Coronavirus e valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro, tra jus conditum e condendum
I
L’obbligo di valutazione dei rischi, per il datore di lavoro, si estende a “tutti” i rischi, a mente dell’art. 28, c.1 D.Lgs. 81/2008 (c.d. T.U. – Testo unico delle norme per la salute e la sicurezza sul lavoro), e vi si ricomprendono, tra gli altri e senza carattere di esaustività, anche “quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi”. Inoltre, la stessa va aggiornata “in relazione al grado di evoluzione ... della prevenzione o della protezione … o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità” (art. 29, c. 3 T.U.). Quest’ultima, a sua volta, rientra nella collaborazione necessaria tra medico competente e datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi (art. 25, c.1., lett. a) T.U.).
Ma di quali rischi si tratta?
Il legislatore impiega alcuni termini, sui quali è opportuno soffermarsi:
1) “tutti i rischi”
2) “rischi professionali”
3) “rischi specifici”
4) “rischi particolari”
5) “rischi da interferenza”.
I primi sono quelli oggetto della valutazione iniziale ad opera del datore di lavoro: in sede di definizione della valutazione dei rischi, si fa infatti riferimento a quelli “presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui (i lavoratori) prestano la propria attività” (art. 2, c. 1. lett. q) T.U.); in sede di definizione del documento di valutazione dei rischi, la relazione deve riguardare quelli “per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa” (art. 28, c. 2, lett. a) T.U.).
Ai rischi professionali si accenna nella definizione di prevenzione, in quanto la stessa deve mirare ad evitarli o diminuirli “nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” (art. 2, c. 1, lett. n) T.U.).
Dei rischi specifici si trova una prima definizione in tema di informazione dei lavoratori, con riguardo a quelli cui gli stessi sono esposti “in relazione all’attività svolta” (art. 36, c. 2, lett. a) T.U.). Più oltre, in tema di formazione, essi sono riferiti alle “mansioni ed ai possibili danni … caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell’azienda” (art. 37, c. 1. lett. b) T.U.). Per contro, in sede di valutazione dei rischi, essi, o almeno parte di essi, sono anche caratterizzati dalla necessità di fronteggiamento attraverso “riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione ed addestramento” (art. 28. c. 2, lett. f) T.U.).
I rischi particolari sono indicati anch’essi nell’oggetto della valutazione (art. 28. c. 1 T.U.) dove, a titolo esemplificativo (“tra cui anche …”), si fa riferimento, come in parte accennato in apertura, a quelli collegati allo stress lavoro-collegato, quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri paesi, alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro, e quelli derivanti dal possibile rinvenimento di ordigni bellici inesplosi nei cantieri temporanei o mobili. Di essi si precisa che si riferiscono a “gruppi di lavoratori”.
I rischi da interferenza, infine, sono individuati in quelli “dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva”, in presenza di contratti di appalto o di opera o di somministrazione (art. 26, c. 2, lett. b) T.U.). Vengono poi distinti dai “rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi”, ai quali non si estende l’obbligo di valutazione congiunta prescritto invece per i primi (art. 26, c. 3, ultima parte T.U.)
La teoria della valutazione dei rischi, a sua volta, ha tradizionalmente distinto i rischi, rispetto alle caratteristiche formali/estrinseche¹, in:
a) rischi tipici – rischi atipici;
b) rischi specifici – rischi generici;
c) rischi generali/comuni – rischi speciali/particolari;
d) rischi residui;
e, rispetto a quelle sostanziali/intrinseche², in:
a) rischi per la sicurezza (strutturali, impiantistici, ambientali in senso stretto)
b) rischi per la salute (da impiego di sostanze, preparati, esposizione a microclima, agenti nocivi, ambientali in senso lato)
c) rischi di natura trasversale (organizzativi, multifattoriali, socio-ambientali).
