Cassazione Penale, Sez. 4, 08 giugno 2021, n. 22262 - Responsabilità del direttore tecnico di cantiere e procuratore con delega per il cedimento di una lastra di eternit in assenza di ancoraggio. Preposto negligente: obbligo di controllo e di sostituzione


 

 

Presidente: DI SALVO EMANUELE
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 11/05/2021
 

 

Fatto


1. Il Tribunale di Brescia in data 18/1/2018, dichiarava B.H. responsabile del reato di cui agli artt, 113 e 589, comma I e Il c.p., commesso in Torbole Casaglia (BS) il 26.08.2012, e, riconosciutegli le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di anni uno e mesi sei di reclusione, nonché al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, con assegnazioni di provvisionali.
B.H. era stato processato, in uno con P.G., P.D., R.A. e V.G. (oltre che con B.A. per il quale si era proceduto separatamente), quale Direttore tecnico del cantiere e procuratore con delega per la sicurezza sul lavoro della società Mo.Ca.M. s.r.l. di Bienno nel corso dei lavori di progettazione e bonifica di complessivi 9. 700 mq di copertura in lamiere ed eternit, da eseguirsi nello stabilimento industriale della società "Fonderia di Torbole S.p.a" sito in Torbole Casaglia (BS), via Travagliato 18, lavori commissionati dalla fonderia all'impresa affidataria PROMOVAS srl, che a sua volta sub-appaltava gli stessi all'impresa MO.CA.M. srI. (Promovas e Mo.Ca.M. poi costituitesi in un Associazione Temporanea d'Imprese) per colpa cagionavano la morte di M.L., operaio dipendente della società MO.CA.M, il quale, mentre operava a circa 8-10 mt di altezza sulla copertura industriale il rifacimento, privo di cintura di sicurezza ed in assenza di presidi anticaduta collettivi precipitava nel vuoto sino a terra, a causa del cedimento di una lastra di eternit, e decedeva nell'immediatezza per la gravità delle lesioni riportate (lesioni cranio­ meningo-encefaliche plurime fratture costali bilaterali, lesioni toraciche ed addominali).
Colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia nonché nell'inosservanza di norme preposte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed in particolare.
TUTTI:
gestivano con negligenza, imprudenza ed imperizia il cantiere per tutti gli aspetti connessi alla sicurezza dei lavoratori, trascurando in particolare il pericolo più rilevante di caduta dall'alto e pur ricevendo, per ciò, ripetuti richiami, verbalizzazioni nonché un fermo lavori dall'organo di vigilanza ASL, reiteravano le condotte sino all'evento mortale di seguito descritto (in violazione degli artt. 92. 95.96 e 97 T.U. 81/2008);
B.H. (oltre che P.G. e P.D.) consentivano, o comunque non impedivano, che i lavoratori M.L., Q. e M., operassero sulla copertura sistematicamente privi di cintura di sicurezza assicurata alla linea vita, pur essendo presenti ampie zone già prive di copertura, nonchè lastre in eternit non pedonabili, con conseguente esposizione al rischio di caduta nel vuoto (in violazione degli artt. 115e 148 T. U. 81/2008); per accelerare le operazioni di rifacimento del manto nell'area fusione, stante la prossimità del termine di consegna, disponevano o comunque consentivano che fossero contemporaneamente rimosse, e lasciate scoperte, ampie zone di copertura, contravvenendo alle procedure di lavoro impartite dal CSE in data 08/08/2012 (ad integrazione del Piano di Sicurezza e Coordinamento), procedure in cui si disponeva che alla rimozione della copertura da bonificare seguisse, immediatamente e progressivamente, l'apposizione delle nuove lastre ed il rispetto di una precisa sequenza operativa, ciò al fine di ridurre il più possibile le zone prive di copertura (in violazione dell'art. 146 T.U. 81/08);
- omettevano di predisporre o comunque di pretendere l'utilizzo di presidianti caduta collettivi quali piattaforme aeree, sotto-coperture, reti anticaduta, tavole sopra le orditure, atte ad impedire lo sfondamento delle lastre sotto il peso degli operai o a contenere il tratto di caduta (in violazione degli artt. 111 co. 1 lett. a) e 148 CO. 1 e 2 T.U. 81/08);
- non verificavano che sulla linea vita installata sulla sommità della copertura risultassero approntati un numero dispositivi retrattili pari ai, lavoratori in quota (presenti due dispositivi a fronte di tre lavoratori) e non si assicuravano che tale dispositivo anti caduta venisse costantemente mantenuto in efficienza (in violazione dell'art. 115 comma 1 T.U. 81/2008);
- omettevano di organizzare i lavori in modo da assicurare ordine nell'area di lavoro in quanto la copertura e le relative gronde, utilizzate quali camminamenti, erano ingombri di materiali e di demolizione e di strumenti di lavoro, rendendo difficoltoso e pericoloso il movimento degli operai (in violazione degli artt. 95 comma I lett. a) e), 96 co. 1 lett. e) f) 108 in relazione ai punti 1.5 allegato XVIII T.U. 81/2008);
- consentivano che il giorno dell'infortunio venisse comunque eseguita l'attività di rimozione del manto di copertura senza la presenza, obbligatoria, del coordinatore per gli interventi di bonifica e smaltimento dell'amianto, soggetto atto a pretendere il rispetto delle corrette procedure di lavoro, nonché l'uso e l'ancoraggio costante delle cinture di sicurezza (in violazione dell'art. 18 comma 1 lett. f) in relazione all'art. 19 co. 1 lett. a) T.U. 81/2008).
La Corte d'Appello di Brescia, con sentenza del 29/5/2019, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ritenute le già concesse circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, riduceva la pena ad anni uno di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata e revocando le statuizioni civili, stante l'avvenuta revoca della costituzione delle stesse a seguito dell'integrale risarcimento del danno degli eredi.

