CGIL

Ufficio Giuridico e Vertenze Legali

 

Roma, 24 settembre 2020

 

Oggetto: Covid-19 - tutele delle lavoratrici e dei lavoratori, obbligo di sicurezza e responsabilità del datore di lavoro (a proposito dell'articolo 29-bis della legge n. 40/2020)

 

1. La prevenzione

Allo scopo di evitare rischi di contagio da Covid-19 sui luoghi di lavoro, l'art. 29-bis della legge 5 giugno 2020, n. 40 (di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n. 23/2020) prescrive che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

Il Protocollo figura come allegato al D.P.C.M. del 26 aprile[1]; le previsioni contenute nel Protocollo, e nei precetti successivi, frutto per lo più di accordi sindacali, sono tutte riconducibili alla nozione generale offerta dall'art. 15 del d.lgs. n. 81/2008, costituendo vere e proprie regole di prevenzione a valenza normativa, quali, ad esempio, quelle relative all'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI)[2].

Da ciò discende un obbligo di aggiornamento del documento unico di valutazione dei rischi (DVR) di cui all'art. 28 del d.lgs. n. 81/2008[3] [4] [5]. Ed infatti l'art. 2, alla lett. q), del t.u. del 2008, nel dettare la definizione normativa della "valutazione dei rischi", la riferisce globalmente a tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione produttiva. L'art. 15, co. 1, lett. a), esige la valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, e l'art. 17 ribadisce il principio. L'art. 28 è ancor più esplicito: la valutazione del rischio, anche nella sistemazione dei luoghi di lavoro deve riguardare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, inclusi quelli da stress-lavoro correlato. La medesima disposizione, al secondo comma, lett. a), precisa ulteriormente che il DVR deve contenere "una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa".

Solo in tal modo si corretta attuazione all'art. 2087 c.c., dato che il datore di lavoro è garante della salute e sicurezza in azienda ed è tenuto ad adottare le misure necessarie a evitare che l'ambiente lavorativo divenga occasione di contagio. Il datore di lavoro dovrà anzi elaborare un proprio protocollo aziendale, secondo quelle modalità concertate che sono state definite a livello nazionale.

Quindi il protocollo aziendale dovrà anzitutto definire gli ambiti e le posizioni per le quali è praticabile - e quindi obbligatorio - il ricorso all'attività lavorativa resa da remoto dal domicilio del lavoratore. Subito dopo, per tutte le prestazioni che invece debbono essere rese nell'ambiente di lavoro, il protocollo dovrà dettagliatamente prevedere l'attuazione di tutte le cautele, misure, precauzioni e protezioni (dal distanziamento interpersonale di almeno un metro sino ai DPI) che pure sono state tipizzate dalla normativa.

 

La responsabilità

L'art. 29-bis citato in sostanza afferma che l'autorità pubblica, con il concorso delle parti sociali che hanno elaborato i diversi protocolli fin qui sottoscritti, ha dettato le misure necessarie alla prevenzione del rischio da Covid-19 secondo l'esperienza e la tecnica ad oggi nota. Per cui, allo stato, spetta al datore di lavoro essenzialmente l'obbligo di rispettare ed attuare quelle misure - al massimo livello di sicurezza tecnica disponibile - nello specifico contesto aziendale. Conseguentemente il perimetro della sua responsabilità ex art. 2087 c.c. dovrà ragionevolmente dirsi contenuto, ed esaurito, nell'obbligo di puntuale e diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo previste dal Protocollo e dalla normativa emergenziale in evoluzione, oltre che ovviamente di quelle già previste dal nostro ordinamento a tutela della salute e sicurezza.

Diversa è la situazione di un'azienda che, malgrado i dispositivi protettivi generalmente previsti, abbia un'organizzazione del lavoro a rischio maggiorato di contagio (ad es. perché strutturata come vecchia catena di montaggio, con spazi contigui). In tal caso l'eventuale rifiuto datoriale a misure prevenzionali appropriate, secondo le migliori pratiche in uso, esporrebbe ad un'azione risarcitoria civilistica da parte del lavoratore danneggiato.

A tal fine, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione è sufficiente per il lavoratore dimostrare l'esposizione al rischio (cioè l'adibizione al lavoro nocivo) e l'infermità da Covid-19 per far presumere sia il nesso causale, sia la responsabilità datoriale; spetterà dunque a quest'ultimo la prova liberatoria di aver adottato tutte le precauzioni del caso ai sensi dell'art. 1218 cod. civ. (vedi da ultimo Cass. n. 12041/2020 e Cass. n. 12465/2020).

In definitiva, l'art. 29-bis, oltre a non rivestire alcuna portata innovativa delle linee portanti del nostro sistema di prevenzione e di relativa responsabilità dei datori di lavoro, non introduce alcuno scudo penale a favore di questi ultimi, limitandosi a precisare la portata dell'art. 2087 del codice civile nella gestione del rischio da Covid-19.

 

La tutela previdenziale

L'art. 42, co. 2, del decreto-legge n. 18/2020, conv. in l. n. 27/2020 prevede, che, “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-Cov-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all'INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato”.

Come ha subito correttamente precisato l'INAIL nerà dunque essere imputata alcuna responsabilità in caso di contagio avvenuto in occasione di lavoro. La sua circolare n. 13 del 3 aprile 2020, l'art. 42 della legge n. 27/2020 estende espressamente al Covid-19 "l'indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie".

Fatta salva l'opportunità e l'importanza di una previsione espressa, se un contenuto innovativo va riconosciuto a questa norma, esso riguarda la parte in cui esonera le imprese dall'aumento dei premi.