Da tale impostazione, discende che la valutazione si deve riferire, in primo luogo, ai rischi “tipici”, ovvero normati espressamente dal legislatore, che rappresentano la rischiologia ricorrente e più preoccupante per la salute e la sicurezza dei lavoratori in diretta dipendenza delle varie attività lavorative prestate (con presunzione di pericolosità juris et de jure, come ad esempio il rischio da movimentazione carichi, il rischio rumore, il rischio biologico, ecc.).
In secondo luogo, la valutazione si deve riferire ai rischi “specifici”, ovvero a quei rischi, normati o non normati espressamente dal legislatore (e quindi “tipici” od “atipici” nel senso sopra esposto, come rispettivamente ad esempio i rischi sopra accennati e, da altra parte, il rischio rapina), che si evidenziano per le particolari e ricorrenti eziologie e/o forme di manifestazione e sono indotti direttamente o indirettamente dalle condizioni lavorative presenti in azienda.
Tali rischi, a loro volta, possono essere “speciali” o “generali”, ovvero circoscritti a gruppi di lavoratori o a tutti i lavoratori dell’azienda ed ai terzi (come rispettivamente ad esempio il rischio da movimentazione carichi ed il rischio rapina citati).
Ai rischi specifici nell’accezione suddetta si riferisce anche il legislatore quando parla, oltrechè appunto di quelli caratterizzati da specificità, anche di quelli professionali, di quelli particolari e di quelli da interferenza per la parte relativa a quelli codificati (ad esempio, il piano di sicurezza e coordinamento nei cantieri temporanei o mobili di cui all’art. 100 T.U.).
In terzo luogo, la valutazione si deve riferire ai rischi “generici”, ovvero a quei rischi, normati o non normati espressamente dal legislatore, che si evidenziano indipendentemente dalla realtà aziendale, con fattorialità e manifestazioni non univoche, ma che in azienda possono assumere particolare gravità in dipendenza delle condizioni lavorative ed organizzative presenti (come rispettivamente ad esempio il rischio da circolazione stradale, per pedoni, conducenti e trasportati, ed il rischio da attività in isolamento). Essi rientrano, per quanto accennato, nella categoria dei rischi trasversali e quindi nel novero dei rischi oggetto di valutazione per il datore di lavoro.
Normalmente, tali rischi sono, a loro volta, “generali”, in quanto incombenti su tutti i lavoratori adibiti alle attività aziendali, ed anche sui terzi comunque coinvolti con le stesse.
Da ultimo, la valutazione dei rischi si deve riferire sempre alla categoria dei rischi “residui”, ovvero di quei rischi (non importa se tipici od atipici, specifici o generici, generali o speciali) che comunque permangono, con pericolosità apprezzabile, una volta individuate le misure di sicurezza previste nelle norme di legge, regolamento, ordine, disciplina, buone prassi ecc. in relazione ai singoli rischi rilevati e che, per l’interazione tra i rischi stessi o tra le diverse attività, o per altre peculiari ragioni, impongono al datore di lavoro un supplemento di attenzione e di intervento per ridurre ulteriormente il livello complessivo di gravità dei rischi per i lavoratori comunque coinvolti³. Essi comprendono, in primo luogo ma non esclusivamente, i rischi da interferenza e quelli di natura trasversale.
E dunque parlando di emergenza COVID-19 a quali rischi ci si riferisce?
Innanzi tutto, si considerano i rischi tipici ricompresi nel Titolo X del T.U. (rischi biologici) per i lavoratori direttamente e professionalmente esposti agli stessi, come da elenco incluso nell’all. XLIV.
Poi l’indagine si deve estendere ai rischi specifici generali in dipendenza di eventuali o potenziali contagiati all’interno dell’organizzazione aziendale, a qualunque settore essa appartenga, e che inoltre le particolari condizioni logistico-organizzative aziendali possono favorire⁴, così come a quelli residui, una volta esaminati gli altri e valutate le potenzialità di sviluppo e di interconnessione nella realtà aziendale ed al di fuori della stessa.
