Cassazione Penale, Sez. 3, 31 luglio 2020, n. 23422 - Molestie sessuali sul luogo di lavoro: aggravante dell'abuso di autorità




 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACETO Aldo - Presidente -

Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -

Dott. SEMERARO Luca - Consigliere -

Dott. GAI Emanuela - Consigliere -

Dott. MACRI’ Ubalda - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

G.C., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza in data 11/04/2019 della Corte d'appello di Catania;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Ubalda Macrì;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Gaeta Pietro, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso.
 

Fatto


1. Con sentenza in data 16 aprile 2013 il Giudice dell'udienza preliminare di Catania ha condannato G.C., alla pena di anni 2 di reclusione, oltre spese e pene accessorie, con il beneficio della sospensione condizionale, per violenza sessuale (capo A) e minaccia (capo B), nei confronti della dipendente dell'agenzia immobiliare che gestiva di fatto, applicata la continuazione, l'attenuante dell'art. 609-bis c.p., u.c., per il reato del capo A), bilanciate le circostanze attenuanti generiche con le contestate aggravanti, e calcolata la riduzione del rito, oltre spese e pene accessorie, con il beneficio della pena sospesa.

Con sentenza in data 11 aprile 2019 la Corte d'appello di Catania ha rideterminato la pena in anni 1 e mesi 4 di reclusione, applicata la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, che ha riconosciuto, in uno con le altre attenuanti, prevalente sull'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 11 nonchè l'aumento per la continuazione.

2. Con il primo motivo di ricorso l'imputato deduce la violazione di legge e di norme processuali, nonchè il vizio di motivazione, in ordine ai reati ascrittigli.

Il racconto della persona offesa, se analizzato nella sua interezza, non configurava il delitto di violenza sessuale, per i rapporti sereni ed amichevoli con la donna, per l'arco temporale in cui si erano verificati i fatti (oltre due ore), per le interruzioni (almeno cinque, tra telefonate e due visite da parte di altri soggetti), per il luogo (agenzia immobiliare con annesso ufficio di poste private), per le modalità di comportamento della vittima che non aveva chiesto aiuto nè si era allontanata dal locale. Osserva che, nel corso delle effusioni, la ragazza non gli aveva intimato di smetterla, il che era stato interpretato come un segno di accondiscendenza.

Anche l'accertamento di responsabilità del secondo reato era fondato sul narrato della denunciante. Si era trattato di un dialogo non idoneo a coartare la volontà della vittima. Le espressioni usate avevano evidenziato una preoccupazione di natura familiare (separazione dalla moglie e dalle figlie) e professionale (sospensione dal servizio o trasferimento in altra sede), più che una volontà diretta a non riferire alcuni fatti per i quali non era più neanche possibile procedere penalmente. Dal punto di vista soggettivo, essendo un reato a dolo specifico, inteso come coscienza e volontà del fatto tipico con l'ulteriore scopo di indurre taluno a commettere un reato, nel momento in cui aveva avuto l'incontro con la ex-dipendente, non aveva neanche la certezza che poteva essere chiamata a deporre contro di lui. La Corte territoriale avrebbe dovuto motivare sul punto, proprio per dimostrare la certezza del male minacciato, evitando di affidarsi alle suggestioni ex post riferite dalla donna.

In relazione all'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 11, la Corte di cassazione aveva chiarito che, in tema di violenza sessuale, l'abuso di autorità presupponeva nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico che necessitava la prova della strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima era costretta a subire le molestie. Contesta l'applicazione in malam partem della norma, perchè la Corte territoriale aveva ritenuto sussistente l'aggravante, solo perchè si interessava dell'attività professionale della figlia quando non svolgeva il servizio.

Con il secondo denuncia il vizio di motivazione quanto al beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, che non era stato riconosciuto per la gravità del reato attinente alla sfera sessuale. Censura la formula di stile adoperata senza una valutazione negativa sulla sua personalità.

 

Diritto


3. Il ricorso è manifestamente infondato perchè consiste in generiche doglianze di fatto già vagliate e disattese con adeguata motivazione nella sentenza impugnata.

Quanto all'accertamento di responsabilità della violenza sessuale, la Corte territoriale ha ricordato che la donna aveva accettato il lavoro presso l'agenzia immobiliare perchè l'imputato, che ne era il titolare di fatto, era un appuntato dei carabinieri ed era amico del padre. Lo considerava una persona per bene ed affidabile ed era rimasta impietrita dai suoi comportamenti. Non era vero che non avesse manifestato il dissenso ai toccamenti, perchè la vittima gli aveva chiesto di smettere quando lui le aveva preso con forza la mano per appoggiarsela sul suo membro ed aveva stretto le gambe quando lui aveva infilato le sue mani nel jeans.

Quanto all'accertamento della responsabilità della minaccia, i Giudici di appello hanno valorizzato le dichiarazioni della persona offesa la quale aveva riferito di un forte timore per la sua incolumità derivante dalle espressioni minacciose del carabiniere, dopo che aveva scoperto la denuncia. L'imputato aveva aggiunto che lui non aveva nulla da perdere, espressione messa in correlazione all'intimazione a non raccontare nulla di quanto accaduto tra loro.

La decisione è logica e razionale e non è stata disarticolata dalle congetture dell'imputato.

Ai fini dell'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 11 i Giudici di merito hanno fatto buon governo di un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di circostanze aggravanti comuni, in relazione all'ipotesi di cui all'art. 61 c.p., n. 11, il termine "ufficio" cui fa riferimento la disposizione, va inteso tanto nel suo senso soggettivo, come esercizio di mansioni da parte dell'agente, quanto in senso oggettivo, come luogo in cui le stesse sono svolte. Ne consegue che le relazioni di ufficio possono consistere anche in rapporti di mero fatto, indipendentemente dalla qualificazione giuridica degli stessi (Cass., Sez. 2, n. 44868 del 08/10/2004, Cossia, Rv. 230284 - 01).

Non manifestamente illogico è il diniego del beneficio della non menzione, trattandosi di delitto grave, perchè relativo alla sfera sessuale. Va ribadito il principio di diritto affermato da Cass., Sez. 2, n. 1 del 15/11/2016, dep. 2017, S., Rv. 268971 - 01, secondo cui La concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice sulla base di una valutazione delle circostanze di cui all'art. 133 c.p., senza che sia necessaria una specifica e dettagliata esposizione delle ragioni della decisione.

Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.
 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Dispone inoltre che copia del presente dispositivo sia trasmessa alla Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico a norma dell'art. 154-ter disp. att. c.p.p..

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2020