La tutela della salute e della sicurezza dei telelavoratori nell’ordinamento italiano

(con qualche retrospettiva dottrinale)

 

di Paolo Pascucci*

 


Sommario: 1. Una brevissima premessa. 2. Il telelavoro: nozione e inquadramento. – 3. Telelavoro e flessibilità. – 4. Le discipline speciali del telelavoro nel settore pubblico e nel settore privato. – 4.1. Le discipline speciali del telelavoro: a) le definizioni. – 4.2. Le discipline speciali del telelavoro: b) salute e sicurezza. – 5. Due ricostruzioni dottrinali sull’applicabilità al telelavoro del d.lgs. n. 626/1994, con particolare riferimento al telelavoro domiciliare. – 5.1. La ricostruzione di Esposito. – 5.2. La ricostruzione di Viscomi. – 6. L’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008. – 6.1. Alcuni problemi: quali telelavoratori? – 6.2. segue: il telelavoro in alternanza. – 6.3. segue: i telelavoratori a domicilio ex l. n. 877/1973. – 6.4. segue: l’utilità della nuova norma e la coerenza con essa di quelle precedenti. – 6.5. segue: la lacuna del telelavoro parasubordinato. – 6.6. segue: il telelavoro autonomo ex art. 2222 c.c. – 6.7. Una diversa lettura dell’art. 3, comma 7? – 7. La valutazione dei rischi connessi al telelavoro.


1. Una brevissima premessa

In una primissima analisi sul Titolo I del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Pascucci 2008), si sono svolte alcune osservazioni anche sulla nuova previsione contenuta nell’art. 3, comma 10, di tale decreto che si occupa della specifica disciplina della tutela della salute e sicurezza dei telelavoratori subordinati.

Trascorso ormai più di un anno da quella prima ricostruzione, alla luce dei contributi dottrinali pubblicati in materia nonché delle modifiche apportate al d.lgs. n. 81/2008 dal d.lgs. correttivo 3 agosto 2009, n. 106 (che, sebbene non tocchino l’art. 3, comma 10, incidono indirettamente su altri aspetti della tutela dei telelavoratori), pare opportuno tornare più approfonditamente sull’argomento, anche ricostruendo parte del dibattito specialistico sviluppatosi negli anni che hanno preceduto l’avvento della nuova disciplina in materia. Per altro verso, come accade in ogni rivisitazione, si avrà modo di riflettere su considerazioni già svolte, anche rivedendone, eventualmente, l’impostazione.

Per chi in passato vi ha dedicato particolare attenzione, tornare a riflettere ancora una volta sul tema del telelavoro rappresenta una sfida quanto mai interessante, perché, ad onta di un suo sviluppo nell’esperienza italiana non ancora maturo, il telelavoro costituisce pur sempre un tema di frontiera capace di stimolare la riflessione sui nuovi scenari della prestazione di lavoro, dei suoi nuovi rischi e delle sue tutele.

 

2. Il telelavoro: nozione e inquadramento

Con il termine “telelavoro” si indica genericamente il lavoro a distanza che si avvalga di strumenti informatici. Il telelavoro può essere quindi genericamente inteso come la prestazione di chi lavori, con un videoterminale, topograficamente al di fuori dell’impresa cui la prestazione inerisce.

Sebbene il telelavoro possa essere effettuato nelle forme e con le modalità più svariate, esso si risolve sempre in una particolare modalità di organizzazione ed esecuzione della prestazione lavorativa, deducibile in uno dei vari contratti di lavoro tipizzati dall’ordinamento a seconda della ricorrenza o meno degli elementi tipici della subordinazione.

In sé, quindi, il telelavoro non è un autonomo contratto di lavoro, ma, secondo un ormai ben noto insegnamento (Gaeta 1993; Flammia 1995; Gaeta 1998) (v. anche Pascucci 1995; Pizzi 2009), può costituire l’oggetto di:

a) un contratto di lavoro autonomo tout court ex art. 2222 c.c. quando la prestazione sia effettuata in piena autonomia rispetto al committente ed in modo prevalentemente personale, con un supporto solo ausiliario di manodopera esterna;

b) un contratto di lavoro parasubordinato, come tale caratterizzato dalla presenza di continuità, coordinazione e prevalente personalità della prestazione, sia ex art. 409, n. 3, c.p.c., sia ex art. 61 ss. d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (lavoro a progetto);

c) un contratto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c. ove la prestazione sia rigorosamente individuale, senza alcun aiuto esterno, neppure accessorio, e qualora non vi sia la minima organizzazione di mezzi e di attrezzature, essendovi inoltre la possibilità di un controllo diretto e la verificabilità, in senso lato, di un orario di lavoro: elementi sempre possibili nei sistemi interattivi (on line), ma non impossibili in certi casi di telelavoro non interattivo (off line), in virtù di tecnologie che permettano l’identificazione e il controllo ex post della prestazione;

d) un contratto di lavoro subordinato “speciale” a domicilio ex l. 18 dicembre 1973, n. 877 (su cui v. in particolare Nogler 2000), il che avverrà non in tutti i casi in cui il telelavoro sia prestato nel domicilio del lavoratore, ma soltanto quando tale situazione si verifichi a fronte della presenza della particolare subordinazione tecnica prevista da tale legge (assoggettamento a direttive predeterminate dal committente ed al suo controllo successivo) e dei criteri indicati da essa e dalla giurisprudenza: lavoro eseguito in modo prevalentemente personale, con mezzi ed attrezzature proprie o del committente, senza la possibilità di utilizzare manodopera esterna salvo quella accessoria dei familiari; omogeneità del contenuto della prestazione all’attività produttiva del committente; non occasionalità della prestazione (che deve quindi essere continuativa in senso tecnico); natura imprenditoriale dell’attività svolta dal committente; impossibilità per il lavoratore di rifiutare in qualsiasi momento la prestazione; carattere manifatturiero dell’attività dedotta in contratto e non alta professionalità della stessa1.

 

3. Telelavoro e flessibilità

Se il telelavoro non identifica un particolare contratto di lavoro, ma una specifica modalità di esecuzione della prestazione dedotta in un contratto di lavoro, potrebbe dubitarsi che per esso si possa parlare di contratto di lavoro flessibile. Il dubbio è più che fondato se l’attributo “flessibile” si riferisce al “tipo” negoziale, identificando i contratti di lavoro che presentano assetti e discipline differenti da quanto emerge nel prototipo del contratto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato: è il caso del contratto a termine, del part time, della somministrazione, del lavoro intermittente, di quello ripartito, ma anche – ancorché al di fuori dell’area della subordinazione – del contratto di lavoro parasubordinato.

Quel dubbio perde invece consistenza se l’aggettivo “flessibile” identifica non già il “tipo contrattuale” bensì il fatto che le modalità di svolgimento della prestazione sono differenti da quelle per così dire “tradizionali”, specialmente per quanto attiene alla dimensione spaziale ed a quella temporale.

Nulla vieta, peraltro, che la prestazione di telelavoro, in sé “flessibile” nel senso appena descritto, sia dedotta in uno dei contratti “tipologicamente” flessibili.

 

4. Le discipline speciali del telelavoro nel settore pubblico e nel settore privato

Nell’ordinamento italiano, esiste una disciplina ad hoc del telelavoro soltanto qualora questo sia dedotto in un contratto di lavoro subordinato. Tale disciplina si distingue peraltro a seconda della natura del datore di lavoro: ove questo sia una pubblica amministrazione, la disciplina si ricava dalla combinazione dell’art. 4 della l. 16 giugno 1998, n. 191, del d.P.R. 8 marzo 1999, n. 70, e dell’accordo collettivo quadro sottoscritto il 23 marzo 2000 (nonché dei successivi contratti collettivi di comparto) (Gaeta, Pascucci, Poti 2000; Gaeta 1999; Pascucci 1999); nel caso dei datori di lavoro privati, la regolamentazione di base è invece esclusivamente negoziale e si rinviene nell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 con il quale – ai sensi dell’art. 139, par. 2, del Trattato istitutivo della Comunità europea – è stato recepito l’accordo-quadro europeo sul telelavoro concluso il 16 luglio 2002 tra UNICE/UEAPME, CEEP e CES (Frediani 2004; Pascucci 2009a).

 

4.1. Le discipline speciali del telelavoro: a) le definizioni

Entrambe le discipline appena menzionate contengono una definizione del telelavoro.

Nel settore delle pubbliche amministrazioni, l’art. 2, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 70/1999 definisce “telelavoro” la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie della informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce” (Gaeta 1999).

Nel settore privato, l’art. 1, comma 1, dell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 definisce il telelavoro come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa” (Frediani 2004).

 

4.2. Le discipline speciali del telelavoro: b) salute e sicurezza

Per quanto concerne la tutela della salute e sicurezza (v. in generale sul tema Lepore, Proia 1996), per il telelavoratore pubblico dipendente si prevede espressamente che le amministrazioni pubbliche provvedano alle spese relative al mantenimento dei livelli di sicurezza ed alla copertura assicurativa delle attrezzature in dotazione (art. 5, comma 2, dell’accordo quadro), nonché a fornire la formazione necessaria perché la prestazione di lavoro sia effettuata in condizioni di sicurezza per il lavoratore e per chi vive in ambienti prossimi al suo spazio lavorativo (art. 5, comma 5, dell’accordo quadro).

