Cassazione Penale, Sez. 3, 22 ottobre 2020, n. 29344 - Condanna del titolare di un bar per violenza sessuale in danno di una dipendente



 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito - Presidente -

Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere -

Dott. SCARCELLA Alessio - rel. Consigliere -

Dott. REYNAUD Gianni Filippo - Consigliere -

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

D.M., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli in data 16/04/2019;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere ALESSIO SCARCELLA;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale CUOMO LUIGI, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;

udite, per il ricorrente, le conclusioni dell'Avv. EUGENIO PALUMBO e dell'Avv. GAETANO COCCOLI, i quali, nell'illustrare i motivi di ricorso, ne chiedono l'accoglimento.

 

Fatto


1. Con sentenza emessa in data 16/04/2019, depositata in data 08/07/2019, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa dal tribunale di Torre Annunziata in data 06/04/2017, che aveva condannato il D. alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, previo riconoscimento del fatto di minore gravità ex art. 609-bis c.p., u.c., attenuante dichiarata prevalente all'aggravante contestata, nonchè al risarcimento del danno in favore della parte civile P.A. da liquidarsi in separata sede ed alle spese di giudizio, in quanto ritenuto colpevole del reato di violenza sessuale, contestato come commesso con le modalità esecutive e spazio-temporali meglio descritte nell'imputazione in data 1 febbraio 2012, fatto aggravato per essere stato commesso con abuso di relazioni di prestazione d'opera essendo il ricorrente datore di lavoro della persona offesa, e per averle ordinato, poco prima di commettere il fatto, di chiudere la porta dell'ufficio in cui si trovavano, per poi procedervi personalmente.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il D., a mezzo del difensore fiduciario cassazionista, deducendo sei motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce il ricorrente, con il primo motivo, il vizio di cui violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione all'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p. e art. 111 Cost..

In sintesi, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui avrebbe dato integrale conferma alla sentenza del primo giudice ritenendola compiutamente motivata. Invero, il primo giudice avrebbe operato un'analisi particolareggiata di ogni singola deposizione dei testi della pubblica accusa, acquisita nel corso dell'istruttoria dibattimentale, omettendo tuttavia di svolgere la stessa analisi per le deposizioni dei testi a discarico, nei confronti dei quali si sarebbe limitato ad analizzare soltanto le prove dichiarative utili per la decisione, violando il combinato disposto di cui all'art. 546 Cost., comma 1, lett. e), art. 125 Cost., comma 3 e art. 111 Cost..

Tale operazione sarebbe in contrasto con le pronunce della Suprema Corte secondo le quali le argomentazioni che riguardano le ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove a favore dell'imputato devono avere lo stesso spessore richiesto per la motivazione delle prove a carico (sul tema viene citata Cass., Sez. 1, n. 10162/1996). Allo stesso modo, il ricorrente ritiene che la Corte di Appello avrebbe omesso di motivare sul punto, con conseguente nullità della sentenza impugnata, come espressamente chiarito da questa Suprema Corte che ha affermato come nel caso in cui le sentenze di primo e di secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova poste a fondamento delle decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo.

Il ricorrente sottolinea, inoltre, che un'attenta valutazione delle prove testimoniali prodotte a discarico avrebbe potuto portare i giudici di merito a valutare i fatti in maniera diametralmente opposta. A tal proposito, viene sottolineata la deposizione del dottor V.G., il quale aveva descritto i seri problemi di salute dell'imputato che all'epoca era affetto da gravi menomazioni agli arti superiori che ne determinavano una scarsa funzionalità. Tali circostanze, infatti, per il ricorrente non si concilierebbero con la ricostruzione del fatto-reato fornito dalla parte offesa che aveva riferito di aver subito un'aggressione fulminea alle spalle per poi essere incastrata al muro, cinta con un braccio al collo e baciata mentre l'altro arto superiore dell'imputato provvedeva a palpeggiare il fondoschiena. La circostanza apparirebbe quindi decisiva ed avrebbe potuto determinare una soluzione inversa rispetto quella adottata e, per tali ragioni la ricostruzione del fatto operata dalla persona offesa e la sua attendibilità risultano gravemente inficiate. Il ricorrente sottolinea quindi l'esistenza di una motivazione insufficiente e mancante che ha travisato i fatti e che non appare logica conseguenza dei presupposti processuali. Invero, la sentenza avrebbe dovuto dar conto della irrilevanza di tale prova, motivando sul punto e come risulta dal corpo motivazionale tale valutazione non è stata compiuta neppure in maniera implicita.

2.2. Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, il vizio di motivazione in relazione all'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 111 Cost..

In sintesi, il ricorrente censura l'impugnata sentenza in quanto questa non apparirebbe chiara e completa rispetto a tutti gli elementi di fatto e di diritto sulla quale si fonda, apparendo così la motivazione omessa, insufficiente ed illogica.

