Cassazione Penale, Sez. 4, 15 aprile 2020, n. 12174 - Caduta dall'alto durante la preparazione e il montaggio di un impianto fotovoltaico. Annullamento della sentenza in appello in accoglimento del ricorso delle parti civili
"In caso di annullamento della sentenza di appello, con la quale l’imputato assolto in primo grado con sentenza divenuta irrevocabile sia condannato ai soli effetti civili, in accoglimento del gravame proposto dalla parte civile, per riscontrata violazione delle regole del giusto processo in ragione della mancata rinnovazione dell’assunzione di prove dichiarative decisive, il rinvio per nuovo giudizio va disposto, sia pure ai soli effetti civili, dinnanzi al giudice penale, il quale si uniformerà al principio di diritto formulato nella sentenza di annullamento".
Presidente: BRICCHETTI RENATO GIUSEPPE Relatore: CAPPELLO GABRIELLA Data Udienza: 26/02/2020
Fatto
1. La Corte d'appello di Brescia ha riformato la sentenza del Tribunale cittadino, con la quale erano stati condannati a pena sospesa e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili Paolo P., Rossana P. e INAIL - per il reato di lesioni personali colpose gravi, in relazione all'infortunio sul lavoro occorso a Paolo P. - G. Ivan, nella qualità di legale rappresentante di un'impresa individuale in sub-appalto e datore di lavoro dell'infortunato e Ezio I., nella qualità di amministratore della DERIM s.r.l., affidataria dei lavori commissionati dalla F.Ili P. s.n.c, assolti i legali rappresentanti di quest'ultima, vale a dire gli odierni ricorrenti Roberto P. e Piergiorgio P. e - in overturning rispetto al verdetto assolutorio di primo grado - ha dichiarato anche questi ultimi civilmente responsabili del reato loro ascritto, condannandoli al risarcimento dei danni in favore delle parti civili appellanti, con la provvisionale di cui al dispositivo.
L'infortunio per cui è processo è avvenuto a seguito della caduta dall'alto del lavoratore durante la preparazione e il montaggio di un impianto fotovoltaico sulla copertura di un capannone industriale di proprietà della F.Ili P. s.n.c., operazioni non precedute dall'accertamento delle condizioni del luogo ove l'impianto doveva essere collocato, rivelatosi privo della necessaria resistenza al sostegno di persone, ma anche del materiale con cui era stata realizzata la copertura, già dichiarata non pedonabile nel certificato di idoneità tecnica relativo alla costruzione.
2. Per quanto qui d'interesse, agli odierni ricorrenti si è contestata la violazione dell'art. 90 commi 3 e 4 del d.lgs. 81 del 2008, per non avere, nella qualità di committenti dell'opera, nominato il coordinatore per la progettazione e il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, in un caso di rischio interferenziale, stante la presenza di più imprese nel medesimo cantiere, condotta omissiva dalla quale era dipesa la mancata adozione del piano di sicurezza e coordinamento (PSC), contenente le misure necessarie per fronteggiare il pericolo derivante dalla necessità di operare su una copertura non pedonabile e la mancata previsione e prevenzione del rischio, mediante l'adozione di misure tecniche e organizzative adeguate (collettive e individuali), compresa la sospensione dei lavori in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato.
I lavori erano stati appaltati dalla F.lli P. s.n.c. alla DERIM s.r.l. che, a sua volta, li aveva sub-appaltati alla COMITALF ENERGY s.r.l., con ulteriore sub-appalto delle singole lavorazioni da parte di quest'ultima ad altre società, tra le quali la ditta individuale LINEA ELETTRICA di Ivan G., alle cui dipendenze lavorava la vittima.
3. Avverso la sentenza della Corte d'appello hanno proposto ricorsi, con separati atti e difensori, Piergiorgio P. e Roberto P.. (M
3.1. La difesa di Piergiorgio P. ha formulato tre motivi.
Con il primo, ha dedotto vizio della motivazione per avere la Corte bresciana ribaltato la decisione assolutoria di primo grado senza procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa dalla stessa Corte ritenuta decisiva e, in ogni caso, senza motivazione rafforzata.
Richiamati gli arresti giurisprudenziali in materia che hanno dato attuazione ai principi di matrice convenzionale, la difesa ha contestato l'affermazione secondo cui il ribaltamento sarebbe frutto della correzione di un errore di diritto. La Corte territoriale ha fondato la decisione di condanna sulla scorta di una prova dichiarativa (la testimonianza del C., dipendente COMITALF) definita elemento utile a sorreggere la riforma del verdetto assolutorio. In ogni caso, oltre a contravvenire all'obbligo di procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, i giudici d'appello non hanno reso una motivazione rafforzata nel senso indicato dall'indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, travisando addirittura il contenuto della prova orale sopra richiamata, atteso che il C. mai aveva affermato che i fratelli P. fossero a conoscenza dei sub-appalti.
Sotto altro profilo, si censura il fatto che la Corte di merito non ha motivato in ordine alla posizione di garante di Piergiorgio P., rimasto all'oscuro dell'inizio dei lavori, disposti su iniziativa del solo fratello Roberto. L'imputato era rimasto estraneo all'intera vicenda all'esame e solo Roberto P. aveva avuto contatti con la DERIM s.r.l. e consegnato a I. la certificazione tecnica di non pedonabilità del tetto.
Con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto vizio della motivazione e violazione di legge, con riferimento alla valutazione della responsabilità personale, rispetto alla quale assume che l'errore di diritto ravvisato dalla Corte d'appello di Brescia circa il "ruolo" di committente non esimeva quel giudice dall'obbligo di spiegare in cosa esso fosse consistito quanto a tale imputato, avendolo viceversa astrattamente desunto dalla mera qualità di socio rappresentante legale della società di persone proprietaria dell'immobile.
La qualità di committente, secondo gli assunti difensivi, sarebbe stata tratta dalla stipula di un contratto che, tuttavia, era stato sottoscritto solo da uno dei titolari della società di persone, senza una delibera preliminare congiunta, né una delega esclusiva in capo al contraente. Nulla quel giudice ha motivato in ordine alla effettiva incidenza della condotta di Piergiorgio P. nella eziologia dell'evento, accertamento necessario e doveroso, soprattutto a fronte di una pronuncia assolutoria che aveva accertato che il ricorrente non aveva stipulato il contratto con la DERIM, né inteso realizzare un impianto fotovoltaico e mai era entrato in contatto con I. della DERIM o con COMITALF, senza neppure essere a conoscenza della iniziativa del fratello Roberto.
