Cassazione Civile, Sez. 6, 15 aprile 2021, n. 9872 - Scala del Comune non dotata di tutti i presidi di sicurezza. Nessun risarcimento per la caduta






Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 26 gennaio – 15 aprile 2021, n. 9872
Presidente Amendola – Relatore Tatangelo

 

Fatto
 


P.A. ha agito in giudizio nei confronti del Comune di Tiriolo (CZ) per ottenere il risarcimento dei danni subiti cadendo su una scala del palazzo comunale.
La domanda è stata accolta dal Tribunale di Catanzaro.
La Corte di Appello di Catanzaro, in riforma della decisione di primo grado, la ha invece rigettata.
Ricorre la P. , sulla base di due motivi.
Resiste con controricorso il Comune di Tiriolo.
È stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato.
È stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

 

 

Diritto



1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia "Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
La ricorrente sostiene che la corte di appello, nel valutare la pericolosità della scalinata dove era avvenuto l’incidente, non avrebbe tenuto in adeguata considerazione che la stessa aveva gradini usurati, privi di nastri antisdrucciolo e mancanti da un lato del corrimano di appoggio.
Il motivo è inammissibile.
Come è noto "l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie" (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831 - 01; conf., ex multis: Sez. U, Sentenza n. 8054 del 07/04/2014, Rv. 629834 - 01; Sez. 6 - 3, Sentenza n. 25216 del 27/11/2014, Rv. 633425 01; Sez. 3, Sentenza n. 9253 del 11/04/2017, Rv. 643845 01; Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018, Rv. 651028 01).
Nella specie, non vi è dubbio che la corte di appello abbia preso espressamente in considerazione il "fatto storico rilevante in causa" e cioè le condizioni della scalinata, come risultante dalle testimonianze e soprattutto dalle stesse fotografie prodotte della ricorrente (v. pag. 6 e 7 della sentenza): valutando gli elementi istruttori disponibili (e, in particolare, tra l’altro, prendendo specificamente in esame proprio la condizione dei gradini nonché la presenza di corrimano solo da un lato) è giunta alla conclusione che detta scala non era connotata da una situazione di oggettivo pericolo in ragione delle sue caratteristiche, tale da rendere il danno molto probabile, se non inevitabile.
Si tratta di un apprezzamento di fatto sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.
Tale apprezzamento, peraltro, è stato effettuato dalla corte territoriale al solo scopo di rafforzare l’effettiva ratio decidendi della sua pronunzia, che è chiaramente espressa a pag. 5 del provvedimento e che consiste nel rilievo che l’attrice non aveva fornito adeguata prova del nesso eziologico tra la cosa nella custodia del comune convenuto e l’evento lesivo ("avendo sì provato di essere caduta sulla scala ma non a causa della stessa") e, in particolare, non aveva dimostrato la effettiva dinamica del sinistro, al quale nessuno dei testi escussi aveva assistito.
Le censure espresse nel motivo di ricorso in esame, in definitiva, per un verso non colgono adeguatamente l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, mentre per altro verso non integrano il parametro del vizio di legittimità previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Esse si risolvono inoltre, nella sostanza, nella contestazione di accertamenti di fatto operati dal giudice del merito e sostenuti da adeguata motivazione e nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove, il che non è consentito in sede di legittimità.
2. Con il secondo motivo si denunzia "Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione dell’art. 2051 c.c. e per violazione del D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503, art. 7 e del punto 4.1.10. del D.M. 14 giugno 1989, n. 236".
La ricorrente ribadisce il suo assunto per cui la scala su cui è caduta era "intrinsecamente ed oggettivamente insidiosa e pericolosa, perché non dotata dei requisiti minimi di sicurezza imposti anche dalla legge per la prevenzione di eventi dannosi" e sostiene che ciò costituirebbe la prova del nesso eziologico tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, "a nulla rilevando le precise dinamiche dell’evento".
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato.
In ordine alla pretesa pericolosità della scala, espressamente esclusa dalla corte di appello con apprezzamento di fatto non censurabile nella presente sede, nonché sulla sostanziale irrilevanza di tale pericolosità ai fini della decisione, si rinvia a quanto osservato in relazione al primo motivo del ricorso.
È comunque opportuno sottolineare che è manifestamente infondato, in diritto, l’assunto secondo il quale la eventuale circostanza che la scala non fosse dotata di alcuni dei requisiti di sicurezza imposti dalla vigente normativa possa essere da sola sufficiente per affermare che essa sia stata la causa della caduta della ricorrente e che, di conseguenza, non avrebbe alcun rilievo la effettiva dinamica dell’incidente, dal momento che il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. richiede sempre la dimostrazione (quanto meno in via presuntiva), da parte dell’attore danneggiato, che la cosa in custodia sia stata la causa dell’evento lesivo, sulla base della effettiva dinamica dell’incidente.
Nella specie la corte di appello, sulla base di una incensurabile valutazione delle prove, ha ritenuto non dimostrato il nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo.
A tal fine, dopo avere dato atto che non era stata in alcun modo documentata dall’attrice la effettiva dinamica dell’incidente ha, del tutto correttamente, effettuato anche una valutazione relativa alla pericolosità della cosa (con riguardo alle sue effettive condizioni e, quindi, anche ai requisiti di sicurezza) al fine di stabilire se ciò potesse fornire, almeno in via presuntiva, la prova del suddetto nesso causale (il che ha peraltro escluso, sulla base di un incensurabile accertamento di fatto, come si è già visto).
La decisione impugnata risulta, dunque, conforme in diritto ai principi in tema di responsabilità da cose in custodia costantemente affermati da questa Corte e recentemente ribaditi e precisati, secondo i quali:
a) il criterio di imputazione della responsabilità fondato sul rapporto di custodia di cui all’art. 2051 c.c. opera in termini rigorosamente oggettivi;
b) il danneggiato ha il solo onere di provare il nesso di causa tra la cosa in custodia (a prescindere dalla sua pericolosità o dalle sue caratteristiche intrinseche) ed il danno, mentre al custode spetta l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore che, in base ai principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il nesso eziologico tra cosa e danno, ed è comprensivo del fatto del terzo e della condotta incauta della vittima;
c) la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, e a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso (si vedano, in proposito: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 25856 del 2017; Sez. 3, Ordinanza n. 2478 del 01/02/2018; Sez. 3, Ordinanza n. 2480 del 01/02/2018, Sez. 3, Ordinanza n. 2482 del 01/02/2018; Sez. 3, Sentenza n. 8229 del 07/04/2010, Rv. 612442 - 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12027 del 16/05/2017, Rv. 644285 - 01; Sez. 3, Ordinanza n. 25856 del 2017).
3. Il ricorso è rigettato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

 

P.Q.M.
 


La Corte:
- rigetta il ricorso;
- condanna la ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore dell’ente controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.