Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 aprile 2021, n. 11113 - Risarcimento danni alla lavoratrice madre maltrattata da una collega: responsabile anche l'azienda che non l'ha tutelata



Presidente Berrino – Relatore De Marinis

 

Rilevato

che, con sentenza del 2 luglio 2015, la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Firenze, accoglieva la domanda proposta da D.P.E. nei confronti di N.G.M. S.r.l. e P.T. , accertava i fatti di discriminazione di genere come descritti in motivazione D.Lgs. n. 198 del 2006, ex art. 38, commessi in danno di D.P.E. nel (omissis) e condannava in solido la Società e la P. al risarcimento del danno in favore della predetta liquidato in Euro 10.000,00 oltre interessi legali fino al saldo;
che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto qualificabili come atti discriminatori per ragioni di genere, come tali illegittimi ai sensi del D.Lgs. n. 138, art. 38 e idonei a fondare la pretesa risarcitoria a quella stregua azionata dalla D.P. ;
che per la cassazione di tale decisione ricorre la Società, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la D.P. mentre la P. è rimasta intimata.

 

Considerato

che, con il primo motivo, la Società ricorrente, nel denunciare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e la nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 111 Cost. e art. 156 c.p.c., imputa alla Corte territoriale di essersi valsa della qualificazione della P. come diretta superiore gerarchica della D.P. , dato che assume smentito in sede istruttoria, per ivi essere risultato provato che quel ruolo era proprio di altra dipendente, certa G.L.C. e, comunque, essere stato sostenuto in sentenza con motivazione meramente apparente, per qualificare come trattamento discriminatorio addebitabile al datore un episodico diverbio tra colleghe;
che, con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, commi 1 e 2 bis e art. 40 e la nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 111 Cost. e art. 156 c.p.c., la Società ricorrente lamenta la non conformità a diritto della ritenuta riconducibilità dei comportamenti dedotti alla disciplina antidiscriminatoria, non trovando riscontro tale qualificazione nella condotta a riguardo tenuta dalla Società stessa;
che nel terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2049 e 2087 c.c. e la nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., art. 111 Cost. e art. 156 c.p.c., è prospettata in relazione alla non conformità a diritto e comunque all’omessa motivazione circa l’affermata responsabilità, alla stregua delle norme invocate, del soggetto datore rispetto ai comportamenti tenuti dalla dipendente P. da qualificarsi istantanei e non preventivabili così da escludere la ravvisabilità di una colpa per la mancata prevenzione;
che tutti gli esposti motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati, sottraendosi alle censure qui sollevate con riguardo sia alla violazione di legge sia al difetto di motivazione, per risultare l’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale assolutamente corretto sul piano logico e giuridico, scaturendo il convincimento circa la riferibilità al soggetto datore della responsabilità per la condotta tenuta dalla P. nei confronti della D.P. dalla ineccepibile valutazione del ruolo della P. in seno all’organizzazione aziendale quale soggetto che, a prescindere dalla formale collocazione gerarchica, era autorizzata ad esprimere per conto della Società datrice posizioni in ordine al rientro della D.P. dalla maternità, del tenore palesemente discriminatorio, al di là del disprezzo personale e del linguaggio da trivio con cui erano espresse, delle posizioni assunte, del riflettere le stesse un atteggiamento di avversione verso opzioni esistenziali alternative e, di contro, di avvertita opportunità di indurre, anche con toni intimidatori, l’interessata a desistere dal proseguire nell’impegno lavorativo, atteggiamento alla cui assunzione la P. evidentemente si sentiva autorizzata o del quale poteva essere addirittura investita, ove fosse stato affidato a lei il compito di sospingere verso una decisione "spontanea" che la Società non avrebbe potuto unilateralmente assumere, della conseguente sussistenza di un clima aziendale a ciò favorevole, del mancato intervento in prevenzione della Società datrice su tale clima cui si correlano i c.d. episodi "istantanei" e così della riferibilità ad essa del pregiudizio morale subito dalla D.P. per effetto dei colloqui "persuasivi" della P. e dell’obbligo solidale di risarcire il danno a carico della stessa accertato;
che il ricorso va dunque rigettato;
che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.