Con il terzo motivo, infine, la difesa ha dedotto vizio della motivazione, rilevandone l'intrinseca contraddittorietà laddove la Corte bresciana, nell'esaminare l'appello interposto nell'interesse dell'imputato I., ha ritenuto condivisibili gli assunti sui quali il Tribunale aveva fondato la responsabilità di costui, vero destinatario degli obblighi di cui all'art. 90 comma 3 e 4 d.lgs. 81 del 2008 e soggetto che aveva consegnato al Co., capo cantiere della COMITALF, il certificato tecnico di non pedonabilità del tetto, a sua volta consegnatogli da Roberto P.. Il Tribunale bresciano aveva stabilito che il vero committente dei lavori era I., tenuto pertanto a nominare il coordinatore di cui all'art. 90 T.U. Sicurezza. Gli argomenti del Tribunale sono stati accolti dalla Corte d'appello che, tuttavia, non ha esposto le ragioni a sostegno della divergente conclusione secondo cui i committenti responsabili erano anche i fratelli P..
3.2. La difesa di Roberto P. ha formulato tre motivi che sono in larga parte sovrapponibili ai corrispondenti formulati nell'interesse di Piergiorgio P. e ad essi si rinvia per comodità espositiva, fatte salve alcune precisazioni riferibili specificamente a questo ricorrente.
Questa difesa, in particolare, ha rilevato che Roberto P., unico firmatario del contratto con DERIM, non era stato informato per iscritto dall'appaltatrice del sub-appalto dalla stessa stipulato, né aveva avuto aliunde conoscenza di tale circostanza. Durante il sopralluogo preliminare sul cantiere, infatti, I. era stato accompagnato da Co. della COMITALF, ma costui gli era stato presentato come inviato della stessa DERIM, senza che fosse speso il nome di COMITALF.
Né tale circostanza potrebbe dirsi acclarata alla stregua della prova orale valorizzata dalla Corte territoriale: il teste C., infatti, aveva affermato di non sapere se il nome della COMITALF fosse stato fatto durante quel sopralluogo. Anche questa difesa lamenta la mancata valutazione in concreto del ruolo riconosciuto solo astrattamente in capo al ricorrente, tenuto conto che il Tribunale aveva escluso omissioni addebitabili al predetto, avendo accertato che costui aveva consegnato allo I. il documento attestante la non pedonabilità delle onduline, documento che lo I., a sua volta, non aveva messo a disposizione della sub-appaltante COMITALF. Inoltre, il P. era all'oscuro delle altre imprese coinvolte nei lavori appaltati e l'infortunio era avvenuto il giorno in cui i lavori ebbero inizio, assente il P., ignaro di ciò.
Diritto
1. I ricorsi vanno accolti nei termini che seguono.
2. I fratelli P. sono stati ritenuti responsabili del fatto-reato nella qualità di committenti di un'opera da realizzarsi in un cantiere ove erano impegnati per avere omesso di designare un coordinatore per la progettazione e per la esecuzione dei lavori, in violazione di un obbligo imposto dalla legge anche in caso di presenza non contemporanea di più imprese (cfr. commi 3 e 4 del'art. 90 del d.lgs. 81 del 2008).
3. Il Tribunale, nel valutare singolarmente la posizione di ciascuno dei soggetti coinvolti nella catena organizzativa del lavoro nell'ambito della quale si era verificato l'infortunio, aveva accolto le conclusioni del pubblico ministero e ritenuto, in particolare, l'insussistenza di profili di responsabilità in capo a Piergiorgio P., sia perché estraneo alla decisione di installare sul tetto del capannone, sede societaria, un impianto fotovoltaico, ma anche perché costui era stato a lungo assente dai luoghi durante l'arco temporale in cui si verificarono i fatti.
Quanto alla posizione di Roberto P., quel giudice aveva escluso che egli fosse stato consapevole della compresenza in cantiere di più imprese, contestuale o successiva, e che tale previsione fosse inesigibile, atteso che la DERIM non aveva notificato alla F.lli P. l'evenienza, né chiesto alcuna autorizzazione sul punto, avendo anzi assicurato l'esatto contrario durante le trattative condotte con il P..
Alla luce delle testimonianze C. e B., poi, il Tribunale aveva ritenuto confermata la versione dei fatti offerta dagli imputati Roberto P. e Co., quest'ultimo amministratore e capo cantiere COMITALF, a mente della quale costoro non avevano mai avuto rapporti diretti e il secondo era stato presentato al primo come inviato della DERIM.
Tale informazione non era stata data neppure informalmente, né erano ravvisabili altri profili di negligenza, essendo stato accertato che Roberto P. aveva consegnato allo I. il documento che attestava in maniera inequivocabile che il tetto non era calpestabile e che il giorno in cui si verificò l'infortunio non era stato neppure presente nel cantiere.
In conclusione, quel giudice ha ritenuto che l'obbligo di nominare il coordinatore di cui al citato art. 90 incombesse solo in capo a Ezio I., unico soggetto che aveva affidato l'incarico a COMITALF ENERGY, era a conoscenza della compresenza, anche non contemporanea, di più imprese nel cantiere e si era concretamente ingerito nelle attività sub-appaltate.
A fronte di tali argomentate conclusioni, la Corte d'appello ha ravvisato un errore di diritto nella circostanza che la responsabilità degli odierni ricorrenti era stata esclusa dal Tribunale solo in ragione della errata valutazione del loro ruolo nella vicenda che, secondo il giudice d'appello, emergeva invece pacificamente dagli atti.
Questo il ragionamento svolto dai giudici distrettuali: i P. erano soci, legali rappresentanti - con pari poteri - della stessa società di persone; il lavoro conferito a terzi riguardava un bene dell'ente; era irrilevante che Roberto P. avesse svolto un ruolo maggiore nella contrattazione con lo I., atteso che l'incarico era stato conferito in nome della società; così come irrilevante era l'eventuale "distrazione" del fratello Piergiorgio, riconducibile ad altre incombenze aziendali; entrambi dovevano ritenersi edotti dei lavori, trattandosi di opere di straordinaria amministrazione; la firma da parte di uno dei soci implicava una delibera preliminare congiunta con l'altro, il quale era parimenti responsabile e titolare della relativa posizione di garanzia, in difetto di una delega per la sicurezza sul lavoro in capo al solo Roberto P..
In definitiva, per i giudici d'appello, i due P. non potevano invocare l'ignoranza della compresenza di più imprese nel cantiere, perché sugli stessi incombevano tassativi obblighi, questi sì del tutto ignorati, derivanti da una "marcata situazione di rischio".
4. La riforma della Corte di merito impone la verifica, sollecitata dalle difese, dell'osservanza di due principi fondamentali del sistema processuale: il principio della motivazione rafforzata ed il principio della obbligatoria rinnovazione delle prove, in particolare di quelle dichiarative (art. 603, commi 3 e 3-bis, c.p.p.).
a) Sul principio della motivazione rafforzata non servono particolari considerazioni, essendo stato il medesimo ormai da anni recepito ed elaborato, come espressione delle fondamentali garanzie di cui agli artt. 24, comma 2°, e 111 Cost., dalle Sezioni unite di questa Corte. È sufficiente in proposito ricordare Sezioni unite 14 gennaio 2019, n. 14426, Pavan, che ha affermato, richiamandosi a Sezioni unite 12 luglio 2005, n. 33748, Marinino, che «il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, in modo da giustificare la riforma del provvedimento impugnato» (Rv. 231679).
b) Quanto al principio della obbligatoria rinnovazione delle prove, in particolare di quelle dichiarative, va riaffermato altro fondamentale principio elaborato dalle Sezioni unite (cfr. S.U. 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta, Rv. 267489), secondo cui «Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio».