Nel caso di telelavoro domiciliare – che è effettuabile solo ove sia disponibile un ambiente di cui l’amministrazione abbia preventivamente verificato la conformità alle norme generali di prevenzione e sicurezza nelle utenze domestiche (art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 70/1999) – il lavoratore deve attenersi strettamente alle norme di sicurezza vigenti, dovendo altresì consentire, con modalità concordate, l’accesso alle attrezzature in uso da parte dei manutentori nonché del responsabile della prevenzione e della protezione e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per la verifica della corretta applicazione delle norme di sicurezza (art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 70/1999; art. 6, comma 2, dell’accordo quadro). Peraltro, in virtù del principio dell’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), dovrebbe escludersi che il lavoratore possa rinunciare alla prerogativa di rifiutare in qualsiasi momento l’accesso ai predetti soggetti.

Per le finalità poc’anzi menzionate, anche la disciplina negoziale privatistica prevede un diritto di accesso del datore di lavoro, delle rappresentanze dei lavoratori e delle autorità competenti nel luogo di telelavoro: ove questo sia il domicilio del lavoratore, l’accesso è subordinato a preavviso ed al consenso del lavoratore. Il telelavoratore ha inoltre il diritto di chiedere ispezioni e di essere informato sulle politiche aziendali in tema di sicurezza, con particolare riferimento all’esposizione al video (art. 7 dell’accordo interconfederale).

 

5. Due ricostruzioni dottrinali sull’applicabilità al telelavoro del d.lgs. n. 626/1994, con particolare riferimento al telelavoro domiciliare

Le previsioni contenute nell’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008 costituiscono la prima disciplina legislativa specifica in materia di tutela della salute e sicurezza dei telelavoratori applicabile sia nel settore pubblico sia in quello privato.

Prima dell’emanazione di tale norma ed anche prima che comparissero le discipline settoriali del telelavoro pubblico (d.P.R. n. 70/1999 e accordo quadro del 2000) e privato (accordo interconfederale del 2004), si è discusso sull’applicabilità al telelavoro delle norme di tutela contenute nel d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (sul quale v. per tutti Montuschi 1997), spesso richiamato dalle clausole dei vari contratti collettivi che si occupavano di telelavoro2.
Due approfondite ricostruzioni delle questioni connesse all’applicabilità del d.lgs. n. 626/1994 al telelavoro sono state effettuate in occasione della prima ricerche organiche svolte in Italia sui profili giuridici del telelavoro in generale (Gaeta, Pascucci 1998) e del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni (Gaeta, Pascucci, Poti 1998). In questa sede vale la pena riproporre i principali passaggi di tali ricostruzioni, condotte rispettivamente da Marco Esposito (Esposito 1998) e da Antonio Viscomi (Viscomi 2000): ciò perché, sebbene il d.lgs. n. 626/1994 sia stato “superato” dal d.lgs. n. 81/2008 e quest’ultimo detti ora esplicite previsioni in tema di telelavoro, le predette ricostruzioni toccavano alcuni aspetti problematici che possono presentare ancora oggi interesse.

 

5.1. La ricostruzione di Esposito

La ricostruzione di Marco Esposito prendeva le mosse dall’importanza del Titolo VI del d.lgs. n. 626/1994 (artt. 50-59) e dell’Allegato VII sulle prescrizioni minime per il corretto uso di attrezzature munite di videoterminale3. A tale proposito si rilevava peraltro come l’art. 50, comma 2, di tale decreto, attraverso un criterio soggettivo, individuasse alcune categorie di lavoratori addetti a certi specifici posti di lavoro esclusi dal campo di applicazione di questo Titolo, e che, fra questi ultimi lavoratori, rientravano sicuramente possibili tipologie di telelavoratori, come, ad esempio, gli addetti “ai sistemi informatici montati a bordo di un mezzo di trasporto” ovvero “ai sistemi denominati ‘portatili’ ove non siano oggetto di utilizzazione prolungata in un posto di lavoro” (v. anche Nogler 1998). D’altro canto, si osservava come, definendo in dettaglio i lavoratori rientranti pienamente nell’intera tutela del Titolo VI, l’art. 51 del d.lgs. n. 626/1994 restringesse ulteriormente il campo di applicazione, limitandolo a coloro che utilizzano “un’attrezzatura munita di videoterminale in modo sistematico ed abituale, per almeno quattro ore consecutive giornaliere” dedotte le interruzioni stabilite dalla contrattazione collettiva o, in assenza, la pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa al videoterminale.

Nonostante queste limitazioni, Esposito rilevava come molte fossero le forme di telelavoro potenzialmente coperte dalla specifica tutela delle norme sul lavoro al videoterminale, considerando poi che, alla luce dei principi generali della normativa stessa e dell’interpretazione fornita al riguardo dalla Corte di giustizia4, la conformità alle prescrizioni minime di “sicurezza” della postazione videoterminalistica avrebbero comunque dovuto prescindere dalla sua eventuale utilizzazione da parte dei soli lavoratori individuati dal succitato art. 51. Di qui l’obbligo per il datore di lavoro di analizzare i posti di lavoro con particolare riguardo ai rischi per la vista e per gli occhi, ai problemi legati alla postura e all’affaticamento fisico o mentale e alle condizioni ergonomiche e di igiene ambientale, avendo cura di porre in essere le misure appropriate per ovviare agli eventuali rischi prospettati e di garantire l’adeguata sorveglianza sanitaria richiesta dalla legge.

Particolarmente interessanti si rivelano le considerazioni critiche che nella predetta ricostruzione riguardavano la dubbia esistenza di una tutela per la salute e sicurezza nel caso di telelavoro prestato nel domicilio del lavoratore. Nello specifico si osservava che il d.P.R. n. 547/1955, nel delineare il proprio campo di applicazione, forniva una definizione di lavoratore subordinato che presupponeva lo svolgimento della prestazione di lavoro “fuori del proprio domicilio” (art. 3, comma 1), mentre, dal canto suo, il d.lgs. n. 626/1994 da un lato prevedeva (art. 1, comma 3) l’applicazione al lavoro a domicilio delle sue disposizioni “solo nei casi espressamente previsti” (pochi e ben circoscritti: obblighi di informazione e formazione) e, da un altro lato, nelle norme sul lavoro al videoterminale (artt. 50-59), non richiamava espressamente il “lavoro a domicilio”, lasciando così presupporre che il telelavoro “a domicilio” fosse sfornito di qualsivoglia tutela e garanzia protettiva e prevenzionale.

Secondo Esposito, se questa omissione sembrava “confermare una latente discriminazione legislativa nei confronti dei lavoratori a domicilio”, essa doveva essere “anche letta come un netto disfavore del legislatore, e dell’ordinamento più in generale, verso forme di decentramento informatico attuate con il lavoro a domicilio in senso stretto inteso”. Quell’omissione avrebbe quindi ribadito “quella tutela ‘in negativo’ del lavoro a domicilio, che non trova prescrizioni affermative e positive, ma poggia in massima parte” sul divieto posto dall’art. 2, comma 1, della l. n, 877/1973 il quale vieta l’esecuzione di lavoro a domicilio per attività le quali comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e dei suoi familiari. In buona sostanza, si sosteneva che, sebbene la predetta norma non potesse considerare nel 1973 il lavoro a domicilio al videoterminale, “oggi, innanzi ad una formale equiparazione – compiuta proprio dalla normativa comunitaria e da quella nazionale di recezione – tra la pericolosità ed il rischio connessi al lavoro a video con quelle derivanti da attività comportanti, ad esempio, l’uso di agenti biologici, chimici o cancerogeni, non sarebbe del tutto improprio sostenere, sebbene problematicamente, il divieto di telelavoro svolto rigidamente secondo le forme del lavoro a domicilio ex lege n. 877/1973” (ma v. contra Viscomi 2000), pur precisandosi che “si tratterebbe di un divieto non generale e assoluto di ‘telelavoro domiciliare’, bensì solo delle sue forme più insicure”.

