Cassazione Penale, Sez. 3, 21 ottobre 2020, n. 29102 - Condanna del titolare di un salone di parrucchiere per violenza sessuale ai danni di una dipendente



 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito - Presidente -

Dott. GALTERIO Donatella - rel. Consigliere -

Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere -

Dott. CERRONI Claudio - Consigliere -

Dott. CORBO Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
 


Sul ricorso proposto da:

C.R., nato a (OMISSIS);

avverso la ordinanza in data 28.11.2019 del Tribunale di Potenza;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Donatella Galterio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Corasaniti Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi i difensori, avv.ti Daniele Luigi De Angelis, e Donatello Cimadomo, che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso.
 

 

Fatto


1.Con ordinanza in data 28.11.2019 il Tribunale di Potenza, adito in sede di riesame ha confermato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta dal GIP nei confronti di C.R., gravemente indiziato del reato di cui all'art. 81 c.p. e art. 609 c.p., comma 1 e comma 2, n. 1) per aver in due distinte occasioni in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, abusato nello svolgimento della sua attività di parrucchiere, titolare di un salone, delle condizioni di inferiorità psichica di una sua dipendente che aveva costretto a subire atti sessuali, contro la sua volontà, sfruttando la propria autorità di datore di lavoro.

2. Avverso il suddetto provvedimento l'indagato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando due motivi, l'uno afferente ai gravi indizi di colpevolezza e l'altro alle esigenze cautelari, di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 609 bis c.p. e al vizio motivazionale, che il Tribunale, nell'assumere la contemporanea qualificazione del fatto per un verso ai sensi dell'art. 609 bis c.p., comma 2 sottolineando la condotta induttiva dell'agente, e per l'altro ai sensi del comma 1 stessa norma evidenziando il potere di supremazia, sia pure di natura privata, intercorrente tra il datore di lavoro e la propria dipendente, tale da costringere quest'ultima a soggiacere alle di lui pulsioni libidinose, equipara due fattispecie delittuose ontologicamente diverse, specie con riferimento all'elemento del consenso: mentre l'abuso di autorità integra pur sempre una condotta di tipo costrittivo che rende superflua ogni indagine in merito al consenso della p.o., l'induzione per contro, in quanto derivante da un qualificato differenziale di potere, è connotata da una vera e propria sopraffazione della vittima che in tanto aderisce all'atto sessuale in quanto ridotta ad un mezzo per l'altrui soddisfacimento erotico. Sostiene la difesa che l'ordinanza impugnata, oltre all'evidente contraddittorietà logica tra le due fattispecie criminose contestualmente evocate, non contenga alcuno degli elementi probatori dai quali ricavare nè l'abuso di potere, risultando la paura di essere licenziata della ragazza soltanto il frutto di un ragionamento congetturale, privo di riscontri indiziari in assenza di un comportamento costrittivo da parte dell'indagato, nè l'induzione volta a carpire il consenso della vittima in presenza della manifestazione del pianto di costei iniziata prima dell'atto sessuale e non risultando alcun elemento che consentisse di qualificare come fulminea la condotta dell'uomo, al contrario preceduta da un abbraccio dal quale la giovane non si era mai ritratta che non avrebbe mai permesso al preteso aggressore di percepire alcun dissenso. Evidenzia infine come il primo episodio fosse analogo al secondo, avendo invece il Tribunale utilizzato due diversi metri di valutazione atteso che i molteplici fattori posti in luce in relazione al primo episodio dovessero essere desunti da comportamenti altrui e che le condotte susseguitesi nel secondo episodio erano del tutto identiche avendo la ragazza seguito l'indagato nel magazzino del locale ed essendosi determinata ad abbracciarlo, entrambe sintomatiche del proprio consenso.

2.2. Con il secondo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 274 c.p.p. e al vizio motivazionale, sia la configurabilità del pericolo di reiterazione del reato evidenziando la contraddittorietà dell'ordinanza impugnata che ricava tale dato da pregressi episodi riferiti da altri soggetti pur avendo preliminarmente escluso di poter far riferimento ad essi, sia la sussistenza del pericolo di inquinamento delle prove in difetto di alcuna condotta da parte del prevenuto volta ad avvicinare le persone informate sui fatti e risultando dai messaggi intercettati che egli abbia cercato la vittima solo successivamente al secondo episodio, senza comunque nè condizionarla od avvicinarla.

 

Diritto


1. Il primo motivo, compendiandosi in censure volte, in fatto, ad una diversa lettura del compendio indiziario e comunque inidonee a scalfire i puntuali rilievi scanditi, in punto di diritto, dai giudici della cautela deve essere dichiarato inammissibile.

