Cassazione Penale, Sez. 4, 01 ottobre 2020, n. 27242 - Infortunio mortale del socio lavoratore addetto all'abbattimento degli alberi. Mancanza di formazione e omissioni nel DVR: responsabilità del Presidente della società cooperativa
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 16/09/2020
Fatto
1. La Corte di Appello di Torino, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente P.G., con sentenza del 20/5/2019 in parziale riforma della sentenza emessa in data 30/5/2013 dal GUP del Tribunale di Alessandria, ha riconosciuto in favore dell'imputato il beneficio della non menzione, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
Il Tribunale di Alessandria, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato l'odierno ricorrente, concessegli le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante contestata e operata la diminuente per il rito, alla pena di mesi 10 di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, dichiarandolo responsabile del reato di cui all'art. 589 co. 1 e 2 cod. pen., perché, nella qualità di Presidente della Ponte Vecchio Società Cooperativa a responsabilità limitata, cagionava per colpa il decesso di C.M., socio lavoratore della cooperativa addetto all'abbattimento degli alberi, a seguito di acuta insufficienza cardio-circolatoria conseguente a shock emorragico secondario a dissezione dell'aorta toracica discendente e lacerazione della vena cava superiore in soggetto con gravi lesioni traumatiche toraco-addominali.
Colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia ed in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ed in particolare:
- art. 28 co. 2 lett. b) D. Lgs. 81/08 per aver omesso di indicare nel documento di valutazione dei rischi lavorativi le idonee misure di prevenzione e protezione attuate in relazione alla mansione di operaio addetto all'abbattimento piante;
- art. 28 co. 2 lett. d) D.Lgs. 81/08 per aver omesso di individuare nel documento di valutazione dei rischi lavorativi le procedure per l'attuazione delle idonee misure di prevenzione e protezione da realizzare in relazione alle lavorazioni di abbattimento piante;
- art. 37 co. 1 D. Lgs. 81/08 per non aver fornito al lavoratore C.M. le necessarie informazioni e la adeguata formazione in merito ai rischi e alle procedure da adottare relativamente alla mansione di operaio addetto all'abbattimento piante.
Il 27/9/2011 C.M., unitamente al figlio D., era intento ad abbattere alcuni pioppi sul terreno di proprietà di tale M.; dopo aver proceduto a realizzare la c.d. "tacca di direzione" alla base dell'albero per determinarne appunto la direzione di caduta ed aver ultimato il taglio di abbattimento, la pianta cadendo urtava con i rami l'albero vicino e andando a colpire con la base del tronco il torace di C.M. cagionandogli le lesioni sopra descritte a seguito delle quali il lavoratore decedeva. In Alessandria il 27/9/2011.
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, P.G., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Il ricorrente, dopo una breve ricostruzione dell'iter processuale, rileva travisamento della prova e vizio di motivazione del provvedimento impugnato in relazione alla ritenuta sussistenza di responsabilità dell'imputato ed alla conseguente implicita ritenuta sussistenza della causalità della colpa, oggetto di specifico motivo di appello sul quale la corte di appello ha omesso di pronunciarsi.
Ci si duole che il motivo di appello, con il quale si esprimevano valutazioni critiche alle argomentazioni della sentenza di primo grado sulla causalità della colpa, non sia stato nemmeno riportato, nel testo della sentenza, tra i motivi proposti.
Si precisa in ricorso che l'appello denunziava travisamento della prova e mancanza di nesso causale tra la omissione cautelare contestata e l'evento, con conseguente obbligo, rimasto inevaso, del giudice del gravame di motivare su ognuna delle critiche avanzate.
Il ricorrente, dopo tale premessa, passa ad esporre i due motivi di ricorso. Con un primo motivo deduce travisamento della prova e vizio di motivazione. Contesta l'interpretazione data ai contributi dichiarativi e documentali risultanti dalle indagini, che avrebbero dovuto imporre un'interpretazione diametralmente opposta a quella operata dai giudici di merito, da ritenersi frutto di travisamento della prova.