Secondo la ricostruzione di Esposito, anche le più serie obiezioni all’esclusione prospettata non apparivano convincenti: “tanto per la scarsa considerazione offerta alla ‘nocività’ dell’uso continuativo dei videoterminali, considerata evidentemente poco ragguardevole malgrado l’esistenza di un’apposita disciplina normativa anche comunitaria, quanto, soprattutto, per l’opzione… che esclude a priori l’inquadramento di prestazioni di lavoro informatizzato e telematico nel tipo legale del lavoro a domicilio ex lege n. 877/1973. Di modo che il richiamo contenuto nel d.lgs. n. 626/1994 al lavoro domicilio sarebbe da intendersi come riferito solo al lavoro domiciliare manifatturiero e non anche a quello che produce beni immateriali, quale è tipicamente il telelavoro”. Una simile opzione, ad avviso di Esposito, non risultava convincente non tenendo conto, in concreto, che molte forme di telelavoro off line “possono non differenziarsi troppo da vere e proprie prestazioni di lavoro manifatturiero”, mentre “non considera che l’esclusione del lavoro informatizzato e tecnologicamente avanzato dal tipo legale del lavoro a domicilio è tutt’altro che pacifica”. Peraltro, anche se si condividesse l’assunto secondo cui al diverso tipo del lavoro subordinato decentrato non manifatturiero (in cui rientra il telelavoro domiciliare) si applica la disciplina propria del lavoro subordinato e non quella speciale della l. n. 877/1973, le difficoltà pratiche rivelerebbero “comunque una scarsa effettività in concreto – per il telelavoro domiciliare – delle tutele previste dal decreto sulla sicurezza, ed un loro difficile adattamento organizzativo alle diverse modalità di telelavoro”. Infatti, “come potrebbe il datore di lavoro verificare l’adeguatezza strutturale del posto di lavoro, provvedere a valutare i rischi ed analizzare un ambiente di lavoro che in ipotesi non sarebbe di sua pertinenza? E come ‘assegnare mansioni e compiti lavorativi secondo una distribuzione che consenta di evitare il più possibile la ripetitività e la monotonia delle operazioni’ (art. 53 d.lgs. 626)? E ancora… come verificare le interruzioni dell’attività lavorativa (art. 54)?”.

Esposito non trascurava neppure di rilevare come anche l’art. 5 del d.lgs. n. 626/1994 (secondo cui “ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro”) non riuscisse a “sovvertire i principi generali in materia di sicurezza, che impongono comunque al datore di lavoro precisi obblighi di sorveglianza e controllo”, non potendosi ammettere “una vigilanza assolutamente sporadica, affidata ad una mera scelta volontaria delle parti, o persino una sua esclusione”. Se quindi “il pieno rispetto dell’art. 5 da parte del lavoratore può attenuare la responsabilità del datore di lavoro”, tuttavia “non lo deresponsabilizza del tutto, non potendo sollevarlo completamente da una verifica diligente del rispetto delle condizioni di salute e sicurezza”, risultando di conseguenza ambigue e invalide quelle clausole della contrattazione collettiva dell’epoca, in base alle quali il datore di lavoro veniva sollevato da ogni responsabilità riguardo ai problemi della salute e della sicurezza del lavoratore e “delle persone in prossimità del suo spazio” di lavoro, laddove si rivelava opportuna la previsione (contenuta in altri accordi collettivi) di viste periodiche di controllo alla postazione telematica ed alla relativa strumentazione (tutte le citazioni da Esposito 1998).

 

5.2. La ricostruzione di Viscomi

Pur occupandosi specificamente della tutela della salute e sicurezza del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni (ambito nel quale la disciplina legislativa, regolamentare e contrattuale del 1998-2000 riguarda esclusivamente il telelavoro subordinato), Antonio Viscomi non evitava di confrontarsi più in generale con i temi “caldi” già affrontati da Esposito, a cominciare dalla tutela dei telelavoratori autonomi, per i quali prospettava l’applicabilità dell’art. 7 del d.lgs. 626/1994 che configurava obblighi prevenzionistici a carico del datore di lavoro anche “in caso di affidamento dei lavori all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi”. Tuttavia, del tutto opportunamente, Viscomi osservava come la fattispecie legale delineata dall’art. 7 presupponesse “l’incidenza materiale sullo stesso spazio lavorativo di più operatori professionali, ognuno dei quali soggetto ad un proprio sistema di sicurezza”, cosicché la possibilità di applicare l’art. 7 anche al telelavoro svolto sulla base di un contratto di appalto o d’opera dipendeva dalla interpretazione della locuzione “lavoro all’interno dell’impresa”.

La spinosa questione della tutela per il telelavoro domiciliare veniva inquadrata nei seguenti termini: riconducendo il telelavoro a domicilio alla fattispecie legale del lavoro a domicilio di cui alla l. n. 877/1973, avrebbe trovato applicazione l’art. 1, comma 3, del d.lgs. 626/1994, ai cui sensi le norme ivi dettate si applicavano soltanto “nei casi espressamente previsti”; ove invece il telelavoro a domicilio non sia riconducibile alla legge del 1973, occorre individuare la disciplina applicabile tenendo conto della impossibilità di equiparare luogo di lavoro ed ambiente (domestico) di telelavoro.

Pur consapevole della portata soprattutto “provocatoria” dell’ipotesi formulata da Esposito circa l’estensione al telelavoro del divieto di cui all’art. 2 della l. n. 877/1973, Viscomi dubitava che la postazione di telelavoro potesse essere considerata pericolosa perché caratterizzata dall’“impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute e l’incolumità del lavoratore o dei suoi familiari”: infatti, “il carattere pericoloso di una attività, dal quale dovrebbe conseguire il divieto di svolgimento domiciliare, non può essere identificato nella mera utilizzazione di macchine come i videoterminali o le postazioni telematiche, quand’anche per il loro uso sia prevista dall’ordinamento una specifica disciplina di tutela”.

Peraltro, entrambe le prospettive ricostruttive risultavano poco appaganti: l’inquadramento del telelavoro domiciliare nella l. n. 877/1973 produceva il modesto effetto dell’applicabilità degli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 626/1994 (solo obblighi di informazione e formazione); considerando invece il telelavoro domiciliare non equivalente al lavoro a domicilio, le norme prevenzionistiche avrebbero trovato agevole applicazione per quanto riguarda la “postazione di telelavoro”, ma sarebbero risultate di più incerta individuazione per quanto attiene all’“ambiente di lavoro” (stante la coincidenza con l’ambiente domestico).

Secondo Viscomi, per quanto riguarda la postazione domiciliare di telelavoro era plausibile sostenere l’applicabilità del Titolo VI del d.lgs. n. 626/1994 e dell’Allegato VII al medesimo decreto. Infatti, “la postazione si configura precisamente come ‘attrezzatura di lavoro’ consegnata dal datore al lavoratore”, rientrando a pieno titolo sotto l’egida dell’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 626/1994 che al primo imponeva “– già nella “scelta” di quelle attrezzature, a prescindere dal relativo luogo di utilizzazione – di valutare i ‘rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori’ e di elaborare consequenzialmente il documento di valutazione”. Per altro verso (e ciò riguarda il settore pubblico), “la postazione rientra nella piena disponibilità dell’amministrazione che la concede in uso al lavoratore”, potendosi ritenere che l’obbligo di rispettare le prescrizioni tecniche prima richiamate discendesse dall’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 626/1994 che vietava la “concessione in uso di macchine, di attrezzature e di impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di sicurezza”.

Per quanto riguarda l’ambiente di lavoro – sempre con riferimento alla disciplina speciale del settore pubblico, che richiede, nell’ambito del complessivo spazio domestico (del “domicilio”), la disponibilità di uno specifico “ambiente di lavoro” (art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 70/1999) –, Viscomi riteneva ragionevole che l’amministrazione fosse chiamata a verificare non soltanto la conformità dell’abitazione alle norme in materia di utenze domestiche, ma anche l’esistenza di uno spazio abitativo specifico adeguato allo scopo per cui si intende utilizzarlo, che sia cioè possibile adibire ad “ambiente di lavoro”, utilizzando al fine criteri oggettivi, quali quelli definiti nell’Allegato VII al d.lgs. n. 626/1994.

Per quanto concerne infine il telelavoro non domiciliare, Viscomi rilevava che se questo fosse eseguito in locali di proprietà dell’amministrazione o in centri satelliti di proprietà altrui, avrebbero trovato applicazione tutte le norme relative alla sicurezza sul lavoro. Peraltro, in caso di assegnazione in uso del centro satellite all’amministrazione, avrebbe trovato applicazione l’art. 4, comma 12, del d.lgs. n. 626/1994, secondo cui gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare la sicurezza degli edifici e dei locali restano a carico del soggetto tenuto, per effetto di norme o convenzioni, alla fornitura e manutenzione. “Pertanto, gli obblighi previsti dalla legge (aventi ad oggetto il ‘contenitore’, si badi, non il ‘contenuto’, cioè l’edificio non la postazione di telelavoro) si intendono assolti da parte dei dirigenti responsabili con la richiesta del loro adempimento al soggetto che ha l’obbligo giuridico di adempiere. In proposito, occorre segnalare che nel caso in cui l’attività di più datori di lavoro incida su uno stesso luogo, è necessario realizzare un coordinamento tra costoro ai fini della sicurezza”.

Infine, si osservava che l’ipotesi di telelavoro mobile sarebbe stata disciplinata dall’art. 50, comma 2, lett. d, del d.lgs. n. 626/1994, in base al quale le norme ivi contenute non trovano applicazione nei confronti dei lavoratori addetti “ai sistemi denominati ‘portatili’ ove non siano oggetto di utilizzazione prolungata in un posto di lavoro” (tutte le citazioni da Viscomi 2000).

