Cassazione Penale, Sez. 4, 05 febbraio 2021, n. 4480 - Caduta durante la salita su un traliccio con un DPI in cattivo stato di manutenzione. Distacco. Responsabilità da reato degli enti


 

 

Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 17/11/2020
 

Fatto


1. La Corte d'appello di Firenze ha parzialmente riformato, previa concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. agli imputati e di quella di cui all'art. 12 legge 231/01 agli enti, con conseguente rideterminazione della pena, la sentenza con la quale il Tribunale di quella città aveva ritenuto A.M., T.A. e T.G. penalmente responsabili del reato di lesioni colpose aggravate ai danni del lavoratore Z.C., nelle rispettive qualità e gli enti responsabili del reato contestato agli imputati con applicazione della relativa sanzione amministrativa.

2. Questo, in sintesi, il tenore dell'imputazione.
T.A. e T.G., nella rispettiva qualità di datore di lavoro e dirigente all'interno della società SMITT TECHNOLOGY s.r.l., legata da contratto di distacco con la A.M. BIO STRUTTURE s.r.l., e A.M., invece, quale datore di lavoro della vittima, Z.C., sono accusati di avere cagionato a quest'ultimo, per colpa e in violazione delle norme di cui al T.U. n. 81/08 [in particolare, art. 77 c. 4 lett. a) relativamente all'utilizzo di un dispositivo di protezione individuale per la esecuzione di lavori in quota] le lesioni aggravate meglio descritte in rubrica, conseguite alla caduta occorsa al lavoratore, nel corso della esecuzione di un lavoro avente ad oggetto il montaggio di un palo di supporto di celle telefoniche per conto della SMITT TECHNOLOGY s.r.l., su incarico dell'A.M., e mentre quegli era intento a salire su un traliccio, facendo uso di un DPI in cattivo stato di manutenzione.

3. La ricostruzione della dinamica è stata descritta in questi termini nella sentenza impugnata.
Il 28/2/2012, il lavoratore era impegnato nella realizzazione del montaggio di un palo, per la quale si procedeva gradualmente con aggiunta di volta in volta di porzioni di sei metri di lunghezza ciascuna; il montatore saliva sul manufatto con un carrello, al quale era assicurato da cinghie di sicurezza (costituite da una imbragatura e da un moschettone che la univa al carrello). Il DPI incriminato era costituito dal moschettone, la cui funzione era quella di garantire l'aggancio sicuro del lavoratore al carrello ed era congegnato in modo che la chiusura a vite fosse permanente, non esposta ad aperture di tipo fortuito, a sua volta sostenuta da una molla che faceva scattare la linguetta di chiusura, assicurata dal dado a vite. Una volta salito sul palo, l'uomo era precipitato al suolo.
Il primo giudice ha ritenuto provato che la causa dell'infortunio era da ricondursi al malfunzionamento, per scarsa efficienza, del moschettone sopra descritto, presidio fornito dalla A.M. s.r.l. In particolare, dagli accertamenti svolti era emerso che la ghiera di bloccaggio della linguetta di chiusura non era efficiente, perché non in grado di scorrere lungo le filettature dell'avvitamento. Cosicché il cattivo stato manutentivo del presidio non aveva evitato che la linguetta si aprisse accidentalmente provocando lo sfilamento della corda di sostegno. A ciò aggiungasi che la stessa molla di chiusura della linguetta, a sua volta predisposta per scongiurare l'apertura accidentale della stessa, prima che potesse operare la ghiera, era inoperante, poiché consentiva che la linguetta di chiusura, invece di chiudersi, rimanesse aperta.

4. Avverso la sentenza d'appello, hanno proposto ricorsi T.A. e T.G. con unico atto e stesso difensore e la A.M. s.r.l. con separato atto e diverso difensore.