L’essenza più propria del COVID-19 appare quella di un rischio specifico generale e, pro parte, tipico che, in relazione alla invasività e pericolosità sociale è soggetto direttamente alle prerogative di politica sanitaria rimesse allo Stato ed alle Regioni ma che, ciò nonostante, necessita dell’adempimento di doveri di sicurezza dei vari soggetti interessati, in primis i cittadini, i lavoratori e le imprese.
Specifico lo è in quanto la natura genetica, le modalità di diffusione e la particolare pervasività sono ormai note (e quindi non meramente generico); tipico in quanto, oltre al Titolo X del T.U., ivi compresi gli all. da XLIV a XLVIII, è anche oggetto di normazione statale e regionale per la sua natura di agente pandemico (decreti legge; dpcm, ordinanze ministeriali e regionali, protocolli tra Governo e parti sociali, ecc.); generale in quanto colpisce indistintamente tutta la popolazione, seppur distinguendosi tra soggetti sintomatici ed asintomatici ed anzi in ciò aggravandosi il compito dell’individuazione e del relativo contenimento.
In quanto tale, si può dunque ritenere doveroso che il rischio in questione sia soggetto a valutazione per il datore di lavoro, in aggiornamento o ex novo, non ostando la presenza della componente pubblica che ora concitatamente impartisce ordini, comportamenti e controlli ma certamente dovendosi calare le norme e le raccomandazioni generali dettate dall’attualità e dalla situazione di emergenza, nelle variegate realtà aziendali, dove lo Stato non può entrare nello specifico⁵. Il problema naturalmente non si pone in caso di chiusura d’imperio dell’attività di impresa ma, nel caso di permanenza dell’attività o di ripresa della stessa, in costanza di stato di emergenza nazionale o regionale od altre disposizioni di fatto analoghe, nessuno si può sottrarre ai propri doveri, tanto meno il datore di lavoro cui incombe pur sempre il dovere generale di sicurezza sancito all’art. 41, c. 2 Cost.6.
Tanto d’altronde sembra manifestare il nuovo Protocollo del 24/4/2020. tra Governo e parti sociali7 laddove, in particolare, si segnalano alcune disposizioni ancor più stringenti:
1) l’adozione di “adeguati livelli di protezione” è condizionante per la prosecuzione dell’attività (premessa, p. 3): tale adeguatezza, riferita al rispetto del Protocollo, non può in ragione della sua ovvia generalità tradursi in meccanica ottemperanza a singole disposizioni ma presuppone una valutazione di congruità da parte del datore di lavoro, appunto sostanziale ed intrinseca rispetto alle singole realtà considerate;
2) l’applicazione delle misure del Protocollo va integrata con ulteriori misure equivalenti o più incisive “secondo le particolarità della propria organizzazione” (disposizioni generali, pp.4/5);
3) la declinazione delle misure del Protocollo relative ai dispositivi di protezione individuale va rapportata al “complesso dei rischi valutati” (6- D.P.I, 3° par., p. 9) ;
4) il ruolo del medico competente viene potenziato anche in senso propositivo in ragione della sua funzione di coordinamento tra Autorità sanitarie pubbliche e valutazione dei rischi in azienda, comportando per lo stesso un maggior coinvolgimento anche in fase diagnostica e quindi, in senso accessorio, valutativa (12- M.C., pp. 13/14).
Il fatto poi che il COVID-19 sia definito nel Protocollo come “rischio biologico generico”, oltre a non inficiare, anche per subalternità della fonte, il dettato dell’art. 271, c. 4 del T.U., che comporta appunto l’obbligo di valutazione del rischio di esposizione degli agenti biologici non oggetto di lavorazione nell’azienda (e quindi comunque presenti nella stessa), non induce poi che le susseguenti “misure uguali per tutta la popolazione” contrastino con la valutazione ad opera del datore di lavoro, trattandosi di un rischio che, seppur di natura igienico-sanitaria generale, in azienda assume altresì una natura trasversale come il presente, in quanto a contatto con realtà organizzative multiformi la cui particolarità non può essere rimessa alla sola disciplina prevenzionale/cautelare del Protocollo stesso8.