Dopo aver riportato uno stralcio della sentenza impugnata, vengono riportate le dichiarazioni rese dal figlio della vittima, C.D., presente al momento dell'incidente e da P.V., al fine di evidenziare, per quanto riguarda il primo che, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza, vi era assoluta autonomia dell'accordo intercorso tra la vittima ed il P.V., e l'attività svolta al momento dell'infortunio esulava completamente dal contratto in essere tra la Cooperativa Ponte Vecchio e il P.V., escludendo ogni responsabilità datoriale dell'imputato.
In relazione alle dichiarazioni del P.V. si rileva, invece, che la sentenza impugnata, pur riportandole, non le avrebbe adeguatamente valutate. In particolare, per quanto riguarda l'affermazione che C.M., rapportandosi direttamente con lui, voleva essere remunerato a giornata e non in base ai quintali di legno ricavati dal taglio per le peculiarità e la difficoltà del lavoro.
Tale circostanza - si sostiene in ricorso- avallerebbe la tesi difensiva dell'autonomia dell'accordo tra P.V. e C.M. rispetto al contratto con la Cooperativa cui, pure, il P.V. aveva fatto riferimento. Si sottolinea, infatti, che tale contratto prevedeva un corrispettivo a quintale e non a tempo.
Si insiste, quindi, nella tesi volta all'esclusione dal contratto dei lavori durante i quali si verificava l'incidente mortale.
Inoltre, si rileva che non solo vi era stato l'accordo diretto tra il lavoratore e il P.V. per lo svolgimento di un'attività che sicuramente riguardava lo stesso oggetto del contratto stipulato dalla Cooperativa, ma che non rientrava affatto nella previsione contrattuale, tanto da concordare una diversa retribuzione a giornata, circostanza completamente trascurata dalla Corte distrettuale, ma addirittura i mezzi usati per il lavoro, motoseghe e semovente, erano di proprietà del C.M., come dichiarato dal figlio.
Infine, si sottolinea che "P.V. confermava esattamente la dinamica dei fatti" ma, in primo luogo, non vi aveva assistito e, in secondo luogo, aveva tutto l'interesse ad affermare che l'attività lavorativa svolta nel suo interesse rientrasse nell'ambito del contratto stipulato ben 9 mesi prima con la Cooperativa Ponte Vecchio, al fine di escludere una sua responsabilità penale per quanto accaduto.
Con un secondo motivo si deduce vizio di motivazione, violazione dell'art 125 cod. proc. pen., insussistenza della causalità della colpa.
Si ribadisce che la corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sulla contestazione di sussistenza della causalità della colpa, articolata alle pagine 10 - 14 dell'atto di appello.
Ciò determinerebbe la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 125 cod. proc. pen., in relazione al vizio di mancanza di motivazione.
Il ricorrente dichiara di riproporre, in questa sede, il secondo motivo di appello, avente ad oggetto un elemento costitutivo dell'illecito in punto di legittimità. Precisa, inoltre, che, ove questa Corte avesse a ritenere la sussistenza di una motivazione implicita, fondata sugli stessi elementi di prova posti a fondamento del rigetto del primo motivo, non può essere trascurato che l'assenza della causalità della colpa risulterebbe in ogni caso avvalorata dalle stesse considerazioni svolte sul punto alla pagina 9 della sentenza di primo grado e riportate in sintesi della sentenza di secondo grado.
Si riporta, quindi lo stralcio del provvedimento, evidenziando che era comunque previsto nel documento di valutazione dei rischi, poi revisionato alla luce di quanto accaduto il 27 settembre 2011, che la valutazione sull'adeguatezza della tecnica di abbattimento andava fatta caso per caso da persona esperta.
