come ben chiarisce anche la Relazione al D.lgs n. 231/01, deve trovare applicazione anche in tutti i casi in cui la funzione punitiva viene esercitata ricorrendo a strumenti sanzionatori formalmente non penali.

[67] G. ROSSI, Le c.d. regole di corporate governance sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, Riv. soc., 2001, 6 ss; A. ALESSANDRI, Corporate Governance nelle società quotate. Riflessi penalistici e nuovi reati societari, Giur. comm., 2002, 559 ss;

[68] F. STELLA, La costruzione giuridica della scienza: sicurezza e salute negli ambienti di lavoro, Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 54 ss ma spec. 58 s.

[69] G. LUNGHINI, L’ idoneità e l’ efficace attuazione dei modelli organizzativi ex D.lgs 231/01, (a cura di) C. Monesi I modelli organizzativi ex D.lgs 231/01, Milano, 2005,  251 ss spec. 258 s.

[70] G. BECKER, Crime and punishment, cit., 177 s.

[71] C. PEDRAZZI, Codici etici e leggi dello Stato, Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, 1049

[72] J. ARLEN / R. KRAAKMAN, Controlling Corporate Misconduct: An Analisys of Corporate Liablity Regimes, New York L. Rev., 1997, 688 ss.

[73] A. ALESSANDRI, Presentazione, (a cura di) C. Monesi I modelli organizzativi ex D.lgs 231/01, cit., XXX ss; A. B. MILLER, What mkes Corporate Behave? An Analisys of Criminal and Civil Penalties under Environmental Law, Working paper, 2005, 10 ss.  www.ssrn.com.,

[74] C. De MAGLIE, L’ etica ed il mercato, cit., 32 ss; Note, The Good the Bad and their Corporate codes of Ethics, Harvard L. R., 2003, 2122 ss.

[75] G. ROSSI, Il conflitto epidemico, cit., 33 s; 138 ss; A. ALESSANDRI, Attività d’ impresa e responsabilità penale, Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 560 ss; L. E. RIBSTEIN, Market vs Regulatory Responses to Corporate Fraud: A Critique of Saarbanes-Oxley Act of 2002, Journal of Corporation Law, 2004,  3 ss.

[76] C. ESTLUND, Rebuilding the Law of the Workplace in an Era of Self-regulation, Columbia L. Rev., 2005, 320 ss. Più in generale K. D. KRAWIEC, Cosmetic Compliance and the Failure of Negotiated Justice, Research Paper, 2003, 9 ss.

[77] N. FOLLA, Le sanzioni pecuniarie, Aa.Vv. La responsabilità amministrativa degli enti, cit., 93.

[78] F. STELLA, Il mercato senza etica, C. De MAGLIE, L’ etica ed il mercato, cit., XII. Diff. R. POSNER, Economic Analisys of Law, Boston, 19863, 205 ss.

[79] C. De MAGLIE, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’ impresa. Crisi ed innovazioni nel diritto penale statunitense, Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 88 ss; J. C. COFFEE Jr., “No Soul to Damn. No Body to Kick”: An Unscandalized Inquiry into the Problem of Corporate Punishment, Michigan Law Rev. 1981, 389.

[80] S. SEMINARA, Disposizioni comuni agli illeciti di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, Dir. pen. proc., 2006, 12 ss.

[81] L. FORNARI, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale “moderno”, Padova, 1997, 253.

[82] S. GIAVAZZI, Le sanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza di condanna, Aa.Vv. La responsabilità amministrativa degli enti, 119.

[83] Secondo l’analisi economica del diritto lo schema ottimo di deterrenza si ha quando l’utilità che si ottiene dal commettere l’illecito è minore od uguale alla sanzione attesa (la sanzione moltiplicata per la probabilità di essere irrogata). In questa parte del lavoro l’attenzione è volutamente posta sulla forza deterrente della norma e sulla sua capacità di influenzare il rischio reato tralasciando aspetti punitivi che rimangono però molto importanti in un’ottica di efficacia di lungo periodo del provvedimento. Sugli aspetti di deterrenza delle sanzioni monetarie e non si veda M. POLINSKY / S. SHAVELL, The Theory of Public Enforcement of Law, cit.; E. EIDE, Economics of criminal behaviour, cit..

[84] C. PIERGALLINI, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, (a cura di) A. Giarda / S. Seminara, I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, 66.

[85] C. RUGA RIVA, Il premio per la collaborazione processuale, Milano, 2002.

[86] M. CERESA GASTALDO, Il “processo alle società” nel D.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, Torino, 2002, 37.