In quella sede, la Corte ha osservato, alla luce della giurisprudenza di Strasburgo in tema di c.d. overturning, come si sia progressivamente consolidato l'orientamento secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente o in modo determinante su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a una rinnovata assunzione.
Si tratta di principio - afferma la Corte in maniera esplicita - fondato sul canone costituzionale del giusto processo «a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica».
Le Sezioni unite individuano il referente normativo nel comma 3 dell'art. 603 c.p.p., precisando che «anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio» previsto da tale deposizione.
Il principio in questione non subisce alcun condizionamento per il fatto che il legislatore, successivamente alla pronuncia, abbia introdotto il comma 3-bis dell'art. 603 e trasformato in disposizione legislativa un altro dei principi affermati da S.U. Dasgupta («il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'Imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai / ''///
sensi dell'art. 603, comma terzo, c.p.p., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado», Rv. 267487), individuandone il respiro costituzionale, in particolare il parametro interpretativo, nella previsione contenuta nell'art. 6, par. 3, lett. d) della CEDU, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU.
5. Quanto all'ambito di operatività della norma di nuovo conio anche al caso di overturning della prima pronuncia limitato ai soli effetti civili, va osservato che le Sezioni unite - chiamate a risolvere altra questione di diritto («Se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l'obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa») - hanno incidentalmente affrontato il tema specifico, ritenendo la natura eccezionale e di stretta interpretazione della norma (cfr., in motivazione, Sezioni Unite n. 1446 del 28/1/2019, Pavan).
La questione, ancora controversa [si è infatti affermato - anche successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite Pavan cit. - che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio (cfr. sez. 6 n. 12215 del 12/2/2019, Caprara Antonio, Rv. 275167 e sez. 5 n. 38082 del 4/4/2019, Clemente Marco, Rv. 276933)], è tuttavia del tutto irrilevante ai fini della presente decisione.
E' indubbia, infatti, la persistente vitalità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Dasgupta e, pertanto, che il vizio della motivazione derivi dalla violazione della regola di nuovo conio o dell'art. 603 comma 3, cod. proc. pen., nella lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata di cui sopra, è questione del tutto indifferente ai fini della verifica del rispetto del canone costituzionale del giusto processo.
6. Deve, quindi, affermarsi la fondatezza dei motivi formulati nell'interesse di entrambi i ricorrenti e riconoscersi il vizio di motivazione dedotto alla stregua dei principi di diritto sopra richiamati.
Il ragionamento esplicativo adottato per ribaltare la decisione favorevole agli odierni ricorrenti non ha corretto un errore di diritto, come pure preannunciato in sentenza, ma ha assunto i connotati di una difforme decisione di merito non sostenuta dalla confutazione dei più rilevanti argomenti della motivazione della sentenza appellata.
La Corte bresciana, senza dare alla decisione una nuova e compiuta struttura motivazionale a sostegno delle difformi conclusioni, si è limitata a prendere atto del ruolo dei due P. in seno alla società di persone proprietaria del capannone oggetto dell'intervento edilizio, ricorrendo, quanto al P. Piergiorgio, addirittura a considerazioni intrise di elementi marcatamente presuntivi.
La decisione, inoltre, si fonda su prove orali che denunciano il loro carattere di decisività nei termini sopra già chiariti.
Che si tratti, nella specie, di prove decisive si ricava, intanto, dal complessivo ragionamento esplicativo della Corte d'appello: quel giudice, infatti, nell'esporre le argomentazioni difensive formulate a sostegno dell'appello dell'imputato I., ha espressamente richiamato la testimonianza C., dipendente COMITALF, a mente della quale si sarebbe inteso dimostrare, ai fini della individuazione del soggetto sul quale gravava l'obbligo di nominare il coordinatore di cui all'art. 90 d.lgs. 81 del 2008, che i proprietari del capannone erano a conoscenza che anche la COMITALF era coinvolta nell'esecuzione dell'opera.
Tale consapevolezza li avrebbe dunque costituiti garanti del conseguente rischio interferenziale, ricollegato alla presenza, anche non contemporanea, di più imprese in un medesimo cantiere.
Più avanti, nell'affrontare la questione del "ruolo" dei P. nella vicenda, quel giudice ha ritenuto dimostrato, anche sulla scorta degli stessi elementi valorizzati dalla difesa I., inclusa la testimonianza C., che il suo "ruolo" emergeva pacificamente dagli atti e che su di esso era caduto il rilevato errore di diritto.
Il Tribunale, dal canto suo, aveva ritenuto che l'istruttoria, soprattutto quella articolatasi attraverso la prova testimoniale, aveva confermato che Roberto P. non era a conoscenza dell'esistenza di più imprese sul cantiere, circstanza dalla quale derivano conseguenze ignorate dalla Corte bresciana.
E' indubbio - anche alla stregua dei principi di matrice giurisprudenziale in materia - che gli obblighi del committente sono diversamente declinati a seconda che si versi in ipotesi di cantieri cc.dd. sotto-soglia (art. 90 comma 9 d.lgs. 81/08) o nel caso in cui nel cantiere si trovino ad operare, anche non contemporaneamente, più imprese (art. 90 commi 3 e 4 dello stesso decreto).
Nel primo caso, infatti, egli è tenuto alla verifica della idoneità tecnico-professionale dell'impresa affidataria, mediante richiesta della documentazione di cui alla lett. b) del comma 9 dell'art. 90 cit., ferma restando la sua responsabilità in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, essendo tuttavia esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica che richiedono una specifica competenza tecnica (cfr., sul punto, sez. 4 n. 23171 del 09/02/2016, Russo e altro, Rv. 266963; n. 5893 del 08/01/2019, Perona Luca, Rv. 275121).
Nel secondo caso, invece, l'obbligo per il committente di nominare il coordinatore per la sicurezza, di cui all'art. 90, d.lgs. 09 aprile 2008, n. 81, è effettivamente connesso già solo alla previsione che più imprese lavorino nello stesso cantiere, anche non in contemporanea, e non alla verifica successiva di tale situazione (cfr. sez. 4 n. 4644 del 11/12/2018, dep. 2019, Scardina Antonio, Rv. 275707, in fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del committente per omicidio colposo di un dipendente di una ditta subappaltatrice e di un lavoratore autonomo, caduti dal piano di copertura di un capannone di proprietà del committente, essendo la possibilità di subappalto prevista in contratto).