A tal proposito viene citata Cass., Sez. 1, n. 6989/1997 in cui si afferma che in tema di valutazione del vizio di mancanza e illogicità della motivazione deve ritenersi legittimo anche un rinvio agli argomenti esposti dalla pronuncia di prime cure, salvo che con i motivi di appello non siano state fatte specifiche questioni per le quali l'apparato argomentativo deve essere autonomo e sufficiente. A tal proposito, in ordine allo specifico punto di gravame sul momento consumativo del reato contestato, si sottolinea dalla difesa che i giudici di merito peccano di superficialità, operando un evidente travisamento dei fatti. Invero, apparirebbe evidente l'errore in cui è caduto il tribunale: infatti, il D.M. afferma che, ritrovate le chiavi nella tasca di un cameriere avvisava la P. che gliele avrebbe successivamente riportate non appena avesse terminato il lavoro nel deposito affinchè le riponesse nell'ufficio. Dunque, appare evidente che il D.M. porta con sè le chiavi e che quando egli va al deposito la P. non aveva alcuna ragione di recarsi nell'ufficio. Al contrario, il tribunale individua proprio in quel momento, il momento in cui sarebbero avvenuti i fatti per cui è processo. Sul punto la Corte di Appello non solo ometterebbe totalmente di valutare questo specifico punto di gravame, ma addirittura, nel ricostruire i fatti, fornirebbe un'ulteriore diversa versione rispetto a quella ricostruita dal giudice di prime cure, asserendo che era seguito un andirivieni della P. tra la cassa e l'ufficio del D. e che era avvenuto in quel frangente che la donna, entrata nell'ufficio, vi aveva trovato il ricorrente che l'aveva baciata.

Tale versione risulterebbe palesemente diversa da quella offerta dal primo giudice che aveva operato la ricostruzione sulla scorta della testimonianza resa dalla persona offesa in dibattimento. La donna infatti in tale sede riferiva che ricorrente era entrato ed aveva chiuso la porta per bloccarla e fermarla con il capo al muro, dopo che lei era entrata nell'ufficio al fine di posare le chiavi. Il ricorrente quindi si interroga se D. fosse già presente nell'ufficio nel momento in cui vi entrò la P., come asserito dalla Corte di appello, oppure vi fosse entrato dopo la P. come asserito dal tribunale. Tale errore risulterebbe decisivo e coinvolgerebbe un presupposto su cui successivamente si è sviluppata la motivazione impugnata e, pertanto, il vizio rilevabile dal confronto tra la prima e la seconda sentenza avrebbe portato irrimediabilmente ad una valutazione errata del ruolo del D. ai fini dell'inquadramento della fattispecie criminosa.

2.3. Deduce il ricorrente, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge e correlato vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p. nella parte in cui, nonostante la Corte di Appello abbia effettuato una diversa ricostruzione storica del fatto contestato rispetto a quello operato in primo grado, ha dichiarato sussistente il fatto reato, addivenendo così ad una sentenza di colpevolezza e non di assoluzione in mancanza della prova oltre ogni ragionevole dubbio.

In sintesi, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella misura in cui la Corte di Appello avrebbe effettuato una ricostruzione dei fatti contestati all'imputato ben diversa da quella compiuta in primo grado. Ed invero alla pagina 7 della motivazione della sentenza di appello, si legge che la parte civile quando sarebbe entrata nell'ufficio vi avrebbe trovato già all'interno l'imputato, il quale avrebbe approfittato del momento per baciarla. Al contrario, ai sensi della ricostruzione del giudice di prime cure, la parte civile si sarebbe diretta nell'ufficio e, una volta entrata, sarebbe sopraggiunto il D..

A tal proposito il ricorrente sottolinea che la ricostruzione del fatto rappresenta il cuore del processo penale e, pertanto, il fatto sotto forma di ipotesi è quello che è scritto nel capo di imputazione. In altre parole, si parla di ricostruzione e non di costruzione, dal momento che il fatto, un evento del passato, si può soltanto ricostruire; questa operazione ha un'unica qualifica e deve essere infatti razionale e, pertanto, si deve basare sui principi della logica, della scienza e dell'esperienza, deve essere ancorata ai risultati delle prove legittimamente assunte, deve essere quanto più possibile oggettiva, ed epurata di ogni soggettività. Il fatto che esce dal dibattimento è un'entità diversa, dal momento che il processo penale, celebrando la morte del fatto storico, dà vita al fatto processuale. Il ricorrente pertanto si chiede quale sarebbe la verità processuale alla quale si è giunti a seguito del secondo giudizio e quale è il fatto storico generato attraverso la celebrazione dei due processi. Infatti, i giudici di merito avrebbero utilizzato ed interpretato le medesime emergenze probatorie in maniera da giungere a differenti ricostruzioni fattuali e, da qui, deriverebbe l'assoluto travisamento della prova e, quindi, l'evidente e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.