4.1. T.A. e TT.G. (avv. F. Menini). La difesa ha formulato due motivi.
Con il primo ha dedotto vizio di mancanza della motivazione quanto alla prova del profilo oggettivo del reato commissivo improprio contestato, in ragione di quella che definisce una tesi ipotetica. In particolare, assume, quanto alla ricostruzione della dinamica dell'infortunio e alle connesse implicazioni causali dell'addebito colposo, che in maniera assertiva i giudici territoriali hanno ritenuto impossibile che il lavoratore si fosse sganciato dalle protezioni anticaduta in quota, evenienza del tutto possibile, rispetto alla quale non vi sarebbe prova del contrario, non potendo a tal fine valorizzarsi gli elementi esposti nella sentenza di primo grado, atteso che gli stessi sarebbero connotati dal medesimo difetto argomentativo.
Con il secondo motivo, ha dedotto il vizio di manifesta illogicità della motivazione, per avere la Corte del merito travisato il contenuto della prova (sia quella dichiarativa promanante dalla stessa persona offesa, che quella derivata dagli accertamenti esperiti sul luogo), con specifico riferimento allo stato della ghiera di sicurezza: i giudici del merito hanno ritenuto che la ghiera posta sulla linguetta era solo parzialmente chiusa, laddove la persona offesa aveva affermato di averla serrata, come si evincerebbe anche dalla fotografia n. 30 che dovrebbe dimostrare che il moschettone era perfettamente chiuso al momento della caduta del lavoratore.

4.2. A.M. BIO STRUTTURE s.r.l. (avv. G. Gonzi).
La ricorrente ha formulato quattro motivi che possono essere raggruppati in relazione al punto della decisione che attaccano, sotto entrambi i profili della corretta applicazione della legge e della censurabilità del percorso argomentativo seguito.
Così, con il primo e il terzo motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge - per essere la decisione non conforme alle norme in materia di reato omissivo improprio e di imputazione colposa del reato - e vizio della motivazione, quanto alla penale responsabilità dell'A.M., giudizio che si assume sganciato dalla violazione di obblighi giuridici impostigli quale datore di lavoro distaccante e in assenza di un comportamento alternativo esigibile.

In particolare, sotto il primo profilo, si è rilevato che, nella fase esecutiva del lavoro, il soggetto tenuto alla vigilanza della effettiva permanenza delle condizioni di sicurezza originariamente predisposte e sull'osservanza delle stesse da parte dei lavoratori è colui che può impartire direttive e dirigere, laddove l'istruttoria avrebbe dimostrato il corretto assolvimento degli obblighi formativi e manutentivi da parte dell'A.M.: la vittima, per quanto emerge anche nel decisum censurato, era stata adeguatamente formata e preparata, trattandosi di operaio esperto; il mancato funzionamento del presidio non può valere a fondare la colpa del datore di lavoro che lo ha fornito, una volta assolti gli obblighi manutentivi imposti dalla scheda tecnica, come dimostrato dal relativo certificato; gli stessi operai erano in grado di verificare visivamente la piena funzionalità dei presidi loro consegnati, il datore di lavoro avendo reso disponibile un numero di DPI superiore rispetto al necesssario, proprio al fine di consentire l'immediata sostituzione di quelli che fossero risultati malfunzionanti; era la società distaccataria, infine, ad avere il controllo del cantiere e, quindi, ad essere in condizione di esercitare la vigilanza sulla corretta esecuzione delle opere.
Sotto il secondo profilo, invece, la Corte avrebbe, in maniera completamente illogica, sostenuto che la colpevolezza dell'agente era derivata dal solo malfunzionamento del presidio di sicurezza, così estendendo gli ambiti e gli obblighi cautelari oltre il perimetro delle regole descritte nel T.U. 81/08. Il malfunzionamento del DPI determinato da un imprevisto in corso di lavorazione e in assenza di segnalazioni avanzate da un esperto lavoratore, che aveva a sua disposizione un moschettone di riserva, non può essere addebitato al datore che finirebbe, così, per rispondere anche di condotte imprudenti del lavoratore. La decisione, inoltre, è contraddittoria nella parte in cui assegna profili di rimproverabilità sovrapposti a ciascuno dei garanti, con specifico riferimento all'obbligo di vigilanza, concretamente non esigibile dall'A.M. in quella fase della lavorazione.
Con il secondo e il quarto motivo, invece, la difesa ha dedotto violazione di legge e vizio motivazionale, questa volta con specifico riferimento ai criteri d'imputazione della responsabilità dell'ente.
In particolare, la Corte d'appello, nel ritenere integrato il parametro oggettivo di cui all'art. 5 legge 231/01, non avrebbe considerato la diversità dei due criteri ivi contemplati, limitandosi a ritenere che l'omessa predsiposizione del presidio di sicurezza idoneo avesse fatto conseguire alla società un risparmio di spesa, senza tuttavia verificare il collegamento finalistico tra il reato e il risultato, ovvero l'effettiva esistenza dell'interesse e neppure inquadrato la condotta illecita nell'alveo di una generale e sistematica politica imprendsitoriale, connotata dalla costante violazione dei sistemi prevenzionistici.
Quanto al ragionamento esplicativo, inoltre, la difesa mette in evidenza che la Corte d'appello non avrebbe operato alcun richiamo all'istruttoria per fondare il convincimento della sussistenza del parametro d'imputazione oggettivo, stante il difetto di indagini a ciò finalizzate, ma avrebbe giustificato le proprie conclusioni sulla base di asserzioni apodittiche e aprioristiche.

