Cassazione Civile, Sez. Lav., 06 luglio 2020, n. 13915 - Autotrasportatore in prova schiacciato dalla cabina dell'autoarticolato durante le operazioni di scarico. Omessa informazione e formazione, omesso collaudo del rimorchio e cavo d'acciaio spezzato


 

Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: LORITO MATILDE Data pubblicazione: 06/07/2020
 

Fatto
 


A.O. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Sassari S.L. ed esponeva di avere prestato attività lavorativa subordinata alle dipendenze di quest'ultima, a far tempo dal 25/5/2002 come autotrasportatore in prova, e di aver subito in data 27/5/2002 un infortunio sul lavoro. Al riguardo deduceva che mentre era intento allo svolgimento operazioni di scarico del materiale trasportato sull'autoarticolato aziendale, il veicolo si era ribaltato ed egli era rimasto schiacciato sotto il peso della cabina, riportando lesioni gravissime. Soggiungeva che l'instaurato procedimento penale si era concluso con l'emissione di un decreto di archiviazione del GIP, fondato sugli esiti della consulenza disposta dal P.M. che aveva individuato nel dislivello del terreno e nella disomogenea fuoriuscita del materiale trasportato, la causa del sinistro; da ultimo dava atto che l'Inail gli aveva riconosciuto un grado di invalidità pari al 98%.
Nel rilevare che la responsabilità dell'evento occorsogli era ascrivibile alla parte datoriale per violazione dell'obbligo di adozione di tutte le misure idonee di prevenzione infortuni - non avendo proceduto al collaudo del rimorchio, né sostituito il cavo d'acciaio limitatore del sollevamento dei pistoni del rimorchio, rotto da tempo, il cui telaio aveva già subito un ribaltamento, e non avendo neanche adempiuto agli oneri di informazione sulle modalità di funzionamento dell'automezzo, in particolare del sollevamento del semirimorchio - chiedeva la condanna del S.L. al risarcimento del danno differenziale pari ad euro 1.546.729,37.
Il giudice adito rigettava il ricorso con pronunzia che veniva riformata dalla Corte d'Appello di Cagliari sezione distaccata di Sassari. Con sentenza resa pubblica il 28/4/2016, la Corte distrettuale dichiarava S.L. responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, liquidando il danno non patrimoniale nella misura di euro 1.252.035,00 (danno da invalidità permanente e da inabilità temporanea totale).
Nel pervenire a tali conclusioni i giudici del gravame, in estrema sintesi, argomentavano che dalle acquisizioni probatorie - segnatamente, dalla relazione stilata dai carabinieri nella immediatezza dei fatti - era emerso che alla base del primo pistone dell'autoarticolato vi era un cavo di acciaio spezzato che palesava evidenti segni di una rottura di antica data, della quale la presenza di ruggine era evidente prova.
Gli accertamenti peritali svolti in prime cure avevano inoltre accertato che il carico trasportato sul semirimorchio era superiore di circa 800,00 kg. rispetto a quello indicato nel relativo libretto di circolazione e che l'automezzo non era stato sottoposto alla revisione periodica.
Alla stregua dei summenzionati obiettivi elementi, il giudice del gravame riteneva assolti dal lavoratore gli oneri di allegazione e di prova sul medesimo gravanti, concernenti l'esistenza del danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, ed il nesso causale fra l'uno e l'altro; inadempiuti, gli obblighi di sicurezza e di informazione cedenti a carico della parte datoriale.
Avverso tale decisione S.L. interpone ricorso per cassazione sostenuto da cinque motivi.
La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

 

