Cassazione Civile, Sez. 6, 25 giugno 2020, n. 12569 - Natura professionale della malattia e rendita. Prescrizione


 

Presidente: DORONZO ADRIANA Relatore: RIVERSO ROBERTO

Data pubblicazione: 25/06/2020
 

Considerato che


la Corte d'appello di Roma in riforma della sentenza di primo grado impugnata dall'Inail rigettava la domanda di C.E. volta ad ottenere la condanna dell'Istituto al pagamento della rendita ai superstiti in ragione dell'accertata natura professionale della malattia di cui aveva sofferto il dante causa e che ne aveva determinato il decesso. A fondamento della sentenza la Corte osservava che la ricorrente avesse agito ben oltre la scadenza del termine triennale di prescrizione di cui all'articolo 112 del Testo Unico n. 1124 del 1965, atteso che nel 1985 il de cuius aveva presentato denuncia di malattia professionale, con opposizione nel 1988; con lettera del 1989 il procuratore della C.E. informò l'INAIL del decesso chiedendo la rendita a nome degli eredi (ivi inclusa la C.E.); in data 30.10.1995 la C.E. aveva presentato ricorso all'Inail per mancata definizione della pratica relativa alla rendita.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione C.E.. con tre motivi illustrati da memoria, ai quali ha resistito l'Inail con controricorso.
E' stata comunicata alle parti la proposta del giudice relatore unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio.
 

Rilevato che
 

1.- Col primo motivo viene dedotta violazione degli articoli 342 e 434 c.p.c. per violazione del principio di specificità dell'appello proposto dall'Inail secondo l'eccezione già sollevata in appello e che la Corte d'appello aveva disatteso.
Il motivo inammissibile perché viola il principio di specificità dal momento che non trascrive né produce lo stesso ricorso in appello dell'Inail.
2.- Col secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 del testo unico numero 1124 nel 1965 come novellato dalla sentenza della Corte costituzionale numero 129/1986 e degli articoli 2935, 2009 143 e 2145 del codice civile.
Si sostiene che la ricorrente, prima della sentenza della Corte d'appello numero 1015/2009 depositata il 6 marzo 2010 ( con cui furono accolte le domande relative al licenziamento ed alla malattia professionale del de cuius), non potesse avere certezza della natura professionale della malattia subita dal medesimo de cuius. Si sostiene inoltre che la Corte d'appello non avesse affrontato la questione dell'interruzione della prescrizione a seguito dell'editio actionis con la quale si rivendica il proprio diritto come statuito dalla Corte Cost con la sentenza n. 129/1986;
3.- Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 24, 111 della Cost. e del combinato disposto dell'articolo 117 della Costituzione e degli articoli 1,13 e e 6 paragrafo uno della CEDU; la sentenza gravata non appare conforme alla normativa costituzionale ed europea in materia di giusto processo ed effettività della tutela giurisdizionale.
4. I due motivi di ricorso sono inammissibili perché non si confrontano con il decisum e comunque perché sollevano questioni giuridiche palesamente infondate ex art.360 bis c.p.c..
5.- Ed invero, come osservato dai giudici d'appello, dopo la morte del congiunto la ricorrente aveva avanzato già nel 1989 domanda all'INAIL tramite il procuratore per ottenere la rendita ai superstiti ed aveva poi proposto pure ricorso amministrativo in data 30.10.1995. Mentre ha agito in giudizio solo nel 2011 quando era ampiamente decorso il termine triennale di prescrizione previsto dall'art. 112 TU.
Da ciò si evince che i giudici del merito abbiano ritenuto che al momento della domanda amministrativa la ricorrente fosse consapevole della natura professionale della malattia in questione attraverso un giudizio di fatto non censurabile in questa sede al di fuori dai paradigmi di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. neppure azionato m ricorso.
6.- Si tratta peraltro di un giudizio che è del tutto conforme al diritto, dal momento che ai fini del decorso della prescrizione in questione occorre la conoscenza della natura professionale della malattia desumibile da fatti certi ed esterni alla persona da tutelare e che siano però riferibili alla stessa persona. E nel caso di specie è stata la stessa parte che, per la ritenuta natura professionale della malattia del cuius, aveva chiesto la rendita ai superstiti per malattia professionale già nel 1989 ed aveva agito poi nel 1995 con ricorso in sede amministrativa, salvo poi intentare l'azione giudiziale oltre il termine di prescrizione triennale.
7.- La sentenza della Corte d'appello si sottrae perciò alle censure sollevate con il ricorso e rispetta l'orientamento fondamentale della materia (su cui da ultimo v. ordinanza n. 2842 del 06/02/2018) fissato nella nota pronuncia di questa Corte di Cass. n. 5090/2001 secondo la quale dopo le sentenze nn. 116/1969 e 206/1998 della Corte Cost. il dies a quo di decorrenza della prescrizione deve essere individuato con riferimento ad uno o più fatti che diano certezza, ricavata anche da presunzioni semplici, della conoscenza da parte dell'assicurato dell'esistenza dello stato morboso, dell'eziologia professionale della malattia e del raggiungimento della soglia indennizzabile.
8.- Va peraltro precisato che le menzionate pronunce della Corte Cost. non incidono minimamente sulla decisione della controversia. Ed invero, a differenza di quanto mostra di ritenere il ricorrente, a seguito delle stesse pronunce costituzionali il fondamentale presupposto per la decorrenza della prescrizione ( la conoscenza della natura professionale della malattia in una soglia indennizzabile) è stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità alle presunzioni semplici recuperando valore alla domanda ammnistrativa ed alla relativa certificazione, anche se non più in chiave di presunzione assoluta, ma appunto sul terreno degli artt. 2727 e 2729 c.c..
9.- A nulla conta dunque la sentenza della Corte Cost. 129/1979 (che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 112 comma 1) posto che il termine di prescrizione era decorso prima del deposito del ricorso introduttivo che non poteva avere quindi alcun effetto interruttivo.
Neppure conta la sentenza n. 116/1969 perché non si discute di una prestazione che fosse atta a raggiungere un minimo indennizzabile dopo la presentazione della domanda (ma si discute di rendita ai superstiti a seguito di decesso per malattia professionale).
Nemmeno rileva la sentenza della Corte Cost. n. 206/1988 perchè non si pone un problema di accertamento della malattia oltre il termine di indennizzabilità dalla cessazione del lavoro in base alla tabella.
10- Deve essere quindi dichiarata l'inammissibilità del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del c.u. ai sensi dell'art.13 comma 1 bis del d.P.R. 115/2002, ove dovuto.
 

 

P.Q.M.




La Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese processuali liquidate in complessive € 4200 di cui € 4000 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali ed oneri accessori di legge. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del c.u. ai sensi dell'art.13 comma 1 bis del d.P.R. 115/2002, ove dovuto.
Roma, così deciso nell'adunanza del 29.1.2020