Cassazione Penale, Sez. 5, 11 marzo 2021, n. 9806 - Non punibile per frode processuale il datore di lavoro che modifica i luoghi dopo l'infortunio



 

Fatto





1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Ancona ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di D. G. per i reati di minaccia al fine di costringere a commettere un reato, frode processuale, lesioni colpose gravissime e gravi aggravate ai sensi del terzo comma dell’art. 590 c.p. In particolare l’imputato, amministratore di una società di trasporti, è stato condannato per le lesioni subite da due suoi dipendenti (B. C. e M. P.) in occasione di distinti incidenti cagionati dall’omessa osservanza delle norme antinfortunistiche, nonché per aver, in occasione dell’incidente occorso al B. e prima dell’intervento dei soccorsi e degli inquirenti, immutato lo stato dei luoghi e successivamente minacciato di licenziamento alcuni dipendenti affinchè rilasciassero alla polizia giudiziaria dichiarazioni compiacenti sulla dinamica dell’infortunio.

2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato articolando tre motivi.

2.1 Con il primo deduce inosservanza della legge penale e difetto di motivazione in merito al mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 384 comma 1 c.p. in riferimento al reato di frode processuale. In tal senso rileva come secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità l’esimente in questione debba essere qualificata come causa di esclusione della colpevolezza ispirata al principio del nemo tenetur se detegere, rimanendo dunque irrilevante che l’agente abbia posto in essere la condotta illecita per evitare una situazione di pericolo per la propria libertà volontariamente prodotta. Conseguentemente dovrebbe ritenersi che l’imputato abbia agito al fine di evitare le prevedibili conseguenze penali dell’incidente occorso al B. ed a lui imputabile in quanto datore di lavoro, rimanendo indubitabile che la condotta di occultamento delle prove contestata si ponga in rapporto di derivazione immediata con il suddetto pericolo.

2.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito all’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 611 c.p. ed al governo delle regole di valutazione della prova. In proposito i giudici del merito non avrebbero correttamente valutato le dichiarazioni rilasciate dai testi C. e B. sia in polizia che nel corso del dibattimento, dalle quali emergerebbe come gli stessi non siano stati intimiditi dall’imputato e come il loro eventuale timore di perdere il lavoro discendesse dalla preoccupazione che, a seguito di quanto accaduto, l’azienda potesse chiudere, dimostrando di aver dunque recepito in tal senso le frasi attribuite al D.. Quanto al fatto che lo stesso C. abbia cercato un nuovo lavoro, pure valorizzato nelle sentenze di merito, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della conversazione intercettata tra la compagna del teste ed una conoscente, dalla quale emerge chiaramente come l’uomo fosse provato dalla situazione che si era venuta a creare a seguito dell’indagine, preferendo “cambiare aria” per tale motivo e non già perché temeva ritorsioni da parte del datore di lavoro.

2.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta analoghi vizi in merito al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Decisione che la Corte territoriale ha giustificato in relazione al difetto di iniziative risarcitorie nei confronti del B., svalutando immotivatamente l’intervenuto spontaneo pagamento da parte dell’imputato della cospicua provvisionale disposta con la sentenza di primo grado, sintomatica della resipiscenza del D.. Inoltre il giudice dell’appello non avrebbe in proposito tenuto conto dell’incensuratezza e della non pericolosità sociale dell’imputato, nonché della contenuta gravità della colpa con riguardo al fatto di cui al capo A).

3. Il 19 gennaio 2021 il difensore della parte civile B. C. ha trasmesso memoria a confutazione dei motivi di ricorso.


 

Diritto
 


1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito illustrati.

2. In particolare è fondato il primo motivo.

2.1 Anzitutto deve ritenersi ammissibile la deduzione da parte del ricorrente dell’esimente di cui all’art. 384 comma 1 c.p. per la prima volta nel giudizio di legittimità, atteso che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, si tratta di questione rilevabile anche d’ufficio nel giudizio di cassazione ai sensi degli artt. 129 comma 1 e 609 comma 2 c.p.p. e, quindi, perfino in assenza di uno specifico motivo di ricorso (ex multis Sez. 6, n. 9727 del 18/02/2014, Grieco, Rv. 259110; Sez. 6, n. 52200 del 16/10/2018, Nardella, Rv. 274812). Il Collegio è consapevole della sussistenza nella giurisprudenza di questa Corte anche di un orientamento che esclude l’ammissibilità dell’inedita deduzione in sede di legittimità della suddetta esimente, ma si tratta di indirizzo che si fonda sulla qualificazione della stessa come mera causa di non punibilità, che, come di seguito verrà esposto, non può essere condivisa.

2.2 Va infatti osservato che – come ricordato nel ricorso – sulla natura ed ambito di applicazione della suddetta esimente la giurisprudenza di legittimità ha dato vita ad orientamenti divergenti.