Si conclude, pertanto, che non essendo, l'odierno imputato, mai stato messo a conoscenza del tipo di lavoro che il socio lavoratore C.M. aveva deciso di effettuare autonomamente, con propria attrezzatura e sulla base degli accordi intercorsi direttamente con il P.V., il 'datore di lavoro' non sarebbe stato messo nelle condizioni di far precedere il lavoro dalla valutazione del singolo caso anche nell'ipotesi in cui fosse stato già in vigore al momento del fatto il documento di valutazione dei rischi come revisionato successivamente. Di conseguenza non può essergli addebitata la violazione di una regolare cautelare in relazione ad una modalità operativa attuata dal lavoratore a lui totalmente ignota
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.
2. Procedendo in ordine sistematico, va rilevata l'infondatezza del motivo di impugnazione con cui si lamenta che la Corte territoriale non avrebbe risposto al motivo di gravame nel merito in punto di c.d. causalità della colpa.
In premessa, va ricordato che, di fronte ad una doppia conforme affermazione di responsabilità, nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri, Rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'"ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto Sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 2003, Delvai, Rv. 223061).
E' stato anche sottolineato da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen., la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all_'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242 dell'8.2.2013, Reggio, rv. 254988).
In particolare, il ricorrente, richiama l'attenzione sulle pagg. 10-14 del proprio atto di appello cui lamenta che la Corte territoriale non abbia fornito risposta.
Ebbene, va rilevato, in primo luogo, che non corrisponde al vero il fatto che la Corte territoriale non abbia dato conto di tale motivo di appello essendo evidentemente lo stesso ricompreso nell'ambito delle "doglianze nel merito" di cui si fa cenno a pag. 8 della sentenza impugnata.
Ma è proprio l'esame dell'atto di appello del 21/10/2013 a firma dell'Avv. Alessandra Stefano, consente di valutare l'assoluta genericità e contraddittorietà del motivo di gravame nel merito sopra richiamato e come alla questione posta con lo stesso entrambi i giudici di merito abbiano fornito una risposta motivazionale priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, che pertanto si sottrae alle prospettate censure di legittimità.
Con il motivo richiamato si sottoponevano alla Corte territoriale una serie di massime di sentenze di questa Corte di legittimità (le nn. 4675/2006, 36857/2009 e 43645/2011) e di affermazioni consolidate in punto di rapporto di causalità, per poi concludere con l'affermazione, poco conferente con la tematica della causalità della colpa, secondo cui "il giudice di prime cure dimostra di non avere colto nel segno posto che il P.G. non intende affatto scagionarsi invocando una prassi illegittima nello svolgimento dell'attività lavorativa da parte dei soci della cooperativa della quale non sarebbe stato a conoscenza" ma l'esistenza di "scelte autonome da parte del C.M." e il fatto che "era assolutamente ignoto quale attività e con quali modalità l'infortunato avesse deciso di svolgerla".
Dunque, il motivo di appello, pur rubricato come "insussistenza della cosiddetta causalità della colpa, non pone un problema afferente alla stessa, ma torna su quello che è stato il costante tema difensivo, cui tanto il giudice di primo grado che quello di appello hanno esaurientemente risposto: l'affermazione che l'attività svolta dai C.M. non rientrasse tra quelle appaltate alla cooperativa di cui facevano parte.
Diverso è il tema secondo cui può essere ascritto all'autore a titolo di colpa non qualsiasi evento riconducibile causalmente alla condotta trasgressiva ma solo quello evitabile con la condotta non trasgressiva. Si tratta, in altri termini, di accertare il rapporto di causalità tra la condotta colposa e l'evento, verificando la sussumibilità dell'evento determinato dalla condotta trasgressiva di una regola cautelare nel novero di quegli eventi che la stessa norma mirava a scongiurare.
