Cassazione Penale, Sez. 4, 22 giugno 2021, n. 24441 - Decreto di sequestro preventivo nei confronti della società cooperativa per il reato di sfruttamento del lavoro



Presidente Izzo – Relatore Picardi

 

Fatto



1. Il Tribunale di Pavia - Sezione del Riesame ha rigettato l’istanza di riesame e confermato sia il decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, nei confronti della Sanitrasport Società Cooperativa Sociale, di 6 autoveicoli, degli immobili ove veniva esercitata l’attività illecita (se ancora di proprietà della società) e dei saldi attivi dei conti correnti, oltre a qualsiasi utilità e rapporto finanziario, sino alla concorrenza dell’importo di Euro 444.124,58, sia quello finalizzato alla confisca per equivalente, in caso di incapienza sui beni della società, nei confronti di T.A. , dei suoi beni sino alla concorrenza di Euro 444.124,58, precisando non essere oggetto dell’impugnazione il decreto di sequestro degli immobili nei confronti di D.M.D. . Tali misure cautelari reali sono state adottate nell’ambito di un’indagine relativa al reato di cui all’art. 603 bis c.p., comma 1, n. 2, e comma 4, di cui sono stati considerati elementi indiziari il mancato inquadramento come dipendenti di una pluralità di persone che prestavano il loro servizio apparentemente come volontari, ma con tutti gli indici del rapporto di lavoro subordinato (soggezione al potere direttivo del datore di lavoro; inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro; previsione di compenso fisso e di un orario di lavoro); il mancato versamento dei contributi; la corresponsione di rimborsi in misura inferiore ai minimi contrattuali; il mancato riconoscimento di lavoro straordinario ferie, riposi.
2. Avverso tale provvedimento hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, la Sanitrasport soc. coop. Sociale e T.A. , che hanno dedotto 1) la violazione dell’art. 1322 c.c., essendo del tutto legittimo, nell’ambito dell’autonomia privata, l’impegno scritto di tutti i volontari di rendere il loro servizio gratuitamente, a favore della cooperativa, a cui, dunque, non sono rimproverabili comportamenti di sfruttamento dei lavoratori; 2) la violazione dell’art. 1362 c.c., applicabile anche alle dichiarazioni unilaterali, che consente di usare gli altri criteri ermeneutici solo laddove la volontà non risulti chiaramente dal tenore letterale del documento; 3) la violazione dell’art. 603 bis c.p., che tutela non chiunque lavori senza il rispetto delle garanzie legali, ma solo coloro che si trovano in stato di bisogno, non coincidente con una mera difficoltà economica o nella semplice assenza di alternativa lavorativa, ma identificabile, in base alla disciplina sovranazionale, in una situazione esistenziale di particolare vulnerabilità tale da non consentire altra effettiva ed accettalbile scelta di vita, se non quella di subire l’abuso - situazione che non può ritenersi dimostrata in considerazione della sola presunzione secondo cui "anche coloro i quali avessero avuto altri redditi familiari non potevano avere altra scelta perché altrimenti non avrebbero accettato le condizioni praticate dalla Sanitrasport" e dell’affermazione, contraddetta dalle dichiarazioni di molti, secondo cui "per molti il rimborso rappresentava l’unico reddito familiare".
3. La Procura Generale presso la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso. I ricorrenti hanno, invece, insistito per l’accoglimento del ricorso.

 