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, B.H., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con un primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità.
Il ricorrente rileva che l'unica condotta omissiva addebitata, tra le tante contestate al datore di lavoro, è stata quella relativa alla mancata predisposizione di un numero di dispositivi di sicurezza sulla linea vita pari al numero di lavoratori impiegati in quota. Ciò in quanto nel giorno dell'incidente vi erano tre lavoratori in quota, mentre i dispositivi retrattili di sicurezza erano solo due.
Viene riportato il testo della motivazione impugnata per evidenziare che la stessa, dopo aver attribuito al B.H. la responsabilità di aver omesso il controllo sull'effettivo aggancio dei lavoratori, gli contesta la mancata predisposizione di un numero adeguato di agganci, riconoscendo però che nessuno dei lavoratori era agganciato alla linea vita.
Pertanto, ritiene il ricorrente che il mancato ancoraggio dipese non dall'insufficienza degli stopper, ma da un'imprudenza del lavoratore. Inoltre l'affermazione contenuta nell'impugnata sentenza che il M.L. avrebbe potuto agganciarsi ad un arrotolatore della linea vita, essendo gli stessi tutti inutilizzati, sarebbe contraddittoria rispetto al ritenuto nesso di causa tra l'omessa predisposizione di tre stop­ per e l'evento.
Si aggiunge che la sentenza impugnata riconosce che i due dispositivi retrattili applicati alla linea vita erano funzionanti e che al momento dell'incidente nessuno dei tre lavoratori presenti in quota era ancorato. Pertanto non può ritenersi -secondo la tesi proposta in ricorso- che l'infortunio si sia verificato perché il datore di lavoro non aveva predisposto un numero sufficiente di presidi in quota e la condotta omissiva contesta non può ritenersi in nesso di causa con l'evento mortale. L'evento si è verificato per il mancato ancoraggio del lavoratore e si sarebbe verificato anche se i presidi fossero stati tre. Si ritiene ragionevole, infatti, che se il lavoratore non si fosse agganciato a nessuno dei due stopper liberi, non si sarebbe agganciato nemmeno al terzo ove esistente.
Inoltre, il ricorrente sostiene che il mancato ancoraggio, unico antecedente causale rispetto all'infortunio, e il mancato controllo delle cinture di sicurezza, sono addebitabili unicamente al preposto di cantiere, presente al momento dell'infortunio, delegato a sovrintendere ai lavori e alla sicurezza, nonché al corretto utilizzo dei dispositivi di protezione.
Con un secondo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'obbligo di controllo sulla presenza di un numero di stopper pari ai lavoratori in quota e sul costante impiego da parte dei lavoratori delle cinture di sicurezza nonostante la nomina di un preposto, nonché violazione di legge e travisamento dei fatti in relazione alla riconducibilità degli obblighi di controllo nella responsabilità del datore di lavoro.
Si contesta la riconducibilità della verifica sulla corrispondenza tra il numero di lavoratori impiegati e il numero di stopper agganciati alla linea vita alla responsabilità del datore di lavoro e la qualificabilità di tale violazione come mancata predisposizione delle misure necessarie alla sicurezza del cantiere.
Il ricorrente ritiene che la Corte distrettuale abbia erroneamente ritenuto gli stopper come dispositivi fissi da predisporre prima delle lavorazioni, mentre, in realtà, essi sono dispositivi mobili, a disposizione dei lavoratori nel cantiere, che vanno utilizzati agganciandoli, di volta in volta, alla zona della linea vita dove si lavora. E che il compito di verificarne la disponibilità in cantiere e il corretto utilizzo spetti al preposto nominato e presente in cantiere, al pari di ciò che avviene per le cinture di sicurezza.
Il ricorrente dichiara di non contestare la qualifica di datore di lavoro del B.H., in virtù della procura generale conferitagli dall'amministratore unico della MO.CA.M S.r.l., con cui gli veniva attribuita la responsabilità dell'organizzazione con poteri decisionali e di spesa, ma ritiene che il controllo sul corretto utilizzo dei dispositivi di protezione individuali e la verifica dell'aggancio di un numero di stopper pari al numero di lavoratori impiegati in quota fosse onere del preposto e non del datore di lavoro. Del resto - si evidenzia ancora in ricorso- dai verbali di ispezione dell'ASL, citati nell'impugnata sentenza, emerge la presenza in cantiere sia del B.H. che del preposto nominato R., e si dà atto sia che i lavoratori erano sempre stati trovati correttamente agganciati sia che erano stati corretta­ mente formati e informati sulla necessità e corretto utilizzo delle cinture con ancoraggio alla linea vita.
Si evidenzia che nel cantiere vi erano i dispositivi necessari per tutti i lavoratori.
Si richiamano, inoltre, numerosi precedenti di questa Corte di legittimità sugli obblighi del preposto e sulla facoltà del datore di lavoro di assolvere il proprio obbligo di vigilanza, predisponendo soggetti a ciò deputati.
Si sottolinea, quindi, che l'incidente dipese da una non corretta esecuzione di una prestazione lavorativa e non da errate scelte gestionali. La caduta del lavoratore, in altri termini, sarebbe avvenuta perché lo stesso non si era ancorato alla linea vita, pur potendolo fare e non perché il datore di lavoro consentisse le lavorazioni senza predisporre i necessari presidi antinfortunistici.
Con un terzo motivo si deduce vizio di motivazione in relazione alla misura della pena irrogata, in particolare quanto alla mancata indicazione della pena base e della riduzione per il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sull'aggravante contestata con violazione dell'art. 133 cod. pen.
Ci si duole per l'omessa indicazione della pena base determinata e della sua non congruità rispetto ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., e specificamente che non è stata chiarita la misura della riduzione operata per la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, nonostante la proposizione di specifico motivo di impugnazione sul punto. Ciò avrebbe impedito qualsiasi verifica sulla congruità della pena.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