 

6. L’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008

Se le previsioni contenute nelle disciplina del telelavoro pubblico (d.P.R. n. 70/1999 e accordo quadro del 2000) e privato (accordo interconfederale del 2004) costituiscono la base sulla quale il d.lgs. n. 81/2008, dando attuazione all’ampia delega contenuta nell’art. 1 della l. 3 agosto 2007, n. 123, ha apprestato la nuova tutela specifica per i telelavoratori subordinati (Antonucci 2008a; Soprani 2008; Pascucci 2008), è anche vero che in questa recente disciplina trovano eco non pochi dei problemi toccati nelle menzionate ricostruzioni dottrinali.

L’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008 contiene un’apposita previsione per i lavoratori subordinati, pubblici e privati, che effettuano una prestazione continuativa di lavoro a distanza, mediante collegamento informatico e telematico, compresi quelli di cui al d.P.R. n. 70/1999 (telelavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni) e di cui all’accordo-quadro europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002 recepito in Italia con l’accordo interconfederale del 9 giugno 2004.

La norma prevede esplicitamente che ai telelavoratori subordinati si applichino le disposizioni di cui al Titolo VII (attrezzature munite di videoterminali: artt. 172-179), indipendentemente dall’ambito in cui si svolge la prestazione stessa (e, quindi, anche nel caso di telelavoro svolto in centri remoti ecc.)5.

Nell’ipotesi in cui il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo IX (evidentemente con particolare riferimento al Capo IV contenente prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dai campi elettromagnetici).

I telelavoratori sono informati dal datore di lavoro circa le politiche aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in particolare in ordine alle esigenze relative ai videoterminali ed applicano correttamente le direttive aziendali di sicurezza. La discutibile mancanza di un’esplicita previsione dell’obbligo di formazione pare peraltro agevolmente superabile sulla scorta delle previsioni generali dell’art. 15, comma 1, lett. n, dell’art. 18, comma 1, lett. l, e dell’art. 37, nonché di quella specifica di cui all’art. 177, in base alla quale il datore di lavoro, da un lato, fornisce ai lavoratori informazioni, in particolare per quanto riguarda le misure applicabili al posto di lavoro (in base all’analisi dello stesso di cui all’art. 174), le modalità di svolgimento dell’attività e la protezione degli occhi e della vista e, dall’altro lato, assicura una formazione adeguata in particolare per quanto concerne le misure applicabili al posto di lavoro.

Inoltre, recependosi le indicazioni già presenti nell’ordinamento6, si stabilisce che, al fine di verificare che il telelavoratore attui correttamente la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza, il datore di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori e le autorità competenti abbiano accesso al luogo in cui viene svolto il lavoro nei limiti della normativa nazionale e dei contratti collettivi, dovendo tale accesso essere ovviamente subordinato al preavviso ed al consenso del lavoratore qualora la prestazione sia svolta presso il suo domicilio. Lo stesso telelavoratore può peraltro chiedere ispezioni.

Infine, accogliendosi una nozione ampia di salute e sicurezza, si prevede che il datore di lavoro garantisca l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali.

 

6.1. Alcuni problemi: quali telelavoratori?

Innanzitutto, l’uso dell’espressione “lavoratori a distanza”, in luogo del termine “telelavoratori”, potrebbe indurre a ritenere che la fattispecie di cui all’art. 3, comma 10, sia più ampia di quella convenzionalmente riconducibile al telelavoro, anche perché i lavoratori a distanza che sono espressamente “compresi” nel primo periodo della norma, vale a dire sia i telelavoratori pubblici sia quelli privati, esauriscono la schiera dei telelavoratori subordinati contemplati nell’ordinamento italiano. Tuttavia, proprio l’esplicito richiamo di tali lavoratori a distanza – definibili a tutti gli effetti “telelavoratori” secondo l’accezione accolta nelle fonti esplicitamente evocate7 – potrebbe risolvere l’ambiguità della disposizione, focalizzando l’attenzione esclusivamente su quelle prestazioni lavorative connotate sia dal ricorso (almeno prevalente) alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), sia dal fatto che la prestazione si svolga in un luogo diverso dalla normale sede di lavoro il quale non costituisca però un’autonoma unità produttiva del datore di lavoro. In questi termini, la più ampia area che emerge dalla lettera dell’art. 3, comma 10, non si riferirebbe tanto a tipologie di telelavoro ulteriori rispetto a quelle evocate nel primo periodo con il richiamo delle fonti regolamentari e contrattuali (tipologie ulteriori appunto inesistenti8), bensì solamente a quei contratti individuali di lavoro subordinato del settore privato in cui sia dedotta una prestazione di telelavoro ed ai quali, in ragione della mancata affiliazione sindacale del datore di lavoro, non fossero applicabili le regole stabilite dalla contrattazione collettiva (di diritto comune)9, che in detto settore privato costituisce l’unica disciplina di riferimento.

Ci si potrebbe tuttavia chiedere se l’ampia gamma di lavoratori subordinati a distanza di cui all’art. 3, comma 10, si riferisca invece proprio ad una categoria concettuale più vasta dei telelavoratori in senso stretto, ricomprendendo, oltre a questi ultimi, anche tutti quei lavoratori la cui prestazione si avvalga prevalentemente di ICT e si svolga normalmente in un luogo non coincidente con la sede principale (di lavoro) del datore di lavoro, che sia tuttavia identificabile come autonoma unità produttiva (secondo l’accezione accolta dall’art. 2, comma 1, lett. t, del d.lgs. n. 81/200810). Si pensi ai lavoratori subordinati che operano in uno dei tanti call center (remoti) di un’impresa (Soprani 2008) che svolge come attività principale quella di call center per conto di altre imprese, ove quel dato call center, per la presenza dei requisiti di legge, sia identificabile come unità produttiva di quella impresa; o si pensi, ancora, ai lavoratori subordinati di un’impresa ad esempio alimentare (che quindi non svolge come attività principale quella di call center) che effettuano indagini di mercato sull’attività dell’impresa collocati in un call center (remoto) di tale impresa anch’esso identificabile come unità produttiva: lavoratori, in entrambi i casi, non qualificabili tecnicamente come telelavoratori in senso proprio. Se si tiene conto del modestissimo sviluppo in Italia del telelavoro in senso stretto e, invece, della ampia diffusione di queste particolari forme di lavoro a distanza (spesso purtroppo ricondotte impropriamente al di fuori dell’alveo della subordinazione), potrebbe essere opportuno ipotizzare che le finalità protettive dell’art. 3, comma 10, si estendano anche a queste fattispecie. Tuttavia, a ben guardare, il contenuto della norma sembra invece ritagliato essenzialmente sulle peculiarità del telelavoro stricto sensu (nelle sue svariate versioni logistiche, compresa quella domiciliare), laddove per i lavoratori a distanza “non telelavoratori” dovranno valere tutte le regole di tutela generali.

Può peraltro ragionevolmente sostenersi che l’ampiezza dell’art. 3, comma 10, pur non riguardando forme di lavoro a distanza non costituenti “telelavoro”, sia da intendere in senso dinamico, tale cioè da consentire di “ospitare” in futuro ulteriori tipologie di telelavoro attualmente non ancora contemplate nell’ordinamento.

 

6.2. segue: il telelavoro in alternanza

Il riferimento dell’art. 3, comma 10, ad una “prestazione continuativa” di lavoro a distanza potrebbe indurre ad escludere dall’ambito della disciplina le ipotesi di lavoro a distanza (rectius, di telelavoro) svolte “in alternanza”.

Sembra tuttavia corretto, in ragione della ratio della disposizione – finalizzata a “portare” tutela là dove normalmente non c’è –, interpretare la previsione della continuità in senso elastico, facendo rientrare nell’art. 3, comma 10, tutte le ipotesi di telelavoro non meramente occasionale, a prescindere dal fatto che esso sia svolto anche in forma alternata, come è del resto consentito espressamente. Infatti l’art. 5, comma 1, dell’accordo collettivo quadro del 23 marzo 2000 prevede, nel settore delle pubbliche amministrazioni, che la fattispecie e la disciplina del telelavoro si estenda ad “altre forme flessibili anche miste, ivi comprese quelle in alternanza”, contemplando quindi una modalità di telelavoro “parziale”. Tale modalità è, fra l’altro, l’unica prevista per i dirigenti (art. 3, comma 6, del d.P.R. n. 70/1999; art. 4, comma 4, dell’accordo collettivo quadro del 23 marzo 2000), poiché la natura delle loro funzioni richiede la presenza fisica in sede per determinati periodi di tempo.

