Categoria: Cassazione civile
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  • Malattia Professionale
  • Dispositivo di Protezione Individuale
  • Sostanza pericolosa

Con sentenza depositata il 29 novembre 2004, la Corte di appello di Torino ha rigettato l'impugnazione proposta da una s.p.a. avverso la pronuncia del Tribunale che l'aveva condannata al risarcimento del danno biologico subito dall'ex dipendente V.L., in conseguenza della malattia (carcinoma vescicale) ritenuta di eziologia professionale.
La Corte territoriale ha affermato il nesso causale fra l'attività lavorativa svolta dall'appellato e la indicata malattia, e quindi la responsabilità della società sia per non avere dotato i propri dipendenti dei necessari mezzi di protezione individuali sia per non avere predisposto adeguati mezzi di aspirazione delle polveri e di ventilazione dell'ambiente di lavoro.
 

Ricorre in Cassazione la società - Rigetto.

"Inammissibile è il profilo di censura svolto dalla società nell'ascrivere alla Corte territoriale di non avere specificato il grado di probabilità per un individuo di contrarre il tumore alla vescica in assenza dei fattori di rischio derivanti dal fumo e dall'attività lavorativa, rispetto ad altri soggetti, invece esposti ad uno o ad entrambi i rischi indicati.

Infatti, una volta accertato nella fattispecie in esame un così elevato grado di probabilità, tanto da avvicinarla alla certezza, del nesso causale sussistente fra esposizione a rischio professionale e malattia, è assolutamente privo di decisività l'ulteriore accertamento richiesto dalla società ricorrente in ordine al grado di probabilità per un individuo di contrarre il tumore alla vescica in assenza dei fattori di rischio derivanti dal fumo e dall'attività lavorativa, rispetto ad altri, invece esposti ad uno o ad entrambi i rischi indicati."

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCIARELLI Guglielmo - Presidente -
Dott. LAMORGESE Antonio - rel. Consigliere -
Dott. PICONE Pasquale - Consigliere -
Dott. STILE Paolo - Consigliere -
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PIRELLI PNEUMATICI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 47, presso lo studio dell'avvocato GEREMIA RINALDO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DE LUCA ANITA, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro V.L.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 1448/04 della Corte d'Appello di TORINO, depositata il 29/11/04 R.G.N. 1647/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/03/08 dal Consigliere Dott. Antonio LAMORGESE;
udito l'Avvocato GEREMIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza depositata il 29 novembre 2004, la Corte di appello di Torino ha rigettato l'impugnazione proposta dalla Pirelli Pneumatici s.p.a. (già Pirelli Coordinamento Pneumatici s.p.a.) avverso la pronuncia del Tribunale della stessa sede che l'aveva condannata al pagamento di Euro 76.744,21 a titolo di risarcimento del danno biologico subito dall'ex dipendente V.L., in conseguenza della malattia (carcinoma vescicale) ritenuta di eziologia professionale.
La Corte territoriale ha affermato il nesso causale fra l'attività lavorativa svolta dall'appellato e la indicata malattia, e quindi la responsabilità della società sia per non avere dotato i propri dipendenti dei necessari mezzi di protezione individuali idonei ad impedire l'esposizione per via inalatoria e cutanea delle sostanze cancerogene componenti delle miscele complesse utilizzate in azienda per la produzione degli pneumatici, sia per non avere predisposto adeguati mezzi di aspirazione delle polveri e di ventilazione dell'ambiente di lavoro.
La cassazione della sentenza è stata richiesta dalla società con ricorso basato su tre motivi, illustrati con memoria.
L'intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
 
Diritto

Il primo motivo di ricorso denuncia, unitamente a vizio di motivazione, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2087 c.c., artt. 40 e 41 c.p..
Deduce la contraddizione in cui è incorsa la sentenza impugnata nel ritenere, da un lato, l'origine multifattoriale del tumore alla vescica, ricollegabile oltre che agli accertati fattori di rischio, costituiti dal fumo di sigaretta e dall'esposizione lavorativa a sostanze cancerogene, anche a fattori ignoti, e nel negare, dall'altro lato, la rilevanza di questi ultimi, sostenendo che la possibilità di una spontanea insorgenza della malattia era da confinare al rango di mera congettura: al fine di escludere in modo corretto questa ipotesi, i consulenti di ufficio e il giudice che ne ha condiviso il parere, avrebbero dovuto, ad avviso della ricorrente, specificare il grado di probabilità che ha un individuo di contrarre la indicata patologia in assenza dei fattori di rischio derivanti dal fumo e dall'attività lavorativa, rispetto ad altri individui esposti ad uno o ad entrambi i rischi indicati.