3. Nei termini di legge hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020), il P.G., che ha chiesto il rigetto del ricorso e il Difensore Avv. Piergiorgio Vittorini, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
 

Diritto


1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.

2. Ed invero, la Corte bresciana ha correttamente ritenuto la responsabilità del B.H. in qualità di datore di lavoro, in virtù della procura generale conferitagli dall'amministratore unico della MO.CA.M S.r.l., con cui gli veniva attribuita la responsabilità dell'organizzazione con poteri decisionali e di spesa, qualifica peraltro che il ricorrente non contesta.
Con motivazione logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune dai denunciati vizi di legittimità- i giudici del gravame di merito rilevano che l'odierno ricorrente aveva l'obbligo non solo di assicurarsi che fossero predisposti un numero adeguato di stopper per il numero di lavoratori in quota, ma anche di accertarsi che i lavori si svolgessero rispettando le misura di sicurezza e che il preposto svolgesse correttamente il suo incarico di controllo in materia di sicurezza.
E' emerso, invece, dal dibattimento - e di ciò dà conto congruamente la sentenza impugnata- che molte mancanze si sono verificate nel cantiere in tema di sicurezza, alcune di esse proprio relativamente ai lavori in quota, tanto è vero che in un'occasione veniva disposta dall'ASL anche la sospensione dei lavori.
In relazione al motivo di ricorso relativo alla quantificazione della pena, il primo giudice motiva sul discostamento dal minimo edittale per la gravità delle violazioni. In sede di appello era stata lamentata solo l'eccessività della pena.