2.2.1 Secondo il primo, decisamente maggioritario nel passato, la disposizione succitata configura una causa di esclusione dell’antigiuridicità, sostanzialmente prevedendo un’ipotesi speciale dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., norma alla quale dovrebbe dunque farsi riferimento al fine di individuare i presupposti per l’operatività dell’esimente non direttamente disciplinati dall’art. 384 comma 1 c.p.

Secondo altro orientamento, pervero rivelatosi anche in epoca assi risalente, ma consolidatosi soprattutto in epoca recente, quella di cui si tratta è invece una causa di esclusione della colpevolezza, basata non già sul bilanciamento di interessi in conflitto tipico delle cause di giustificazione, bensì sulla valutazione della situazione soggettiva in cui versa l’agente a fronte del pericolo inevitabile di un nocumento per la propria libertà o per il proprio onore, tale da rendere inesigibile un comportamento conforme al precetto delle norme tassativamente evocate nel primo comma dell’art. 384 c.p., ma senza escludere il disvalore oggettivo del fatto tipico (ex multis Sez. 6, n. 53939 del 20/11/2018, Bonfiglio, Rv. 274583; Sez. 3, n. 8699 del 09/07/1996, Perotti ed altri, Rv. 206679).

2.2.2 Il secondo orientamento è oramai divenuto decisamente maggioritario al punto che il primo non si è sostanzialmente più manifestato negli ultimi anni ed il Collegio intende aderirvi condividendone altresì le implicazioni e cioè che l’esimente deve ritenersi applicabile anche quando lo stato di pericolo sia stato cagionato volontariamente dall’agente (ex multis; Sez. 6, n. 37398 del 16/06/2011, Galbiati, Rv. 250878; Sez. 3, n. 8699 del 09/07/1996, Perotti ed altri, Rv. 206679) e segnatamente nell’ipotesi in cui abbia commesso uno degli illeciti penali elencati nel primo comma dell’art. 384 c.p. per eludere le investigazioni relative ad un reato precedentemente da lui commesso (Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Pm e PC in proc. Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 20454 del 04/03/2009, Marianelli e altro, Rv. 244389).

Ed infatti l’indirizzo di segno contrario, pur coltivato dalla giurisprudenza di legittimità in passato (ex multis Sez. 6, n. 10654 del 20/02/2009, Ranieri, Rv. 243076), si fonda esplicitamente o implicitamente sulla qualificazione dell’esimente come ipotesi speciale della scriminante di cui all’art. 54 c.p. che qui si è inteso respingere, finendo per attribuire alla necessità dell’agente ed all’inevitabilità del pericolo, requisiti pure posti dal primo comma dell’art. 384 c.p., un significato che va ben oltre i limiti esegetici della norma e che è per l’appunto condizionato dalla suddetta qualificazione. La disposizione in esame non offre invece argomenti testuali idonei a sostenere una siffatta interpretazione selettiva, come proprio l’art. 54 c.p. plasticamente dimostra, avendo previsto in maniera espressa l’involontaria causazione del pericolo come presupposto della scriminante ivi configurata.

2.2.3 In realtà, come pure ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, il riferimento alla situazione di necessità contenuto nell’art. 384 c.p. rivela la volontà del legislatore di condizionare l’operatività dell’esimente al qualificato rapporto di derivazione del fatto illecito commesso alla esigenza di tutela della libertà e dell’onore: non già alla mera possibilità di un evento temuto, quindi, bensì alla certezza del verificarsi dell’evento di danno e quindi, trattandosi pur sempre di prognosi, alla previsione del suddetto verificarsi assistita dal più alto grado di probabilità sulla base dei parametri di immediatezza e consequenzialità (ex multis Sez. 6, n. 1908 del 04/02/1997, Brocca, Rv. 207525; Sez. 6, n. 26570 del 13/06/2008, Montalbano, Rv. 241050; Sez. 6, n. 19110 del 02/04/2015, Calabrò, Rv. 263504).

2.3 Calando gli illustrati principi nel caso di specie risulta doveroso riconoscere l’invocata esimente al D.. Dalla sentenza impugnata emerge in maniera inequivocabile infatti il rapporto di immediata consequenzialità tra l’incidente occorso al B. ed il pericolo per l’imputato di vedersi attribuire la responsabilità per le conseguenze subite dal dipendente, mentre è altrettanto indubitabile che, nella sua qualità di datore di lavoro, egli fosse perfettamente consapevole del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche poi effettivamente contestatogli, talchè il suo comportamento risulta coerente con il fine di evitare quella che gli appariva una altrimenti inevitabile condanna per quanto accaduto.