Il motivo è infondato.
 
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, pure condivisa dalla società ricorrente (che cita Cass. 4 giugno 2002 n. 8108, Cass. 29 settembre 2000 n. 12909 ed altre precedenti), nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità tra attività lavorativa e la patologia denunciata dal lavoratore non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica prova, la quale deve essere valutata in termine di ragionevole concretezza, nel senso cioè che esclusa la rilevanza della mera possibilità di eziopatogenesi professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità (cfr. oltre a quelle innanzi citate, anche Cass. 24 marzo 2003 n. 4292, Cass. 12 maggio 2004 n. 9057, Cass. 21 giugno 2006 n. 14308).
A questi principi si è attenuta la Corte di merito, che proprio per verificare la sussistenza di una probabilità qualificata in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale, considerate le condizioni lavorative e le modalità di espletamento dell'attività con il quotidiano contatto del lavoratore per via cutanea con le sostanze cancerogene comportanti un rischio di cancro vescicole, e alla sua idoneità causale alla determinazione della malattia, ha disposto (v. pag. 12 della sentenza impugnata) una integrazione della indagine, demandando ai consulenti di ufficio "di quantificare il livello di probabilità e di chiarire se nel caso di specie sia ravvisabile un'alta probabilità (intesa come probabilità superiore al 75%), la probabilità (superiore al 50%) o la mera possibilità (inferiore al 50%)".
Il medesimo giudice ha poi sottolineato la conclusione del supplemento di indagine, con la quale i consulenti di ufficio avevano affermato che la valutazione di elevata probabilità del nesso concausale tra l'esposizione a rischio e il tumore alla vescica riscontrato al lavoratore "si avvicina(va) alla certezza".
Inoltre la Corte territoriale ha congruamente apprezzato, quali ulteriori elementi di riscontro della probabilità qualificata del rapporto causale fra attività lavorativa con esposizione a rischio di contrarre il tumore e la malattia, certamente idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale (v. in proposito la già citata Cass. 9057/04), i dati epidemiologici sui lavoratori impiegati nell'industria della gomma, della cui valutazione la società ricorrente si è doluta con il secondo mezzo di annullamento.
Inammissibile è il profilo di censura svolto dalla società nell'ascrivere alla Corte territoriale di non avere specificato il grado di probabilità per un individuo di contrarre il tumore alla vescica in assenza dei fattori di rischio derivanti dal fumo e dall'attività lavorativa, rispetto ad altri soggetti, invece esposti ad uno o ad entrambi i rischi indicati.
Infatti, una volta accertato nella fattispecie in esame un così elevato grado di probabilità, tanto da avvicinarla alla certezza, del nesso causale sussistente fra esposizione a rischio professionale e malattia, è assolutamente privo di decisività l'ulteriore accertamento richiesto dalla società ricorrente in ordine al grado di probabilità per un individuo di contrarre il tumore alla vescica in assenza dei fattori di rischio derivanti dal fumo e dall'attività lavorativa, rispetto ad altri, invece esposti ad uno o ad entrambi i rischi indicati.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione delle medesime norme di legge, in una con vizio di motivazione.
Addebita al giudice di merito di avere valorizzato i dati epidemiologici sui lavoratori impiegati nell'industria della gomma, senza considerare la loro inidoneità a fornire prova rigorosa e scientifica del nesso di causalità, tanto più che quei "dati deponevano per un'associazione assai debole, già di per sè priva di validità statistica, che perdeva ogni rilievo in presenza dell'accertata esistenza, nella fattispecie, di un fattore causale - il fumo di sigaretta - al quale gli studi biologici correlano, con ben maggiore forza, il possibile sviluppo della malattia da cui era affetto il V.".
Il giudice del gravame, inoltre, ha negato valore alle deposizioni dei testi circa l'esistenza di minime concentrazione di BNA nella PBNA utilizzata dall'azienda, che diventa sostanza cancerogena soltanto allorchè vi sia una elevata contaminazione con la prima, assumendo come dati di contaminazione quelli indicati dai consulenti di ufficio sulla base delle informazioni acquisite sulla concentrazione presente all'epoca nella PBNA utilizzata da altre aziende operanti nel settore. Critica ancora la sentenza impugnata per non avere considerato la modesta entità riferita dalla azienda in ordine alle esposizioni alle sostanze cancerogene.