Si tratta del principio della c.d. causalità della colpa più volte spiegato da Corte di legittimità nel senso che: "il rimprovero colposo deve riguardare la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l'esigibile osservanza delle norme cautelari violate. Dal che si profila il versante più oggettivo della colpa, nel senso che, per potere affermare una responsabilità colposa, non è sufficiente che il risultato offensivo tipico si sia prodotto come conseguenza di una condotta inosservante di una determinata regola cautelare ... ma occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata intendeva fronteggiare. Occorre, cioè, che il risultato offensivo sia la concretizzazione del pericolo preso in considerazione dalla norma cautelare; ovvero, in altri termini, che l'evento lesivo rientri nella classe di eventi alla cui prevenzione era destinata la norma cautelare. Si evidenzia così la cd. causalità della colpa e cioè il principio secondo cui il mancato rispetto della regola cautelare di comporta-mento da parte di uno dei soggetti coinvolti in una fattispecie colposa non è di per sé sufficiente per affermare la responsabilità di questo per l'evento dannoso verificatosi, se non si dimostri l'esistenza in concreto del nesso causale tra la condotta violatrice e l'evento" (così, ex multis, questa Sez. 4, n. 38786 del 22/9/2011, Michelini, non mass.).
Nel caso in esame, la risposta per i giudici di merito è certamente positiva poiché l'obbligo di curare la redazione del piano di sicurezza e l'aggiornamento dello stesso, così come quello di formazione ed informazione del lavoratore, che incombe sul datore di lavoro ha proprio il fine di preservare la sicurezza dei luoghi di lavoro e delle operazioni che si vanno a compiere.
3. Il primo motivo di ricorso, che costituisce sostanzialmente la riproposizione della tesi difensiva già valutata in sede di appello è infondato, è infondato in quanto non appare ravvisabile alcun preteso travisamento di prova.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542)
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Non c'è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.
Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.
Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (l'avere la persona offesa e il figlio gestito "in proprio" parte dell'attività che pure competeva per contratto alla cooperativa), senza indicare specificamente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta manifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.
Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica "rispetto a sé stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
Il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. intenda far valere il vizio di "travisamento della prova" deve, a pena di inammissibilità (cfr. Sez. 1, n. 20344 del 18 maggio 2006, Rv. n. 234115; Sez. 6, n. 45036 del 2/12/2010, Rv. 249035): (a) identificare specificamente l'atto processuale sul quale fonda la doglianza; (b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta asseritamente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata;
(c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché dell'effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda tra i materiali probatori ritualmente acquisiti nel fascicolo del dibattimento; (d) indicare le ragioni per cui l'atto invocato asseritamente inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.
Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Torino alcuna illogicità o travisamento della prova che ne vulneri la tenuta complessiva.
I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logica hanno, infatti, dato conto che l'attività lavorativa svolta dal socio lavoratore C.M. venisse prestata alle dipendenze della società Cooperativa.
Infatti, non solo l'attività era svolta nell'ambito di un regolare contratto per il taglio degli alberi, attività abitualmente svolta dalla società cooperativa, ma a differenza di quanto sostenuto dalla difesa non sussistono i presupposti per ipotizzare un autonomo rapporto di prestazione lavorativa svolto dalla vittima in favore del P.V..
I giudici del gravame del merito danno logicamente atto in motivazione che non appare certamente strano che C.M. contrattasse direttamente una diversa modalità di compenso, che sarebbe comunque stato riscosso dalla Cooperativa che si occupava di tutte le incombenze amministrative, come dichiarato da C.D.. Non potendo trascurarsi, peraltro, che la vittima, oltre a rivestire anche la qualifica di preposto per la società per cui lavorava, apparteneva ad una particolare figura di lavoratore subordinato, quella di socio lavoratore di cooperativa, rivestendo, quindi, oltre alla funzione di lavoratore subordinato anche quella di socio partecipante alla gestione della stessa cooperativa.
In conseguenza di tale particolarità, infatti, anche le dotazioni di sicurezza sebbene fornite dal datore di lavoro, tenuto all'adempimento di tutti gli obblighi vigenti in tale materia, venivano pagate direttamente dai dipendenti, tanto che, come dichiarato dal figlio, la vittima preferiva acquistare autonomamente le scarpe antinfortunistiche rinvenendole ad un costo inferiore.