3. Quanto ai fatti per cui è processo, per quanto rileva in questa sede, emerge dalle sentenze di merito che la morte di M.L., dipendente della società MO.CA.M srl, avvenne il 26 agosto 2012, mentre lo stesso si trovava al lavoro in un cantiere presso la Fonderia di Torbole s.p.a. di Torbole Casaglia (BS).
Quel giorno, nel primo pomeriggio, M.L., Q. e M. si trovavano, ad una altezza di circa otto metri, sul tetto del capannone del reparto fusione della fonderia, impegnati a rimuovere la vecchia copertura - formata, tra l'altro, di lastre in eternit - per sostituirla con una nuova, che stavano realizzando utilizzando lastre grecate sorrette da profili metallici detti "omega".
Ad un certo punto - verosimilmente mentre si stava spostando dal settore ancora da sistemare, in cui si trovavano i colleghi, a quello già realizzato - il M.L. piombava al suolo, non è chiaro se per il cedimento di una lastra di amianto sotto il suo peso o perché scivolava accidentalmente nella grossa apertura - lunga almeno due capriate, quindi all'incirca otto metri - fra la "vecchia" e la "nuova" porzione di tetto: uno spazio in cui vi erano soltanto i sottili omega già posati, non ancora coperti dai nuovi lastroni. Precipitando, il lavoratore riportava le gravissime lesioni descritte nel capo di imputazione, che lo portavano pressoché immediatamente al decesso (le sentenze richiamano le dichiarazioni sul punto di Q. e M.,le consulenze tecniche del PM e della difesa, il referto autoptico e le fotografie in atti).
È assolutamente pacifico che il M.L., al momento dell'incidente, non fosse in alcun modo ancorato.
Nonostante sul tetto vi fosse una linea vita munita di due arrotolatori e che risultassero a disposizione imbracature per assicurarsi alla stessa, il M.L. non era legato, e proprio questa condizione rendeva possibile la tragica caduta. Sentiti a s.i.t. dagli u.p.g. dell'ASL immediatamente intervenuta dopo i fatti (prod. 45, 46 PM), i due colleghi del M.L. rendevano dichiarazioni sostanzialmente coincidenti, ossia che la vittima, regolarmente agganciata alla linea vita, stava sistemando il canale di gronda, quando, per estrarre un chiodo che faticava a rimuovere, decideva di procurarsi un martello. Così, si spostava dal settore di nuova costruzione, su cui si trovava, al vecchio tetto, dove c'era il martello, transitando proprio sopra il canale di gronda, largo qualche decina di centimetri, che costeggiava l'apertura già descritta e sulla quale non si poteva transitare, a causa del ridotto spessore degli omega. Ad un certo punto, poiché la fune che lo teneva ancorato intralciava i suoi movimenti, impedendogli di raggiungere lo strumento, sganciava momentaneamente il moschettone dall'imbragatura; quindi, recuperato il martello, si apprestava a tornare indietro, evidentemente omettendo di riallacciarsi, posto che, qualche istante dopo, i due sentivano un forte rumore e si accorgevano che il loro compagno di lavoro era piombato al suolo. Correvano quindi al piano terra, per soccorrerlo, dove trovavano il collega J.A. che lo aveva già spogliato del dispositivo di sicurezza per praticargli il massaggio cardiaco.
Ebbene, già il giudice di primo grado, con una motivazione priva di aporie logiche, ha ritenuto che tale ricostruzione fosse falsa, per due ordini di ragioni.
La prima è che vi è in atti un filmato (prod. 39 PM) registrato pochi giorni dopo il sinistro dall'u.p.g. Brunelli, con l'aiuto dello stesso M. e di un altro dipendente della MO.CA.M., M.P., al fine di testare la funzionalità degli arrotolatori cui avrebbe dovuto agganciarsi il M.L.. Ebbene, dalle immagini si vede chiaramente come gli stessi scorressero senza impedimenti lungo tutta la lunghezza della linea vita, e quindi del tetto, dalla parte vecchia alla parte nuova; e come l'estensione della fune permettesse di raggiungere ogni punto della superficie della copertura. Se è così, non si vede allora davvero quale "difficoltà" o "impaccio" avrebbe dovuto percepire la vittima, tale da imporgli di sganciare momentaneamente il cordino di sicurezza; ed infatti, la tesi del martello difficile da recuperare è stata abbandonata, in sede di esame in udienza, sia dal Q. che dal M., i quali hanno semplicemente dichiarato di non sapersi spiegare la ragione dell'asserito improvviso comportamento del collega.
Vi è poi la questione dell'imbragatura. Nelle fotografie scattate alla vittima dopo la morte, la stessa appare supina, con una grossa pozza di sangue che si allarga dalla testa alla schiena; il busto, annerito dalla polvere, è nudo. Sempre dalle stesse immagini, a qualche metro di distanza dal corpo, si vede l'imbragatura. L'imbragatura in questione è stata esaminata dal giudice di primo grado in udienza, nel contraddittorio fra le parti. E si è potuto constatare che la stessa non presentava soluzioni di continuità, ossia che non era stata recisa, e che non era macchiata di sangue; come il corpo del lavoratore, era copiosamente sporca di fuliggine nera.
La Corte territoriale ha analizzato le dichiarazioni rese da altro collega della vittima, J.A. che, immediatamente, le prestò disperato soccorso e ha ritenuto con motivazione del tutto logica che le sue dichiarazioni dovessero ritenersi attendibili, non solo perché coerenti sia in sede di indagini difensive che in udienza ma perché riscontrate dagli esiti della relazione di Pronto Soccorso e della perizia autoptica.
Successivamente la Corte ha evidenziato come dalla ricostruzione della dinamica dell'infortunio emerga senza margini di dubbio che la causa principale del tragico incidente fu il mancato ancoraggio della persona offesa alla linea vita.
I giudici del merito hanno quindi ritenuto di convalidare quanto sostenuto dall'accusa, e cioè che il M.L. non portasse affatto l'imbragatura al momento della caduta - e che quindi non si fosse slacciato in maniera occasionale ed estemporanea soltanto qualche istante prima, ma che stesse lavorando senza sicurezza, quantomeno dall'inizio del turno. Si è affermato che il dispositivo, se indossato al momento dello schianto a terra, si sarebbe inevitabilmente imbrattato di sangue e che i colleghi, per toglierlo velocemente dal corpo del lavoratore e prestargli le prime, urgenti, cure, non avrebbero potuto che tagliarlo, risultando altrimenti la­ boriose e complicate le operazioni di sganciamento di cinghie e moschettoni.