 

6.3. segue: i telelavoratori a domicilio ex l. n. 877/1973

Un’ulteriore notazione sul campo di applicazione dell’art. 3, comma 10, riguarda i telelavoratori “a domicilio”, potendocisi chiedere se la norma – che riguarda senz’altro i telelavoratori a domicilio inquadrabili come lavoratori subordinati ex art. 2094 c.c. – sia applicabile anche ai telelavoratori a domicilio inquadrabili (non sembri un bisticcio di parole) come lavoratori “a domicilio” ex l. n. 877/1973. Sebbene il lavoro a domicilio ex l. n. 877/1973 costituisca pur sempre lavoro subordinato (ancorché speciale), si tratta di una fattispecie che il d.lgs. n. 81/2008 disciplina in un’apposita disposizione (art. 3, comma 9) rispetto alla quale l’art. 3, comma 10, non sembra però rivestire carattere speciale.

Deve pertanto ritenersi che, ai sensi del predetto art. 3, comma 9, come modificato dal d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106, per i telelavoratori riconducibili nella fattispecie di cui alla l. n. 877/1973 – riconducibilità, peraltro, che, come si è visto in precedenza, non è agevole né è condivisa da tutti gli interpreti – trovino applicazione gli obblighi di informazione e formazione di cui agli articoli 36 e 37 del d.lgs. n. 81/2008 e che agli stessi debbano inoltre essere forniti i necessari dispositivi di protezione individuali in relazione alle effettive mansioni assegnate, fermo restando che, ove il datore di lavoro fornisca attrezzature proprie, o per il tramite di terzi, tali attrezzature devono essere conformi alle disposizioni di cui al Titolo III.

 

6.4. segue: l’utilità della nuova norma e la coerenza con essa di quelle precedenti

La riproposizione di principi già presenti nell’ordinamento (per il telelavoro pubblico e privato) non deve indurre a considerare superflua la nuova norma: non si deve infatti sottovalutare che, al di fuori del settore pubblico, le tutele che essa ora prevede per legge potevano essere precedentemente enucleabili solo in via interpretativa e, quand’anche risultassero dalla contrattazione collettiva, potevano scontare la ben nota difficoltà di applicazione dovuta alla limitata efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune.

Per altro verso, se la nuova disposizione non sembra porsi in contrasto con le specifiche discipline già previste per il telelavoro, queste ovviamente debbono essere ora interpretate coerentemente con quanto previsto dal d.lgs. n. 81/2008 stante la previsione dell’art. 304, comma 1, lett. d, del medesimo in base al quale sono abrogate le altre disposizioni legislative e regolamentari nella materia disciplinata dal d.lgs. n. 81/2008 incompatibili con lo stesso.

 

6.5. segue: la lacuna del telelavoro parasubordinato

L’apprezzamento per la nuova disposizione non può tuttavia celare il disappunto per la mancata menzione di un’ulteriore “categoria” di telelavoratori che, come tempestivamente segnalato (Gaeta 1998), rischia di essere piuttosto folta: quella dei telelavoratori parasubordinati. C’è infatti da chiedersi se, al di là della questione circa la possibilità di avvalersi della norma di carattere generale di cui all’art. 2087 c.c. (Montuschi 1989; Natullo 1995; Natullo 2007; Albi 2008), nei loro confronti esista una specifica disciplina applicabile in materia di salute e sicurezza, stante la combinazione nel d.lgs. n. 81/2008 tra la limitata previsione dell’art. 3, comma 10 (applicabile al solo lavoro subordinato) e quella dell’art. 3, comma 7, che, applicando la normativa di tutela ai lavoratori parasubordinati solo se la prestazione lavorativa si svolga nei “luoghi di lavoro del committente” (Bubola 2008), sembrerebbe escludere dalla tutela qualunque telelavoratore parasubordinato (Pascucci 2008): ciò almeno ove si ritenga, con una interpretazione restrittiva, che per “luoghi di lavoro del committente” si intendano esclusivamente i “locali dell’impresa committente” (v. la definizione dell’accordo interconfederale del 2004) ovvero la “sede di lavoro” (vale a dire “quella dell’ufficio al quale il dipendente è assegnato”, secondo la definizione del d.P.R. n. 70/1999), cioè i luoghi al di fuori dei quali, ai sensi delle predette definizioni, può effettuarsi telelavoro. Qualora invece si ritenga, in senso più elastico, che l’espressione “luoghi di lavoro del committente” si riferisca anche a qualsiasi luogo (pur diverso dalla “normale” sede di lavoro) di cui il committente abbia la disponibilità, si potrebbe sostenere che la limitazione dell’art. 3, comma 7, non riguardi tutti i telelavoratori parasubordinati (Antonucci 2008a): sarebbero ad esempio sottratti a tale limitazione ed assoggettati alla tutela generale coloro che operano in una postazione di telelavoro collocata in un centro remoto o satellitare che tale centro ponga a disposizione, mediante locazione, del committente.

Anche sostenendo quest’ultima interpretazione, in sé più che plausibile specialmente perché tiene opportunamente conto della variegata morfologia applicativa del telelavoro, resta il fatto che, sul piano meramente testuale, sembra in ogni caso difficile interpretare l’espressione “luoghi di lavoro del committente” come comprensiva di qualsiasi luogo in cui operi il telelavoratore, come ad esempio il suo domicilio. Né di qualche ausilio pare rivelarsi la definizione di “luogo di lavoro” contenuta nell’art. 62, comma 1, lett. a, del d.lgs. n. 81/2008, come modificato dal d.lgs. n. 106/2009, il quale, ferme restando le disposizioni del Titolo I, si riferisce ai luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ad ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro. Infatti, quand’anche si ipotizzi che il concetto di “pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro” si riferisca latamente a qualsiasi luogo connesso all’esecuzione della prestazione lavorativa – intendendo quindi il termine “pertinenza” forse più in termini di funzionalità “economica” per il datore di lavoro che in un senso di tradizionale disponibilità giuridica da parte del datore medesimo (Arganese 2008) –, resta comunque il fatto che l’art. 62 rileva unicamente ai fini dell’applicazione del Titolo II del d.lgs. n. 81/200811: un Titolo che, a ben guardare, anche alla luce di un’interpretazione sistematica delle sue previsioni e delle prescrizioni tecniche di cui all’Allegato IV ivi richiamato, sembra comunque ancora riferito a luoghi di cui il datore abbia disponibilità.

Dato che la disciplina speciale dell’art. 3, comma 10, è limitata ai telelavoratori subordinati, quali tutele potrebbero allora applicarsi nei confronti dei telelavoratori parasubordinati? Più in particolare, avvalendosi della interpretazione più elastica di cui si è parlato – e, quindi, distinguendo i telelavoratori parasubordinati tra quelli che operano in luoghi diversi dalla sede di lavoro ma pur sempre del committente (centri remoti o satellite ecc.) e coloro che operano in luoghi affatto diversi da “quelli del committente” (ad esempio telelavoratori domiciliari) –, quali tutele potrebbe applicarsi a questi ultimi?

Almeno nel settore privato, nel cui ambito il telelavoratore parasubordinato deve essere “a progetto” – si può fare appello alle “eventuali misure” da indicare nel contratto ex art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276/2003. Tale norma non sarebbe invece invocabile nel settore pubblico, nel quale le collaborazioni parasubordinate non sono disciplinate dal d.lgs. n. 276/2003 e la disciplina legislativa, regolamentare e contrattuale del telelavoro si riferisce esclusivamente ai telelavoratori subordinati.

Ci si può chiedere se la mancata menzione dei telelavoratori parasubordinati (privati e pubblici) nell’art. 3, comma 10, possa forse essere “compensata”, almeno per quanto riguarda gli standard di tutela “di base”, dalla loro possibile ricomprensione nel Titolo VII sui videoterminali, che, nonostante l’assenza di un esplicito raccordo, sembrerebbe comunque applicabile alla fattispecie in esame grazie sia alle sue norme di vasta portata, sia all’ampia nozione di lavoratore accolta nell’art. 2, lett. a, del d.lgs. n. 81/2008. Può infatti osservarsi che l’art. 172 dispone genericamente l’applicazione del Titolo VII alle attività lavorative che comportano l’uso di attrezzature munite di videoterminali12 e che l’art. 173, ai fini del Titolo VII, definisce il lavoratore come colui che utilizza un’attrezzatura munita di videoterminali, in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni di cui all’art. 175. Orbene, raccordando queste norme appunto con l’ampia definizione di “lavoratore” accolta nell’art. 2, comma 1, lett. a, non sembrerebbe peregrino sostenere che il telelavoratore parasubordinato – ancorché “escluso” dalla tutela generale del Titolo I (ex art. 3, comma 7) e da quella più particolare dei telelavoratori subordinati (ex art. 3, comma 10) – sia comunque destinatario (ricorrendo i presupposti di cui all’art. 173) almeno della tutela speciale dei videoterminalisti di cui al Titolo VII13. È evidente che tutto dipende da come si interpreta il complesso intreccio qui esistente tra norme generali e speciali, potendocisi a tal fine avvalere anche del criterio ermeneutico insito nella definizione di lavoratore di cui all’art. 2, lett. a, del d.lgs. n. 81/2008.