Mentre la analitica dissertazione in ordine alle differenze tra le due figure delittuose provvisoriamente ipotizzate, quali la violenza per abuso di autorità e la violenza per induzione, non intaccano la contestazione cautelare, comunque correlata ai fatti posti a fondamento della misura emessa e naturalmente caratterizzata da un fisiologica fluidità destinata a svanire nel contraddittorio dibattimentale, le contestazioni svolte sulla configurabilità delle due fattispecie degradano invece su un piano eminentemente fattuale, insuscettibile di ingresso nella presente fase di legittimità.

Va invero ribadito, in conformità all'orientamento consolidato di questa Corte che, in materia cautelare personale, il ricorso per cassazione con cui si deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (cfr. ex multis, Sez. 2, n. 31533 del 17/5/2017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 2/3/2017, Di Iasi, Rv. 269884; Sez. 6, n. 11194 del 8/3/2012, Lupo, Rv. 252178). In un'ottica analoga si è, altresì, affermato che, in tema di ricorso per cassazione, il controllo di legittimità, anche nel giudizio cautelare personale, non comprende il potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè quello di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell'indagato, trattandosi di apprezzamenti rientranti nelle valutazioni del Gip e del Tribunale del Riesame, essendo, invece, circoscritto all'esame dell'atto impugnato al fine di verificare la sussistenza dell'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l'assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 9212 del 2/2/2017, Sansone, Rv. 269438; cfr. anche Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 2012, Siciliano, Rv. 251760). Ebbene, alla luce di tali principi, è evidente, quanto alla deduzione difensiva di insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, come essa ricada nelle ragioni di inammissibilità poc'anzi espresse, per essere i motivi di ricorso rivolti essenzialmente a contestare la ricostruzione di fatto operata dal Tribunale del Riesame e a chiedere, quindi, al Collegio una diversa valutazione delle risultanze fattuali esaminate dal giudice di merito.

Per quanto attiene alla contestazione ex art. 609 bis c.p., comma 1 l'eccepita assenza di comportamenti costrittivi è palesemente smentita dalla ricostruzione del fatto operata dal Tribunale lucano sulla falsariga della narrazione della p.o. - di per sè sufficiente ad integrare, trattandosi di testimonianza diretta anche senza necessità di acquisire riscontri oggettivi esterni (Sez. 1, n. 44633 del 21/09/2018 - dep. 05/10/2018, Rv. 273981; Sez. 5, n. 5609 del 20/12/2013 - dep. 04/02/2014, Puente Suarez, Rv. 258870) - i gravi indizi di colpevolezza richiesti per l'applicazione della misura, venendo evidenziato come quello che viene definito con plastica terminologia l'"immobilismo reattivo" in cui era caduta la vittima, vistasi repentinamente infilare le mani nei propri slip da parte dell'indagato, non era affatto interpretabile come tacita manifestazione di consenso. E ciò non solo in forza dell'accreditata interpretazione giurisprudenziale secondo la quale il dissenso della p.o. è, in assenza di un'esplicita manifestazione di volontà volta al gradimento dell'atto sessuale, sempre presunto, ma altresì in quanto mancavano nella specie segni interpretabili come espressione inequivoca di consenso.

Invero, come già condivisibilmente affermato da questa Corte, non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 66 del 1996, con la quale è stata apportata la radicale riforma dei reati connessi alla violenza sessuale, un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenerne sussistenti gli elementi costitutivi, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere, proprio in ragione dell'intimità della sfera personale attinta, che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell'esclusione dell'offensività della condotta, una manifestazione di consenso del soggetto passivo che quand'anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicitato in forma tacita. Diversamente opinando si verrebbe ad escludere la rilevanza penale del fatto nell'ipotesi di atti sessuali posti in essere con modalità improvvise e repentine, tali da non consentire una pronta reazione del soggetto passivo e dunque prevenendone la stessa possibilità di manifestazione del dissenso, o ancora più significativamente allorquando la vittima versi in condizioni di incoscienza, magari perchè dormiente o in quanto affetta da incapacità intellettive o volitive. Pertanto, ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 609 bis c.p., comma 1, è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, con la conseguenza che l'eventuale errore sull'espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato diventa irrilevante all'infuori del caso in cui l'errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa (Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016 - dep. 22/11/2016, S, Rv. 268186).