4. Infondati appaiono anche gli ulteriori motivi di ricorso.
Precisa la Corte distrettuale che la responsabilità del Presidente della Cooperativa va ravvisata non solo nella mancata formazione e informazione del lavoratore ma principalmente nella completa omissione della preventiva valutazione della scelta della probabile via fuga, necessaria al fine di operare in sicurezza, per scongiurare il pericolo di investimento del taglialegna.
Non c'è alcun dubbio - e va qui ribadito - che, in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 626 del 1994, i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di "datore di lavoro", riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa (Sez. 4, n. 32958 del 8/6/2004, Vinci ed altro, Rv. 229273; conf. Sez. 4, n. 14588 del 10/7/1986, Dall'Olmo, Rv. 174722).
Costituisce ius receptum, infatti, il principio che beneficiari delle norme di tutela della sicurezza del lavoro sono, oltre i lavoratori dipendenti, i soci di cooperative di lavoro. Il presidente e legale rappresentante di una cooperativa di lavoro, pertanto, deve essere considerato destinatario delle norme antinfortunistiche quando a questa spetti di eseguire le opere (così questa Sez. 4, n. 3483 del 21/12/1995 dep. 1996, Rv. 204973, in relazione ad una fattispecie relativa ad infortunio occorso ad un operaio il quale era socio dipendente di una cooperativa aderente ad un consorzio gestione servizi, appaltatore di attività di facchinaggio. Detto consorzio aveva, a sua volta, affidato l'attività alla associata cooperativa. La responsabilità dell'incidente era stata attribuita, oltre che all'amministratore del Consorzio Gestione Servizi, al presidente della cooperativa, che aveva il dovere di controllare e di sorvegliare le operazioni perché si svolgessero secondo gli accordi ed in condizioni di sicurezza per i lavoratori).
I profili di colpa generica e specifica di cui al capo d'imputazione sono articolatamente trattati nelle due sentenze di merito che, trattandosi di doppia conforme- vedono le loro motivazioni saldarsi in un tutt'uno.
In casi come quello che ci occupa -va ribadito- Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250).
I giudici di merito ricordano che la mattina del 27/9/2011 il taglio della pianta di pioppo da parte del lavoratore deceduto e del figlio non è stata eseguita seguendo una tecnica sicura. Come osservato puntualmente dallo SPRESAL nella relazione n. 601/AL/ll, di cui dà atto il giudice di primo grado, dal sopralluogo effettuato la poche ore dopo l'infortunio è emerso che: " ...la tacca di direzione era stata realizzata ed era stato ultimato il taglio di abbattimento con la creazione di una cerniera (sottile parte di albero posta tra tacca di direzione e taglio di abbattimento) abbastanza consistente anche se simile a quella degli abbattimenti precedenti ... Si rileva inoltre che la posizione di lavoro dell'infortunato C.M. era precaria a a causa della pendenza del terreno, della presenza di bassa vegetazione che ostacolava i movimenti, della prossimità della roggia che garantiva a/l'abbattitore poco spazio tra l'albero da abbattere e l'acqua corrente e quindi una via di allontanamento piuttosto precaria. È buona norma nei lavori di abbattimento prevalutare la via di allontanamento de/l'abbattitore dal luogo di taglio in quanto non è infrequente che il fusto cada in modo non previsto e colpisca l'operatore cosa che sembra essere avvenuta il giorno 27. 9.11 ".