Neanche queste censure possono essere accolte.
 
Relativamente ai dati epidemiologici, il giudice di merito li ha richiamati a riscontro dell'elevato grado di probabilità del nesso causale evidenziato dai consulenti di ufficio, e si tratta di un apprezzamento immune da vizi logici, in quanto basato su rilievi statistici.
E ad infirmare l'apprezzamento compiuto non può valere il richiamo all'altro fattore di rischio costituito dall'abitudine al fumo, dovendosi considerare che la conclusione dei consulenti di ufficio, espressamente condivisa dal giudice di merito, è di un nesso concausale.
Priva di fondamento è poi la deduzione con la quale la ricorrente sostiene che quei dati statistici perdono rilievo allorchè ricorra l'altro fattore costituito dal fumo della sigaretta, in quanto essa non è supportata da alcuna fonte scientifica, che la ricorrente avrebbe dovuto indicare ai fini della specificità della censura, diversamente questa rimanendo una critica generica, di dissenso rispetto al dato fondato su rilievi statistici.
D'altra parte, trattandosi di rapporto concausale, deve richiamarsi il principio di equivalenza stabilito dall'art. 41 c.p., in relazione al quale non ha rilievo un giudizio di maggiore efficienza causale di uno dei fattori concorrenti.
Inammissibile è la doglianza con la quale la società ha criticato la sentenza impugnata per avere negato valore alle deposizioni dei testimoni in ordine alla riferita circostanza di minime concentrazioni delle sostanze cancerogene utilizzate dall'azienda, non avendo la ricorrente adempiuto all'onere di trascrivere la risultanza che si assume valutata in modo inadeguato, così come richiede la giurisprudenza di questa Corte per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (v. fra le altre, Cass. 24 marzo 2006 n. 6679, Cass. 21 febbraio 2003 n. 15751).

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., e della normativa in materia di sicurezza sociale, tra cui in particolare del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 61 e 72, e dei D.Lgs. n. 256 del 1974, D.Lgs. n. 52 del 1997, e D.Lgs. n. 285 del 1998, nonchè degli artt. 2087 e 2697 c.c..
Addebita alla Corte di merito di non avere esaminato le eccezioni sollevate dalla società circa la valutazione effettuata dalla normativa indicata in rubrica, secondo cui non era da considerarsi oncogena la PBNA contenente contaminazioni di BNA inferiori a cento parti per milione.
 
Il motivo è inconferente.
 
A parte il riferimento della normativa, così come deduce la stessa ricorrente, alla etichettatura per imballaggi, la censura si basa su un presupposto, quello della esclusione della contaminazione delle sostanze oncogene indicate se inferiori ad una determinata percentuale, contraddetto dalla sentenza impugnata, la quale riporta l'accertamento compiuto dai consulenti di ufficio circa la utilizzazione, da parte della società nel processo di produzione delle gomme, delle medesime sostanze in misura notevolmente superiore (tra cinquanta e cento parti per milione prima del 1970, successivamente, nei primi anni settanta, tra dieci e venti parti per milioni, con punte fino a cinquanta parti per milione).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, senza che si debba provvedere sulle spese del presente giudizio, non avendo l'intimato svolto in questa fase alcuna attività difensiva.

P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2008