Diritto



1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c..
Ci si duole che il giudice del gravame abbia posto, a fondamento della decisione, prove inesistenti e fatti non provati, non avendo il lavoratore fornito la dimostrazione dell'intercorrenza di un nesso eziologico fra la prospettata condotta contra jus posta in essere da parte datoriale, e il danno risentito. Si deduce che gli approdi ai quali erano pervenuti contraddicevano palesemente gli esiti della CTU eseguita in primo grado così come quella svolta dall'ausiliare nominato dalla Procura e, che, diversamente da quanto argomentato, non era in concreto rinvenibile alcuna prova della vetustà del cavo collegato ai pistoni, individuata quale concausa del sinistro occorso al lavoratore.
2. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.
Una questione quale quella prospettata in questa sede, di violazione o di falsa applicazione degli artt.115 e 116 c.p.c. non può, infatti, porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, del!e prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (vedi ex plurimis, Cass. Cass. 17/1/2019 n.1229); ipotesi queste non riscontrabili nella fattispecie scrutinata.
Non può poi, tralasciarsi di considerare che secondo l'insegnamento di questa Corte, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art.360 c.p.c., comma 1, n.5, oltre ad emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, non consentito in sede di legittimità (vedi Cass. 20/6/2006 n.14267, cui adde, Cass. 30/11/2016 n.24434, nonché Cass. 27/7/2017 n.18665). L'art.116 c.p.c., comma 1, consacra poi il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento - salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale - è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonché l'iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis vedi Cass. 15/1/14 n.687).

3. Nello specifico, deve rimarcarsi come il ricorso solleciti, nella forma apparente della denuncia di errar in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede, posto che, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte, con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (ex plurimis, vedi Cass. 7/12/2017 n.29404, Cass. 13/3/2018 n.6035).

E' bene ribadire che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art.360, comma 1 n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), sicché quest'ultimo, nell'ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata (ipotesi non ricorrente nella fattispecie); al contrario, il sindacato ai sensi dell'art. 360, primo comma n. 5 c.p.c. oggetto della recente riformulazione interpretata quale riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione (vedi Cass. sez.un. 7/4/2014 n.8053), coinvolge un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti (ipotesi ricorrente nel caso in esame).

Ne consegue che mentre la sussunzione del fatto incontroverso nell'ipotesi normativa è soggetta al controllo di legittimità, l'accertamento del fatto controverso e la sua valutazione rimessi all'apprezzamento del giudice di merito, ineriscono ad un vizio motivo - pur qualificata la censura come violazione di norme di diritto - limitato al generale controllo motivazionale (quanto alle sentenze impugnate depositate prima del 11.9.12) e successivamente all'omesso esame di un fatto storico decisivo, in base al novellato art. 360, comma 1, n. 5. c.p.c.

Con riferimento a tale vizio va, quindi rimarcato che lo stesso può rilevare solo nei limiti in cui l'apprezzamento delle prove - liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto - si sia tradotto in una pronuncia che sia sorretta da motivazione non rispondente al minimo costituzionale (cfr. Cass. S.U. 7/4/2014 n.8053).
4. Orbene, deve rilevarsi che nella fattispecie delibata, la Corte di appello, con accertamento che investe pienamente la quaestio facti, ha dato conto delle fonti del proprio convincimento.
Come fatto cenno nello storico di lite, la Corte ha osservato come le molteplici circostanze acclarate all'esito della espletata attività istruttoria convergessero nel definire in guisa inequivoca, la responsabilità del S.L. in ordine alla determinazione dell'evento dannoso.
Ha infatti valorizzato gli esiti degli accertamenti espletati nell'immediatezza dei fatti dai Carabinieri, dai quali era emerso che il cavo di acciaio spezzato presentava un moncherino estremamente usurato, segno di una rottura di antica data - come fatto palese dallo stato di ossidazione riscontrato - e che il mezzo non fosse stato sottoposto a revisione. Ha in via ulteriore considerato che l'automezzo era stato gravato di un carico eccessivo e che il S.L. non solo non aveva fornito al lavoratore un mezzo adeguatamente controllato e perfettamente funzionante, ma neanche lo aveva informato, in conformità agli oneri di formazione sul medesimo gravanti, sulle modalità di svolgimento delle manovre idonee a definire le operazioni di scarico del materiale trasportato.
Nell'ottica descritta, ha definito irrilevanti le deduzioni elaborate dal giudice di prima istanza, il quale aveva condiviso le conclusioni rassegnate dal consulente dell'Ufficio della Procura, secondo cui il sinistro si sarebbe verificato a causa della non corretta posizione di scarico del veicolo posizionato su un declivio con un dislivello fra ruote destre e linea di appoggio delle ruote sinistre dell'ultimo asse del rimorchio, pari a 12 cm., ritenendo tale dislivello di modestissima entità e come tale, inidoneo a dispiegare alcuna efficacia causale nella verificazione dell'infortunio occorso al lavoratore. La Corte di Appello ha, dunque, ampiamente argomentato le ragioni giustificative del decisum, apprezzando liberamente il contenuto delle relazioni redatte dai pubblici ufficiali all'autorità giudiziaria ed elaborando una complessiva valutazione delle stesse con le altre risultanze istruttorie.