È vero però che lo sbarramento dell’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 81/2008 potrebbe impedire anche questa operazione interpretativa, dato che esclude l’applicazione del decreto (quindi anche delle norme del Titolo VII) qualora il lavoratore parasubordinato operi al di fuori dei “luoghi di lavoro del committente”. Ma c’è allora da chiedersi se soltanto il “luogo” della prestazione possa davvero giustificare una così palese disparità di trattamento per quanto attiene alla tutela della salute dei telelavoratori parasubordinati, con la cancellazione di qualsiasi tutela per i telelavoratori parasubordinati domiciliari!

Occorre poi verificare quali tutele possano invece applicarsi nei confronti dei telelavoratori parasubordinati che operino nei “luoghi di lavoro del committente” (come centri remoti o satellite ecc.), i quali, pur esclusi dalla speciale disciplina di cui all’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008, rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 81/2008 alla luce della interpretazione elastica dell’art. 3, comma 7, a cui si è fatto cenno.

La risposta è semplice solo in apparenza. Se è vero che questi lavoratori hanno formalmente diritto di godere di tutte le garanzie previste dal decreto (al pari degli altri lavoratori parasubordinati “interni” e dei lavoratori subordinati) (Bubola 2008), è vero pure che la peculiarità della loro prestazione esige specifici standard di tutela che non sembrano rintracciarsi nella disciplina generale: come è stato giustamente posto in luce, in simili casi ciò che serve non è una semplice omologazione alla disciplina standard, bensì una specifica disciplina di tutela ad hoc (Tiraboschi 2008b)14. Al di là dell’applicabilità della tutela “di base” di cui al Titolo VII sui videoterminali – che varrebbe senz’altro per i telelavoratori di cui si sta discutendo (senza i dubbi appena citati a proposito dei telelavoratori totalmente “esterni”) –, non è agevole individuare il quid pluris di tutela specifica o differenziale rispetto ai non telelavoratori. Se per i telelavoratori “privati” possono richiamarsi le riflessioni appena svolte sull’applicabilità dell’art. 62, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 276/2003, e se, più in generale, utili indicazioni potrebbero provenire dagli accordi collettivi (Lazzari 2006), pare che un ruolo decisivo debba essere giocato dalla valutazione dei rischi di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008, la quale non potrà evitare di confrontarsi con i rischi specifici derivanti dal telelavoro e di apprestare le opportune misure di prevenzione e protezione (v. infra § 7).

 

6.6. segue: il telelavoro autonomo ex art. 2222 c.c.

È evidente che nel caso di telelavoratori autonomi ex art. 2222 c.c. troveranno applicazione almeno le previsioni dell’art. 2115 (Antonucci 2008a, Antonucci 2008b), come previsto dall’art. 3, comma 11. Ma può ciò valere anche per i telelavoratori parasubordinati che operino al di fuori dei “luoghi di lavoro del committente”? In altri termini, l’art. 3, comma 7, precludendo l’applicazione a tali soggetti delle norme del d.lgs. n. 81/2008, limita anche l’applicabilità dell’art. 21? Se così fosse, si evidenzierebbe un eclatante paradosso perché i telelavoratori parasubordinati – che sono pur sempre lavoratori autonomi, peraltro bisognosi di maggiore protezione (per la presenza dei tre elementi della coordinazione, continuità e prevalente personalità della prestazione) (Antonucci 2008b) – si vedrebbero negata addirittura la tutela minimale prevista per i lavoratori autonomi ex art. 2222 c.c.!

L’art. 3, comma 11, del d.lgs. n. 81/2008 estende ai lavoratori autonomi ex art. 2222 c.c. anche le tutele previste dall’art. 26 del decreto, il quale, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, configura una serie di obblighi in capo al datore di lavoro committente (Tullini 2007; Bacchini 2008b; Pasquarella 2008).

La possibilità di applicare questa disciplina sugli appalti anche ai telelavoratori autonomi (già prospettata alla luce dell’art. 7 del d.lgs. n. 626/1994: Viscomi 2000) poteva non essere esclusa a priori dal testo originario dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, il quale, facendo riferimento soprattutto all’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda, sembrava esaltare più l’inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro (art. 2, lett. a, del d.lgs. n. 81/2008) che il dato meramente logistico.

Senonché, l’art. 26, comma 1, deve essere oggi letto alla luce della integrazione operata dal d.lgs. n. 106/2009, la quale ha subordinato la vigenza degli obblighi del committente alla condizione che quest’ultimo abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo. Tale precisazione (in sé ancor più pregnante di quella contenuta nell’art. 3, comma 7, sui “luoghi di lavoro del committente”) pare ostacolare seriamente la possibilità di estendere la specifica tutela della sicurezza del lavoro negli appalti a quei telelavoratori autonomi che operino in luoghi di cui il committente non abbia la disponibilità giuridica.

Se è vero che l’art. 26 è essenzialmente finalizzato ad apprestare tutela contro i particolari rischi che scaturiscono dalle interferenze tra l’attività dell’appaltante e quella degli appaltatori o dei lavoratori autonomi16, e se è altrettanto vero che, stante la delocalizzazione propria del telelavoro, in questo caso i rischi da interferenza appaiono alquanto evanescenti17, è altresì vero che la sopravvenuta impossibilità di applicare l’art. 26 per i telelavoratori autonomi che operino in luoghi di cui il committente non abbia la disponibilità giuridica (come il domicilio del telelavoratore) comporta qualche discutibile alleggerimento della disciplina. In particolare non sembra più applicabile – come poteva sostenersi prima della riforma del 2009 – la previsione di cui all’art. 26, comma 1, che impone al committente di verificare l’idoneità tecnico professionale dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da effettuare. Lo stesso vale per la previsione relativa alla fornitura agli stessi soggetti di dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività: previsione che, prima della novella, avrebbe forse potuto riferirsi ai telelavoratori nella sua prima parte (informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare) a condizione di interpretare in senso assai ampio l’espressione “ambiente in cui sono destinati ad operare”.

 

6.7. Una diversa lettura dell’art. 3, comma 7?

Come si è ampiamente visto, la limitazione prevista dall’art. 3, comma 7, relativamente ai “luoghi di lavoro del committente” rischia di generare per i telelavoratori parasubordinati – sicuramente per quelli domiciliari – non solo pericolosi vuoti di disciplina (colmabili solo in via interpretativa, ma a costo di non poche incertezze), ma anche ingiustificate disparità di trattamento, non dovendosi inoltre dimenticare che, diversamente da altre prestazioni deducibili nel contratto di lavoro parasubordinato (a progetto e non), quella di telelavoro presenta rischi specifici dovuti alle peculiari modalità di esecuzione che non sembrano ammettere carenze di tutela.

Non sarebbe quindi stato affatto inopportuno un esplicito intervento sul punto da parte della decretazione correttiva del d.lgs. n. 81/2008, riconsiderando in particolare la tutela del telelavoro parasubordinato. Purtroppo, però, il recente d.lgs. n. 106/2009 si è disinteressato di tale questione, non smentendo quindi una lettura formalistica dell’art. 3, comma 7, del tutto plausibile sul piano testuale.

Stando così le cose, per consentire a qualsiasi forma di telelavoro parasubordinato (in particolare a quello domiciliare) di ricevere adeguata tutela dal punto di vista della salute e sicurezza, occorrerebbe tentare di assegnare in via interpretativa all’espressione contenuta nell’art. 3, comma 7 (“luoghi di lavoro del committente”) un significato non meramente formalistico, ma logicamente coerente sia con l’ampia ratio protettiva della legge delega del 2007 e del d.lgs. n. 81/2008, sia soprattutto con i principi su cui si fonda la teoria giuridica del telelavoro: in particolare con quello in base al quale il luogo in cui si svolge la prestazione (qualunque esso sia, compreso il domicilio del lavoratore) non solo non costituisce un’autonoma unità produttiva, ma rappresenta un’ideale propaggine dell’unità produttiva alla quale il telelavoratore pur sempre appartiene, sebbene operi lontano dalla sede fisica della stessa unità (Pascucci 1998). Proprio in quanto ideale propaggine di un’unità produttiva del committente, come tale funzionale a produrre utilità per il committente medesimo, il luogo in cui si svolge il telelavoro potrebbe identificarsi (ancorché con gli adattamenti del caso) come “luogo di lavoro del committente” a prescindere dalla sua disponibilità o meno da parte di quest’ultimo, mentre, per altro verso, l’essere “parasubordinato” (e non subordinato) non impedirebbe comunque al telelavoratore di venire computato nell’organico aziendale o dell’unità produttiva ai fini della disciplina della sicurezza del lavoro, purché, come è espressamente previsto (art. 4, comma 1, lett. l, del d.lgs. n. 81/2008), si tratti di rapporto “esclusivo” con il committente. D’altra parte, lo stesso art. 3, comma 10, pare avvalorare un’ampia concezione del “luogo di lavoro” nel momento in cui assegna specifiche tutele anche al telelavoratore subordinato che opera nel proprio domicilio.