Viene anche dato atto che, dalle dichiarazioni rese da C.D. e dall'esame dei luoghi (chiaramente ritratti nelle fotografie in atti) emerge che l'infortunio occorso a C.M. è stato determinato dall'esecuzione dell'operazione di taglio del pioppo in un'area in pendenza ed in prossimità di un corso d'acqua, senza una corretta preventiva valutazione delle necessarie vie di fuga, risultando che, dopo che la vittima aveva ultimato le operazioni di taglio ed il figlio aveva iniziato a trainare il tronco con il verricello montato sul semovente, la pianta aveva cambiato la direzione di caduta per aver urtato una pianta affianco e aveva colpito violentemente con la parte terminale del fusto C.M., il quale, per la difficile percorribilità di terreno, non si era allontanato a sufficienza dall'area di taglio.
Logica appare pertanto la conclusione, cui era pervenuto il giudice di primo grado proprio in termini di quella causalità della colpa che il ricorrente lamenta essere stata trascurata, che l'infortunio sia avvenuto, in primis, proprio in conseguenza di una non corretta analisi dei rischi connessi all'esercizio della rischiosa attività di abbattimento delle piante e di una non corretta formazione del lavoratore, che svolgeva funzioni di capo squadra ed 'era incaricato del taglio degli alberi e non ha operato in sicurezza.
Viene ricordato, infatti, che C.D. ha fornito una dettagliata spiegazione circa le modalità con le quali effettuava ordinariamente con il padre l'abbattimento delle pianti e nulla ha riferito in ordine a valutazioni che l'addetto al taglio avrebbe dovuto eseguire in ordine alla scelta di una agevole via di fuga.
A proposito della valutazione del rischio, come ricorda il giudice di primo grado a pag. 9 della propria pronuncia, lo SPRESAL chiedeva alla cooperativa Ponte Vecchio di trasmettere anche il documento di valutazione dei rischi lavorativi, l'analisi del quale evidenziava che i numerosi ed elevati rischi connessi al taglio delle piante in aree boschive non erano sostanzialmente trattati.
L'atto conteneva infatti solo generiche e aspecifiche indicazioni; le misure adottate erano così descritte: "addestramento individuale e affiancamento con personale esperto. Formazione sul rischio specifico. Dotazione di DPI per le diverse parti del corpo. Movimentazione di piccole pezzature di tronchi ovvero operazioni svolte in coppia"; le ulteriori misure da adottare erano così enunciate "richiami continui da parte dei capi squadra/sorveglianti sull'obbligo d'uso dei DPI, sul mantenimento della zona di sicurezza intorno alla pianta da abbattere e sulla messa in atto di comportamenti di sicurezza".
Non a caso -rileva ancora la sentenza- la Ponte Vecchio s.c.a.r.l. ha ottemperato alla prescrizione imposta dallo SPRESAL di dotarsi di idoneo documento di valutazione dei rischi, che prendesse in esame le misure di prevenzione e protezione attuate almeno per la mansione di operaio addetto all'abbattimento delle piante. Nella revisione della valutazione dei rischi (datata 28.11.2011, successiva ai fatti di cui al presente processo), la società ha ben individuato i rischi legati alle attività di abbattimento, degli alberi e ha forno istruzioni operative dettagliate, che esaminano le fasi di verifica della pianta e la fase operativa di abbattimento. Emerge chiaramente dalle istruzioni la necessità di una preventiva verifica delle vie di fuga e della valutazione circa i possibili rimbalzi o movimenti degli alberi tagliati. Con particolare riferimento alla tecnica di abbattimento con taglio di direzione, nel documento di valutazione dei rischi si legge testualmente: "tale sistema ... non deve essere adottato sempre e la valutazione va fatta caso per caso da persona esperta".
5. Decisivo, inoltre, rispetto al realizzarsi della tragedia che ci occupa, il rilievo, di cui i giudici di merito danno argomentatamente atto, che il lavoratore deceduto, infatti, nonostante avesse una lunga esperienza lavorativa, non era stato avvisato e formato circa la necessità di allontanarsi dalla zona del taglio quando il collega procedeva a tirare con il verricello la pianta, ma si fermava sul posto, per ultimare il taglio nel momento in cui la pianta si trovava adeguatamente tirata verso il semovente.