5. Il Procuratore generale, in persona del sost. Dott. Luca T., ha concluso con atto scritto, pervenuto a norma dell'art. 23 c. 8, decreto legge n. 137 del 2020, con il quale ha chiesto dichiararsi la inammissibilità dei ricorsi.

6. La difesa degli imputati T.A. e T.G. ha concluso con atto scritto depositato ai sensi dell'art. 23 c.8, del decreto citato, con il quale - nel contestare le conclusioni del Procuratore generale - ha illustrato i motivi già rassegnati, concludendo per l'accoglimento delle conclusioni formulate in calce ad essi.

7. La difesa della società A.M. 810 STRUTTURE a r.l. ha rassegnato le proprie conclusioni a norma del medesimo articolo, chiedendo l'accoglimento del ricorso.

8. Il collegio ha deciso i ricorsi con le modalità previste dall'art. 23, c. 9, decreto legge n. 137 del 2020.
 

Diritto



i. Il ricorso proposto nell'interesse degli imputati T.A. e T.G. è inammissibile; quello proposto nell'interesse della A.M.BIO STRUTTURE s.r.l. va rigettato.

2. La Corte territoriale, richiamata la ricostruzione della vicenda operata nella sentenza appellata, sulla scorta delle prove dichiarative e degli accertamenti espletati, ha concentrato la propria attenzione sulle questioni introdotte dal gravame di merito (i cui termini sono riportati nella sentenza censurata), sostanzialmente rappresentati dal tema della efficienza del dispositivo di protezione e dalla ricostruzione della dinamica dell'infortunio, entrambi riproposti in questa sede.
Nel far ciò, ha ritenuto non condivisibile la tesi difensiva secondo cui il dispositivo sarebbe stato efficiente, alla luce della testimonianza FUSCO (ispettore ASL intervenuto sui luoghi), il quale aveva affermato che, al momento del suo intervento, il moschettone attaccato al carrello presentava la ghiera a vita non completamente chiusa; la ghiera era bloccata in apertura, poiché la filettatura non consentiva al moschettone di chiudersi completamente; la molla di chiusura era malfunzionante, nel senso che non scattava, lasciando così il moschettone aperto.
Tale testimonianza, oltre ad aver trovato efficace riscontro nell'esame delle riproduzioni fotografiche acquisite, non era stata smentita dalle dichiarazioni rese da altro lavoratore (teste S.), il quale aveva sì affermato che il dispositivo era efficiente, salvo poi specificare che la ghiera opponeva resistenza nella parte finale, tanto da richiedere l'impiego di una certa forza per arrivare a chiuderla.
Dal canto suo, la persona offesa aveva affermato di avere regolarmente chiuso il dispositivo, ma tale affermazione era risultata smentita dalle fotografie, non dubitando la Corte della buona fede del dichiarante e della fallacia del suo ricordo.
Quanto alla dinamica del sinistro, la Corte ha ritenuto inaccettabile la tesi proposta a difesa, secondo cui il lavoratore, mentre si trovava a quota dodici metri, avrebbe volontariamente, quanto imprudentemente, svitato la ghiera e aperto il moschettone senza prima assicurarsi al traliccio: trattandosi di operaio esperto, tale comportamento era poco credibile, a fronte dell'elevatissimo rischio di caduta, parendo più credibile che il lavoratore non avesse attivato gli altri presidi di sicurezza, in quanto ancora assicurato al traliccio dal moschettone, trovato difettoso.