La quaestio facti rilevante in causa è stata trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, ed è insuscettibile di vaglio nella presente sede, perché non rispondente ai requisiti della assoluta omissione o della irredimibile contraddittorietà che avrebbero giustificato l'esercizio del sindacato in questa sede di legittimità, pur pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte rispetto a quelle prospettate da parte ricorrente.

5. Il secondo motivo prospetta violazione o falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c..
Si lamenta che la Corte di merito, allo scopo di conferire maggior forza alla propria decisione, abbia inammissibilmente posto a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare, indipendentemente dalle allegazioni del lavoratore, una serie di circostanze relative all'assolvimento dell'obbligo di formazione, così tramutando la responsabilità contrattuale ex art.2087 c.c. in una ipotesi di responsabilità oggettiva.
6. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt.414, 345, 346, 112 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.C.;
Il ricorrente stigmatizza l'accertamento della responsabilità a carico di parte civile disposto dai giudici del gravame - con particolare riguardo al mancato assolvimento dell'obbligo di formazione - che assume esser stato svolto pur in assenza di specifica allegazione da parte ricorrente in sede di gravame.
7. Anche questi motivi, che possono congiuntamente trattarsi per postulare la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono meritevoli di accoglimento.
Ed invero, premesso che è onere del lavoratore dimostrare i fatti costitutivi dei diritto azionato concernenti l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, il danno ed il nesso causale di questo con la prestazione (cfr. ex aliis, Cass. 14/4/2008 n.9817), deve considerarsi che il giudice del merito non ha operato un'indebita inversione di tale onere, trasferendolo sulla parte, ma ha ritenuto che lo stesso fosse stato debitamente assolto alla stregua delle acquisizioni probatorie in atti e che la parte datoriale­ debitrice, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. non avesse provato che la non esatta esecuzione della stessa obbligazione posta a suo carico o comunque il pregiudizio che aveva colpito la controparte, derivassero da causa a lui non imputabile.
La responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è infatti di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art.1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni.
Il principio sopra esposto non comporta l'affermazione di una responsabilità oggettiva ex art.2087 cod. civ., nella stessa misura in cui l'allegazione del mancato pagamento di una somma di denaro non comporta una responsabilità oggettiva del debitore, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ.; da ciò discende che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno (vedi Cass. 13/8/2008 n.21590, Cass. 26/6/2009 n.15078, Cass. 17/2/2009 n.3788).
Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art.2087 cod. civ., va assolto con l'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso ed anche con l'adozione di misure relative all'organizzazione del lavoro, tali da evitare che lavoratori meno esperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, mediante lo svolgimento di attività inerente all'istruzione, informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni.
La giurisprudenza di questa Corte riconosce che persino l'accertato rispetto delle norme antinfortunistiche di cui al D.P.R. n. 626 del 1994, e dell'allegato 6 a tale decreto non esonera affatto il datore di lavoro, dall'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell'evento, con particolare riguardo all'assetto organizzativo del lavoro, specie quanto ai compiti dell'apprendista, alle istruzioni impartitegli, all'informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni (vedi Cass. 18/5/2007 n.11622, Cass. 24/1/2012 n.944, Cass. 2/10/2019 n.24629).
E siffatto onere, alla stregua delle acquisizioni probatorie analiticamente scrutinate dai giudici del gravame, non risulta sia stato adempiuto, considerate le dichiarazioni rese dal medesimo ricorrente in sede di libero interrogatorio, nel corso del quale aveva ammesso di "non aver fatto alcuna raccomandazione" al lavoratore sulle modalità di funzionamento del semirimorchio ed in particolare del suo sollevamento.
Tali valutazioni, congrue ed esaustive per quanto sinora detto, rendono conforme ai principi di diritto sopra individuati la decisione impugnata.
7. La quarta critica concerne l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
La Corte di merito avrebbe omesso di valorizzare i dati emersi all'esito dell'interrogatorio reso dall'A.O., il quale aveva ammesso che, in considerazione della scarsa visibilità per la fitta pioggia, aveva aperto lo sportello, quando, accorgendosi che il rimorchio stava per ribaltarsi, aveva cercato di uscire dalla cabina, senza tuttavia riuscirci.
Si deduce che se egli fosse rimasto all'interno dell'abitacolo non sarebbe rimasto schiacciato dalla cabina, essendo noto che l'automezzo non deve procedere con le portiere aperte.
8. La censura non è ammissibile.
Invero, secondo i consolidati dicta di questa Corte, il nuovo testo dell'art.360 c.p.c., n.5, introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Tanto comporta (ex plurimis, vedi Cass. Sez. Un. 22/9/2014, n.19881, Cass. cit. n.8053/2014) che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, così come verificatosi nella specie, per quanto sinora detto.
9. Con il quinto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c. in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c..
li ricorrente critica la statuizione concernente la liquidazione del danno non patrimoniale sia per la carenza della benchè minima prova o valutazione di natura medico-legale, sia per avere omesso di indicare i criteri utilizzati per la liquidazione del danno.