C.D., figlio della vittima, ha infatti spiegato che il padre non si allontanava dalla pianta quando iniziava a tirarla con il cavo, ma ha precisato che si allontanava solo nella fase finale del taglio, ovvero quando la pianta stava ormai per cadere (ha riferito che, quando il cavo del verricello appariva rilasciato e la pianta pendeva tutta verso il campo, il padre "terminava il taglio ed io vedevo la pianta che cadeva, per la precisione lui non tagliava tutto il tronco, lasciava alla fine una larghezza di circa due dita e così la pianta terminava di cadere dando tempo a mio padre di allontanarsi e mettersi in sicurezza").
In altre parole, C.M., non aveva ricevuto alcuna istruzione e formazione sul punto e aveva adottato una tecnica operativa rischiosa che l'azienda per cui lavorava non aveva curato in alcun modo di modificare.
Formazione, informazione e addestramento sono attività che l'art. 2 del d.lgs. 81/08 distingue chiaramente, specificandone i diversi contenuti:
"aa) «formazione»: processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi;
bb) «informazione»: complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro;
cc) «addestramento»: complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro".
Le norme cogenti di riferimento sono contenute negli articoli 36 e 37 d.lgs. 81/08.
Secondo l'art. 36 (Informazione ai lavoratori): "1. Il datore di lavoro provvede affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione: a) sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale; b) sulle procedure che riguardano il primo soccorso, la lotta antincendio, l'evacuazione dei luoghi di lavoro; c) sui nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di cui agli articoli 45 e 46; d) sui nominativi del responsabile e degli addetti del servizio di prevenzione e protezione, e del medico competente. 2. Il datore di lavoro provvede altresì affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione: a) sui rischi specifici cui è esposto in relazione all'attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia; b) sui pericoli connessi all'uso delle sostanze e delle miscele pericolose sulla base delle schede dei dati di sicurezza previste dalla normativa vigente e dalle norme di buona tecnica; c) sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate. 3. Il datore di lavoro fornisce le informazioni di cui al comma 1, lettere a) e al comma 2, lettere a), b) e c), anche ai lavoratori di cui all'articolo 3, comma 9. 4. Il contenuto della informazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le relative conoscenze. Ove la informazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo".
L'articolo 37 (Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti) prevede poi che: "l. Il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento a: a) concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza; b) rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell'azienda. 2. La durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione di cui al comma 1 sono definiti mediante Accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano adottato, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo. 3. Il datore di lavoro assicura, altresì, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in merito ai rischi specifici di cui ai titoli del presente decreto successivi al I. Ferme restando le disposizioni già in vigore in materia, la formazione di cui al periodo che precede è definita mediante l'Accordo di cui al comma 2. 4. La formazione e, ove previsto, l'addestramento specifico devono avvenire in occasione: a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell'inizio dell'utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro; b) del trasferimento o cambiamento di mansioni; c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e miscele pericolose. 5. L'addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro. 6. La formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti deve essere periodicamente ripetuta in relazione all'evoluzione dei rischi o all'insorgenza di nuovi rischi".
6. La sentenza impugnata si colloca, pertanto, nell'alveo del consolidato orientamento di questa Corte di legittimità che individua nell'obbligo di fornire adeguata formazione ai lavoratori, uno dei principali gravanti sul datore di lavoro, ed in generale sui soggetti preposti alla sicurezza del lavoro (Sez. 4, n. 41707 del 23 settembre 2004, Bonari, Rv. 230257; Sez. 4, n. 6486 del 3 marzo 1995, Grassi, Rv. 201706).