Diritto



1. Il ricorso non merita accoglimento.
2. Occorre brevemente ricordare che, in tema di ricorso avverso i provvedimenti cautelari reali, costituiscono violazione di legge legittimante il ricorso per cassazione a norma dell’art. 325 c.p.p., comma 1, sia gli "errores in iudicando" o "in procedendo", sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. 3, n. 4919 del 14/07/2016 cc. - dep. 02/02/2017, Rv. 269296 - 01), mentre si è precisato che non è riconducibile alla violazione di legge, deducibile mediante ricorso per cassazione, l’affermata erronea interpretazione di un atto amministrativo, poiché essendo relativa ad atti privi di carattere normativo rientra, ai sensi dell’art. 325 c.p.p., comma 1, nella valutazione del fatto (Sez. 3, n. 37451 dell’11/04/2017 cc. - dep. 27/07/2017, Rv. 270543 - 01).
3. Alla luce di tali premesse devono essere affrontate le prime due censure, con cui si è dedotta l’inosservanza degli artt. 1322 e 1362 c.c.. Tali doglianze sono inammissibili, in quanto, da un lato, risultano a-specifiche, poiché non si confrontano con il contenuto del provvedimento impugnato e, dall’altro lato, pur apparentemente deducendo la violazione di legge, finiscono con il contestare la ricostruzione dei fatti, effettuata dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto, con una motivazione non solo effettiva, ma del tutto adeguata, che i rapporti dei soci con la cooperativa, quantunque formalmente inquadrati in rapporti di volontariato, dissimulassero degli ordinari rapporti di lavoro subordinato.
4. Per quanto concerne l’ultima doglianza, con cui si è contestata l’erronea applicazione dell’art. 603 bis c.p., diretto a tutelare non chiunque lavori senza il rispetto delle garanzie legali, ma solo coloro che si trovano in una situazione esistenziale di particolare vulnerabilità che non consente altra effettiva ed accettabile scelta di vita, se non quella di subire l’abuso (situazione che non può essere identificata, ad avviso del ricorrente, nella mera difficoltà economica o nella semplice assenza di alternativa lavorativa, come fatto dai giudici della cautela), è opportuno brevemente soffermarsi sulla nozione dello stato di bisogno, di cui l’approfittare costituisce una condotta aggiuntiva rispetto a quella di sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento (in forma diretta o indiretta, tramite mera intermediazione): condotta aggiuntiva necessaria ai fini della configurabilità del reato in esame e conseguentemente ai fini dell’individuazione del confine tra la tutela meramente civilistica, realizzata mediante il diritto del lavoro, e quella penale, tendenzialmente residuale.
Occorre sottolineare che nell’art. 603 bis c.p., il legislatore ha scelto di utilizzare la locuzione "stato di bisogno", già usata nel nostro ordinamento con riferimento ad istituti civilistici ed altri reati (quali, ad esempio, l’usura nell’originaria configurazione), e non quella "posizione di vulnerabilità", di matrice sovranazionale (cfr. art. 3 del Protocollo traffiking e la nota dei lavori preparatori; art. 2 direttiva 2011/36/EU), che, nell’art. 1 della decisione del Consiglio Cee 19 luglio 2002, n. 629, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, viene definita come quella situazione in cui la persona non abbia altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima. Al contrario, nella formulazione dell’art. 600 c.p., (riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù), si è fatto espressamente riferimento alla "posizione di vulnerabilità" della vittima.
Si tratta di una scelta lessicale che non è priva di conseguenze, in quanto nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non occorre indagare sulla sussistenza di una posizione di vulnerabilità, da intendersi, secondo le indicazioni sovranazionali, come assenza di un’altra effettiva ed accettabile scelta, diversa dall’accettazione dell’abuso - indagine che, peraltro, anche nella fattispecie di cui all’art. 600 c.p., è alternativa rispetto alla verifica di altre e diverse situazioni di debolezza della vittima, specificamente indicate dal legislatore.
Difatti, secondo l’interpretazione oramai consolidata della giurisprudenza di legittimità, formatasi relativamente ad altri istituti, lo stato di bisogno va identificato non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose (v., tra le tante, Sez. 2, n. 10795 del 16/12/2015 ud.- dep. 15/03/2016, Rv. 266162 - 01). Risulta, quindi, del tutto corretta l’opzione interpretativa seguita nel provvedimento impugnato, che ha ravvisato nella condizione delle vittime (non più giovani e/o non particolarmente specializzate e, quindi, prive della possibilità di reperire facilmente un’occupazione lavorativa) una condizione di difficoltà economica capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione a contrarre.
5.In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.
 


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.