È di tutta evidenza, però, che l'accertamento in ordine alla previsione - in base agli accordi tra committente e appaltatore - che più imprese, oltre a quella cui sono appaltati i lavori, lavorino nel medesimo cantiere resta quaestio facti da cui derivano in capo al committente dell'opera obblighi diversamente declinati dal legislatore, nel senso sopra chiarito e su cui la Corte bresciana, nel ribaltare il verdetto assolutorio, ha omesso di fornire idonea giustificazione.
7. In conclusione, dall'accoglimento dei motivi sopra indicati discende l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice penale.
8. Tale ultimo aspetto della decisione impone, tuttavia, alcune considerazioni in ordine all'ambito di applicazione della disposizione contenuta nell'art. 622 cod. proc. pen., a mente del quale «1. Fermi gli effetti penali della sentenza, la corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l'azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile».
Dei precedenti e della genesi dell'art. 622 ha avuto modo di occuparsi Cass. Sez. un. 18 luglio 2013, Sciortino, alla cui ampia ricostruzione si rinvia, ma sulla quale si tornerà tra breve.
Alla disposizione sono certamente sottese ragioni di economia processuale, ma - come si avrà modo di ribadire - essa deve essere valutata alla luce del più generale principio del giusto processo, del quale la ragionevole durata costituisce una delle plurime declinazioni, ed è opportuno, fin da ora, precisare che il "trasferimento" della cognizione sulle residue questioni civili alla giurisdizione naturaliter data risponde certamente alla necessità di evitare ulteriori interventi del giudice penale, ma unicamente laddove non residuino spazi per l'accertamento del fatto in tale sede.
Ed è su tale specifico punto che questa Corte ha ritenuto di dover concentrare la propria attenzione.
9. Prima di affrontare il concreto thema decidendum, è opportuno chiarire che è ad esso estraneo il contrasto interpretativo maturato tra Corte penale e Corte civile in ordine alle regole che la Corte d'appello civile è tenuta ad applicare una volta investita, dalla Corte di cassazione penale, del rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p.
E neppure è questa la sede per prendere posizione in favore dell'uno o dell'altro orientamento, semmai solo per pronosticare che arroccamenti, sull'una o sull'altra, potrebbero pregiudicare l'unità della nomofilachia della Corte.
È sufficiente, dunque, e solo per ragioni di completezza, ricordare che la contesa ermeneutica, originata dal silenzio serbato in proposito dall'art. 622 citato, vede schierate, da un lato, la Corte penale, secondo la quale il giudice civile del rinvio è tenuto, per evitare il rischio di aggirare l'accertamento del reato compiuto dal giudice penale e di determinare un danno da reato che prescinda dai lìmiti e dall'oggetto fissati nella sentenza penale, a valutare la sussistenza della responsabilità dell'imputato secondo i parametri decisori e le regole probatorie del diritto penale (si pensi, ad es. alla prova della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento e al canone "dell'oltre ogni ragionevole dubbio" posto a presidio della valutazione degli elementi per pronunciare condanna) e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (cfr., tra le ultime, sez. 4 n. 5901 del 18/1/2019, Oliva Paolo c/ Navarra Giuseppe, Rv.275122; n. 5898 del 17/1/2019, Borsi Marco, Rv. 275266; n. 412 del 16/11/2018, dep. 2019, De Santis Raffaele, Rv. 274831; sez. 6 n. 43896 del 8/2/2018, Luvaro Angela, Rv. 274223; sez. 4, n. 34878 del 8/6/2017, Soriano, Rv. 271065; sez. 2, n. 28959 del 10/5/2017, Fasulo, Rv. 270364); dall'altro, la Corte civile che mette in campo una serie di argomentazioni per giungere a conclusioni diametralmente opposte (cfr., in particolare, Sez. 3 n. 15859 del 18 aprile 2019).
10. Il tema della individuazione del giudice del rinvio per i casi di annullamento ai soli fini civili è stato affrontato - come si è detto - da Cass. S.U., 18 luglio 2013, n. 40109, Sciortino (Rv. 256087).
L'intervento regolatore ha riguardato un caso in cui il Tribunale aveva dichiarato l'imputato colpevole dei reati contestatigli, condannandolo anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, da liquidare in separata sede; a seguito di impugnazione dell'imputato, la Corte di appello aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti perché i reati erano estinti per prescrizione, condannando il medesimo alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, senza esplicita statuizione di conferma della condanna al risarcimento dei danni e, in ogni caso, senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili.
Il giudice è - come noto - legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (cfr. Sez. U.n. 35490 del 2009, Tettamanti, Rv. 244274).
La sentenza Tettamanti non aveva però affrontato la questione della individuazione del giudice di rinvio in caso di vizi di motivazione, in presenza di una declaratoria di estinzione del reato, in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini della condanna civile.
Della questione si è occupata la sentenza Sciortino che ha ritenuto che, una volta rilevata e dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione, non possa residuare alcuno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale e non abbia più ragion d'essere la speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, venendo meno quell'interesse penalistico alla vicenda che giustifica il permanere della questione in sede penale.
In virtù del principio di economia processuale, quindi, la decisione sugli aspetti civili - si è detto - va rimessa al giudice civile, competente a pronunciarsi sia sull'an che sul quantum della pretesa del danneggiato dal reato.
Al rinvio al giudice penale - ha precisato la Corte - osta il disposto dell'art. 129 cod. proc. pen., tanto più che il danneggiato è consapevole ab origine della possibilità di un tale epilogo decisorio e della possibilità che il ristoro avvenga con regole diverse.
Come si è detto, la Corte di appello non aveva motivato in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili: si era limitata ad affermare che, tenuto conto delle prove acquisite, non era ravvisabile alcun elemento idoneo a ritenere che i fatti contestati non sussistessero o che l'imputato non li avesse commessi.
Il giudice a quo, in sostanza, nel confermare la statuizione dell'affermazione di responsabilità civile (pur non riportandola in dispositivo, come avrebbe dovuto fare), si era erroneamente limitato ad applicare la regola di giudizio di cui all'art. 129 cod. proc. pen., non considerando che i motivi di appello avrebbero dovuto essere esaminati compiutamente ai fini civilistici.
Nel caso in esame - va fin d'ora ribadito - la situazione è del tutto diversa.
La sentenza d'appello annullata segue a una sentenza, di primo grado, di assoluzione perché il fatto non sussiste, ribaltata in aperta violazione dei canoni costituzionali e convenzionali relativi alle regole probatorie e ai parametri decisori del giudizio penale. Una sentenza che ha, in particolare, del tutto trascurato di tener conto della progressiva implementazione dei contenuti del principio costituzionale del giusto processo e dei principi consolidati di matrice convenzionale in materia di fair trial, dai quali promanano direttamente le regole processuali applicate in questa sede che hanno determinato l'annullamento della sentenza impugnata e che sono il precipitato della evoluzione delle regole della rinnovazione istruttoria in appello, secondo l'esegesi "formante" sviluppatasi attraverso le pronunce del Supremo collegio penale, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2016, Dasgupta.