[87] H. RAIFFA,  L’ arte e la scienza della negoziazione, Bergamo, 2006.

[88] Cass. 30 gennaio 2006, n. 3615.

[89] “Trattandosi di illecito amministrativo, per la quale non sussiste l’ esigenza di controllare il corretto esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero” l’ applicazione delle ordinarie regole processuali “apparirebbe del tutto fuori luogo”. Cosi Relazione al decreto legislativo 8 giungo 2001 n. 231, 492.

[90] In senso critico P. FERRUA Il processo penale contro gli enti: incoerenze e anomalie nelle regole di accertamento, Aa.Vv. Responsabilità degli enti collettivi per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, 2002, 224 ss.

[91] Cfr. Department of Justice, Principles of Federal Prosecution of Business Organizations, www.usdoj.gov e le notazioni di J.A.E. VERVAELE, La responsabilità penale della persona giuridica nei paesi bassi. Storia e sviluppi recenti, Societas puniri potest, Padova, 2003, 135. Volendo v. anche Ga. MARRA, La responsabilità ex delicto, cit., 47 ss.

[92] D. E. MURPHY, The Federal Sentencing Guidelines for Organizations: A Decade of Promoting Compliance and Ethics, 87, Iowa L. Rev., 2002, 697. Non sembra affatto trascurabile, anche in ragione di quanto si dirà più oltre in merito alla necessità di informazioni, che la rilevazione statistica dell’ impatto delle Federal Sentencing Guidelines for Organizations sia una componente essenziale della strategia di contrasto al crimine di impresa.

[93] Cfr. La responsabilità amministrativa delle società. Un’ indagine sull’ adozione del modello organizzativo previsto dal D.lgs 231/2001 nelle società quotate, studio condotto all’ interno del Master in Auditing e controllo interno dell’ Università di Pisa e il Comitato d’ area D.lgs. 231 della Associazione italiana Internal Auditor, 2004. [abbr. Indagine MACI / AIIA]

[94] Un ampio quadro “esperenziale” si legge in (a cura di) C. Monesi I modelli organizzativi ex D.lgs 231/01, cit., spec. 309 ss.

[95] C. MONESI, I modelli organizzativi in rete: le società dello S & P MIB, (a cura di) Id., I modelli organizzativi, cit., 455 ss.

[96]Nell’ Indagine MACI / AIIA il campione era rappresentato da 97 società quotate. Lo studio è stato condotto con la tecnica del questionario e dell’ intervista strutturata. Va sottolineato che il dato complessivo aggrega il 59% delle imprese che dichiarano di aver già adottato il modello di organizzazione, gestione e controllo ex D.lgs 231 e il 25 % di quelle che hanno risposto di aver avviato il processo di definizione del modello.

[97] L’ indagine MACI / AIIA mette in luce anche che il 95 % delle imprese studiate ha osservato un medesimo schema nella predisposizione del modello. Tale procedimento può essere sintetizzato nei seguenti passaggi: 1) individuazione delle attività aziendali potenzialmente esposte al rischio 231; 2) rilevazione e analisi dei controlli esistenti; 3) individuazioni di eventuali carenze; 4) definizione delle azioni necessarie a colmare i gap rilevati e adeguamento dei controlli in essere. Sembra così profilarsi, come modello di riferimento un approccio caratterizzato in prospettiva risk based, che relega sullo sfondo modelli ispirati all’ opposto principio dei c.d. rule based standard.

[98] L’ Indagine MACI / AIIA informa del ruolo fondamentale giocato, comunque, dai codici di comportamento (art. 6 comma 2 D.lgs 231/01) nella predisposizione del modello. Tutte le 97 società indagata hanno infatti dichiarato di aver predisposto il sistema del controllo interno adeguandosi a quanto indicato dalle associazioni di categoria di appartenenza. Emerge così chiara l’ importanza che rivestono tali modelli, in quanto predisposti da soggetti che risultano essere i principali interlocutori dei destinatari finali (società) degli obblighi di controllo interno, al fine di riuscire a garantire l’ efficacia preventiva della strategia di contrasto prevista dal D.lgs. 231/01. Non meno importante il loro ruolo nella fissazione, in sede giudiziale, dei criteri di imputazione.  F. GIUNTA, Attività bancaria e responsabilità ex crimine egli enti collettivi, Riv. trim. dir. pen. econ., 2004, 16 ss.  I modelli di comportamento di Confindustria ed Abi si leggono in Aa.Vv. Societas puniri potest, Padova, 2003, 323 ss. Per un commento E. BUSSON, Il commento, ivi, 389 ss.