A contrario, verrebbe da domandarsi quale responsabilità potrebbe incombere sul datore di lavoro che, pur rispettando scrupolosamente il Protocollo, ometta una o più misure di prevenzione e protezione ulteriori rispetto a quelle previste dal medesimo ma perfettamente conosciute e disponibili tecnologicamente ed organizzativamente, in ciò determinandosi danni o aggravamenti alla salute di dipendenti o terzi. In questi casi, il difetto di valutazione del rischio residuo, oltrechè imputabile al datore di lavoro, potrebbe ragionevolmente costituire una negligenza palese rispetto ai reati più gravi9.
II
Nei confronti delle prospettive “de jure condendo” in materia di diritto della salute e sicurezza sul lavoro, con specifico riferimento alla presente vicenda legata al COVID-19, due interventi recentemente proposti paiono particolarmente efficaci, chiarificatori e, nel contempo, di agevole attuazione, ovvero:
1) la ricomprensione del personale ispettivo delle ASL e dell’INL tra i soggetti chiamati a vigilare sul rispetto delle misure di contenimento nei contesti lavorativi10;
2) la maggiore incisività della presenza del medico competente, dalla valutazione dei rischi, alla attivazione della sorveglianza sanitaria a seguito della prima e senza vincoli di tipizzazione, alla sua “sistemizzazione” nel contesto del Servizio Sanitario Nazionale11;
3) la esplicitazione dell’obbligo di valutazione del rischio in oggetto per il datore di lavoro, anche al di fuori delle ipotesi di rischio tipico, nella consapevolezza della sua potenziale pericolosità in organizzazioni lavorative che comportino un contatto più o meno diretto tra le persone12.
A queste potrebbero aggiungersi altre due prospettive, che vanno anche al di là del rischio contingente, ma che paiono funzionali ad una più corretta definizione degli obblighi datoriali ed al rispetto dei diritti dei lavoratori:
1) la ridefinizione legislativa delle categorie dei rischi oggetto di valutazione, con divisione tra quelli più gravi e di diretta dipendenza dalle attività aziendali, quindi sanzionati penalmente (ad es. gli attuali rischi tipici) e quelli meno gravi e/o ricollegati a cause multifattoriali ma non presidiabili dal solo datore di lavoro, quindi sanzionabili amministrativamente (o, al più, attraverso la responsabilità amministrativa degli enti (ad es. alcuni degli attuali rischi specifici generali, come appunto il COVID-19 o il rischio stress lavoro-correlato, il rischio rapina, ecc.);
2) il maggiore coinvolgimento nella valutazione dei rischi anche del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, in forza di un arricchimento della rispettiva formazione professionale ed attraverso una procedura di formalizzazione dei contributi di valutazione rilasciati al datore di lavoro. Tali figure, infatti, ivi naturalmente compreso il medico competente, potrebbero maggiormente “terziarizzare” (rendendola più esplicita ed autonoma rispetto all’attuale, nei confronti sia del datore di lavoro sia dei lavoratori) la propria posizione in ordine alla valutazione dei rischi ed alle conseguenti misure di prevenzione e protezione individuate, consentendo al datore di lavoro, che resterebbe comunque il dominus del processo valutativo, di beneficiare della depenalizzazione delle fattispecie di reato proprio (a far capo dallo stesso obbligo valutativo) in caso di accoglimento dei pareri conformi dei predetti, oppure di misure in vario modo agevolative della sua responsabilità qualora, ad esempio, aderisca al parere concorde del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente. Anche in presenza di reati comuni per eventi dannosi alle persone (lesioni personali colpose ed omicidio colposo, commessi in violazione delle norme di prevenzione e protezione sul lavoro) la responsabilità penale del datore di lavoro potrebbe qualificarsi diversamente in relazione all’accoglimento più o meno determinante dei contributi dei suoi tre collaboratori. Ciò consentirebbe altresì di “laicizzare” ulteriormente la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, rendendolo parte più attiva e responsabile del processo di valutazione dei rischi, contribuendo a distinguere le prerogative dello stesso rispetto a quelle delle rappresentanze sindacali (più funzionali alla diretta conoscenza delle condizioni di sicurezza aziendale effettive e non negoziabili le prime; più consone alla politica generale di sicurezza nelle parti negoziabili, quali, ad esempio, le misure di miglioramento organizzativo, ergonomico, di sorveglianza sanitaria, di assistenza psicolavoristica, l’adozione di misure promozionali dei comportamenti di sicurezza , ecc., le seconde)13.