4. La Corte lombarda, in punto di nesso eziologico, evidenzia logicamente come, ove l'ancoraggio fosse stato messo in atto, l'evento non si sarebbe verificato con quell'esito mortale. Anche perché gli stessi giudici del gravame del merito danno atto di avere verificato, sulla base delle evidenze probatorie in atti, che le linee vita e gli arrotolatori erano stati puntualmente collaudati e che il loro uso avrebbe salvato la persona offesa.
Contestualmente la Corte ha accertato che ruolo decisivo ha avuto la scorretta applicazione della procedura stabilita dal coordinatore per la sicurezza in sede di esecuzione - il geom. B.A. - e la concreta condizione del canale di gronda, tutte lacune dettagliatamente ricostruite dalla Corte alle pagine 11 e 12 della sentenza impugnata e come le omissioni, la presenza di aree di lavoro senza protezione verso il vuoto, l'assenza di assi di camminamento sulla copertura costringessero gli operai a lavorare sullo stretto canale di gronda, sicché se ne è concluso che tale situazione abbai reso più difficoltosi i movimenti della vittima facilitando la caduta .
In relazione al primo motivo di ricorso, la sua infondatezza si rende evidente dal fatto che, come ricordano i giudici di merito, e come viene analiticamente ricostruito a pag. 24 del provvedimento impugnato, nel cantiere teatro dell'infortunio, in accordo con gli ispettore dell'ASL , si era deciso di non predisporre le reti salvavita, in quanto, in ragione degli ostacoli connessi alla logistica di quella parte di cantiere, un posizionamento di reti non uniforme avrebbe rappresentato esso stesso pericolo maggiore.
Ebbene, l'omessa predisposizione delle reti anticaduta rendeva ancora più necessario l'utilizzo effettivo dei dispositivi individuali di protezione, ovvero il costante agganciamento alla linea vita di tutti i lavoratori che operavano sul tetto, ove si stavano sostituendo le lamiere di amianto, creando ampi spazi di apertura sul tetto, cosicché l'agganciamento alla linea vita di tutti i lavoratori correttamente imbragati, sempre di massima importanza in quota, assurgeva nel caso di specie a unica misura di sicurezza e garanzia e dunque presidio il cui corretto utilizzo era irrinunziabile.
Il giudice del gravame del merito evidenzia come non agganciarsi alla linea vita, in quale contesto, significava "morte" poiché, in caso di caduta, il lavoratore avrebbe fatto un volo di 8-10 metri. Sicché tutti i lavoratori dovevano essere adeguatamente istruiti e ammoniti sull'assoluta esigenza di conformarsi all'utilizzo corretto dei presidi di garanzia.