Ma soprattutto e risolutivamente, il giudice d'appello ha osservato che l'infondatezza della tesi difensiva discendeva direttamente dalla circostanza oggettiva che, ove il lavoratore avesse volontariamente aperto la ghiera, essa non avrebbe poi potuto presentarsi nelle condizioni in cui era stata trovata, cioè parzialmente chiusa, non essendo seriamente ipotizzabile che la persona offesa, dopo avere aperto la ghiera, . avesse potuto porre in essere, mentre precipitava al suolo, l'azione contraria di chiusura.
Quanto poi alla posizione di garanzia dei T., la Corte ha escluso che il nesso di causalità potesse considerarsi interrotto dal comportamento imprudente del lavoratore, richiamando a tal proposito i principi rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità. Ma ha pure valutato l'incidenza, quanto alle posizioni di garanzia configurabili in relazione all'evento verificatosi, del contenuto del contratto di distacco temporaneo, stipulato ai sensi dell'art. 30 d.l.vo 276/03, dalla SMITT TECHNOLOGY s.r.l., distaccataria, e la A.M. B10 STRUTTURE s.r.l.: in merito, ha osservato che, in caso di distacco da un'impresa a un'altra, per effetto della modifica legislativa introdotta con l'art. 3, c.6, d.lgs. 81/08, restano a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione di quello di formazione e informazione dei lavoratori. E da tale premessa, ha tratto la conseguente irrilevanza della clausola di esonero contenuta nel regolamento contrattuale e, quindi, la responsabilità degli imputati, nelle rispettive qualità, per avere consentito l'impiego, nella fase di esecuzione dei lavori, di presidi malfunzionanti e per avere omesso la necessaria verifica della efficienza delle attrezzature fornite dalla distaccante.
Quanto alla posizione dell'ente, giudici territoriali hanno ritenuto correttamente individuata la regola cautelare violata e la sua esigibilità da parte dell'A.M., alla luce della dimostrata inefficienza dello specifico presidio utilizzato dal lavoratore e avuto riguarda alla sua natura, di strumento essenziale, cioè, sia per la sicurezza dei lavoratori, che per la stessa esecuzione dell'intervento programmato. Né in contrario, hanno ritenuto di poter valorizzare, come opposto a difesa, l'intervento manutentivo effettuato più di un mese prima dell'infortunio: trattandosi di strumento utilizzato frequentemente in ambienti esterni, esso è suscettibile del rischio di incrostazioni atte a intaccarne il normale funzionamento. Cosicché è obbligo preciso del garante assicurarsi che l'originaria efficienza del presidio perduri per tutta la durata del suo impiego, eventualmente anche vigilando sulla correttezza dell'agire del lavoratore.
Quanto al criterio di imputazione oggettivo di cui all'art. 5 L. 231/01, infine, la Corte territoriale ha riconosciuto che alla condotta dell'agente era collegato l'interesse dell'ente e che dalla stessa era derivato un innegabile vantaggio, tradottosi in un risparmio di spesa, restando irrilevante l'entità economica di esso, considerato altresì che nella specie si trattava di un presidio essenziale per lo svolgimento dell'attività lavorativa in sicurezza.

