Cassazione Penale, Sez. 4, 15 aprile 2020, n. 12181 - Infortunio mortale del lavoratore straniero durante la pulizia della "giostra" dell'impianto di schiumatura delle selle


Presidente: FUMU GIACOMO Relatore: DI SALVO EMANUELE Data Udienza: 05/03/2020

 

 

 

Fatto

 

l. B.B. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 589 cod. pen., perché, nella qualità di Vicepresidente del Consiglio di amministrazione della Selle Royal s.p.a., per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (artt. 28, 29, 36, comma 2, lett. a), 37 comma 1 e 71, D.lgs. 81/2008), non effettuando un'adeguata valutazione dei rischi derivanti dalla vicinanza tra organi fissi e mobili della cosiddetta "giostra" dell'impianto di schiumatura delle selle; non approntando un'idonea grigliatura della zona in cui detti organi avevano una distanza di soli 11 cm tra loro; non curando che le fasi di lavoro e della pulizia della "giostra" fossero organizzate in modo da evitarne la contestualità; non curando che i lavoratori stranieri ricevessero un'adeguata informazione, in una lingua da loro conosciuta, in ordine ai rischi specifici relativi alle loro mansioni e alle eventuali disposizioni aziendali in materia, cagionava la morte di R.E.M., dipendente incaricato della pulizia della "giostra", che, durante le operazioni cui era addetto, rimaneva schiacciato tra gli organi in movimento del macchinario ed ivi decedeva.
2. La ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla responsabilità, poiché gli apparati argomentativi delle pronunce di merito sono discordi e la Corte d'appello ha omesso di rilevare la presenza di un sistema di sicurezza costituito da un cancello di accesso al macchinario, la cui apertura comportava il blocco automatico della "giostra", sì da impedire il contestuale svolgimento delle operazioni di lavorazione e di quelle di pulizia. Ciò che costituisce di per sé prova che tale specifico rischio fosse stato valutato. Gli stessi accertatori della ASL hanno riscontrato che la procedura aziendale predisposta al riguardo prevedeva la successione delle predette operazioni e non già la loro sovrapposizione. I molteplici presidi a tutela dell'incolumità fisica dei lavoratori, presenti in azienda, sono stati poi descritti dai testi escussi in dibattimento e dal Consulente tecnico della difesa, prof. Atzori. Erroneamente la Corte ha tacciato di irrilevanza nonché di inattendibilità le deposizioni dei testi a difesa - e, in particolare, quella del P., che era un conoscitore dei sistemi di sicurezza adottati dall'azienda -, limitandosi ad affermare apoditticamente "l'evidente interesse dei testi a sostenere le tesi difensive", omettendo di svolgere una analisi critica di tali dichiarazioni. Così come il Giudice a quo ha ingiustificatamente negato efficacia probatoria alle prove contrarie, assunte nel corso del dibattimento e desumibili dalla relazione del consulente tecnico della difesa, ing. Atzori, in cui veniva evidenziato come il macchinario fosse dotato di 13 barriere di sicurezza con microinterruttore, una delle quali situata, ad altezza d'uomo, proprio nel punto in cui si verificò l'incidente, limitandosi ad affermare sbrigativamente la mancanza di prova in ordine all'effettività di tali presidi al momento dell'Infortunio. Viceversa, il Giudice a quo avrebbe dovuto procedere ad una rinnovazione, quantomeno parziale, dell'istruttoria. Nessun elemento di riscontro supporta comunque l'asserto inerente alla modificazione del macchinario in epoca successiva all'Infortunio, tanto più che la deposizione dello stesso Consulente tecnico dell'accusa, ing. Zaumer, è laconica e contraddittoria e non offre alcuna certezza in ordine all'effettivo stato del macchinario all'epoca dell'infortunio.
2.1. La Corte d'appello omette poi di valutare l'imprevedibilità della condotta del R.E.M., il quale, dopo aver raggiunto la zona di lavoro attraverso un tortuoso passaggio in un pertugio ed il superamento di molteplici ostacoli, inserì deliberatamente la testa nel ridottissimo spazio, di 10-15 cm, esistente tra la centralina elettrica e la macchina in rotazione, in modo pericoloso, con condotta tale da interrompere il nesso causale. E' intrinsecamente contraddittoria l'affermazione, formulata dalla Corte d'appello, secondo cui questo comportamento costituiva una "prassi non eccezionale", tanto più che molte dichiarazioni testimoniali, come quella del G.e del L., smentiscono tale assunto. È stato poi evidenziato dal consulente della difesa che l'infortunio non è eziologicamente riconducibile alla mancanza di una griglia che impedisse l'accesso secondario al macchinario, poiché quest'ultima non avrebbe avuto alcuna efficacia impeditiva dell'infortunio, non essendo in alcun modo prevedibile che un operaio si potesse trovare con la testa a 70 cm, completamente addossato alla macchina in rotazione. Tanto più che la persona offesa non aveva alcuna necessità di procedere alle operazioni di rimozione della segatura, che doveva rimanere in loco.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva "tenuta", sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice, di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).
2. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che il R.E.M. si era recato nella zona della "giostra", che, essendo sporca, necessitava del suo intervento. Per giungere in loco era passato attraverso quello che l'operante di polizia giudiziaria intervenuto aveva definito un "pertugio", dove "poteva passare una persona sola". L'operaio si era comportato in modo analogo in altre occasioni, come si desume dalle dichiarazioni del teste G., in quanto quella era la strada diretta per raggiungere la postazione da pulire, mentre, passando per la porta munita di sistema di allarme, avrebbe allungato il percorso di 3 metri ed avrebbe inoltre provocato il blocco della contemporanea attività di caricamento delle copertine. Che poi non costituisse un fatto eccezionale effettuare i lavori di pulizia anche con la macchina avviata è stato confermato - specifica la Corte d'appello - anche da chi svolgeva abitualmente quei lavori e cioè dal teste presente Cristopher R., che alla domanda specifica rivoltagli aveva risposto: "Anche gli altri sabati succedeva così". Risulta così assodato - argomenta il giudice a quo - che i dirigenti della società si disinteressavano completamente del modo in cui veniva svolto in concreto il lavoro di pulizia, atteso che tutta l'operazione non era seguita neppure dal preposto del reparto, poiché quest'ultimo quella mattina era assente. Accertato dunque che "succedeva" che lavori di pulizia e lavori di carico delle copertine si sovrapponessero, va sottolineata - specifica la Corte di merito - la pericolosità che ciò comportava per la sicurezza di chi doveva compiere i lavori di pulizia, in quanto l'addetto non solo doveva operare anche in un punto in cui lo spazio si restringeva a soli 11 cm ma doveva stare attento anche agli spostamenti della macchina. Il R.E.M. venne dunque sorpreso dal suindicato movimento, rimanendo con la testa schiacciata tra l'elemento fisso e quello rotante. Di qui la conclusione alla quale è pervenuto il giudice di secondo grado, secondo cui il decesso dell'operaio è stato causato da una serie di carenze tutte addebitabili ad omissioni colpose del datore di lavoro. Quest'ultimo, infatti, non curò con adeguata organizzazione che le operazioni di pulizia non fossero concomitanti con quelle di caricamento delle copertine; non valutò il rischio derivante da tale pericolosa sovrapposizione per chi effettuava quelle operazioni operando in spazi ristretti tra organi ravvicinati fissi e rotanti; non impedì, di conseguenza, l'accesso incontrollato dell'operaio in una zona di lavoro divenuta in tal modo pericolosa. Né indicazioni in senso contrario erano desumibili dalle deposizioni dei testi della difesa, i quali si erano limitati a chiarire come e quando si sarebbero dovute fare le pulizie ma nulla avevano potuto riferire di ciò che era avvenuto quella mattina, dato che alcuni non erano presenti e il L. era passato davanti alla "giostra" una sola volta, quando i dipendenti erano in pausa. L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario concettuale in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
3. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo sono d'altronde del tutto conformi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori ( Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161).
4. Infondata è anche la doglianza inerente all'interruzione del nesso causale, giacché quest'ultima, nella sequenza fattuale descritta nella motivazione della sentenza impugnata, non può certamente essere ravvisata. L'operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento negligente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). L'interruzione del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez. 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202). Nel caso di specie, dalla motivazione della sentenza impugnata risulta come l'operazione effettuata, anche laddove la si voglia connotare in termini di imprudenza e imperizia, rientrasse appieno nelle mansioni del lavoratore e fosse dettata da precise esigenze operative, connesse all'accesso nella zona da pulire e all'espletamento delle operazioni di pulizia. D'altronde, il giudice a quo, con motivazione del tutto congrua, ha sottolineato come l'imputata non avesse nominato un responsabile per la prevenzione competente, dotandolo dei relativi poteri di spesa, né avesse stabilito una procedura controllata che garantisse l'incolumità degli addetti alle pulizie, impegnati ad operare nelle anzidette pericolose condizioni; né avesse disposto la chiusura, con una griglia, del pertugio; né avesse individuato modalità che ponessero il capo macchina in condizione di avviare la fase di carico delle copertine in assoluta sicurezza, come poi avvenne dopo l'infortunio, allorché venne ottemperato, in pochi giorni, a tutte le prescrizioni dello SPISAL.
5. Il ricorso va dunque rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 5-3-2020.