5. Secondo la logica motivazione del provvedimento impugnato non può dubitarsi che il controllo sulla formazione e sul corretto utilizzo dei presidi di garanzia facesse capo al preposto A.R. ma anche all'imputato B.H. quale procuratore in forza di procura notarile conferita dall'amministratore unico di MO.CAM, srl, P.G. con la quale si attribuivano al ricorrente ampi poteri decisionali, autonomia di spesa anche in materia di prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro, ruolo di organizzazione, direzione e vigilanza sui lavori di cantiere, ruolo effettivamente svolto dall'imputato come rilevato dal primo giudice e riconosciuto dal medesimo nel corso dell'esame all'udienza del 19/7/2017, profilo non contestato dall'odierno ricorrente.
Del tutto irrilevante viene correttamente considerato il dato contingente dell'assenza del ricorrente dal cantiere nel giorno dell'incidente poiché la Corte lombarda evidenzia come, fin dal mese precedente, il cantiere avesse evidenziato gravi criticità sotto il profilo della sicurezza, in relazione alla tipologia delle opere da realizzare e in relazione alla concreta conduzione, In particolare: 1. mancavano i parapetti nelle aree di lavoro prospicienti il vuoto; 2. il 2 agosto l'ASL raccomandava il miglioramento dei camminamenti sulla copertura, dell'organizzazione di lavoro, dell'ordine di cantiere, il corretto posizionamento dei materiali recuperati.
Inoltre, si censurava il mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, il mal posizionamento degli arrotolatori, la mancanza di protezione verso il vuoto in lacune aree di lavoro, l'assenza di assi di camminamento sulla copertura, procedure di lavoro difformi da quanto previsto dal PSC e dal POS, situazione tanto allarmante da imporre la sospensione dei lavori sino al giorno successivo quando veniva disposte nuove istruzioni vincolanti da seguire per i lavori di rifacimento della copertura, l'utilizzo della linea vita , l'uso dei tavoloni per ridurre l'ampiezza delle aperture sul vuoto, oltre ad altre censure su altri ambienti del cantiere. Si tratta, evidenzia la Corte territoriale, di violazioni che attestano assenza di attenzione alla sicurezza sul lavoro e alla salute dei lavoratori da parte del ricor­ rente e di R., il primo responsabile dell'organizzazione produttiva, il secondo incaricato di sovraintendere le attività e garantire le direttive datoriali , controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori, attività sulla cui correttezza il ricorrente aveva l'obbligo di vigilare.
La Corte bresciana ha anche rilevato come fosse ascrivibile al ricorrente la scelta di collocare due stopper sulla linea vita e non tre, come sovente fossero i lavoratori, e come erano il giorno dell'incidente, e come la dotazione di stopper inferiore al numero di lavoratori solitamente addetti incentivasse la necessità di sganciarsi continuamente per alternarsi nell'uso dei soli due stopper. E infatti, il 26 agosto 2012, nessuno dei tre operai era assicurato alle linee vita e- come scrive la Corte - è altamente verosimile che detta condizione fosse abituale.
Al riguardo Q. e M. hanno ammesso il mancato utilizzo dei DPI prescritti e che l'azienda chiudeva un occhio e non faceva rapporto. E ancora: il giorno dell'incidente M. lavorava sul tetto senza imbragatura allacciata, anche in presenza di R.; la procedura poco prima dell'incidente era cambiata e sarebbe stato necessario vigilare affinché fosse effettivamente rispettata.
M.L., la vittima, era arrivato sul cantiere appena due giorni sicché con ogni probabilità non era stato reso edotto delle specifiche disposizioni dettate.
La Corte ha evidenziato che, nonostante l'intervento dell'ASL, il 2 agosto, il cantiere presentava numerose criticità proprio nell'area di lavoro della vittima, e dunque il ricorrente, prima di andare in ferie, avrebbe dovuto impartire disposizioni precise e cogenti per adeguarsi alle indicazioni dell'ASL e per vigilare sulla effettiva applicazione dei dettami di sicurezza e, soprattutto, nominare un sostituto che controllasse vigilasse in sua assenza, così come avrebbe dovuto sostituire il preposto R. che aveva dato prova di sicura negligenza nell'esecuzione dei compiti a lui affidati come sovente.
Ciò è reso evidente dal fatto che il giorno dell'incidente M. lavorava con l'imbragatura non allacciata in presenza del preposto alla sicurezza R.; R. non esercitava il doveroso controllo sull'osservanza da parte degli operai delle più importanti prescrizioni di sicurezza per il lavoro in quota , né con riguardo al costante corretto agganciamento alle linee vita né al corretto posizionamento delle assi lignee traverse negli spazi del tetto via via scoperti come accertato dal sopralluogo dell'ASL del giorno 8 agosto, e come attestato da quanto occorso il giorno dell'infortunio.
Allo stesso tempo il ricorrente non ha esercitato il dovuto controllo sul rispetto delle prescrizioni di sicurezza per il lavoro in quota né ha esercitato vigilanza e controllo sul preposto da lui stesso nominato, R., e ha omesso di controllare la effettiva predisposizione di adeguati mezzi di protezione per i lavori in quota, in tal senso non essendovi dubbio che, nell'area ove lavorava la vittima, e dove erano abitualmente presenti tre operai, c'erano solo due arrotolatori o stopper, ai quali i lavoratori avrebbero dovuto essere costantemente agganciati , dato che risulta dalle fotografie e da quanto riferito degli operatori dell'ASL quel giorno. Le adombrate modalità alternative che prescindessero dall'aggancio allo stopper non garantivano in alcun modo, infatti, la sicurezza richiesta. Detta grave carenza risulta essere nota all'azienda con riferimento al contenuto dei verbali di sopralluogo per la sicurezza nn. 11 e 12 , presente proprio il ricorrente. Allo stesso modo da nulla risulta che in altri giorni, in quell'area di cantiere fossero presenti tre stopper sicché non può ritenersi la circostanza un fatto episodico. La fonoregistrazione del 19 luglio 2017 attesta come il ricorrente avesse sottovalutato, se non ignorato, il grave stato di pericolo in cui operava il suo cantiere.