3. I motivi dedotti nell'interesse degli imputati e il primo e il terzo motivo dedotti nell'interesse dell'ente sono manifestamente infondati.
Non si apprezza alcuna violazione nell'applicazione della normativa pertinente al caso concreto e dei relativi canoni ermeneutici, che risultano del tutto coerenti con gli indirizzi consolidati di questa Corte di legittimità.
Ciò vale certamente per quanto attiene alla individuazione della regola cautelare violata e alla posizione di garanzia individuata in capo a ciascuno degli agenti.
Sul punto, va certamente ribadito il consolidato orientamento di questa corte di legittimità, secondo cui la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire, sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (cfr. ex multis Sez. 4, n.32216 del 20/06/2018, Capobianco e altro, Rv. 273568; n. 24462 del 06/05/2015, Ruocco, rv. 264128; n. 5404 del 08/01/2015, Corso e altri, Rv. 262033; n. 43645 del 11/10/2011, Putzu, Rv. 251930).
Ma deve anche osservarsi che la verifica operata dalla Corte territoriale si pone in linea di perfetta coerenza con tali principi.
In linea generale, infatti, deve ribadirsi che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (cfr. sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014, dep. 2015, attino, Rv. 263200) e ha anche l'obbligo di mantenere in buono stato di conservazione i mezzi di protezione messi a disposizione dei lavoratori e di sorvegliare che l'idoneità di detti mezzi persista nel tempo (cfr. sez. 3 n. 26343 del 18/3/2009, _Buini e altro, Rv.244373).
Tale obbligo è positivamente affermato nell'art. 77 c. 4, lett. a) del d.lgs. 81/08, la cui violazione è stata specificamente contestata agli imputati.
Talì principi vanno tuttavia calibrati in relazione alla fattispecie concreta, nella quale la posizione di garanzia è stata assunta, sempre con riferimento al medesimo presidio di sicurezza, da soggetti che operano in realtà aziendali diverse, in virtù del vincolo negoziale (contratto di distacco), esistente tra la SMITT TECHNOLOGY s.r.l. e A.M. BIO STRUTTURE s.r.l.
Sullo specifico tema, la giurisprudenza ha già da tempo chiarito che - in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa a un'altra - i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita (cfr. sez. 4 n. 37079 del 24/6/2008, Ansa/ani, Rv. 241021).
Tali principi sono stati anche ulteriormente calibrati, soprattutto alla luce della modifica legislativa introdotta dall'art. 3 c. 6, d.lgs. 81/08 che ha espressamente disciplinato l'ipotesi del distacco del lavoratore ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. 276/03, prevedendo che, in tal caso, < <tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato>>.
Si è così confermato che sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici che restano a carico del datore di lavoro distaccante (cfr. sez. 4, n. 31300 del 19/4/2013, Farinotti ed altro, Rv. 256397).
In quella sede, la Corte di legittimità ha precisato che la ripartizione operata dal legislatore tiene conto della reale allocazione dei poteri di direzione e di organizzazione dell'ambiente di lavoro e rende inattuale il tradizionale riferimento alle note premesse normative (quali la clausola generale di cui all'art. 2087 cod. civ.) per delineare e delimitare estensione e contenuto della posizione di garanzia del distaccante, soprattutto con riferimento alla fase della esecuzione del contratto (per quella antecedente valendo la consueta griglia normativa).
Il distaccante, prima che abbia corso il distacco, ha la titolarità degli obblighi tipici della posizione datoriale; in quell'area in cui i poteri direttivi si attenuano per la sempre maggiore incombenza degli analoghi poteri del distaccatario quegli obblighi assumono i contenuti resi possibili dalla particolarità di tale vicenda. Nel momento in cui trova esecuzione la prestazione del lavoratore distaccato, il datore di lavoro distaccatario assume tutti gli obblighi prevenzionistici, eccezion fatta per quello di informazione e di formazione sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali vi è il distacco.