2.4. Deduce il ricorrente, con il quarto motivo il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, 210 e 530 c.p.p..

In sintesi, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata risulterebbe in contrasto con l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza 2838/2018, secondo la quale nel valutare i fatti e le prove il giudice del merito non può limitarsi ad una valutazione parcellizzata e deve valutare innanzitutto i singoli elementi e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi per accertare se l'ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, escludendo quindi le ipotesi alternative astrattamente formulabili. Allo stesso modo, il ricorrente sottolinea che, ai sensi nella sentenza numero 52999/2018 di questa Terza sezione penale, la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado è viziata per carenza di motivazione se si limita a riprodurre la decisione confermata in termini apodittici e stereotipati senza dar conto degli specifici motivi di impugnazione.

Per il ricorrente, sia il Tribunale che la Corte territoriale motiverebbero le rispettive decisioni per sancire la penale responsabilità dell'imputato con il fatto che nei casi di violenza sessuale le dichiarazioni della persona offesa possono da sole fondare la dichiarazione di penale responsabilità, e sottolineerebbero che le dichiarazioni della parte civile sono confermate dall'esistenza di specifici riscontri derivanti dagli esami testimoniali. Nello specifico, un riscontro che confermerebbe la presenza dell'imputato nelle circostanze di tempo e di luogo di cui al capo di imputazione viene individuato nel verbale di sommarie informazioni rese dal teste D.M.N. in data 16.4.2012. Il tribunale sottolinea che le s.i.t durante la fase dibattimentale erano state acquisite con il consenso di tutte le parti e che pertanto risultavano utilizzabili. In realtà, viene omesso che nel verbale dell'udienza del 10.12.2015 il tribunale dà atto a verbale che il verbale di sommarie informazioni viene acquisito col consenso di tutti, ma condizionato ad alcune domande da parte della difesa. Questo è rilevante nella misura in cui, durante l'esame del teste in dibattimento, è emerso che lo stesso ha totalmente sconfessato le dichiarazioni delle s.i.t, giungendo a dire che non ne conosceva il contenuto e che, dal momento che non sapeva leggere e non sentiva bene, aveva risposto sempre in maniera accondiscendente a chi gli poneva le domande. Il teste aveva quindi sottolineato che i fatti realmente accaduti la mattina del 1 febbraio 2012 erano quelli che egli aveva specificato in aula durante l'udienza dibattimentale. Per il ricorrente, quindi, sarebbe stato necessario dare alla testimonianza, resa in dibattimento dal D.M., diversamente da quanto fatto dal tribunale, particolare valore, soprattutto perchè le dichiarazioni rese a s.i.t. sono strumento di valutazione della credibilità del teste e non della ricostruzione della verità dei fatti. In sentenza, con riferimento alla presenza del D. nel bar nelle circostanze di tempi di cui al capo di imputazione, il tribunale aveva ritenuto raggiunta la prova, non solo perchè riferita dalla persona offesa, ma anche perchè confermato dal cuoco D.M. nelle sommarie informazioni acquisite sul consenso delle parti. Tuttavia, il teste in udienza non conferma la presenza dell'imputato nel bar e non conferma neppure l'andirivieni dall'ufficio del proprietario alla ricerca delle chiavi del deposito fino a quando le stesse non erano state rinvenute nell'ufficio. Il testimone, in altre parole, sconfessa la persona offesa anche in relazione al momento in cui sarebbe avvenuta la violenza, in quanto, secondo la P., l'imputato avrebbe approfittato del momento in cui lei si era recata in ufficio a riporre le chiavi per seguirla ed aggredirla. Quindi, il teste smentisce punto per punto il contenuto delle s.i.t. e afferma di non saper leggere e di avere firmato senza conoscere il contenuto delle proprie dichiarazioni.

Nello specifico, il D.M. in primo luogo non conferma assolutamente l'andirivieni dall'ufficio raccontato dalla P. alla ricerca delle chiavi del deposito (ed invero secondo il teste le chiavi dovevano essere in cucina ma non c'erano perchè un cameriere le aveva prese e se le era dimenticate in tasca).

