Categoria: Cassazione penale
Visite: 4885

Cassazione Penale, Sez. 4, 07 dicembre 2020, n. 34734 - Malore mortale all'interno della cella di surgelazione. Impianto privo di ossimetro e di segnalazione acustica o luminosa e deficienze del DVR sui rischi in Ambiente confinato


 

 

Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: NARDIN MAURA Data Udienza: 24/09/2020
 

Fatto


1. Con sentenza del 13 settembre 2018 la Corte di Appello di Venezia ha confermato la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Treviso con cui F.F., nella qualità legale rappresentante della Surgenuin s.n.c., è stato ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 589, comma 2A cod. pen., per avere causato, con colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, nonché nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all'art. 66 d.lgs. 81/2008, la morte -per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale- di R.B., che, entrato nella cella di surgelazione I.Q.F. n.6 e, in particolare, nell'apertura di ispezione, a seguito di malore, non era in grado di rispondere al collega L.D., il quale, provvedeva a chiudere la porta aperta, ritenendo che la cella fosse vuota, prima di avviare nuovamente l'immissione di azoto.
2. Il fatto per come accertato dalla sentenza di primo grado -e ripreso dalla Corte territoriale- può essere riassunto come segue. L'operaio R.B., cui erano attribuite mansioni generiche, venne rinvenuto alle ore 18,25 del 9 agosto 2012, all'interno della cella di surgelazione IQF, dove si raccoglieva il prodotto in lavorazione, in stato di incoscienza, dai colleghi di lavoro, intenti a cercarlo da circa 20 minuti. Immediatamente soccorso, decedeva il giorno successivo per insufficienza multiorgano post ipotermia accidentale. Nessuno poté osservare la dinamica del sinistro e, tuttavia, nel corso delle ricerche del lavoratore il dipendente L.D., trovata la cella aperta e l'erogatore dell'azoto chiuso, dopo avere chiamato il R.B., non ottenendo risposta, richiuse la porta e riavviò l'azoto. Furono riscontrate dalle indagini dello SPISAL le seguenti carenze: assenza nel DVR della valutazione dei rischi connessi all'uso dell'azoto in ambiente chiuso, con conseguente mancata specifica formazione del personale sul punto; assenza di un sistema di sicurezza -ossimetro- finalizzato alla segnalazione di un livello di ossigeno ed idoneo ad impedire l'apertura della porta in condizioni di rischio od a disattivare il funzionamento degli apparati meccanici in caso di porta aperta; assenza di strumenti di protezione individuale (autorespiratori), per coloro che dovevano accedere alla cella, anche per interventi di soccorso. Le sentenze danno atto che nell'impossibilità di ricostruire le esatte ragioni dell'ingresso di R.B. nella cella, nonché la dinamica della caduta all'interno della vasca, attraverso un foro della misura di cm. 40X40, è stato, nondimeno, appurato che R.B. osservò due delle tre prescrizioni impartite per l'accesso- mantenimento della porta aperta, disattivazione dell'azoto- senza però provvedere a dare avviso ad almeno un collega del suo ingresso nella cella, come previsto. Mentre non è risultato possibile accertare quanto tempo il lavoratore attese dal momento dall'apertura della porta e dello spegnimento dell'azoto, prima di accedere all'interno, essendo stato stabilito, nelle prescrizioni impartite, un intervallo minimo di almeno un minuto. Dunque, il lavoratore, le cui mansioni generiche includevano anche l'accesso alla vasca per effettuare controlli sul prodotto in lavorazione, si introdusse nella cella, ivi perdendo i sensi per l'eccessiva quantità di azoto presente, scivolando attraverso il pertugio nella vasca di lavorazione, dove venne rinvenuto dai colleghi. Sia la sentenza di primo grado che quella di secondo grado escludono l'intenzione suicidiaria del lavoratore, avendo il medesimo spento i macchinari, prima di introdursi nella cella, azione questa incompatibile con una simile volontà. Parimenti hanno ritenuto non incompatibile con la caduta accidentale la ridotta larghezza dell'apertura di ispezione, considerandola sufficiente al passaggio del corpo di un uomo di medie dimensioni, soprattutto se posto di fianco. Le decisioni hanno escluso, altresì, l'abnormità del comportamento del lavoratore, posto che, seppure questi disattese le regole fondamentali prescritte per evitare infortuni all'interno della cella -la cui pericolosità era nota ai lavoratori- il datore di lavoro avrebbe dovuto prevedere che un lavoratore, anche per mera superficialità, ponesse in essere condotte errate. Sicché la mancata adozione di misure preventive efficaci, idonee ad impedire l'accesso alla cella, in presenza di concentrazioni di azoto tossiche per l'uomo, è stata ritenuta condotta colposa causalmente connessa all'evento dannoso.
3. Avverso la sentenza della Corte di appello F.F., a mezzo del suo difensore, propone ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi.