Nel complesso, tale configurazione dei rapporti tra datore di lavoro e suoi “consulenti” qualificati potrebbe alleggerire la “solitudine” del primo nei confronti delle scelte di sicurezza, confermare il doveroso rilievo, attraverso un più forte contributo referenziale, al principio costituzionale della indisponibilità negoziale della sicurezza per le persone nelle attività d’impresa, elevare le tre figure predette in termini di professionalità formale e sostanziale e di relativa responsabilità (che per altro non comporterebbe necessariamente una modifica dell’attuale status penale, distinto pro parte tra reati comuni e propri) e, finalmente, consentirebbe all’intero sistema di fare un passo in avanti in direzione di un più efficace presidio di salute e sicurezza sul lavoro nelle varie realtà aziendali.
Una più incisiva e competente plurilateralità interna nella gestione della sicurezza, pur sempre rimessa alle scelte finali del datore di lavoro, gioverebbe infatti ad affrontare con minore affanno ed incertezza vecchi e nuovi scenari di rischio, ordinamenti di settore sempre più coinvolgenti e complessi (anche da un punto di vista formale, sol che si pensi all’affastellarsi della eterogenea produzione normativa nella vicenda in oggetto, ivi compresi gli obblighi di autocertificazione) e, finalmente, vecchie e nuove ipotesi di responsabilità comunque ineludibili per le imprese nei confronti della salute e della sicurezza dei lavoratori, i quali, non va dimenticato, continueranno a costituire le risorse fondamentali per la ripresa e lo sviluppo dell’intero sistema economico e sociale.
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1 “La valutazione che il datore di lavoro è tenuto a effettuare riguarda tanto i rischi tipici e nominati – ossia specificamente indicati da determinate normative di settore adesso per lo più confluite nel d.lgs. 81/2008 – quanto i rischi ulteriori e non espressamente regolamentati, specialmente quelli evidenziati dal progressivo sviluppo delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia. … D’altronde, se così non fosse, finirebbe per riproporsi quel contrasto tra la legislazione interna e il diritto comunitario che già è costato all’Italia una condanna da parte della Corte di Giustizia (15/11/2001, n. C-49/2000), a seguito della quale il legislatore nazionale si risolse a ritoccare l’art. 4 d.lgs. 626/94 stabilendo che “tutti” i rischi debbono rientrare nell’oggetto della valutazione”; D. MICHELETTI, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, 2010, p. 221.
“Il nuovo art. 28 costituisce la cornice normativa alla cui stregua anche i rischi non “tipici” … ricadono nella sfera di applicazione dell’obbligo di valutazione che grava sul datore di lavoro…La norma (art. 28, c. 2. lett. f) D.Lgs. 81/08) costituisce lo strumento concreto per il datore di lavoro per l’individuazione di ulteriori rischi che, pur non essendo tipici (e cioè non tipizzati da una norma di legge o da altro atto/fonte riconosciuto, si configurano tuttavia come specifici, in quanto propri della mansione svolta dal lavoratore, perché da questa “occasionati”; A. GIULIANI, La sicurezza nel lavoro bancario, in Il testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (D.Lgs. 106/2009), a cura di M. Tiraboschi e L. Fantini, 2009, pp. 874-875. Qui l’Autore si riferisce al c.d. rischio rapina, considerato appunto un rischio atipico, specifico e generale.
