Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 luglio 2020, n. 14789 - Malattia professionale e danno biologico


 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA
Relatore: CIRIELLO ANTONELLA
Data pubblicazione: 10/07/2020
 

Rilevato
che il Tribunale di Siena, con sentenza n. 213 del 2010 accoglieva la domanda proposta da M.F. nei confronti dell'INAIL volta al riconoscimento di una malattia professionale, accertando un danno biologico nella misura del 25% (disturbo depressivo maggiore collegato a vicenda lavorativa connessa a "costrittività organizzativa");
che la Corte di appello di Firenze con la sentenza n.1027/2013 del 24 settembre 2019, sulla scorta delle valutazioni della rinnovata CTU, in accoglimento parziale dei gravami formulati dall'Istituto, rideterminava il danno biologico nella misura del 10% dalla domanda e nella maggiore misura del 15% dal 1.1.2009;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il M.F. affidato a due motivi;
che l'Istituto ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte
che non sono state depositate memorie illustrative.
 

Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 5 cpc, l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, avendo la corte omesso di motivare circa le ragioni che l'avrebbero indotta a rinnovare la CTU, affidando l'incarico ad altro perito, nonostante l'opposizione dell'interessato M.F.;
2) ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell'articolo 196 cod. proc. civ. poiché il giudice non avrebbe, pur esercitando il potere di sostituire il CTU per rinnovare le indagini conferito dalla norma che si assume violata, fornito alcuna motivazione di tale scelta che risulta dal dato normativo condizionata alla sussistenza di gravi motivi, successivamente appropriandosi delle conclusioni del consulente, semplicemente richiamandole, e non confrontandosi con le critiche all'elaborato peritale mosse dalla difesa del ricorrente;
che il primo motivo è inammissibile sotto vari profili;
dalla mera lettura della censura, in primo luogo, emerge come la stessa non sia riconducibile al paradigma di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo vigente a seguito della sua riformulazione ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nel presente giudizio che consente il ricorso per cassazione solo per "per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti" per le sentenze pubblicate dall'11 settembre 2012;
questa corte ha chiarito, del resto, come rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell'opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico d'ufficio sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o "in toto", le indagini, sostituendo l'ausiliare del giudice; l'esercizio di tale potere, non é sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici; peraltro, il provvedimento con cui il giudice dispone la rinnovazione delle indagini non priva di efficacia l'attività espletata dal consulente sostituito (Cass. 14/11/2008, n. 27247; Cass. 30/03/ 2010, n. 7622);
anche la scelta del consulente tecnico è rimessa al potere discrezionale del giudice, salva la facoltà delle parti di far valere mediante istanza di ricusazione ai sensi degli artt. 63 e 51 cod. proc. civ. gli eventuali dubbi circa la obiettività e l'imparzialità del consulente stesso, dubbi che, ove l'istanza di ricusazione non sia stata proposta, non sono più deducibili mediante il ricorso per cassazione (Cass. 17/11/1997, n. 11412);
nel caso di specie, in realtà, ove la motivazione, è certamente esistente non solo sotto l'aspetto formale ma anche sotto il profilo sostanziale, essendo idonea a rendere conoscibile il percorso logico giuridico seguito dal giudice per pervenire alla sua decisione (e nella stessa non sono riscontrabili intrinseche contraddizioni, peraltro neppure evidenziate) il motivo si limita ad esprimere un dissenso diagnostico che si traduce in un'inammissibile critica del convincimento del giudice rispetto alle conclusioni del c.t.u., senza addurre alcuna devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o omissioni di accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non avrebbe potuto prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi (Cass. 03/02/ 2012, n. 1652);
che anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole che il giudice non abbia indicato le ragioni in base alle quali dispose il rinnovo delle indagini peritali, e si sia poi appropriato delle conclusioni del consulente, senza dare conto delle critiche all'elaborato peritale mosse dalla difesa, è inammissibile;
con tale doglianza, invero, parte ricorrente, pur deducendo una violazione di legge, intende contestare -inammissibilmente e al difuori dei parametri normativi sopra richiamati- la motivazione in fatto, resa dalla corte, esprimendo un mero dissenso rispetto alla decisione adottata, e senza neppure indicare e riportare analiticamente, né gli elaborati peritali, né le critiche mosse della cui omessa considerazione si duole; egli si duole astrattamente, in altre parole, dell'esercizio della scelta discrezionale di rinnovo della consulenza in sè, senza confrontarsi adeguatamente con la decisione della corte di recepire le risultanze della consulenza stessa;
del resto, quanto all'art. 196 c.p.c., questa corte ha più volte chiarito come il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (cfr. Sez. 3 - , Sentenza n. 22799 del 29/09/2017, Sez. 3 - , Sentenza n. 22799 del 29/09/2017, Rv. 645507 - 01);
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna del ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
 

P.Q.M.
 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 ove dovuto.
Così deciso in Roma nella Adunanza camerale del 7.11.2019.