4. Con il primo fa valere, ex art. 606, primo comma, lett. e), il vizio di motivazione, rilevabile dal provvedimento impugnato e dagli atti del procedimento, in ordine alla ritenuta accidentalità della caduta ed alla causa della morte. Osserva che la Corte territoriale nel discostarsi dalla ricostruzione del primo giudice, secondo il quale R.B. sarebbe entrato nella vasca intenzionalmente, ha ritenuto, con argomentazioni del tutto prive di supporto scientifico, ed avulse da accertamenti anche sperimentali, che la caduta e la posizione finale del corpo non fossero incompatibili con un evento accidentale, senza tenere in considerazione la relazione dei funzionari Spisal. Secondo il parere espresso dai tecnici, infatti, nell'impossibilità di ricostruire la dinamica del sinistro, appare 'inverosimile che una persona possa, nella postazione sopra la scala a gradini di ispezione al contenitore, cadere completamente all'interno del contenitore stesso ad esempio a seguito di uno svenimento, di un malore o del semplice scivolamento. Al massimo, infatti, l'operatore potrebbe rimanere incastrato all'interno dell'apertura quadra della tramoggia. A fronte di ciò la decisione della Corte d'appello si limita ad asserire che, contrariamente a quanto affermato nel rapporto Spisal, l'apertura fosse sufficientemente larga da consentire il passaggio della parte inferiore del corpo, dal bacino in giù, di un uomo di medie dimensioni, soprattutto se posto di fianco. E ciò senza basarsi su dati di alcun genere. Assume che, d'altro canto, R.B. fu rinvenuto riverso all'interno della vasca con l'intero corpo e non solo dal bacino in giù, il che dimostra l'inconsistenza dell'apparato argomentativo della sentenza, nella parte in cui riconosce l'assenza di ragioni di un accesso volontario all'interno della vasca, ma poi conclude per una caduta accidentale, incompatibile con la conformazione del luogo. Il che implica quale unica spiegazione plausibile l'accesso volontario all'interno del vascone. Sostiene che solo dalla supposta caduta accidentale, non sorretta da alcuna evidenza processuale, la Corte trae che il lavoratore fosse entrato nella cella quando l'aria era ancora satura di azoto, così perdendo i sensi. La motivazione, pertanto, si dimostra gravemente illogica e del tutto assertiva.
5. Con il secondo motivo lamenta ex art. 606, comma 1" lett. b) ed e) cod. proc. pen. la violazione della legge penale in relazione agli artt. 40 e 41, comma 2 cod. pen., nonché il vizio di motivazione rilevabile dal testo del provvedimento impugnato e dagli atti specificamente indicati nei motivi di gravame. Deduce che la Corte territoriale omette di dar conto delle ragioni per le quali l'adozione del comportamento alternativo lecito -ovverosia l'installazione di dispositivi che non consentissero l'accesso alla cella in presenza di una concentrazione di azoto incompatibile con l'organismo umano- avrebbe consentito di evitare l'evento. Infatti, R.B. disattivò l'azoto prima di entrare nella cella, decidendo volontariamente di accedere alla vasca, utilizzando la scaletta per accedere ad un foro di ispezione largo appena 40 centimetri. Il collega L.D., tuttavia, passando davanti alla cella e vedendo la porta. aperta, ritenendo che dentro non vi fosse nessuno, chiuse la porta e riavviò l'azoto. L'andamento dei fatti, pertanto, dimostra che la morte di R.B. non derivò dalla mancata adozione del dispositivo indicato dalla Corte, ma dal comportamento -pur incolpevole- di un altro lavoratore. La condotta ritenuta 'appropriata' dal giudice del merito, dunque, non sarebbe stata idonea ad evitare l'evento. Aggiunge che la perdita completa dei sensi da parte di R.B., che avrebbe causato la caduta accidentale, è una mera asserzione, non giustificata in alcun modo dal giudice d'appello. Così come del tutto priva di sostegno scientifico è l'affermazione secondo la quale, una volta disattivato l'azoto, senza attendere un tempo sufficiente, il livello di saturazione dell'aria può indurre la perdita di coscienza, anziché provocare solo un vago stordimento. Rileva che per affermare la sussistenza del nesso di causalità fra la condotta doverosa omessa e l'evento occorre immaginare che cosa sarebbe accaduto se la cella fosse stata dotata del dispositivo indicato dalla Corte come salvifico, e cioè tale da impedire l'accesso del lavoratore alla cella prima che della discesa dell'azoto sotto determinati livelli., In questo caso, se il lavoratore si fosse introdotto nella cella solo dopo il raggiungimento del livello di azoto non nocivo ed avesse, del tutto volontariamente, deciso di accedere all'interno della vasca tramite il foro di ispezione, utilizzando la scaletta per raggiungerlo, la semplice adozione del dispositivo non avrebbe consentito di evitare l'evento, qualora un collega di lavoro, non avvertito della presenza di altro lavoratore all'interno della cella, trovando la porta aperta, l'avesse chiusa ed avesse riavviato l'azoto. Inoltre, l'abnormità del comportamento del lavoratore -che decide, del tutto imprevedibilmente e senza alcuna ragione legata ad esigenze produttive, di introdursi nella cella, senza avvertire nessuno- dimostra la sussistenza del c.d. 'rischio elettivo', avendo R.B. scelto di porsi deliberatamente in pericolo, per motivi diversi da finalità produttive e dal funzionamento del macchinario. Queste, invero, sono le conclusioni risultanti anche dalla lettura del rapporto dei funzionari dello Spisal e dalla relazione INAIL, che danno atto dell'inverosimiglianza della caduta accidentale e completa dalla postazione sopra la scala all'interno del contenitore.
6. Con il terzo motivo, contesta il vizio di motivazione, sotto il profilo dell'omissione, risultante dal provvedimento impugnato, in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata, senza rinvio o con rinvio.