In secondo luogo, il teste non conferma lo stato dei luoghi (e infatti racconta che dopo avere recuperato le chiavi tornava in cucina a fare il proprio lavoro, precisando poi che in cucina vi è una cappa che quando è accesa non è molto rumorosa, confutando così le dichiarazioni in base alle quali dalla cucina non è possibile sentire nulla di ciò che avviene all'esterno a causa dei forti rumori). Inoltre, nella descrizione della porta d'ingresso del locale cucina egli sottolinea che all'ingresso vi è una porta scorrevole che una volta entrati si richiude automaticamente. Tuttavia dalla relazione svolta dall'ingegnere Di.Ma. relativa allo stato dei luoghi si evince che, effettivamente, tale porta scorrevole non ha i battenti come indicato nelle s.i.t. Sembra quindi inverosimile che il cuoco che ha lavorato in quella cucina per diverso tempo possa confondersi al punto da affermare che la porta attraverso la quale lui passa di continuo durante la sua attività lavorativa sia fatta a battente e non scorrevole e a chiusura automatica: infatti le due tipologie di porte sono così differenti da impedire una confusione. A tal proposito risulterebbe quindi evidente che il D.M. aveva semplicemente risposto in modo affermativo alle domande di chi lo interrogava. Ed invero il maresciallo M., incaricato di raccogliere le sommarie informazioni, nel descrivere i luoghi dichiarava che sul lato destro vi era una sorta di corridoio dove si accede con delle porte battenti scorrevoli tipo saloon. In altre parole, sembra quindi che sia il maresciallo M. a confondersi sullo stato dei luoghi e a riportare tale confusione all'interno delle s.i.t. del D.M..

In terzo luogo, il teste non conferma la presenza del D. nel bar la mattina del 1 febbraio 2012. Infatti, a specifica domanda risponde di non saperlo dire con esattezza. In sostanza, nelle dichiarazioni rese dal D.M. in udienza vengono a mancare una serie di conferme al narrato della P. sulle quali, al contrario, il collegio avrebbe fondato il proprio convincimento. Il D.M. infatti è l'unico che poteva confermare la presenza del D. al bar la mattina in questione e, nessun altro, tranne la P., colloca l'imputato in quel luogo quella mattina. Viene meno, pertanto, la coerenza del resto del racconto, in contrasto con quanto affermato nella sentenza di primo grado.

Inoltre, dalle risultanze istruttorie dibattimentali, emergerebbe che in realtà l'imputato ha sempre negato quanto gli veniva addebitato. E infatti fin dal primo interrogatorio del 16.5.2012 egli dichiarava di non essersi mai trovato da solo in presenza della P. e di non essere mai stato con la stessa nell'ufficio. Stando alla sentenza di appello gravata, il tribunale avrebbe fatto buon governo dei principi in tema di valutazione della prova contro la libertà individuale. Ed invero, la Corte territoriale ha ritenuto che il tribunale non si sarebbe sottratto ad una rigorosa valutazione delle dichiarazioni della persona offesa costituitasi parte civile, dando anche conto dell'esistenza di specifici riscontri derivati dalle prove testimoniali.

In realtà, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, la narrazione dei fatti da parte della vittima non è stata sempre la stessa nel tempo. Infatti, nel primo narrato, la donna descriveva una dinamica del fatto completamente diversa da quella dibattimentale, sostenendo che il D. sopraggiungeva nella stanza, la strattonava, la tirava a sè e la baciava violentemente. Al contrario, nel dibattimento, la parte civile riferisce di essersi intrattenuta dopo nell'ufficio con l'imputato con il quale avrebbe anche dialogato.

Per quanto attiene ai riscontri esterni rispetto al narrato, il collegio si riferisce alle testimonianze rese dai soggetti che de relato raccontano l'aggressione. Gli unici che raccontano l'aggressione subita dalla P. e i cui racconti vengono considerati sovrapponibili a quelli della parte civile sono la sorella della persona offesa e il D.A.V., fidanzato della donna al tempo dei fatti di cui al procedimento. Tuttavia, il ricorrente sottolinea che le versioni dei due testi non sono assolutamente sovrapponibili tra di loro. Apparirebbe, del resto, evidente dalla lettura dell'istruttoria dibattimentale l'assoluta inattendibilità del teste D.A.. Nello specifico, dall'esame della deposizione resa dallo stesso all'udienza del 2.4.2015 emergerebbe chiaramente che l'unico ricordo chiaro è quello della dinamica dei fatti di violenza raccontata allo stesso dalla parte civile. Infatti, egli mentre riesce a ricordare molti dettagli della vicenda per cui è processo, non riesce a ricordare i fatti della vita quotidiana della donna, ad esempio se la P. avesse trovato lavoro dopo aver lasciato il bar h24.

Inoltre, il ricorrente sottolinea che il racconto della parte civile non sarebbe attendibile sotto un altro profilo inerente alla tempistica della presentazione della querela. Infatti, stando alle dichiarazioni della parte civile, la querela sarebbe stata presentata un mese dopo i fatti, soltanto per evitare che il padre della donna potesse commettere gesti inconsulti e farsi giustizia da solo. In realtà, dall'istruttoria dibattimentale è emerso chiaramente che già due giorni dopo l'accaduto il padre della P. era venuto a conoscenza della violenza e si era recato più volte presso le attività imprenditoriali del D. al fine di incontrarlo, placandosi soltanto quando effettivamente riusciva ad avere un incontro chiarificatore con lui. Tale incontro si sarebbe svolto la sera del 3 febbraio presso l'uscita autostradale di Nocera Inferiore e, a dire dell'unico teste attendibile del PM, si sarebbe svolto in maniera del tutto pacifica. Pertanto, se l'evitare che il padre potesse commettere gesti inconsulti fosse stata effettivamente l'unica ragione per cui la parte civile si è determinata a presentare la querela circa un mese dopo l'accaduto, il ricorrente si domanda come mai la parte civile abbia lasciato trascorrere un così lungo lasso temporale tra il momento in cui il padre veniva a conoscenza del fatto e la data di presentazione della querela.