Ancorché relativa soltanto al telelavoro parasubordinato, la predetta riconsiderazione del significato dell’espressione “luoghi di lavoro del committente” potrebbe favorire una rivisitazione a più ampio spettro della stessa espressione, non dovendosi trascurare l’ormai alta probabilità che i lavoratori parasubordinati “esterni” siano molto spesso identificabili proprio come telelavoratori (sia on line sia off line), stante la massiccia e crescente utilizzazione delle tecnologie informatiche da parte dei soggetti che operano con un contratto di lavoro parasubordinato (a progetto e non).

È evidente che, ove si accogliesse la predetta proposta interpretativa, resterebbe aperto il problema di quali tutele applicare: un patchwork di previsioni estrapolate dal decreto, ovvero, per analogia, quella prevista per i telelavoratori subordinati (art. 3, comma 10)? In entrambi i casi, comunque, si assoggetterebbe il telelavoro (anche parasubordinato) alle previsioni sulla valutazione dei rischi, il che rappresenterebbe un decisivo passo avanti verso il riconoscimento di una effettiva tutela.

 

7. La valutazione dei rischi connessi al telelavoro

Il fatto che l’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2008 non menzioni espressamente la valutazione dei rischi per quanto concerne il telelavoro non significa ovviamente che tale fondamentale ed indelegabile obbligo del datore di lavoro (art. 17 del d.lgs. n. 81/2008) non debba tenere conto dei particolari rischi connessi alle specificità organizzative del telelavoro. In tal senso depone inequivocabilmente l’art. 28, comma 1, dello stesso decreto quando impone la valutazione di tutti i rischi, nessuno escluso; così come depone, a ben guardare, anche lo stesso art. 3, comma 10, quando dispone l’applicabilità ai telelavoratori delle norme del Titolo VII sui videoterminali indipendentemente dall’ambito in cui si svolge la prestazione, evocando quindi l’obbligo di valutazione specifica di cui all’art. 17418.

È inoltre evidente che, ove la prestazione di telelavoro sia dedotta in uno dei contratti di lavoro “tipologicamente” flessibili di cui si è parlato all’inizio, varrà la positiva novità che il d.lgs. n. 106/2009 ha introdotto nel predetto art. 28, comma 1, ricomprendendo tra i rischi da valutare anche quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro (Natullo 2004; Lai 2005; Smuraglia 2007, Angelini 2007; Tiraboschi 2008b; Pascucci 2008, Pascucci 2009b).

Ci si può chiedere se questa novità possa spiegare un ulteriore effetto. Infatti, ove si ritenga che l’espressione “specifica tipologia contrattuale” riguardi, come è ragionevole, anche i tipi contrattuali che stanno oltre i confini del lavoro subordinato, potrebbe la nuova previsione costituire un altro grimaldello con cui iniziare a scardinare l’arcigna barriera – costituita dall’art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 81/2008 – che, come si è visto, formalmente impedisce di dare adeguata tutela a quei telelavoratori parasubordinati che operano al di fuori dei “luoghi di lavoro del committente”? In effetti, se, come è del tutto evidente, l’obbligo di valutare i rischi “da flessibilità tipologica” impone essenzialmente di considerare tutti i rischi connessi alla scarsa contestualizzazione del lavoratore nell’organizzazione aziendale (ridotta esperienza, mancanza di formazione ecc.), ciò sembrerebbe valere non solo a fronte di un contratto di lavoro subordinato “temporaneo”19, ma anche nel lavoro parasubordinato, naturalmente connotato da quella scarsa contestualizzazione. Ma se è così, il discorso non potrebbe allora valere anche ove, in un contratto di lavoro parasubordinato, la scarsa contestualizzazione sia vieppiù accentuata dalle modalità esecutive comunque “esterne” all’azienda? È chiaro che se si aprisse in tal modo la strada per una più adeguata tutela dei lavoratori parasubordinati “esterni”, si stempererebbero molte delle perplessità manifestate poc’anzi circa la consistenza della tutela dei telelavoratori parasubordinati, “campioni” non solo di flessibilità tipologica, ma anche di flessibilità organizzativa.

I formalisti obietterebbero che anche questa interpretazione deve tuttavia misurarsi con le previsioni sul campo di applicazione soggettivo del d.lgs. n. 81/2008, fra le quali campeggia appunto il citato art. 3, comma 7, secondo cui, nell’ipotesi di lavoro parasubordinato, le disposizioni del medesimo decreto – fra cui deve senz’altro ricomprendersi l’art. 28 – si applicano ove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente: cosicché, nel caso in esame, l’art. 28 vige solo entro la cornice delineata dall’art. 3, comma 7, riproponendosi allora le considerazioni svolte poc’anzi sul significato da assegnare a questa norma nel caso del telelavoro.

Se, da un punto di vista formale, il combinato disposto degli artt. 3, comma 7, e 28, comma 1, sembra escludere la ricomprensione nella valutazione dei rischi (specialmente di quelli derivanti da flessibilità tipologica) di quelli connessi ai contratti di lavoro parasubordinato in cui la prestazione si svolga al di fuori dei “luoghi di lavoro del committente”, da un punto di vista sostanziale non può che ribadirsi tutta l’insoddisfazione per un simile risultato. Un risultato tanto più paradossale, come dimostra l’ipotesi di un datore di lavoro che, utilizzando ad esempio le prestazioni di due telelavoratori domiciliari (uno subordinato ed uno parasubordinato), sarà tenuto ad effettuare la valutazione dei rischi soltanto nel primo caso, laddove, come spesso accade nelle ipotesi di lavoro tecnologico a distanza, i confini tra subordinazione ed autonomia sono quanto mai labili ed i rischi per la salute insiti nelle prestazioni dedotte nei due diversi contratti non sono granché differenti.

Un risultato ancora una volta paradossale anche perché, in questo modo, ne esce in qualche modo tradita la vocazione universalistica della tutela evocata sia dalla legge delega n. 123/2007 (Montuschi 2007; Carinci 2008a; Speziale 2007; Bonardi 2007; Natullo 2008; Vergari 2008) sia dall’ampia definizione di “lavoratore” contenuta nell’art. 2, lett. a, dello stesso d.lgs. n. 81/2008 (Carinci 2008b; Pascucci 2008), la quale non solo prescinde “dalla tipologia contrattuale”, ma esalta l’inserimento dell’attività lavorativa “nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro” più che nel luogo di lavoro di quest’ultimo20. È dunque evidente che, a fronte di un’economia sempre più incentrata sulla “delocalizzazione” e sulla “dematerializzazione” del lavoro, appare ormai indifferibile una più approfondita riflessione sull’attuale significato dell’espressione “luogo di lavoro” al fine di apprestare adeguata tutela ovunque vi sia lavoro che si inserisca nell’organizzazione altrui.

Sotto questo profilo, è evidente che bene avrebbe fatto il legislatore – e bene farebbe tuttora – a riconsiderare l’intera questione della tutela della salute e sicurezza dei telelavoratori, dandole una soluzione a tutto tondo, attenta soprattutto ai profili specifici della prestazione, la cui “delocalizzazione” costituisce a ben guardare un denominatore in grado di accomunare le esigenze di tutela dei telelavoratori al di là dei diversi schemi contrattuali che li riguardano.

Al di là delle questioni legate alla flessibilità del tipo negoziale, anche nel caso del telelavoro subordinato la valutazione dei rischi dovrà tenere in particolare conto i rischi collegati allo stress lavoro-correlato21, fra i quali potrebbero assumere una specifica rilevanza quelli connessi all’isolamento del telelavoratore, a cui non a caso fa riferimento l’ultimo periodo dell’art. 3, comma 10, del d.lgs. n. 81/2009 imponendo al datore di lavoro di garantire l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza rispetto agli altri lavoratori interni all’azienda, permettendogli di incontrarsi con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda, nel rispetto di regolamenti o accordi aziendali.

Entrambe le considerazioni svolte da ultimo – sulla rilevanza del “luogo di lavoro” e sui “nuovi rischi” legati alla flessibilità tipologica ed organizzativa (come anche quello da isolamento) – evocano l’esigenza di sviluppare ulteriormente la riflessione sulla tutela della salute e della sicurezza dei telelavoratori. Una riflessione che dovrà allargarsi anche ai problematici aspetti legati alla rappresentanza ed alla tutela collettiva di tali soggetti (Campanella 2008; Antonucci 2008b; Bubola 2008) e che, anche per questo, non potrà non basarsi “su principi giuridici dinamici, che coniughino garanzia e duttilità”, come per altro verso è stato giustamente rilevato a proposito del raccordo tra i vari sistemi regolativi della sicurezza del lavoro (Zoppoli L. 2008).

 

 


 

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* Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino “Carlo Bo” e presidente dell’Osservatorio “Olympus” per il monitoraggio sulla legislazione e giurisprudenza in materia di sicurezza del lavoro.

Questo contributo è destinato al Dossier on line “Nuovi lavori, nuovi rischi” curato dai proff. M. Tiraboschi e M. Lepore, che l’autore ringrazia, unitamente alla dott. A. Antonucci, coordinatrice della redazione dell’Osservatorio, per aver sollecitato ed ospitato il contributo medesimo.