 


Diritto


1. Il ricorso va rigettato.
2. I primi due motivi, che vanno trattati insieme in quanto strettamente connessi, non sono fondati.
3. La decisione impugnata, infatti, preliminarmente rinvia alla sentenza di primo grado in ordine alla ricostruzione delle violazioni delle regole prevenzionistiche (come constate dallo Spisal, e consistenti, secondo il primo giudice, nelle deficienze del D.V.R. sui rischi tecnici legati all'uso dell'azoto in 'Ambiente sospetto di inquinamento-Ambiente confinato', sulle dimensioni degli accessi per il recupero delle persone, e sulle caratteristiche tecniche dell'impianto -sprovvisto di documentazione tecnica- e delle procedure di accesso alla cella da parte dei lavoratori; nell'inidoneità della procedura di accesso alla cella essendo stabilito - come indicato nel cartello posto all'esterno- un tempo minimo di attesa dal distacco dell'azoto di un minuto, anziché di tre, come necessario; nell'assenza di un dispositivo di blocco dei macchinari legato all'apertura della porta; nella mancanza di un ossimetro, al fine di conoscere la qualità dell'area all'interno della cella, nell'assenza di dispositivi di autoprotezione per l'accesso, quali gli autorespiratori; nell'assenza di adeguata formazione dei lavoratori).
Indi dato atto della non contestazione delle violazioni da parte dell'imputato, ritiene di escludere l'abnormità del comportamento del lavoratore, posto che dalle testimonianze raccolte in giudizio è emerso che la verifica della lavorazione all'interno della cella fosse pratica comune fra i lavoratori, e che l'ingresso da parte di R.B. - pur gravemente imprudente, per non avere il medesimo avvertito i propri compagni di lavoro, contravvenendo alle istruzioni impartite­ era compatibile con esigenze connesse alla produzione, quali la verifica del prodotto ancora rimanente nella vasca-tramoggia, collocata all'interno della cella. E ciò, tenuto conto che il medesimo aveva eseguito una specifica fase produttiva, e che le sue mansioni generiche, includevano il processo realizzato all'interno della cella di congelamento. Il giudice di seconda cura dà, altresì, atto della correttezza del rilievo difensivo, secondo il quale il corpo, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, era rivolto con il capo verso l'apertura di ispezione della tramoggia, ma rileva che ciò non confuta, in alcun modo, la tesi della caduta accidentale. Secondo la Corte, infatti, è logico pensare che trovandosi il lavoratore sull'ultimo gradino di accesso al vascone, con la linea della cintura più alta della bocca di apertura, posizionato di fianco, a seguito di un malore, sia caduto di testa, trascinando la parte inferiore del corpo e consentendo alle gambe di superare il bordo inferiore del pertugio. Questa dinamica, dunque, smentisce la tesi dell'imputato, secondo cui la posizione del corpo sarebbe incompatibile con la caduta accidentale, rappresentando, invece, la prova dell'ingresso volontario, legato alla realizzazione di comportamenti personali (suicidio o scherzo finito male).
4. La motivazione, che collega l'evento alla caduta accidentale dovuta alla presenza all'interno della cella di un quantità di azoto non compatibile con un accesso sicuro al suo interno, non è persuasivamente contraddetta dalle osservazioni contenute nel ricorso, essendo la perdita di coscienza, effetto tipico dell'alto livello di azoto nell'aria e restando la tesi dell'ingresso volontario, determinato da impulsi anticonservativi, una mera ipotesi non supportata da alcuna evidenza, la cui esclusione viene efficacemente argomentata dalla Corte territoriale. La sentenza osserva, infatti, che l'intenzione suicida mostra segni premonitori o comportamenti esteriori che ne preludono l'attuazione, del tutto assenti, nel caso di specie, non potendo considerarsi