Ed è opportuno sottolineare che nella sentenza Sciortino non si riscontra la volontà della S.C. di ritenere che l'art. 622 c.p.p. non lasci spazio alcuno, in caso di annullamento «solamente delle disposizioni o dei capi che riguardano l'azione civile», per un rinvio al giudice penale.
La sentenza Sciortino si muove in un'area diversa, legittimamente governata, quindi, da regole diverse.
In presenza di una causa di estinzione del reato, invero, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (cfr. S.U. n. 35490 del 2009, Tettamanti, cit., Rv. 244275).
All'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità.
Il Supremo Collegio ha, quindi, ritenuto non percorribile la strada del rinvio al giudice penale.
In via incidentale, peraltro, le Sezioni Unite hanno ritenuto quella stessa strada non percorribile neppure nel caso in cui l'imputato avesse investito formalmente anche il capo penale, derivando la inammissibilità del ricorso dal principio affermato dalla sentenza Tettamanti, secondo il quale non sono deducibili in sede di legittimità, in presenza di una causa di estinzione del reato, vizi della motivazione che investano il merito della responsabilità penale.
11. Quanto detto introduce al tema più strettamente correlato alla questione oggetto del presente esame.
Si tratta, in particolare, di verificare se, stante la riconosciuta facoltà della parte civile di impugnare agli effetti civili la sentenza assolutoria davanti al giudice penale e secondo le regole del processo penale, sopravviva, nonostante l'irrevocabilità dell'esito assolutorio, l'interesse penalistico alla vicenda che, alla luce dell'impianto motivazionale rinvenibile nella sentenza Sciortino, giustificherebbe la ultrattività della deroga allo statuto civilistico posta dall'art. 74 cod. proc. pen. e la necessità che l'accertamento del reato generatore del danno avvenga nel rispetto dei canoni di giudizio penalistici, sia con riferimento alla verifica della prova della sussistenza del nesso causale, sia con riguardo alle regole che disciplinano l'utilizzabilità delle prove (e, dunque, anche le modalità di acquisizione di esse) e gli obblighi di rinnovazione istruttoria.
Sul punto, deve considerarsi che, pur non riconoscendo il nostro sistema l'azione penale in capo alla parte privata, è però indubbio che l'esercizio nel processo penale dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento di quello specifico danno delineato dall'art. 185 cod. pen. imprima una diversa fisionomia al corredo dei diritti processuali dell'imputato, il quale dovrà articolare le sue difese in quel processo non soltanto nella prospettiva dell'accusa penale, ma anche delle pretese alle restituzioni e al risarcimento strettamente connesse alla prima.
Pertanto, le garanzie che l'ordinamento appronta al soggetto che deve difendersi nel processo penale, il cui oggetto risulti dilatato nei termini di cui sopra in conseguenza dell'opzione processuale del danneggiato, non possono che riguardare l'accertamento del fatto-reato inteso nel suo complesso.
Ne discende, come logico corollario, il diritto, costituzionalmente presidiato, dell'accusato a ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto
penale, prime fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo, nelle sue diverse declinazioni.
Il diritto dell'accusato ad avere un esito decisorio che sia il precipitato della corretta applicazione delle norme che regolano il processo penale, peraltro, deve considerarsi immanente in tutti i casi in cui il legislatore attribuisce al giudice penale la cognizione di questo complesso thema decidendum, senza distinzione tra le ipotesi in cui sia ancora esistente, nonostante l'assoluzione in primo grado, un potenziale conflitto dai risvolti penalistici (per l'eventuale impugnazione della parte pubblica) e i casi in cui l'esito sanzionatorio negativo sia inattaccabile: anche in questi casi, infatti, il giudice penale chiamato a decidere dei soli risvolti civili della vicenda dovrà applicare le regole proprie del processo penale e garantire al soggetto che si difende sul piano civile residuato un processo che possa definirsi giusto secondo la legge penale e i principi consolidati che sovrintendono l'accertamento dei fatti in campo penale.
Diverso è il caso in cui il reato sia travolto da una causa estintiva.
In questa ipotesi, infatti, la regola di giudizio applicabile, salvo il caso di rinuncia dell'imputato a valersene, è quella stabilita dall'art. 129 cod. proc. pen., a mente del quale il giudice ha l'obbligo dell'immediata declaratoria della causa estintiva, salvo che "riconosca" una causa di proscioglimento nel merito.
Tale riconoscimento, tuttavia, non è il frutto di un accertamento del fatto-reato, ma della constatazione negativa della esistenza di una delle cause di proscioglimento nel merito, con la conseguenza che il diritto dell'imputato ad ottenere un accertamento all'esito di un giusto processo cederà il passo a ragioni di economia processuale direttamente correlate al venir meno dell'interesse dello Stato ad accertare la fondatezza dell'accusa.
A ciò si aggiunga che, alla luce del diritto vivente, va riconosciuta una diversa solidità all'accertamento che si conclude con esito assolutorio, rispetto a quello di condanna, avuto riguardo alle regole processuali applicabili per il caso di difformità delle decisioni dei due gradi di merito.
Ciò emerge dalla diversa modulazione del principio di immediatezza (privo di garanzia costituzionale autonoma e connotato non indispensabile, seppur fondamentale, di quello del contraddittorio) sulla base dell'incidenza dell'oltre ogni ragionevole dubbio sulla decisione da assumere, esso diventando recessivo là dove - come nel caso di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna - detto canone non venga in questione (cfr. Sezioni Unite n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, P.C. in proc. Troise, Rv. 272431).
In tale ultimo arresto giurisprudenziale, il Supremo Collegio, chiamato a dirimere il contrasto in ordine alla necessità della rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva per addivenire a una riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio, nei termini andatisi delineando con le precedenti sentenze delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano, ha precisato che la linea interpretativa tracciata con le richiamate pronunce poggia su una considerazione che assume un rilievo centrale nella ricostruzione dei tratti fondamentali del sistema processuale penale: mentre il ribaltamento in senso
assolutorio del giudizio di condanna, operato dal giudice di appello senza procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, è perfettamente in linea con il principio della presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen., così non è nell'ipotesi inversa.
Dalla introduzione del canone "al di là di ogni ragionevole dubbio" (inserito nell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, ma già individuato quale inderogabile regola di giudizio da Sezioni Unite Franzese del 2002, Rv. 222139), la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello non basti, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado, poiché occorre "forza persuasiva superiore", tale da far venire meno, per l'appunto, "ogni ragionevole dubbio"; in altre parole, la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, l’assoluzione la mera non certezza di essa.
Di qui la necessità di un più elevato standard argomentativo, imponendo la presunzione di innocenza e il ragionevole dubbio soglie probatorie asimmetriche, in relazione alla diversità dell'epilogo decisorio come sopra delineato.
Analoghe conseguenze si rinvengono quanto alla estensione dell'obbligo di motivazione: esso, in caso di totale riforma in grado di appello, si atteggia diversamente a seconda che si verta nell'ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella della totale riforma di una sentenza di condanna.