L'INAIL precisa in primo luogo - e correttamente - che "l'ambito della tutela riguarda anzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per gli operatori sanitari vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto l'elevatissima probabilità che tale personale venga a contato con il nuovo coronavirus. (...) Il medico, l'infermiere, l'operatore di laboratorio o il farmacista che contraggano il virus vanno, in altre parole, sempre ammessi alle prestazioni dell'INAIL come infortunati sul lavoro, senza che possa attribuirsi rilevanza a circostanze esterne all'occasione lavorativa”.

La circolare dell'Istituto n. 13/2020 estende il medesimo criterio presuntivo anche alle "altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l'utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all'interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc.”. Anche per tali figure (e per altre come, ad es., gli operatori delle case di cura e riposo per anziani), stante l'elevato rischio di contagio, vale la medesima presunzione “rafforzata” di cui si è detto sopra (cfr. anche la circ. INAIL n. 22 del 20 maggio 2020). L'INAIL non prende direttamente in considerazione la condizione dei riders. È pertanto auspicabile che l'ente previdenziale riconosca la presunzione di occasione di lavoro anche a questa categoria di lavoratori in costante contatto con il pubblico/utenza.

A ben vedere, tuttavia, le indicate situazioni non esauriscono l'ambito della tutela previdenziale antinfortunistica di cui all'art. 42 della legge n. 27/2020. Residuano infatti "quei casi, anch'essi meritevoli di tutela, nei quali manca l'indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque indizi gravi precisi e concordanti tali da far scattare - ai fini dell'accertamento medico­legale - la presunzione semplice" (circ. INAIL n. 13/2020).

In tali ipotesi - per l'INAIL - non opera alcuna presunzione semplice di origine professionale della infezione da Covid-19.

Tale conclusione non può essere condivisa: se il lavoro prestato durante la fase emergenziale è di per sé fattore di aggravamento del rischio di contagio, anche per tali categorie "residuali" - ovvero per tutti quanti hanno continuato a prestare la loro opera nell'ambiente di lavoro - deve valere una presunzione semplice di origine professionale. Una presunzione che, in tal caso, a differenza di quanto vale per le categorie esposte al rischio specifico di infezione (sanitari, etc.), potrà tuttavia essere superata dalla prova contraria fornita dall'Istituto, in base al ricorso ad elementi indiziari che conducano ad escludere l'occasione professionale del contagio.

L'impostazione accolta sul punto dall'INAIL va, dunque, ribaltata, onde attribuire alla norma "emergenziale" dell'art. 42 della legge n. 27/2020 quell'ampia portata di socializzazione delle conseguenze economiche della pandemia, che essa deve possedere in coerenza con la sua ratio protettiva.

Del resto, essendo l'infezione da Covid-19 qualificata come infortunio sul lavoro, valgono pienamente, anche per tale fattispecie, le previsioni di cui all'art. 12 del d.lgs. n. 38/2000. È cioè protetto anche l'infortunio da Covid-19 occorso in itinere, secondo le regole generali. Ne discende, a nostro avviso, una duplice conseguenza: da un lato, ai lavoratori che si avvalgono del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale anche se non appartenenti alle categorie professionali sopra esemplificate; dall'altro, l'uso del mezzo privato costituisce - in questa fase emergenziale - un'ipotesi di mezzo necessitato, sicché un eventuale infortunio in itinere è comunque tutelato.

Restano conseguenze intollerabili per i soggetti più esposti al rischio di contagio, come ad es. i medici che non siano titolari di un rapporto di lavoro subordinato; infatti, essi sono esclusi dall'ambito di applicazione soggettiva della tutela, alla quale non dà accesso, in tali casi, neppure la previsione dell'art. 5 del d.lgs. n. 38/2000. Questa, infatti, nell'individuare i lavoratori parasubordinati destinatari della tutela, opera un rinvio all'art. 49, co. 1, lett. a (oggi art. 50, co. 1, lett. c-bis) del t.u. delle imposte sui redditi, che però esclude l'assimilazione ai fini fiscali a quello di lavoro subordinato del reddito prodotto dalle attività di collaborazione coordinata e continuativa che abbiano ad oggetto l'esercizio dell'arte o della professione (come, appunto, nel caso dei medici).


[1] Si tratta dell'allegato 6 contenente "Ulteriori disposizioni attuative del decreto legge 23 febbraio, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19, applicabili sull'intero territorio nazionale”. Il Protocollo è stato poi inserito come allegato 12 nel D.P.C.M. 17 maggio 2020.

[2] Art. 18, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 81/2008. Sono tali, nel nostro caso, tipicamente, le mascherine e in genere i dispositivi indicati al punto 6 del Protocollo (quali guanti, occhiali, tute, cuffie, camici, ecc.), i quali si rendono "necessari" - ovvero obbligatori - tutte le volte in cui “il lavoro imponga di lavorare a distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative”.

I giudici di merito, chiamati a pronunciarsi in via d'urgenza sul diritto dei riders a ricevere i d.p.i. necessari a fronteggiare i rischi di contagio, hanno ritenuto sussistente il diritto all'integrale applicazione del d.lgs. 81/08, non solo riconducendo le prestazioni dei riders all'art. 2, comma 1, d.lgs. 81/2015, ma altresì affermando che “a identica conclusione si possa giungere anche ove si ritenga applicabile al caso di specie la disciplina del capo V bis” del medesimo d.lgs. (relativo ai riders lavoratori autonomi): sul punto v. Trib. Firenze, ord. 5 maggio 2020; Trib. Bologna, ord. 1° luglio 2020; Tribunale Firenze, decr. 22 luglio 2020; Trib. Bologna, decr. 11 agosto 2020.

[E]   E di riflesso, se del caso, dello stesso modello organizzativo, come previsto dall'art. 30, d.lgs. n. 81/2008 (ai fini di cui al d.lgs. n. 231/2001).


Fonte:  filctemcgil.it