1. Questi due ultimi requisiti potrebbero non costituire un ostacolo all’inquadramento in astratto del telelavoro nella categoria del lavoro a domicilio ove si adottasse una interpretazione storico-evolutiva della disciplina vigente per tutelare anche quelle prestazioni difficilmente ipotizzabili al tempo della sua emanazione. Tale interpretazione estensiva varrebbe anche rispetto al luogo della prestazione (che la legge identifica in un locale di cui il lavoratore abbia disponibilità), al fine di includere le ipotesi di telelavoro off line prestato con un computer portatile non in un luogo fisso. La differenza dal telelavoro autonomo consisterebbe nel fatto che la prestazione sarebbe destinata ad uno o più committenti bene individuati e non al mercato. Per quanto concerne l’imposizione da parte del datore del programma applicativo, a differenza del telelavoro subordinato in senso proprio, risulterebbe sufficiente che il software applicativo fosse imposto dal committente una volta per tutte all'inizio del rapporto o, comunque, senza facoltà di una sua modificazione unilaterale in corso d’opera. È evidente, tuttavia, come un’operazione di incasellamento del telelavoro in questa categoria – riferibile essenzialmente ad ipotesi di “telelavoro domiciliare” non interattivo (off line), retribuibile con il sistema del cottimo pieno – ne accentuerebbe i rischi di sfruttamento e di sottoprotezione.

2. Si veda la documentazione curata da Silvano Costanzi in appendice a questo contributo.

3. Si veda la quinta direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, par. 1, della direttiva 89/391/CEE – vale a dire la direttiva del Consiglio, 29 maggio 1990, 90/270/CEE – la quale stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute per le attività lavorative svolte su attrezzature munite di videoterminali.

4. Corte giust. Ce, Sez. V, sent. 12 dicembre 1996, Cause riunite C- 74/95 e C-129/95.

5. Quanto agli obblighi previsti in tale Titolo, l’art. 174 obbliga il datore di lavoro, all’atto della valutazione dei rischi di cui all’art. 28, di analizzare i posti di lavoro con particolare riguardo: a) ai rischi per la vista e per gli occhi; b) ai problemi legati alla postura ed all’affaticamento fisico o mentale; c) alle condizioni ergonomiche e di igiene ambientale. Il datore di lavoro deve adottare le misure appropriate per ovviare ai rischi riscontrati in base alle valutazioni, tenendo conto della somma ovvero della combinazione della incidenza dei rischi riscontrati. Egli deve inoltre organizzare e predisporre i posti di lavoro di cui all’art. 173 in conformità ai requisiti minimi di cui all’Allegato XXXIV.

L’art. 175 prevede che il lavoratore abbia diritto ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di attività e che le modalità di tali interruzioni siano stabilite dalla contrattazione collettiva anche aziendale. In assenza di una disposizione contrattuale riguardante la predetta interruzione, il lavoratore comunque ha diritto ad una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa al videoterminale. Le modalità e la durata delle interruzioni possono essere stabilite temporaneamente a livello individuale ove il medico competente ne evidenzi la necessità. È comunque esclusa la cumulabilità delle interruzioni all’inizio ed al termine dell’orario di lavoro. Nel computo dei tempi di interruzione non sono compresi i tempi di attesa della risposta da parte del sistema elettronico, che sono considerati, a tutti gli effetti, tempo di lavoro, ove il lavoratore non possa abbandonare il posto di lavoro. La pausa è considerata a tutti gli effetti parte integrante dell’orario di lavoro e, come tale, non è riassorbibile all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro.

L’art. 176 prevede che i lavoratori siano sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all’art. 41, con particolare riferimento: a) ai rischi per la vista e per gli occhi; b) ai rischi per l’apparato muscolo-scheletrico. Sulla base delle risultanze degli accertamenti i lavoratori vengono classificati ai sensi dell’art. 41, comma 6. Salvi i casi particolari che richiedono una frequenza diversa stabilita dal medico competente, la periodicità delle visite di controllo è biennale per i lavoratori classificati come idonei con prescrizioni o limitazioni e per i lavoratori che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età; quinquennale negli altri casi. Per i casi di inidoneità temporanea il medico competente stabilisce il termine per la successiva visita di idoneità. Il lavoratore è sottoposto a visita di controllo per i rischi sopra citati a sua richiesta, secondo le modalità previste all’art. 41, comma 2, lett. c. Il datore di lavoro fornisce a sue spese ai lavoratori i dispositivi speciali di correzione visiva, in funzione dell’attività svolta, quando l’esito delle visite ne evidenzi la necessità e non sia possibile utilizzare i dispositivi normali di correzione.

L’art. 177 obbliga il datore di lavoro:

a) a fornire ai lavoratori informazioni, in particolare per quanto riguarda:

1) le misure applicabili al posto di lavoro, in base all’analisi dello stesso di cui all’art. 174; 2) le modalità di svolgimento dell’attività; 3) la protezione degli occhi e della vista;

b) ad assicurare ai lavoratori una formazione adeguata in particolare in ordine a quanto indicato nella precedente lett. a.

6. Cfr. gli artt. 4 e 8 del d.P.R. n. 70/1999, nonché l’art. 6 del contratto collettivo quadro del 23 marzo 2000.

7. Art. 2, comma 1, lett. a, del d.P.R. n. 70/1999 e art. 1, comma 1, dell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004.

8. Si noti che la norma si riferisce esclusivamente al lavoro subordinato, restandone escluse tutte le fattispecie di telelavoro inquadrabili in diversi schemi negoziali.

9. Appunto il citato accordo interconfederale del 9 giugno 2004.

10. Vale a dire: stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale.

11. Una limitata rilevanza che finisce per vanificare nella sostanza anche l’eventuale arduo tentativo di considerare il domicilio del telelavoratore parasubordinato rientrante fra “i luoghi destinati a ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva”.

12. Restando esclusi soltanto i lavoratori addetti: ai posti di guida di veicoli o macchine; ai sistemi informatici montati a bordo di un mezzo di trasporto; ai sistemi informatici destinati in modo prioritario all’utilizzazione da parte del pubblico; alle macchine calcolatrici, ai registratori di cassa e a tutte le attrezzature munite di un piccolo dispositivo di visualizzazione dei dati o delle misure, necessario all’uso diretto di tale attrezzatura; alle macchine di videoscrittura senza schermo separato.

13. Tutela che prevede, oltre alle misure connesse agli obblighi del datore di lavoro, tra cui quelli di informazione e formazione, anche la sorveglianza sanitaria.

14. Senza trascurare poi i problemi relativi alla configurabilità di un vero e proprio potere direttivo in materia di sicurezza in capo ad un soggetto (il committente) che è sprovvisto di tale potere nel rapporto di lavoro (Lazzari 2006; Bubola 2008; Antonucci 2008b).

15. In base a tale norma, tali lavoratori debbono: a) utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al Titolo III; b) munirsi di dispositivi di protezione individuale ed utilizzarli conformemente alle disposizioni di cui al Titolo III; c) munirsi di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto. Inoltre, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno facoltà di beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’art. 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali, nonché di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’art. 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali.

16. Gli obblighi ascrivibili al committente già ex art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 626/1994 (dopo le modifiche apportate dall’art. 5 del d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242 e dall’art. 3 della l. n. 123/2007) ed ora ex art. 26, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008, non riguardavano e non riguardano comunque i rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi (Lazzari 2007). Si tratta specificamente dell’obbligo di promuovere – mediante l’elaborazione di un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non é possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze – a) la cooperazione all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto o del contratto d’opera; b) il coordinamento degli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, mediante reciproche informazioni anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese o lavoratori autonomi coinvolti nell’esecuzione dell’opera complessiva.

17. Ma in astratto non del tutto impossibili, almeno pensando alla possibile interferenza tra le attività di più telelavoratori autonomi che operano nello stesso centro remoto. È vero però che il nuovo comma 3-bis dell’art. 26, introdotto dal d.lgs. n. 106/2009, esclude l’obbligo di adozione del documento unico di valutazione dei rischi da interferenze fra l’altro ai servizi di natura intellettuale, fra cui ben possono rientrare molte prestazioni di telelavoro autonomo.

18. Il quale, come già ricordato in precedenza, impone al datore di lavoro, all’atto della valutazione dei rischi, di analizzare i posti di lavoro (con particolare riguardo ai rischi per la vista e per gli occhi, ai problemi legati alla postura ed all’affaticamento fisico o mentale, alle condizioni ergonomiche e di igiene ambientale) e di adottare le misure appropriate per ovviare ai rischi riscontrati in base alle valutazioni, tenendo conto della somma ovvero della combinazione della incidenza dei rischi riscontrati.

19. Aggettivo qui usato in senso lato ad indicare qualsiasi contratto di lavoro di durata limitata o discontinua.

20. Nonostante che la rubrica del d.lgs. n. 81/2008 si riferisca, forse un po’ tralaticiamente, alla tutela della salute e della sicurezza “nei luoghi di lavoro”.

21. Art. 28, comma 1 e comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008, come modificato dal d.lgs. n. 106/2009.