3. Sono invece inammissibili le censure proposte con il secondo motivo.

Generico è anzitutto il riferimento operato dal ricorrente alle dichiarazioni rilasciate dal B. e dal C. nel corso delle indagini preliminari, posto che la sentenza non fa riferimento alle stesse, né viene precisato nel ricorso se e a che titolo i relativi verbali abbiano fatto ingresso nella piattaforma cognitiva dei giudici di merito, se cioè siano stati acquisiti sull’accordo delle parti ovvero siano stati eventualmente utilizzati per le contestazioni nel corso dell’esame dei due testimoni.

Nel resto le doglianze del ricorrente sono rivolte a sollecitare il giudice di legittimità ad una rilettura degli elementi ricostruttivi del fatto e ad un autonomo apprezzamento del compendio probatorio di riferimento, che non gli sono invero consentite (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794). Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, Dessimone, Rv. 207944; successivamente il principio è stato ribadito da Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099). Il controllo di legittimità, infatti, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.

Nemmeno, come incidentalmente adombrato, può ritenersi che la Corte territoriale sia incorsa nel vizio di travisamento per omessa considerazione del contenuto delle suddette dichiarazioni. Ed infatti i rilievi proposti in sede di legittimità costituiscono la riedizione di quelli avanzati con il gravame di merito e con i quali la sentenza si è confrontata, evidenziando in maniera logica e coerente alle risultanze processuali esposte (comprese quelle riportate nel ricorso) come la negazione da parte dei testi di essere stati oggetto di un esplicito ricatto non renda la condotta dell’imputato penalmente irrilevante, atteso che l’insistita prospettazione delle conseguenze che l’azienda avrebbe avuto a causa dell’incidente del B. e, inevitabilmente, anche i suoi dipendenti hanno dato vita ad un atteggiamento chiaramente intimidatorio, teso a condizionare la libertà di autodeterminazione di questi ultimi nei loro rapporti con l’autorità giudiziaria. E l’intenzione dell’imputato è stata correttamente desunta, tra l’altro, dal colloquio con la sorella oggetto di captazione, rimanendo irrilevante ciò che questa abbia poi effettivamente riportato al B..
Inammissibile è poi anche l’eccepita violazione ai sensi dell’art. 606 lett. b) c.p.p. delle regole di valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p. e di quella di giudizio di cui all’art. 533 c.p.p., non essendo l’inosservanza delle suddette disposizioni prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come richiesto dall’art. 606 lett. c) c.p.p. ai fini della deducibilità della violazione di legge processuale (ex multis Sez. 3, n. 44901 del 17 ottobre 2012, F., Rv. 253567; Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, Zonfrilli e altri, Rv. 264174; Sez. 1, n. 42207/17 del 20 ottobre 2016, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191). Né vale in senso contrario la qualificazione del vizio dedotto operata dal ricorrente come error in iudicando in iure ai sensi della citata lett. b) dello stesso art. 606 c.p.p., posto che tale disposizione, per consolidato insegnamento di questa Corte, riguarda solo l’errata applicazione della legge sostanziale, pena, altrimenti, l’aggiramento del limite (posto dalla citata lett. c) dello stesso articolo) della denunciabilità della violazione di norme processuali solo nel caso in cui ciò determini una invalidità (ex multis Sez. 3, n. 8962 del 3 luglio 1997, Ruggeri, Rv. 208446; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 268404).

4. Anche il terzo motivo è inammissibile.
Contrariamente a quanto sostenuto con il ricorso, la Corte territoriale non ha ancorato il diniego delle attenuanti generiche esclusivamente al mancato spontaneo risarcimento del B., avendo espressamente fatto riferimento anche alla pluralità degli illeciti consumati ed ai comportamenti tesi ad inquinare la prova dei fatti. Va allora ribadito che è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti, come nel caso di specie (Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972). Peraltro generica è altresì la prospettazione della decisività della circostanza relativa al pagamento della provvisionale, posto che questa non contraddice la valutazione negativa sulla mancata presentazione di una spontanea offerta risarcitoria.

Ed infatti il pagamento della provvisionale disposta dal giudice è tutt’altro che un comportamento equipollente a quello di cui la Corte ha apprezzato la mancata esecuzione.

5. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui al capo C), perché il fatto non costituisce reato, e con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per nuova determinazione della pena relativa al solo reato di cui al capo B), essendo quella relativa al capo A) stata determinata in maniera autonoma. Nel resto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, mentre tenuto conto della reciproca parziale soccombenza, le spese di parte civile devono essere compensate.
 

 

P.Q.M.
 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 374 c.p. perchè il fatto non costituisce reato, revocando le relative statuizioni civili, e rinvia alla Corte di appello di Perugia per la rideterminazione della pena per il reato di cui al capo B).
Dichiara inammissibile il ricorso nel resto, compensando le spese della parte civile.