Nel primo caso, al giudice d'appello si impone l’obbligo di argomentare in ordine alla plausibilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio; nel secondo caso, il giudice può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un'operazione di tipo essenzialmente demolitivo.
Tale asimmetria, del resto, informa anche, e più in generale, i metodi di accertamento del fatto, «imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione».
Trova così razionale giustificazione, a tutela del solo imputato, il diverso (e meno rigoroso) protocollo di assunzione della prova dichiarativa nell'ipotesi della riforma di una sentenza di condanna, non potendo il principio di immediatezza essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, «trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l'ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali».
Il Supremo Collegio, peraltro, rinviando ai principi affermati (sia pure nella diversa prospettiva della regola della immutabilità) dal giudice delle leggi, ha precisato, da un lato,
che il principio costituzionale del contraddittorio non rappresenta una "risorsa" dispensata alle parti allo stesso modo e con la stessa intensità (prevedendo, infatti, il comma 5 dell'art. Ili Cost. il consenso dell'imputato, e non di altri, per la "perdita" di contraddittorio nei casi consentiti), poiché nasce e si sviluppa come garanzia in favore dell'imputato; ha poi evidenziato, sotto altro profilo, l'impossibilità di configurare tra imputato e parte civile un paradigma di par condicio valido come regola generale per conformarne diritti e poteri processuali, integrando situazioni soggettive non omologabili (il richiamo è a alle sentenze della Corte cost., n. 217 del 2009 e n. 168 del 2006).
Neppure l'ampliamento delle prerogative e degli strumenti di tutela della "vittima" del reato all'interno del processo penale (soprattutto per effetto delle indicazioni provenienti dalla legislazione europea) potrebbe mettere in discussione la tradizionale funzionalità delle garanzie del processo penale a garantire un equo giudizio alla persona imputata o accusata che vi è sottoposta (cfr., in motivazione, Sez. U. Troise).
Quanto precede è utile in una prospettiva di ricostruzione più netta dello statuto dell'imputato nel processo, di quel corredo, cioè, di tutele e dello strumentario di garanzia ricollegabili a tale posizione giuridica, soprattutto alla stregua del principio generale del giusto processo, come è venuto delineandosi in questo decennio, a partire dalle prime pronunce che hanno fatto applicazione nell'ordinamento interno dei principi di matrice convenzionale di cui si è ampiamente discusso nella parte dedicata alla esposizione dei motivi dell'annullamento della sentenza in questa sede impugnata.
La maggiore solidità della pronuncia assolutoria e la centralità dell'imputato all'interno della vicenda processuale consentono infatti di calibrare la portata del suo diritto a un processo equo nelle varie fasi in cui si articola l'accertamento del fatto-reato.
L'imputato, nel caso in cui il danneggiato eserciti la facoltà prevista dall'art. 74 cod. proc. pen., non deve difendersi soltanto dalla pretesa punitiva dello Stato, correlata all'esercizio dell'azione penale nei termini di cui all'imputazione, ma anche dalle pretese civili in quella sede svolte, secondo le regole proprie del processo penale.
A sua volta, spetterà al giudice penale ricostruire il fatto contestato in imputazione anche ai soli fini civili, all'esito di un processo che possa definirsi giusto nel senso sopra specificato.
In altri termini, deve essere riconosciuta ai diritti dell'imputato una proiezione che va oltre il verdetto assolutorio definitivo, non potendosi ritenere effettivamente conclusa la vicenda penale devoluta alla cognizione del giudice penale nella sua integralità, condizione questa indispensabile per configurare quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale che giustifica il trasferimento della cognizione sui residui aspetti civilistici della vicenda.
12. Tenuto conto di tali considerazioni, possono rassegnarsi alcune conclusioni in ordine alla portata dell'art. 622 cod. proc. pen.
a) Occorre, intanto, evidenziare che la disposizione dell'art. 622 è regola propria del processo penale e, dunque, non può che concorrere a inverare in esso gli strumenti processuali volti a garantire all'imputato il diritto fondamentale a che il processo nel quale egli è chiamato a difendersi - anche sul piano civilistico, allorché sia azionato il meccanismo di cui agli artt. 185 cod. pen. e 74 cod. proc. pen. - sia "giusto", secondo il parametro di cui all'art. 111 della Costituzione.
Come lo stesso giudice delle leggi ha precisato, il "giusto processo" rappresenta infatti una «formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio» (cfr. Corte Cost. n. 131 del 1996).
Tra le varie declinazioni di tale diritto fondamentale rientra, secondo il diritto vivente, come sopra illustrato, anche il diritto alla rinnovazione della prova in appello nel caso in cui il giudice del gravame del merito ribalti la sentenza assolutoria di primo grado ai soli fini della condanna alle restituzioni e al risarcimento da fatto di reato.
In caso contrario, ove si ritenesse che una assoluzione irrevocabile privi ipso facto l'accusato/danneggiante del diritto all'accertamento del fatto generatore del danno in base alle norme e ai principi propri del processo penale e con le garanzie del giusto processo, nessuna rilevanza avrebbe, nel caso in cui la ragione dell'annullamento riposi proprio nella accertata violazione di essi, la fissazione della regola di giudizio per l'accertamento del fatto illecito da reato nel caso concreto; con evidente incoerenza del sistema che, da un lato, impone il rispetto delle norme poste a presidio del diritto fondamentale di che trattasi, dall'altro, ne vanifica il rilievo processuale una volta che l'imputato non sia più chiamato a rispondere penalmente dello stesso fatto illecito per il quale continua, invece, a rispondere civilmente.
Occorre, dunque, ripensare l'art. 622 cod. proc. pen. quale norma funzionale a ottenere il bilanciamento del principio di economia processuale, per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, con la necessità, propria del principio del giusto processo tratteggiato nei termini anzidetti, di cristallizzare davanti al giudice penale l'accertamento del fatto illecito da cui origina il danno.
Pertanto, il problema della individuazione, ai sensi dell'art. 622 o dell'art. 623 cod. proc. pen., del giudice al quale va devoluta la cognizione delle questioni civili residue, originariamente correlate a un fatto-reato, non può prescindere dalla verifica dell'oggetto della cognizione devoluta al giudice penale, chiamato a decidere degli effetti civili di una vicenda in cui l'accusato sia stato assolto in via definitiva, a seconda, cioè, che l'accertamento del fatto-reato possa dirsi o meno definitivamente concluso davanti al giudice penale, investito delle questioni civili in virtù del meccanismo processuale definito dall'art. 576, comma 1, primo periodo, ultima parte; accertamento regolato, nonostante l'assoluzione definitiva, dalle regole proprie del giudizio penale, ivi compreso l'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura datane dal diritto vivente.