Dalle diverse versioni che emergono dalle ricostruzioni effettuate dalla parte civile e dai testi ritenuti di riscontro emergono quindi le seguenti fondamentali differenze nella ricostruzione storica dei fatti accaduto: la parte civile dice di essere stata immediatamente aggredita, il D.A. riferisce che prima del bacio vi è stato tra le parti un colloquio e la sorella della vittima riferisce che l'episodio raccontatole era di molestie. In altre parole, nel corso del dibattimento non sarebbe stata minimamente formata la prova della colpevolezza del D. in ordine all'accusa mossagli: ed infatti, oltre alle dichiarazioni della persona offesa, non esiste alcun riscontro in merito all'effettiva presenza contemporanea della P. e del D. all'interno dell'ufficio. Nella sostanza, esiste solo la versione della persona offesa, non suffragata nè da riscontri oggettivi, nè da testimonianze dirette, nè tanto meno dalla reazione immediata della P. che è tornata al banco dove prestava il proprio servizio, non esternando alcun disagio e continuando il proprio turno di lavoro.

2.5. Deduce il ricorrente, con il quinto motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione in relazione agli artt. 192 e 530 c.p.p., nella parte in cui la sentenza di appello non ha ritenuto sussistere ragioni di astio della parte civile.

In sintesi, il ricorrente sottolinea che la sentenza impugnata sarebbe meritevole di censura perchè affetta da un grave vizio di errata valutazione del quadro probatorio emerso dal dibattimento. Infatti, alla pagina 15 della sentenza di primo grado si legge che il collegio ha ritenuto di affermare la penale responsabilità del D. a causa dell'assenza di qualsivoglia ipotesi plausibile rispetto alla tesi dell'accusa. In realtà, come emerso dall'esame dell'imputato, lo stesso ha riferito un probabile movente che avrebbe potuto indurre la parte civile a presentare la querela, e cioè la volontà della stessa di vedersi riconosciute delle somme a titolo di differenze retributive oggetto poi di una successiva causa di lavoro che, come documentato dall'allegata sentenza, è definitiva perchè non appellata ed è stata respinta dal giudice del lavoro. Tale travisamento della prova è stato determinante nella parte in cui ha convinto i giudici oltre ogni ragionevole dubbio che la mancanza di una logica giustificazione fosse una prova di assoluta e certa colpevolezza dell'imputato. I giudici di merito hanno quindi, di fatto, invertito l'onere probatorio laddove hanno ritenuto che l'insussistenza di un'ipotesi alternativa da parte dell'imputato possa rappresentare una prova di colpevolezza a suo carico.

Il ricorrente sottolinea che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il sindacato della Corte di Cassazione sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest'ultima sia effettiva, non sia manifestamente illogica, non sia internamente contraddittoria e non risulti logicamente incompatibile con altri atti del processo indicato in termini specifici. Per il ricorrente la sentenza oggetto di impugnazione, unitamente a quella di primo grado, per tutto quanto rappresentato, non supererebbe detta verifica, dal momento che non è effettiva, manifestamente illogica, contraddittoria ed è logicamente incompatibile con gli altri atti del processo (sul punto viene citata Cass., sez. 1, n. 41738/2011).

2.6. Deduce il ricorrente, con il sesto motivo, il vizio di violazione di legge ed il correlato vizio di motivazione nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto di non concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena.

In sintesi, il ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe palesemente violato l'art. 163 c.p. nella parte in cui ha ritenuto, nonostante la condanna alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, di non dover concedere la sospensione condizionale. Infatti, tale norma espressamente prevede che nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione non superiore a due anni il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena rimanga sospesa. Inoltre, il ricorrente sottolinea che ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 5, con la sentenza possono essere applicate anche d'ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti, e può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell'art. 69 c.p.. Tale potere costituisce un vero e proprio dovere, così che il giudice deve sempre dare anche sinteticamente ragione del concreto esercizio, sia in positivo che in negativo, dello stesso. Per tali ragioni si sottolinea che il D. sarebbe legittimato a ricorrere per Cassazione al fine di far valere il proprio interesse leso dal mancato ed immotivato esercizio di tale potere-dovere ed, in merito, si sottolinea che la Corte di Appello si sarebbe limitata a sostenere che l'imputato non può accedere ai benefici di legge, senza specificare alcuna motivazione, non adempiendo quindi al suo onere di argomentare le ragioni ostative al detto beneficio (sul punto vengono citate Cass., Sez. 3, n. 47828/2017; Cass., Sez. 5, n. 2094/2009; Cass., Sez. 5, n. 37461/2005; Cass., Sez. 6, n. 32966/2001).