Nel sottolineare come l'abbraccio iniziale rivoltole dal prevenuto ben potesse essere equivocato dalla giovane come un segno di affetto disinteressato, essendo costui un caro amico di famiglia nonchè il suo datore di lavoro da oltre tre anni senza che, fino ad allora, avesse mai violato la sua intimità tantomeno sessuale, i giudici del riesame mettono ben in luce come l'aggressione relativa al primo episodio posta in essere dall'uomo con gesto repentino, ovverosia con il contatto erogeno creato infilando improvvisamente la sua mano nelle mutandine della vittima, fosse del tutto sganciato dal contesto che si preannunciava soltanto amicale, al quale costei si era prestata perciò di buon grado. Il successivo immobilismo della donna, rivelatore della sua incapacità di reazione di fronte ad un gesto tanto invasivo quanto inaspettato, non poteva perciò essere equivocato come una protrazione del consenso prestato all'abbraccio iniziale: e ciò non solo e non tanto per il dirompente cambio di registro della condotta dell'agente, quanto invece perchè scevro da qualunque espressione di segno positivo della vittima che potesse almeno in astratto ingenerare un possibile fraintendimento. Del tutto irrilevante diventa, di conseguenza, il prolungamento della inazione della ragazza, su cui fa leva inopinatamente la difesa, trattandosi solo della protratta incapacità di reazione di costei.

Con motivazione altrettanto coerente e lineare il Tribunale de libertate sottolinea l'inequivocità della reazione, questa volta manifesta, avuta dalla giovane in occasione del secondo episodio, in cui all'atto invasivo che aveva fatto seguito anche in questo caso ad un abbraccio, interpretato dalla vittima come un gesto conciliativo dovendo discutere dei turni feriali, ritraendosi immediatamente ed allontanandosi dal magazzino dove era avvenuto l'approccio sessuale.

Quanto all'incolpazione ex art. 609 bis c.p., comma 2, le censure difensive non lambiscono neppure l'impianto motivazionale del provvedimento impugnato relativamente alla condizione di inferiorità psichica della p.o. venutasi a trovare in una situazione di vulnerabilità stante la cessazione della sua storia sentimentale, al pari di altre dipendenti anch'esse diventate, in similare frangente, oggetto di attenzione da parte del datore di lavoro.

2. Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per difetto di specificità.

Le generiche censure in ordine al pericolo di reiterazione del reato tralasciano integralmente i rilievi del Tribunale lucano in ordine all'assenza di autocontrollo dell'indagato evidenziata dalla stessa condotta tenuta con la vittima cui aveva promesso dopo il primo episodio che nulla di tutto ciò si sarebbe più ripetuto, promessa questa resa ancor più stridente dallo stretto rapporto amicale che lo legava alla sua famiglia, tale da essere stato visto dalla ragazza come un secondo padre: rilievi questi cui si aggiunge il contesto lavorativo che, stante la frequentazione del negozio da parte delle esponenti del genere femminile oltre che delle lavoranti alle sue dipendenze, potrebbe comunque tradursi, senza che alcun riferimento venga effettuato alla condotta anteatta, in prossime occasioni favorevoli alla commissione di ulteriori reati della stessa natura.

E' sempre alla condotta post delictum tenuta nei confronti della p.o. che i giudici della cautela parametrano il pericolo di inquinamento delle prove, evidenziando come i ripetuti messaggi intercorsi con la ragazza dopo che costei gli aveva comunicato la propria intenzione di assentarsi dal lavoro per indurla a desistere disvelassero la pervicace volontà di costui di sviare il problema e al contempo prendendo a riferimento la precedente condotta tenuta da costui con un'altra dipendente cui aveva impedito di formalizzare qualsivoglia denuncia nei suoi confronti, fatto questo che la difesa neppure contesta, quale concreto pericolo ai sensi dell'art. 274 c.p.p., lett. a). Siffatto comportamento, seppur riferito ad altre vicende, è stato correttamente valorizzato dal Tribunale cautelare al fine di sottolineare la concretezza del rischio che l'indagato possa realmente turbare il processo formativo della prova, ostacolandone la ricerca o inquinando le relative fonti, in ossequio al principio già affermato da questa Corte secondo il quale occorre, per evitare che il requisito richiesto del "concreto pericolo" perda il suo significato e si trasformi in semplice clausola di stile, l'indicazione delle specifiche circostanze di fatto dalle quali esso è desunto, con adeguata e logica motivazione (Sez. 6, n. 1460 del 19/04/1995 - dep. 17/07/1995, Papa, Rv. 202984; Sez. 6, n. 29477 del 23/03/2017 - dep. 13/06/2017, Rv. 270561).

Deve quindi concludersi per l'inammissibilità della presente impugnativa.

Segue a tale esito la condanna del ricorrente, a norma dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi, alla luce della sentenza del 13 giugno 2000 n. 186, per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.


Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020