3.1. Chiarito pertanto il riparto degli obblighi derivanti dal contratto di distacco, deve aggiungersi, quanto alla posizione del datore di lavoro distaccante, che la dotazione dei presidi funzionanti e la perdurante manutenzione di essi discende dagli obblighi datoriali che precedono la fase esecutiva, stante la strumentalità di quei presidi rispetto alla lavorazione cui deve attendere il lavoratore distaccato.
Pertanto, la corretta funzionalità dei presidi dei quali il lavoratore è stato dotato dalla distaccante deve essere garantita per tutta la durata della lavorazione, il che implica l'adempimento di obblighi di vigilanza sul corretto funzionamento dei presidi stessi e sulla loro manutenzione, tenuto conto delle modalità e della frequenza del loro impiego.
Va, infine, rilevato che eventuali accordi contrari in deroga alla previsione normativa (come nel caso di specie ha ricordato anche il giudice di merito) sarebbero privi di efficacia, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati (cfr. sez. 4 n. 10043 del 8/7/1994, Vigani ed altro, Rv. 200149).

3.2. Sul piano, invece, delle censure che attaccano il ragionamento svolto dai giudici del merito, deve rilevarsi che i ricorrenti hanno inteso rassegnare al vaglio di legittimità questioni di puro merito, sulle quali consta un articolato, congruo, non manifestamente illogico e non contraddittorio percorso argomentativo della Corte territoriale. In effetti, rispetto al ragionamento esplicativo articolato dai giudici territoriali in maniera conforme nel doppio grado di giudizio, non è dato neppure cogliere nei motivi di ricorso una critica effettiva, ma piuttosto la contestazione, in chiave dialettica, delle rassegnate conclusioni (cfr., sul punto specifico, sez. 2 n. 36406 del 27/06/2012, Rv. 253893; sez. 6 n. 13449 del 12/02/2014, Rv. 259456; quanto al contenuto essenziale dell'atto d'impugnazione, in motivazione, sez. 6 n. 8700 del 21/01/2013, Rv. 254584; Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep 2017, Galtelli, Rv. 268822, quest'ultima sui motivi d'appello, ma i cui principi possono applicarsi anche al ricorso per cassazione).
In altri termini, le difese hanno riproposto censure articolate con il gravame di merito (sopra sinteticamente richiamate proprio al fine di consentire un agile raffronto), a mezzo dell_e quali si è inteso esporre un divergente punto di vista nella valutazione delle evidenze probatorie, che è tuttavia appannaggio del giudice di merito.
A tal proposito, è stato definitivamente chiarito da questa Corte che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482; sez. 1 n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507, laddove la Corte ha chiarito come, anche dopo la novella di cui alla legge 46/2006, il vaglio di legittimità sia circoscritto al controllo se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente rappresentare e spiegare l'iter logico seguito).

Inoltre, con specifico riferimento al dedotto travisamento probatorio, deve precisarsi che tale vizio è riconoscibile solo se il giudice d'appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice o quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (cfr. Sez. 4 n. 44765 del 22/10/2013, Rv. 256837; n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Rv. 258432; n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Rv. 258438). Macroscopicità ed evidenza che, nel caso all'esame, non ricorrono, avendo la Corte del merito specificamente motivato in ordine al valore da attribuire alle diverse evidenze fattuali, ivi comprese le dichiarazioni della stessa persona offesa.
In via risolutiva, peraltro, va ribadita la inammissibilità di quei motivi di ricorso che sottopongano al giudice di legittimità atti processuali per verificare l'adeguatezza dell'apprezzamento probatorio ad essi relativo compiuto dal giudice di merito ed ottenerne una diversa valutazione, perché lo stesso costituisce censura non riconducibile alle tipologie di vizi della motivazione tassativamente indicate dalla legge (cfr. sez. 7 n. 12406 del 19/2/2015, Rv. 262948).
Il giudice di legittimità, infatti, non può conoscere del contenuto degli atti processuali per verificarne l'adeguatezza dell'apprezzamento probatorio, perché ciò, dopo due gradi di merito, è estraneo alla sua cognizione: sono pertanto irrilevanti, perché non possono essere oggetto di alcuna valutazione, tutte le deduzioni che introducano direttamente nel ricorso parti di contenuto probatorio, tanto più se articolate, in concreto ponendo direttamente la Corte di cassazione in contatto con i temi probatori e il materiale loro pertinente al fine di ottenerne un apprezzamento diverso da quello dei giudici del merito e conforme a quello invece prospettato dalla parte ricorrente (cfr. in motivazione, sez. 7, n. 12406/15 citata).