 

Diritto


1. Il ricorso è manifestamente infondato.

2. Ed infatti, premesso che con i primi cinque motivi del ricorso il ricorrente tenta di fornire una diversa ricostruzione in fatto della vicenda, inammissibile in sede di legittimità, per quanto riguarda il primo motivo di ricorso la motivazione della Corte territoriale appare logica ed esaustiva.

3. Infatti, i giudici di merito sottolineano la credibilità intrinseca della persona offesa la cui deposizione ha trovato ampio e dettagliato riscontro nelle deposizioni di chi aveva ricevuto le prime confidenze della donna e degli altri dipendenti del bar, nonchè nella lettera di dimissioni. I giudici, pertanto, hanno fatto buon governo dei principi consolidati di questa Corte in tema di valutazione della prova nei reati contro la libertà individuale. In particolare, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte la persona offesa, anche se è costituita parte civile, può essere assunta come testimone e la valutazione di attendibilità non è censurabile in sede di legittimità purchè tale valutazione sia sorretta da un adeguata e coerenza giustificazione che dia conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati (in tal senso, per tutte: Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214). Tale più rigorosa e puntuale valutazione e stata certamente compiuta dal giudice di primo grado, le cui valutazioni sono state correttamente condivise dalla Corte d'appello (la cui motivazione, come è noto, si salda, integrandosi reciprocamente con quella di primo grado: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), che ha analizzato dapprima la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità intrinseca dal suo racconto e, poi, ha dato conto dell'esistenza di specifici riscontri agli esami testimoniali. A tal proposito, il tribunale ha valutato le immediate confidenze della P. ai suoi prossimi congiunti, e ha sottolineato che la ricostruzione dei fatti compiuti dalla persona offesa appare sempre confermata.

4. Per quanto riguarda il secondo e terzo motivo di ricorso con cui si denunciano asseriti travisamenti della prova, è opportuno sottolineare che detto vizio non può essere denunciato in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), ma ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in quanto il "travisamento della prova" consiste nell'avere il giudice di merito utilizzato per la decisione una prova inesistente o un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello effettivo. A tal fine, la Corte, investita di un ricorso che indichi in modo specifico come il giudice di merito abbia travisato una prova decisiva acquisita al processo, può, negli stretti limiti della censura dedotta, verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto; fermo restando il divieto per il giudice di legittimità di ricostruire il fatto in modo diverso rispetto alla ricostruzione operata dal giudice di merito (in questo senso: Sez. 4, n. 29920 del 09/06/2004, dep. 08/07/2004, Rv. 228844).

Orbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha ricostruito in modo coerente e logico il fatto storico, invero sottolineando che il D. era presente al colloquio tra il cuoco D.M. e la P. in ordine alla necessità di recuperare presso l'ufficio del D. le chiavi del deposito ove si trovavano le celle frigorifero; ha proseguito, descrivendo che era seguito un andirivieni della P. tra la cassa e l'ufficio del D. e,grche era avvenuto in quel frangente il fatto in contestazione. Infatti, quando la donna era entrata nell'ufficio vi aveva trovato il ricorrente, il quale l'aveva baciata.

A ciò va aggiunto che il consenso all'inserimento nel fascicolo del dibattimento dei verbali di sommarie informazioni contenuti in quello del pubblico ministero determina la definitiva acquisizione degli stessi al materiale probatorio dibattimentale (Sez. 4, n. 27717 del 14/05/2014 - dep. 26/06/2014, Mahler Carlo Giovanni Luigi e altro, Rv. 260122 - 01).

5. La pretesa discrepanza ricostruttiva dei fatti tra le decisioni di primo grado e di appello, peraltro, sfugge alla valutazione di questa Corte, non solo perchè fondata su un dedotto travisamento di dichiarazioni testimoniali costruito attraverso la tecnica del c.d. stralcio dichiarativo (ciò che determina l'inammissibilità per genericità del motivo, essendosi anche di recente ribadito che, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p., introdotto dal D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, art. 7, comma 1, trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell'onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l'allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato: Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019 - dep. 31/07/2019, Talamanca, Rv. 276432, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di una testimonianza ritenuta decisiva, con il quale si era dedotto il travisamento della prova dichiarativa), ma anche, e soprattutto, perchè è altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, in sede di giudizio di legittimità, la regola secondo cui nel caso di decisione difforme da quella del giudice di primo grado s'impone un'adeguata confutazione delle ragioni poste a base della decisione riformata, non comporta che, ove sussista diversità di valutazioni tra i giudici di merito, oggetto dell'esame in sede di legittimità siano entrambe le decisioni, dovendo la verifica investire soltanto la sentenza del giudice d'appello, la cui opinione si sostituisce a quella del primo giudice. Ne consegue che nel giudizio di legittimità, anche a seguito della riforma introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, non potendo l'esame estendersi oltre i limiti istituzionali, la valutazione degli elementi probatori rimane sempre affidata esclusivamente all'apprezzamento del giudice d'appello (v., tra le tante: Sez. 6, n. 27061 del 27/05/2008 - dep. 03/07/2008, P.G. e De Simone in proc. Donno, Rv. 240583, relativa a fattispecie, analoga a quella qui esaminata, in cui i ricorrenti avevano offerto una ricostruzione dei fatti in sintonia con la riformata decisione di condanna del giudice di primo grado, deducendo un difetto motivazionale "da confronto" tra le due sentenze di merito).