6. In definitiva, il giudice del gravame del merito ha puntualmente e logicamente evidenziato le inottemperanze dell'azienda sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, e come, in particolare, proprio l'avere tralasciato precedenti, certe inosservanze delle cogenti procedure di utilizzo dei dispositivi individuali di sicurezza da parte dei lavoratori, l'omessa formalizzazione delle infrazione, da parte del preposto alla sicurezza R., l'avere il ricorrente, titolare della posizione di controllo verso il preposto da lui stesso nominato, omesso di sostituire un preposto tanto negligente in uno con l'omessa verifica, da parte sulla effettiva predisposizione di parti essenziali per il corretto e costante utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, unico presidio salva vita per quei lavori in quota, hanno indotto i lavoratori a sottovalutare e a trascurare l'assoluta necessità di essere sempre e costantemente agganciati alla linea vita. E, in ogni caso, se il preposto R. e il datore di lavoro odierno ricorrente, entrambi, per i propri compiti, titolari della posizione di controllo e garanzia sull'attività degli operai, avessero verificato l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, controllato il rispetto delle procedure di sicurezza, elevando le necessarie contestazioni fin dalle prime omissioni, se avessero curato che la vittima, giunta in cantiere due giorni prima dell'incidente, fosse stato formato e aggiornato sulle nuove procedure di sicurezza, se avessero dotato le linee vita di tutte le strumentazioni necessarie, l'antecedente fattuale che ha innescato la sequenza causale dell'incidente mortale non si sarebbe verificato, e l'evento non si sarebbe verificato nei gravi termini constatati.
Si tratta, soprattutto con riguardo all'odierno ricorrente, di obblighi e di responsabilità che prescindono dalla presenza del ricorrente sul cantiere ma attengono agli oneri di programmazione, organizzazione, gestione, supervisione e controllo che competono ai ruoli apicali quale quello ricoperto, attestato da precise deleghe, dalla disponibilità in capo all'imputato di poteri decisionali e di spesa.
Allo stesso modo emerge dagli atti una carenza di formazione proprio sulla indispensabilità di rispettare meticolosamente le procedure di sicurezza e come, nel caso in esame, formazione specifica che non risulta sia stata programmata e, successivamente erogata alla vittima, operaio giunto in cantiere due giorni.

7. Va detto che, anche nella memoria di replica, la difesa del ricorrente afferma che non paiono superare la insanabile contraddittorietà presente nella sentenza di secondo grado, evidenziata nel primo motivo di ricorso, e cioè che nella sentenza impugnata si afferma, da un lato, che la causa dell'evento mortale per cui è processo sarebbe la mancata predisposizione di tre stopper in luogo dei due presenti il giorno dell'infortunio , in quanto antecedente logico del mancato ancoraggio del lavoratore alla linea vita e, dall'altro, che il giorno dell'infortunio la persona offesa avrebbe comunque potuto agganciarsi ad uno degli arrotolatore presenti, perché entrambi liberi.
Poiché effettivamente il giorno dell'infortunio il mancato ancoraggio del lavoratore alla linea vita sarebbe dipeso da una sua "imprudenza" e non già dalla indisponibilità di stopper liberi a cui agganciarsi, la tesi che viene riproposta è che il mancato approntamento di tre stopper non può costituire causa dell'infortunio e fonte di responsabilità per il ricorrente poiché anche la presenza di tre arrotolatori non avrebbe impedito la caduta del lavoratore, che "per imprudenza" non si era agganciato ad alcune dei due stopper liberi. L'unico antecedente logico della caduta sarebbe e rimarrebbe il mancato ancoraggio alla linea vita e non la mancata predisposizione di tre stopper.
Tuttavia, tale linea difensiva omette di confrontarsi con il consolidato dictum di questa Corte di legittimità secondo cui il datore di lavoro -e tale, in fatto, era l'odierno ricorrente per l'ampia delega ricevuta- ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E, ancora, va qui ribadito che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così questa Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto).

8. Quanto al secondo profilo di doglianza, il ricorrente omette di considerare che le omissioni del proposto alla sicurezza sono omissioni del ricorrente medesimo, nel senso che se controllare il corretto impiego dei dispositivi di sicurezza ricade sul preposto alla sicurezza e non sul datore di lavoro, tali omissioni refluiscono nella responsabilità del datore di lavoro per non avere egli provveduto a controllare l'operato del suo delegato e per non averlo sostituito in ragione delle vistose negligenze riscontrate.