La violazione degli obblighi inerenti la formazione e l'informazione dei lavoratori integra un reato permanente, in quanto il pericolo per l'incolumità dei lavoratori permane nel tempo e l'obbligo in capo al datore di lavoro continua nel corso dello svolgimento del rapporto lavorativo fino al momento della concreta formazione impartita o della cessazione del rapporto (cfr. in tal senso Sez. 3, n. 26271 del 7/5/2019, Roscio, Rv. 276043)
Il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche, e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle (cfr. Sez. 4, n. 27787 del 8/5/2019, Rv. 276241 relativa alla confermata responsabilità del datore di lavoro, che aveva colposamente cagionato la morte di un lavoratore impiegato in attività di taglio di piante in assenza di adeguata formazione, nonostante l'inesperienza e la carenza di conoscenze tecniche del lavoratore nel settore di riferimento).
Si afferma pacificamente in giurisprudenza, infatti, che il datore di lavoro risponde dell'infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte (Sez. 4, n. 45808 del 27 giugno 2017, Catrambone ed altro, Rv. 271079). È infatti tramite l'adempimento di tale obbligo che il datore di lavoro rende edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti (Sez. 4, n. 11112 del 29 novembre 2011, P.C. in proc. Bortoli, Rv. 252729). Ove egli non adempia a tale fondamentale obbligo, sarà chiamato a rispondere dell'infortunio occorso al lavoratore, laddove l'omessa formazione possa dirsi causalmente legata alla verificazione dell'evento.
Non può infatti venire in soccorso del datore di lavoro - come pretenderebbe il ricorrente - il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non adeguatamente formati. Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, infatti, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, 11 Vallani, Rv. 265178).
Si è poi ulteriormente specificato che l'obbligo di informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro (Sez. 4, n. 22147 del 11 febbraio 2016, Morini, Rv. 266860). Ciò in quanto l'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge e gravanti sul datore di lavoro (Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 259219).
Ancora, di recente, è stato ribadito che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, e l'adempimento di tali obblighi non è escluso nè è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. (Sez. 4, Sentenza n. 49593 del 14/06/2018 Ud. (dep. 30/10/2018) T., Rv. 274042, in un caso in cui la Corte ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per la morte di tre operai in un cantiere autostradale, precipitati nel vuoto da un'altezza di circa 40 metri a seguito dello sganciamento della pedana sulla quale si trovavano, causato dall'errato montaggio del sistema di ancoraggio, effettuato utilizzando, per il serraggio del cono, una vite di dimensioni inferiori, sia per lunghezza sia per diametro, a quelle prescritte, rilevando che, proprio perché tale errore era frutto delle riscontrate suddette omissioni, esso non era idoneo ad escludere il nesso causale tra esse e l'evento).
L'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro - va ribadito- non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge Sez. 4, n. 21242 del 12/02/2014, Nogherot, Rv. 259219).
Più in generale, in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo, ma anche, e soprattutto, controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle (così Sez. 4, n. 27787 del 08/05/2019, Rossi, Rv. 276241 in un caso relativo a responsabilità del datore di lavoro, che aveva colposamente cagionato la morte di un lavoratore impiegato in attività di taglio di piante in assenza di adeguata formazione, nonostante l'inesperienza e la carenza di conoscenze tecniche del lavoratore nel settore di riferimento).
In tema di sicurezza sul lavoro, ai sensi dell'art. 73, commi 1 e 2, lett. b), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore dei rischi propri dell'attività cui è preposto e di quelli che possono derivare dall'esecuzione di operazioni da parte di altri, ove interferenti, ed è obbligato a mettere a disposizione dei lavoratori, per ciascuna attrezzatura, ogni informazione e istruzione d'uso necessaria alla salvaguardia dell'incolumità, anche se relative a strumenti non usati normalmente (Così Sez. 3, n. 16498 dell'8/11/2018 dep. il 2019, Di Cataldo, Rv. 275560, nella cui motivazione la Corte ha precisato che può essere ritenuta eccezionale o abnorme - e come tale in grado di escludere la responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio occorso - solo la condotta del lavoratore che decida di agire impropriamente, pur disponendo delle informazioni necessarie e di adeguate competenze per la valutazione dei rischi cui si espone).
7. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 16 settembre 2020