6. Per quanto attiene anche al quarto motivo di ricorso, è opportuno sottolineare che la difesa tenta di dare una diversa lettura delle risultanze probatorie, inammissibile in sede di legittimità. In particolare, la Corte territoriale con motivazione logica e coerente, ritiene che nel processo sia emerso pacificamente che il D. era presente al colloquio tra il cuoco D.M. e la persona offesa in ordine alla necessità di recuperare presso l'ufficio del ricorrente le chiavi del deposito dove si trovavano le celle frigorifere.

Inoltre, quanto alla doglianza della difesa sul metodo di verbalizzazione delle dichiarazioni dei testimoni da parte del maresciallo M., la Corte territoriale sottolinea che le doglianze apparivano del tutto fuori luogo, date le garanzie previste dal codice di procedura penale in materia di oralità e formazione della prova in dibattimento. Infatti, l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali delle sommarie informazioni testimoniali richiede in fase dibattimentale il consenso di tutte le parti e, pertanto, presuppone una scelta difensiva consapevole sulla piena utilizzabilità di quelle dichiarazioni. Per tali ragioni, in presenza di motivi di dubbio sulla correttezza del metodo utilizzato dagli inquirenti, la difesa non avrebbe dovuto consentire l'acquisizione del verbale di s.i.t., donde la doglianza sul punto appare manifestamente infondata.

7. Parimenti manifestamente infondate appaiono le doglianze relative al momento di presentazione della querela e al comportamento della P. in seguito alla violenza sessuale.

Quanto alla prima, i giudici di merito hanno osservato che la donna ha reso coerente giustificazione, sottolineando che il padre della vittima era molto scosso e che quest'ultima temeva che potesse assumere iniziative improvvide. Del resto, i giudici correttamente sottolineano che il termine di sei mesi previsto dall'art. 609-septies c.p. per la presentazione della querela è più lungo di quello ordinario proprio perchè nei delitti che offendono la libertà sessuale è necessario che la vittima abbia il tempo di elaborare la violenza subita, di superare i sentimenti contrastanti di odio, turbamento, disagio e di decidere se affrontare l'esperienza di un lungo processo penale.

Quanto allo smarrimento che era derivato dall'aver subito un'aggressione sessuale, la Corte ritiene perfettamente comprensibile che la donna non abbia urlato, in ragione dei sentimenti di sorpresa, vergogna e confusione che seguono a simili fatti. Pertanto, da tale smarrimento correttamente i giudici di merito non hanno desunto un'inattendibilità della persona offesa.

Ne discende, conclusivamente, che alcuno dei vizi dedotti (ivi incluso quello inerente la pretesa omessa valutazione dello stato fisico dell'imputato all'epoca i cui il fatto sarebbe stato commesso), è ravvisabile nel caso di specie, dovendosi tener conto che il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., lett. e), deve consistere, rispettivamente, nell'assenza di motivazione su un punto decisivo della causa sottoposto al giudice di merito, non già nella mancata confutazione di un argomento specifico relativo ad un punto della decisione che pur è stato trattato, sebbene in un'ottica diversa, dal giudice della sentenza impugnata, dando una risposta solo implicita all'osservazione della parte e, quanto al secondo, nella frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono (così Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999 - dep. 23/07/1999, Commisso ed altri, Rv. 215132).

Ciò che, nel caso in esame, non è certamente ravvisabile.

8. Per quanto attiene al quinto motivo di ricorso, si deve sottolineare che questo appare manifestamente infondato in quanto, esplicitamente, la Corte territoriale ha ritenuto non plausibile la tesi secondo la quale la persona offesa aveva un movente economico.