E' principio affermato da questa Corte di legittimità che, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/3/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960; conf. Sez. 4, n. 10123 del 15/1/2020, Chironna, Rv. 278608).
Va anche ribadito che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, non adempie agli obblighi derivanti dalle norme di sicurezza l'imprenditore che, dopo l'avvenuta scelta della persona preposta al cantiere o incaricata dell'uso degli strumenti di lavoro, non controlla o - se privo di cognizioni tecniche - non fa controllare la rispondenza dei mezzi usati o delle attrezzature ai dettami delle norme antin­fortunistiche. In tal caso, infatti, la presenza e la eventuale colpa del preposto non eliminano la responsabilità dell'imprenditore potendosi ritenere che l'infortunio non sarebbe occorso se il datore di lavoro avesse controllato e fatto controllare le attrezzature, le macchine e predisposto i mezzi idonei a dotarle dei requisiti di sicurezza mancanti, conferendo al preposto - come suo "alter ego" - non solo la generica delega a sorvegliare lo svolgimento del lavoro in cantiere ma anche dotandolo dei poteri di autonoma iniziativa - anche eventualmente di spesa o di modifica delle condizioni di lavoro, delle fasi e dei tempi del processo lavorativo - per l'adeguamento e l'uso, in condizioni di sicurezza, dei mezzi forniti (ancora attuale, sul punto, è il pur risalente precedente costituito da Sez. 4, n. 523 del 26/11/1996, Rv. 206644).
E' stato anche chiarito che, ai fini dell'individuazione del garante nelle strutture aziendali complesse occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio essendo, comunque, generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo (così questa Sez. 4, n. 22606 del 4/4/2017, Minguzzi, Rv. 269972) e come debbano ascriversi alle scelte gestionali di fondo la individuazione dei collaboratori quali il preposto alla sicurezza e il controllo sul suo operato.

Conferma la stretta interconnessione tra la scelta dei collaboratori diretti per le funzioni più strategiche e rilevanti e la vigilanza sull'osservanza delle misure di prevenzione adottate il principio affermato da questa Corte in forza del quale, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro può assolvere all'obbligo di vigilare sull'osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi (così questa Sez. 4, n. 14915 del 19/2/2019, Arrigoni, Rv. 275577), laddove, nel caso concreto, l'imputato, direttore tecnico del cantiere e procuratore, con delega, per la sicurezza sul lavoro della società Mo.Ca.M srl, non risulta si sia tenuto informato sulle dotazione di presidi di sicurezza individuali sufficienti in relazione alle singole aree e al numero di lavoratori abitualmente addetti, sul rispetto delle procedure di sicurezza individuali.
Va ricordato in proposito che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, nelle strutture aziendali complesse, è configurabile la responsabilità del datore di lavoro - quale titolare della relativa posizione di garanzia, in quanto soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio - in caso di incidente conseguente al mancato aggiornamento dei dispositivi di sicurezza delle attrezzature, per inottemperanza degli obblighi previsti dall'art. 18, comma 1, lett. z), e 71, comma 4, lett. a), n. 3), del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. (Sez. 4, n. 52536 del 09/11/2017, Cibin Rv. 271536).
Decisiva ai fini della responsabilità dell'odierno ricorrente, come risulta dal solido percorso argomentativo dei giudici di merito, è la circostanza che il capo cantiere, R. preposto alla sicurezza sul cantiere per delega dell'imputato, abbia omesso di espletare tali controlli, di sanzionare le omissioni che si verificavano sotto i suoi occhi anche il giorno dell'incidente, accreditando per tale via, la illegittima accettazione di prassi in violazione di obblighi cogenti per la sicurezza, mentre il ricorrente ometteva, nell'ambito dei suoi obblighi di controllo, di provvedere in tempo utile a sostituirlo.

9. Manifestamente infondato appare il terzo motivo di ricorso laddove, in ragione di quanto si legge nella sentenza impugnata, la Corte bresciana, concedendo le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, e riducendo la pena inflitta ad anni uno di reclusine, rispetto alla condanna inflitta in primo grado ad anni uno mesi sei di reclusione, non lascia adito a dubbi sui criteri di calcolo adottati.


La determinazione della pena - va ricordato- è rimessa al prudente esercizio del potere discrezionale del giudice di merito che se motivato in termini congrui in relazione ai parametri ritenuti rilevanti, come nel caso in esame, non è suscettibile di censure nel giudizio di legittimità.

10. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
 

P.Q.M.
 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma l'11 maggio 2021