10. Il motivo è fondato nei termini che si vanno ad esporre.
Ed invero la Corte di merito, pur avendo fatto riferimento alla gravità delle lesioni subite dal lavoratore, "quantificate dall'Inail nel 98%" dando atto che il danno non patrimoniale per invalidità permanente andava "personalizzato del 25%", è pervenuta alla quantificazione di tale voce risarcitoria nella misura di complessivi euro 1.174.760,00 determinando in euro 57.275,00 il danno da inabilità temporanea totale in relazione a 395 giorni di malattia.

Tuttavia, nel proprio incedere argomentativo, il giudice del gravame non si è attenuto ai principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui la liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. "pura", consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell'esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell'integralità del risarcimento (cfr. Cass. 13/9/2018 n.22272).

Al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario infatti che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell'ambito dell'ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l'entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al "quantum" (vedi Cass. 31/1/2018 n.2327).

Le ricordate indicazioni, nello specifico, per quanto sinora detto, sono, tuttavia, del tutto mancate, la motivazione della decisione non avendo dato adeguatamente conto dell'uso del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa, che è modalità coessenziale alla quantificazione del danno non patrimoniale secondo il criterio sancito dall'art.1226 c.c.

E' mancata l'indicazione del processo logico e valutativo seguito nel pervenire alla quantificazione dei danni non patrimoniali risentiti dall'infortunato e la enunciazione dei barèmes utilizzati, idonei a garantire una tendenziale uniformità di valutazione del pregiudizio, suscettibili di opportuno arricchimento mediante valorizzazione di tutte le circostanze di fatto, peculiari al caso concreto, idonee ad ulteriormente definire le conseguenze già compensate da una liquidazione forfetizzata.
Si impone così la cassazione della pronuncia in ordine a tale ultimo motivo, con rinvio alla Corte designata in dispositivo la quale si atterrà ai principi da ultimo enunciati, ed alla quale è demandato di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.
 


La. Corte accoglie l'ultimo motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d'Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma il giorno 11 febbraio 2020.