Infatti, i giudici di merito ritengono certo che la persona offesa avesse interesse a conservare il lavoro ottenuto grazie all'intercessione di D.L.G., amico del padre, e condividono le valutazioni compiute dal tribunale di primo grado. In particolare, ritengono assurdo ipotizzare che la donna avesse deciso di inventare accuse nei confronti del ricorrente e affrontare il peso di un processo penale per liberarsi di un lavoro mal sopportato. Ritengono, anzi, certo che la persona offesa non volesse lasciare il lavoro ed, in questo senso, interpretano il suo tentativo di riprendere regolarmente il lavoro e di soprassedere a quanto accaduto. In altre parole, i giudici di merito hanno osservato che la donna si è esposta alla difficoltà di accusare una persona influente ed economicamente più attrezzata di lei perchè aveva subito una reale e grave aggressione che le aveva arrecato un disturbo post traumatico da stress, come documentato dalla deposizione del Dott. A.. La motivazione sul punto appare quindi logica e coerente e non censurabile in questa sede.

9. Nè, sul punto, è apprezzabile il dedotto travisamento probatorio per la mancata valutazione del documento costituito dalla sentenza del Giudice del lavoro, allegata al ricorso (di cui peraltro non viene formalmente attestata - ma solo dichiarata dalla difesa del ricorrente - l'irrevocabilità, non essendo stato rispettato quanto disposto dall'art. 124 c.p.c., in materia di certificato di passaggio in giudicato della sentenza), atteso che il vizio di travisamento della prova per omissione, deducibile in cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), è configurabile quando manchi la motivazione in ordine alla valutazione di un elemento probatorio acquisito nel processo e potenzialmente decisivo ai fini della decisione (Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020 - dep. 03/03/2020, P, Rv. 278457). Decisività che, nel caso di specie, non può essere attribuita alla prova documentale costituita dalla sentenza del GdL che, nell'ottica difensiva, giustificherebbe l'esistenza di un movente che avrebbe spinto la denunciante a formulare le accuse contro il suo datore di lavoro. Si tratta, infatti, di una prova la cui mancata acquisizione - alla luce degli elementi complessivamente acquisiti nel corso del giudizio -, in presenza di motivazione fondata sulle ulteriori prove acquisite agli atti del processo, ipoteticamente può essere indicativa di elementi fattuali non contrastanti con quelli probatoriamente accertati, ma non incide sull'attendibilità complessiva della vittima. In tema di valutazione della prova, in particolare quella della prova testimoniale, pur dovendo essere una valutazione critica, non deve tuttavia essere per ciò condotta all'insegna della preconcetta sfiducia nei confronti del teste. In particolare, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti "elementi di riscontro" richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nell'art. 192 c.p.p., comma 3 il giudice deve limitarsi a verificare l'intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri o da lui ragionevolmente ritenuti tali. Peraltro, l'espressione "fino a prova contraria" non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l'una o l'altra di dette ipotesi (tra le tante: Sez. 1, n. 7568 del 02/06/1993 - dep. 03/08/1993, Puledda, Rv. 194774).

A ciò, infine, va aggiunto, considerazione questa comunque dirimente, che le sentenze pronunciate in procedimenti civili e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento nel contraddittorio fra le parti ai sensi dell'art. 234 c.p.p., possono essere utilizzate come prova limitatamente alla esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti (Sez. 5, n. 15 del 21/11/2019 - dep. 02/01/2020, Commissione nazionale per le società e la borsa - Consob c/ Ligresti, Rv. 278389-03). Dunque, nella specie, non potrebbe nemmeno parlarsi di travisamento della "prova", sub specie, documentale, non potendo essere attribuita alla sentenza del giudice del lavoro, sprovvista dell'attestazione di irrevocabilità, il valore di "prova" ai fini della valutazione delle "altre" prove assunte nel giudizio e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti.

10. Per quanto attiene, infine, al sesto motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, è opportuno considerare che il giudice di appello non è tenuto a motivare in ordine al mancato esercizio del potere discrezionale di concedere d'ufficio la sospensione condizionale della pena, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 3, quando l'interessato non abbia formulato al riguardo alcuna richiesta. Per tali ragioni il mancato riconoscimento del beneficio in esame non costituisce violazione di legge e non configura mancanza di motivazione suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (in questo senso Sez. 2, n. 15930 del 19/02/2016, dep. 18/04/2016- Rv. 266563).

Infatti, in tema di sospensione condizionale della pena, fermo l'obbligo del giudice d'appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l'imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito (così Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 22/05/2019, Rv. 275376).

In altre parole, nonostante ai sensi dell'art. 165 c.p. la sospensione può essere concessa solamente nei casi in cui il giudice ritenga che per il reato commesso non vada disposta la condanna per un tempo superiore ai due anni di reclusione o arresto, soli o ragguagliati a norma dell'art. 135 con pena pecuniaria congiunta e con i limiti di cui all'art. 164, nel caso di specie il motivo deve essere considerato inammissibile in quanto non specificatamente dedotto con i motivi di appello nè risulta altrimenti richiesto in sede di udienza di discussione in appello.

11. Alla pronuncia di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.

12. Segue ex lege l'oscuramento dei dati attesa la tipologia di reato contestata.

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto d'ufficio e/o imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2020