4. Il secondo e il quarto motivo dedotti nell'interesse dell'ente sono infondati.

4.1. In linea generale, va intanto ribadito quanto già precisato dal giudice di legittimità con riferimento alla responsabilità da reato degli enti: trattasi di un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza (cfr. Sezioni Unite n. 38343/2014, Espenhahn e altri, cit., Rv. 261112).
Quanto ai criteri d'imputazione oggettiva della responsabilità dell'ente (l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 del d. lgs. 231 del 2001), oggetto specifico del presente scrutinio, essi sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (cfr. Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113).
Inoltre, per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell'ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (art. 25 septies del d.lgs. 231 del 2001), la giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità, affermando in via interpretativa che i criteri di imputazione oggettiva di che trattasi vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, coerentemente alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per rispondere a istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare e esito vantaggioso per l'ente (cfr., in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.).
Si è così salvaguardato il principio di colpevolezza, con la previsione della sanzione del soggetto meta-individuale che si è giovato della violazione.


4.2. La casistica ha offerto, poi, alla giurisprudenza di legittimità l'occasione per calibrare, di volta in volta, il significato dei due concetti alternativamente espressivi del criterio d'imputazione oggettiva di cui si discute: si è così affermato, per esempio, che esso può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale (sez. 4 n. 31210 del 2016, Merlino e altro; n. 43656 del 2019, Compagnia Progetti e Costruzioni); nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 18073 del 2015, Bartoloni ed altri); o, ancora, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale.

4.3. Nella specie, ritiene questa Corte che il ragionamento probatorio, desumibile dalla lettura della sentenza impugnata che ha concluso conformemente a quella appellata, sia del tutto coerente con la lettera della legge, innanzitutto, ma anche con una interpretazione di essa coerente con i principi che la ricorrente assume esser stati violati. Né si rinviene, nel ragionamento esplicativo pur stringato, un vizio motivazionale rilevante in questa sede. Il contenuto del ricorso, peraltro, offre l'occasione per ribadire quanto già affermato in un precedente di questa stessa sezione (cfr. sez. 4 n. 29584 del 22/9/2020, F.lli Cambria S.p.A., non ancora massimata) con riferimento ai i criteri di imputazione oggettiva della responsabilità dell'ente da reato colposo.

4.4. Il principio per il quale l'interesse o il vantaggio devono essere rapportati, per quanto riguarda i reati colposi, alla condotta dell'agente, anziché all'evento del reato, è il precipitato di quella che è subito apparsa la preoccupazione dell'interprete: scongiurare una lettura della norma di cui all'art. 25-septies cit. per la quale l'affermazione della responsabilità dell'ente consegue indefettibilmente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell'agente. Per questo, in alcune pronunce, si è cercato di rinvenire un criterio moderatore di tali conseguenze e si è ritenuto di rinvenirlo nel carattere sistematico della violazione.

4.5. A tale interpretazione sembra fare riferimento parte ricorrente, ma la lettura proposta non può essere recepita per più ordini di motivi, già esposti nel precedente sopra richiamato e in questa sede condiviso.
Innanzitutto, la sistematicità della violazione non rileva quale elemento della fattispecie tipica dell'illecito dell'ente: l'art. 25-septies cit. non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati.
Tale connotato, inoltre, non è imposto dalla necessità, sopra già tratteggiata, di rinvenire un collegamento tra l'azione umana e la responsabilità dell'ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza e consenta, quindi, di escludere correttamente dal novero delle condotte a tal fine rilevanti quelle sì sostenute da coscienza e volontà, ma non anche dall'elemento della "intenzionalità", come sopra definita.
Sul punto, pare utile un richiamo alla giurisprudenza di questa sezione, per precisare che l'interesse dell'ente < <ricorre quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell'evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un'utilità alla persona giuridica; ciò accade, per esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l'esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d'impresa: pur non volendo (quale opzione dolosa) il verificarsi dell'infortunio in danno del lavoratore, l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell'ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione)>> (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 31210 del 19/5/2016, Merlino).