2 “I rischi lavorativi presenti negli ambienti di lavoro … possono essere divisi in tre categorie:
a)Rischi per la sicurezza dovuti a rischi di natura infortunistica (strutture, macchine, impianti elettrici, sostanze pericolose, incendio-esplosioni)
b) Rischi per la salute dovuti a rischi di natura igienico-ambientale (agenti chimici, agenti fisici, agenti biologici)
c) Rischi per la sicurezza e la salute dovuti a rischi di tipo cosiddetto trasversale (organizzazione del lavoro, fattori psicologici, fattori ergonomici, condizioni di lavoro difficili).”, ISPESL – Dipartimento Igiene del Lavoro - Centro Ricerche Monteporzio Catone (RM), Linee Guida per la valutazione del rischio, in Igiene e Sicurezza del Lavoro/Inserti, 1/1999, p. IV.
Sostanzialmente in linea con l’impostazione tradizionale, anche se con ulteriori evidenze dettate dal progresso delle condizioni organizzative e tecnologiche di produzione, le nuove Procedure standardizzate emanate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro nel 2012: “I pericoli presenti in azienda sono legati alle caratteristiche degli ambienti di lavoro, dei materiali; agli agenti fisici, chimici o biologici presenti; al ciclo lavorativo, a tutte le attività svolte …; a fattori correlati all’organizzazione del lavoro adottata; alla formazione, informazione e addestramento necessari e, in generale, a qualunque altro fattore potenzialmente dannoso per la salute e la sicurezza dei lavoratori.” Decreto Interministeriale 30/12/2012, Procedure Standardizzate per la Valutazione dei Rischi, ai sensi dell’art. 29 D.Lgs. 81/2008, p. 9.
3 Fondamentale appare il concetto di rischio residuo per l’intero processo di valutazione dei rischi poiché “vanno individuati i rischi che derivano non tanto dalle intrinseche potenzialità di rischio delle sorgenti (macchine, impianti, sostanze chimiche ecc.) quanto i potenziali rischi che permangono tenuto conto delle modalità operative seguite, delle caratteristiche dell’esposizione, delle protezioni e misure di sicurezza esistenti (schermatura, segregazione, protezioni intrinseche, cappe di aspirazione, ventilazione, isolamento, segnaletica di pericolo) nonché degli ulteriori interventi di protezione. In conclusione si deve individuare ogni rischio di esposizione per il quale le modalità operative non consentano una gestione controllata: rischi residui”); ISPESL, Linee Guida, cit., p. VI.
4 L’azienda può notoriamente costituire un veicolo di maggior diffusione per l’epidemia in oggetto, così come per altre forme patologiche di tipo endemico, e quindi anche l’obbligo di prevenzione nei confronti della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente, di cui all’art. 2, c. 1, lett. n) del T.U., sopra indicato in relazione ai “rischi professionali” non può prescindere da alcun fattore causale o concausale, endogeno od esogeno all’azienda stessa, purchè dalla stessa concretamente ed obiettivamente agevolabile, in ragione almeno dell’interpretazione teleologica della norma predetta. In tal senso desta perplessità, soprattutto in relazione all’obbligo di valutazione dei rischi, la sottrazione del campo di applicazione del Titolo X del T.U. rispetto alle “organizzazioni produttive caratterizzate da un rischio di tipo generico, ovvero del tutto assimilabile a quello cui è esposta la popolazione non lavorativa” (L.M. PELUSI, Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19; una prima lettura critica degli obblighi datoriali, in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 2-2019, pp. 125-126.