Un ruolo decisivo, a tal fine, gioca proprio la forza "espansiva" dello statuto inderogabile dell'Imputato: i suoi effetti si riverberano direttamente sul versante della definitività dell'accertamento del fatto-reato devoluto al giudice penale, in virtù del meccanismo processuale sopra richiamato, ancor prima che sul piano del condizionamento conoscitivo dell'accertamento penale rispetto al giudizio civile che consegue all'applicazione dell'art. 622 cod. proc. pen.
Si tratta di interpretazione del tutto coerente con il testo della norma: l'utilizzo dell'avverbio "solamente" autorizza, infatti, una lettura dell'art. 622 cod. proc. pen. secondo la quale non rientra nell'annullamento "solamente" delle "disposizioni o ... capi che riguardano l'azione civile" un thema decidendum in cui ancora si controverta della sussistenza del fatto-reato secondo le regole proprie del processo penale, allorché le doglianze in tal senso formulate dall'accusato abbiano trovato positivo riscontro nella decisione di annullamento del giudice di legittimità penale.
Solo allorché tale accertamento sia compiuto, nel rispetto dei canoni di giudizio del giusto processo, potrà effettivamente apprezzarsi quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto- reato come operato nel processo penale e, quindi, il venir meno di ogni interesse penalistico correlato a quella vicenda, che giustifica il trasferimento al giudice civile della cognizione sui residui aspetti civilistici di essa, nei termini già sopra ampiamente chiariti, anche alla stregua dei precedenti di questa Corte di legittimità, penale e civile.
Rispetto a tale profilo specifico, si dissente infatti dalle argomentazioni rinvenibili nella sentenza n. 15859 del 18 aprile 2019 della terza sezione civile di questa Corte: non è l'intervento del giudicato assolutorio agli effetti penali a far venir meno la ragione dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, bensì il venir meno di ogni residuo della cognizione del giudice penale in ordine a un impianto accusatorio rispetto al quale l'accusato/danneggiante ha approntato la sua difesa nel processo penale, perché così previsto dalla legge.
Tale lettura, peraltro, non solo consente di superare le perplessità che, pure, la terza sezione civile ha manifestato quanto alla complessiva coerenza di un sistema in cui è prevista l'impugnazione in sede penale di una sentenza di proscioglimento limitatamente alle questioni civili: essa risulta certamente scalfita ove si ritenga, come fa quel giudice de iure condito, che il trasferimento della cognizione al comparto civile riguardi indiscriminatamente tutti i casi in cui sia impregiudicato il verdetto assolutorio penale (sul punto, non mancando la Corte civile di suggerire, de iure condendo, strade alternative, come quella del mantenimento della cognizione delle questioni civili al giudice penale, ritenute più idonee a ricondurre il sistema a maggiore coerenza).
Ma consente anche di neutralizzare i profili di problematicità che attengono al diverso e dibattuto piano del condizionamento gnoseologico tra giudizio penale e processo civile.
Viene, infatti, meno ogni necessità di ribadire la valenza extra penale di principi cardine dell'ordinamento posti a presidio di diritti fondamentali, come quello dell'accusato ad avere un processo giusto anche ai fini dell'accertamento del fatto di reato produttivo del danno, oggetto della domanda civile azionata nel processo penale, e di proseguire, dunque, il confronto che contrappone il comparto civile a quello penale e sul quale si apprezza lo sforzo interpretativo operato dalla sezione terza civile di questa Corte nella sentenza più volte richiamata.
b) Le conclusioni rassegnate non tradiscono la ratio della norma.
Proprio ragioni di economia processuale, da intendersi non solo in funzione della ragionevole durata del processo, ma anche del più generale principio del giusto processo, del quale la prima è un corollario, rendono evidente la non inutilità di un rinvio al giudice penale all'esito della verifica della incompletezza dell'accertamento ad esso devoluto, il cui esaurimento soltanto, secondo le regole proprie del processo penale, segna il confine netto di dissoluzione della forza espansiva dello statuto dell'imputato sopra descritto, scongiurandosi, anzi, la dispersione dell'attività istruttoria svolta e eventuali, insanabili fratture del sistema (si pensi alle prove inutilizzabili siccome illegali).
Il rinvio al giudice penale anziché a quello civile, peraltro, costituisce una garanzia del diritto di tutte le parti a non vedere stravolte, alla fine di un lungo processo, le regole probatorie e quelle logiche sulla responsabilità che lo hanno governato fino a quel momento, determinandone il progressivo posizionamento.
E neppure rischiano di contravvenire al dictum delle Sezioni Unite penali nella citata sentenza Sciortino, opportunamente distinguendosi il principio di diritto vincolante ivi espresso, dalle indicazioni che la Terza Sezione civile ha ritenuto di rinvenire nel corpo motivazionale di essa.
A mente dell'art. 578 c.p.p., quando «nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Orbene, è indubbio che anche in tal caso il giudice penale può incorrere in vizi denunciabili in sede di legittimità anche con riferimento al coacervo di garanzie a presidio del giusto processo.
Tuttavia, sia che l'effetto estintivo si produca in secondo grado, che nelle more della pronuncia di annullamento (fatta ovviamente salva l'eventuale rinuncia dell'Imputato ad avvalersene), il vizio denunciabile dall'accusato, in ordine all'accertamento del fatto di reato, non potrà che riguardare la diversa regola di giudizio delineata nell'alt. 129 cod. proc. pen., ma mai la violazione di regole processuali che rivelino una manifesta illogicità o una contraddittorietà del ragionamento del giudice del merito quanto a tale accertamento (sulla natura del vizio deducibile, cfr. sez. n. 42207 del 20.10.2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294, con riferimento alla violazione dell'art. 192 cod. proc. pen.; sez. 4 n. 51525 del 4.10.2018, Rv. 274191, in cui si è precisato che la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza; sez. 2 n. 38676 del 24.5.2019, Onofri Massimiliano, Rv. 277518, ancora una volta sull'alt. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546 dello stesso codice).
In tale ipotesi, infatti, non potrà apprezzarsi quella espansione dello statuto dell'imputato che giustifica il permanere della cognizione del fatto-reato davanti al giudice penale, stante il suo obbligo di verificare solo la evidenza della insussistenza del fatto o della sua non riconducibilità all'imputato e, per il giudice di legittimità, la non manifesta infondatezza del motivo che ha consentito la corretta instaurazione del contraddittorio in quella sede.
In ciò la diversità del caso oggetto del contrasto composto dalle Sezioni Unite Sciortino, rispetto a quello all'esame.
Quanto alle ulteriori affermazioni del Supremo Collegio dell'epoca, le stesse devono oggi calibrarsi alla luce dei principi successivamente affermati da quello stesso organo di nomofilachia, allorché si è trattato di dare attuazione nell'ordinamento a una lettura delle norme sul contraddittorio e l'acquisizione della prova del fatto di reato il più coerente possibile con il parametro costituzionale di cui all'art. Ili Cost. e con l'art. 6 C.E.D.U., come interpretato dai giudici di Strasburgo (a valle, peraltro, di un orientamento già consolidato a partire da Consta ntinescu v. Romania, n. 28871 del 2000; Popovici v. Moldova, n. 289 e n. 41194 del 2004, § 68, del 2007; Marcos Barrios v. Spain, n. 17122 del 2010).