4.6. Sotto altro profilo, va pure rilevato che, se il criterio di imputazione di cui si discute ha lo scopo di assicurare che l'ente non risponda in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica, assicurando che la persona fisica abbia agito nel suo interesse e non solo approfittando della posizione in esso ricoperta, è eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla

intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari.
Il carattere della sistematicità, peraltro, presenta in sé innegabili connotati di genericità: la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell'organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell'atteggiamento anti doveroso. D'altro canto, l'innegabile quoziente di genericità del concetto non consente neppure di stabilire, in termini sufficientemente precisi, quali comportamenti rilevino a tal fine (identici; analoghi; diversi, ma pur sempre consistenti in violazioni delle regole anti infortunistiche).

4.7. Tutto ciò, nel completo silenzio della legge sul punto e senza considerare che l'atteggiamento finalistico dell'agente fa parte della sua interna deliberazione e, come tale, esso va investigato, eventualmente anche alla stregua di una sistematicità dei comportamenti anti doverosi, che certamente sono espressivi di un modo di essere della organizzazione e che possono aver influenzato la determinazione del soggetto.
Il che riporta l'intero discorso sul piano prettamente probatorio, al quale tale connotato per l'appunto appartiene, quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, al tempo stesso scongiurando il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica.
Diversa è, infatti, la rilevanza di tale connotato in termini di elemento probatorio della esistenza di una direzione finalistica della condotta del reo: il vantaggio, come sopra già chiarito, è misurabile ex post e rileva ex se, laddove la prova dell'interesse, parametro eminentemente finalistico e da valutarsi ex ante, può certamente ricavarsi dalla dimostrata tendenza dell'ente alla trasgressione delle regole antinfortunistiche, finalizzata al contenimento dei costi di produzione o all'incremento dei profitti.


5. Nel caso all'esame, può dirsi accertato che la società distaccante aveva dotato il lavoratore di un presidio di prevenzione malfunzionante e, come evidenziato dai giudici del merito, quel presidio era essenziale per lo stesso svolgimento del lavoro da eseguirsi in distacco.
La condotta dell'agente si colloca all'interno del contesto lavorativo della società, nella fase della esecuzione di un contratto che non esonerava l'agente medesimo dal costante controllo della perdurante funzionalità di un così importante presidio di sicurezza.
Al di là di una certa approssimazione rinvenibile sulla qualificazione giuridica del presupposto oggettivo (a pag. 16 del documento impugnato si parla indistintamente di interesse e vantaggio, salvo poi ritenere più specificamente che il vantaggio era conseguito al risparmio sui costi), deve concludersi nel senso che la Corte territoriale ha esaminato il criterio di imputazione oggettivo previsto dall'art. 5 d.lgs 231 del 2001 e lo ha individuato proprio nel risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizione di un presidio atto al suo scopo e dalla omessa manutenzione o sostituzione di esso, elemento questo idoneo a ricollegare, con giudizio ex post, la condotta dell'A.M. all'ente ricorrente.

6. Segue, a norma dell'articolo 616 c.p.p., la condanna di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e, dei soli imputati, anche al pagamento della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero (cfr. C. cost. 186/2000).

 

P.Q.M.


Dichiara inammissibili i ricorsi di T.A. e T.G. e condanna detti ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Rigetta il ricorso della s.r.l. A.M. BIO STRUTTURE, che condanna al pagamento delle spese processuali.
Deciso il 17 novembre 2020