5 Autorevole dottrina è contraria all’assoggettamento del rischio in esame all’obbligo di valutazione o di aggiornamento della stessa in capo al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 29 T.U,. e tuttavia, al di là delle pur pregnanti considerazioni stricto jure, tale impostazione non impedisce (anzi lo impone) che le nuove misure di sicurezza adottate in azienda in base alle varie fonti di diritto pubblico finora coinvolte siano “adattate” dal datore di lavoro alla propria realtà, seppur con margini più o meno ampi di discrezionalità, ovvero comportando almeno di fatto e di certo preliminarmente un processo valutativo indubbiamente mirato all’attività specifica dei lavoratori, al contesto che la distingue ed alla relativa salute e sicurezza (“Il datore di lavoro dovrà tuttavia farsi garante dell’applicazione in azienda delle misure di prevenzione dettate dalla pubblica autorità, spettandogli comunque di valutare e decidere come adottarle nella propria azienda ove esse presentino margini di discrezionalità”, P. PASCUCCI, Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?, in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 2-2019, p. 104.
6 Interessante al riguardo può considerarsi il parallelismo con il rischio rapina, anch’esso di origine esogena alle aziende, ma che in talune di esse (ad es. quelle di credito) può comportare rischi particolarmente aggravati e quindi superiori a quelli medi in cui possono incorrere persone singole ed organizzazioni prive di beni di valore sottraibili dai malviventi. In questi casi, in assenza di normazione primaria di riferimento e, comunque, a fronte della competenza dello Stato in materia di ordine pubblico, l’ordinamento ha confermato l’obbligo di valutazione del rischio specifico in questione (per lavoratori e terzi) in capo al datore di lavoro delle aziende di credito con riferimento ai Protocolli di sicurezza tra Ministero dell’Interno, aziende di credito e relativa associazione di categoria, convenuti a livello di Prefetture e demandando tuttavia ai singoli datori di lavoro il compito di adattarli e tradurli in atto nelle proprie realtà. Tale processo ha poi comportato la competenza ripartita tra Ministero dell’Interno e Ministero della Sanità rispetto ai compiti di vigilanza pubblica (rispettivamente, al primo gli adempimenti di sicurezza antintrusione, c.d. security, ed al secondo quelli di salute e sicurezza per le persone, c.d. safety). Per approfondimenti, A. GIULIANI, La sicurezza nel lavoro bancario, cit., pp. 871-876.
7 L’emanazione del nuovo Protocollo, aggiornato rispetto al precedente del 14/3/2020, non varia la sua originaria natura di “imprescindibile punto di riferimento per l’adozione di singoli protocolli aziendali di sicurezza anti-contagio”, né “la sua potestà lato sensu normativa, come del resto accade quando un prodotto dell’autonomia negoziale privata viene assunto dall’ordinamento statuale per perseguire finalità di tutela dell’interesse pubblico generale”, P. PASCUCCI, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22 marzo 2020 e soprattutto del d.l. n. 19/2020, in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 1-2020, p. 123.
8 Anche considerandolo rischio generico esogeno, per quanto sopra indicato, esso comporterebbe pur sempre un obbligo di valutazione per il datore di lavoro, seppur residuale rispetto alle indicazioni dell’autorità pubblica ma non meno essenziale per l’adozione delle relative misure di sicurezza nell’attività specifica d’impresa. Nel senso accolto, R. GUARINIELLO, La sicurezza del lavoro al tempo del Coronavirus, WKI, 2020, pp. 5 e segg.: “Debbono essere valutati tutti i rischi per la sicurezza che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell’attività lavorativa, bensì durante l’attività lavorativa come appunto il coronavirus … La valutazione deve riguardare il rischio coronavirus ovunque l’attività lavorativa venga prestata e, quindi, anche all’esterno dei locali aziendali … L’analisi del rischio coronavirus non può essere generica, così come non può essere generica l’individuazione delle relative misure di prevenzione e protezione”.