tale una frase del tutto equivoca pubblicata su facebook, qualche tempo prima del fatto. Peraltro, il Collegio, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, giustifica, ancora una volta in modo del tutto condivisibile, la compatibilità della caduta accidentale con le ridotte dimensioni dell'apertura del vascone, valutandone la compatibilità con le dimensioni di un uomo medio, posto di fianco. E ciò perché la considerazione dello Spisal -secondo cui l'evento accidentale non avrebbe potuto produrre l'effetto della caduta nella tramoggia, rimanendo, al più, il corpo incastrato nell'apertura- su cui si concentra il ricorrente, viene smentita, sotto il profilo logico -sotteso alla decisione- dalla constatazione per la quale se l'apertura fosse stata effettivamente troppo piccola, non avrebbe consentito neppure l'introduzione volontaria.
5. Fatte queste premesse sulla coerenza della ricostruzione della Corte territoriale, va da sé che la tesi dell'ascrivibilità dell'evento al comportamento del collega di lavoro L.D. -che, rinvenendo la porta della cella aperta, chiamato R.B. senza ricevere risposta, la richiuse e riavviò l'azoto- perde qualsiasi consistenza. Ciò perché, anche se la Corte non affronta direttamente l'argomento, è del tutto implicito che la perdita di coscienza impedisca a chiunque di rispondere, ma, come mette bene in evidenza il primo giudice, se l'impianto fosse stato dotato da un ossimetro e di una segnalazione acustica o luminosa indicante la presenza di una persona al suo interno, l'evento avrebbe potuto essere scongiurato, evitando a terzi di chiudere inconsapevolmente la porta di accesso, nonostante la presenza di una persona all'interno.
6. Le motivazioni dei giudici di merito -che si integrano formando un unico corpo argomentativo- forniscono, dunque, risposte convincenti alle domande proposte dalla difesa dell'imputato.
7. Neppure l'ultimo motivo può trovare accoglimento. Va, preliminarmente osservato che al ricorso in esame non è allegato l'atto di appello, il che impedisce il vaglio della doglianza. Invero, "In tema di ricorso per cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell'appello dei motivi articolati con l'atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell'impugnazione e la decisività del motivo negletto al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica" (Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018 - dep. 25/02/2019, C, Rv. 275853; Sez. 2, n. 13951 del 05/02/2014, Caruso, Rv. 259704). Al di là di siffatta considerazione, nondimeno, vi è che la Corte, che riporta il motivo in modo diverso da quello qui rappresentato, senza fare riferimento alla richiesta di diverso bilanciamento delle circostanze, dà adeguata risposta sull'adeguatezza del trattamento sanzionatorio, sottolineando che il comportamento di R.B. è stato tenuto in considerazione dal primo giudice, nella determinazione concreta del trattamento sanzionatorio, ai fini della valutazione della gravità della colpa e per la concessione delle attenuanti generiche. La condivisione del giudizio del primo giudice, espresso con la valutazione di 'equità' della pena inflitta, esclude il vaglio di questa Corte, anche in relazione alla doglianza in esame, temuto conto dei principi enunciati dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui: "Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931).
8. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato con condanna del ricorrente alle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite omissis che si liquidano in complessivi euro tremilaseicento, oltre accessori come per legge.
 

P.Q.M.
 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis che liquida in complessivi euro tremilaseicento oltre accessori come per legge.
Così deciso il 24 settembre 2020