I principi ivi affermati, già recepiti da alcune pronunce del giudice di legittimità, sono stati consacrati nel diritto vivente e progressivamente arricchiti sin dalla pronuncia delle Sezioni Unite Dasgupta e si sono tradotti nell'interpretazione di una regola di giudizio (in parte recepita dal legislatore con la novella che ha introdotto il comma 3-bis nell'art. 603 cit.) che impone oggi al giudice di procedere alla diretta assunzione di una prova dichiarativa decisiva anche in un caso di ribaltamento del verdetto assolutorio ai soli effetti civili.
II giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio poiché «è in gioco
la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto In un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; al punto che, anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili, deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.» (in motivazione, Sezioni Unite Dasgupta, cit.).
L'incidenza nomofilattica di tale principio, espressamente formulato dal Supremo Collegio, è dirimente per la soluzione della questione qui esaminata: ove si ritenesse che il vizio motivazionale correlato alla violazione della regola processuale così individuata non assuma rilievo ai fini della individuazione del giudice al quale compete svolgere l'accertamento del fatto-reato, si sottrarrebbe all'imputato, il cui ricorso è stato ritenuto fondato, la possibilità di ottenere quell'accertamento secondo le regole penalistiche del giusto processo, area riservata certamente al giudice penale e alle sue regole processuali ad esito di un giudizio destinato a perdere la sua stessa connotazione cartolare, per divenire rinnovato processo di quel primo grado conclusosi con un accertamento di insussistenza del fatto o della sua non riconducibilità a quell'imputato.
Ancora diverso è il caso di accoglimento del ricorso della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato (l'art. 576 c.p.p. stabilisce che la parte civile, ai soli effetti della responsabilità civile, può proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento pronunziata in giudizio): sia che l'assoluzione consegua a un giudizio conforme nel doppio grado di merito sia che consegua a un favorevole overturning della condanna di primo grado, neppure in tal caso la parte civile potrà formulare motivi di ricorso che introducano un vizio della motivazione riguardante le regole del giusto processo, che sono delineate - nei termini sinora descritti - in favore del solo imputato.
Né tali conclusioni paiono smentite dalla recente sentenza con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia (Corte Cost. n. 176 del 2019), rinvenendosi in esse - al contrario - una conferma della necessità di delimitare il ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitone di un danneggiato che, fin dall'inizio, ha optato per la giurisdizione penale.
In quella sede, i giudici della Consulta, ribadito il carattere accessorio e subordinato dell'azione civile rispetto a quella penale, nell'esaminare la questione sollevata (riguardante la legittimazione della parte civile a impugnare nel processo penale la sentenza di proscioglimento, che - secondo la Corte rimettente - dovrebbe essere esclusa nella ipotesi in cui la vicenda penale in senso stretto si sia esaurita, per irrevocabilità della pronuncia assolutoria), hanno precisato che il sistema approntato dal legislatore è coerente con il complessivo regime che regola l'impugnazione della parte civile, per il quale « ... essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processual-penalistiche, anche il giudizio d'appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito. Il giudice dell’impugnazione,
lungi dall'essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell'esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell'imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado. È quindi del tutto coerente con l'impianto del codice di rito che, una volta esercitata l'azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile avvenga in quella sede: pertanto, anche quando l'unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d'appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale. La deviazione da questo paradigma nel caso del giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento, pronunciato dalla Corte di cassazione, della sentenza ai soli effetti civili, secondo il disposto dell'alt. 622 cod. proc. pen., trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all'esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l'unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l'esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall'inizio, optato per la giurisdizione penale».
c) Da ultimo, pare opportuno rilevare che tale lettura della norma in commento trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione penale e di questa sezione, come suggeriscono le notizie di decisione n. 1 del 9.1.2020 della terza sezione e quella del 13.2.2020 della quarta sezione nel proc. n. 27120/219, entrambe relative a casi analoghi a quello oggetto del presente esame. In entrambi i casi, ci si è chiesti se, a fronte di appello della sola parte civile contro una sentenza di assoluzione dell'imputato, cui è seguita una condanna ai soli effetti civili, per la quale debba essere disposto l'annullamento per mancanza di motivazione e per violazione dei principi in materia di rinnovazione della prova dichiarativa, debba conseguire anche la decisione di rinvio per nuovo giudizio e, in caso positivo, quale sia l'autorità giudiziaria dinnanzi alla quale disporre il rinvio.
I giudici della terza e della quarta sezione, considerato che la rinnovazione istruttoria nell'ambito del giudizio d'appello celebrato a seguito di impugnazione di sentenza di assoluzione si impone anche nel caso di gravame proposto dalla sola parte civile, quale peculiare garanzia, unitamente all'obbligo di motivazione, del giusto processo a favore dell'imputato, principio al quale deve darsi effettività, hanno optato per la soluzione dell'annullamento con rinvio dinnanzi al giudice penale per nuovo giudizio, sia pure ai soli effetti civili.
E trova anche conferma, con riferimento alla incidenza della violazione della regola processuale in tema di contraddittorio e formazione della prova dichiarativa, in altra pronuncia di questa Corte penale, in cui si è sottolineato (sia pure in un caso di annullamento senza rinvio anche agli effetti penali per estinzione del reato per prescrizione) che tale violazione vizia la decisione sulla responsabilità, rendendola tamquam non esset e che un rinvio ai sensi dell'art. 622 cod. proc. pen. (in quella sede ritenuto non praticabile poiché l'annullamento aveva riguardato anche gli effetti penali e non vi era stato ricorso della parte civile), sarebbe stato fonte di una distonia del sistema, finendo per "costringere" il giudice civile a uniformarsi
alla quaestio iuris decisa con la sentenza penale di annullamento, riesaminando le statuizioni contenute nella pronuncia assolutoria di primo grado e facendo applicazione di una regola processuale che, espressione dei principi di immediatezza e oralità, è in realtà regola propria del processo penale (cfr. in motivazione, sez. 6 n. 31921 del 6.6.2019, De Angelis Cristina).
13. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: «In caso di annullamento della sentenza di appello, con la quale l'imputato assolto in primo grado con sentenza divenuta irrevocabile sia condannato ai soli effetti civili, in accoglimento del gravame proposto dalla parte civile, per riscontrata violazione delle regole del giusto processo in ragione della mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, il rinvio per nuovo giudizio va disposto, sia pure ai soli effetti civili, dinnanzi al giudice penale, il quale si uniformerà al principio di diritto formulato nella sentenza di annullamento».
La sentenza deve essere, pertanto, annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia, la quale si uniformerà ai principi sopra enunciati in ordine alla rinnovazione della istruttoria e alla motivazione sulla responsabilità del fatto, sia pure ai soli effetti civili.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia per nuovo giudizio.
In Roma il 26 febbraio 2020