9 Illuminanti al riguardo gli insegnamenti della Cass. pen., Sez. Un. 18/9/2014, n. 38343: “Il sistema prevede che ciascun garante analizzi i rischi specifici connessi alla propria attività ed adotti le conseguenti, appropriate misure cautelari, avvalendosi proprio di figure istituzionali, come il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (ma anche, pro parte, il medico competente, n.d.r.) che del sapere necessario sono istituzionalmente portatori. Correttamente si è parlato al riguardo di auto-normazione: espressione che bene esprime la necessità di un continuo auto-adeguamento delle misure di sicurezza alle condizioni delle lavorazioni. … Occorre partire dalla considerazione che la fattispecie colposa ha necessità di essere etero-integrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica, contrariamente a quanto si potrebbe a tutta prima pensare, costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività”.
10 “Permanendo inalterati i dubbi … in merito alle reali capacità delle Forze di polizia e delle Forze armate di svolgere un’adeguata vigilanza sul rispetto delle misure di contenimento nei contesti lavorativi”, P. PASCUCCI, Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro, cit., pp. 126-127.
11 C. LAZZARI, Per un (più) moderno diritto della salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19, in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 1-2020, pp. 142-146.
12 Ibidem, pp. 146-149. Particolarmente chiarificatore l’assunto secondo cui “pure a non voler intervenire sulla definizione di “prevenzione” (di cui all’art. 2, c. 1, lett. n) T.U.; n.d.r.), il richiamo ai “rischi professionali” ivi contenuto, dovrebbe essere inteso in senso ampio, ossia riferito non solo ai rischi di cui l’organizzazione è fonte diretta, ma altresì a quelli che, sebbene non prodotti in via immediata dalla stessa, nelle modalità organizzative, considerate complessivamente sia come condizioni di lavoro che di contesto, trovano un aggravamento”.
13 Forse è il caso di ripensare il principio del c.d. “canale unico” di rappresentanza dei lavoratori che ha impedito, a far capo dall’introduzione del D.Lgs. 626/1994, la formazione di due funzioni separate e più efficaci (quella sindacale generalista e quella specialistica di sicurezza, con legittimazione diretta dei lavoratori). Ciò ha in molti casi comportato, come ormai appurato, subalternità, scarsa specializzazione e considerazione aziendale, a tratti fino a varie malcelate forme di svilimento dell’attività dei rappresentanti per la sicurezza, specialmente considerando, a contrario, che la Direttiva del Consiglio del 12/6/1989 (89/391/CEE), all’art. 11, indicava nella partecipazione equilibrata dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e/o nella consultazione preventiva e tempestiva ad opera del datore di lavoro la loro “funzione specifica”: entrambe disattese, la prima legislativamente e la seconda nell’esperienza delle relazioni sindacali finora succedutesi. Condivisibili appaiono quindi le considerazioni in merito di L. ANGELINI, Rappresentanza e partecipazione nel diritto della salute e sicurezza dei lavoratori in Italia, in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 1-2020, pp. 112 e 115: “Per il vero, si sarebbe dovuto e potuto fare molto di più, soprattutto nel rassicurare i lavoratori più motivati e potenzialmente disponibili a candidarsi attraverso la previsione di forme e strumenti di aiuto e sostegno nello svolgimento delle funzioni rappresentative … Quando è in gioco la tutela della salute e sicurezza, nessuna vera conquista è possibile se si prescinde dalla partecipazione e dall’effettivo coinvolgimento dei lavoratori che, una rappresentanza collettiva che essi non abbiano adeguatamente legittimato, nella quale non si riconoscono e che, soprattutto, non si dimostri nei fatti capace di interpretare tutti i loro bisogni non è sicuramente in grado di realizzare”.
Torino, 2 maggio 2020 Dott. Venanzo Maria Bocci