Tribunale Teramo, Sez. lavoro, 16 agosto 2021 - Lavoratrice al reparto pescheria di ipermercato: giudizio di idoneità con limitazioni disatteso dal datore di lavoro


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI TERAMO
Magistratura del Lavoro

 

Il Giudice del Lavoro, Dr.Giuseppe Marcheggiani, nella causa iscritta al n.1905/2016 R.G.

TRA

B.E., nata l'(...) a T., ivi residente, elettivamente domiciliata in Alba Adriatica (TE) presso lo Studio dell'Avv.Si.F., che la rappresenta e difende come da procura in atti

RICORRENTE

CONTRO

S. s.p.a., in persona del legale rappresentante, con sede in R.M. (M.), strada 8, P.N elettivamente domiciliato/a in Teramo, presso lo Studio dell'Avv. E.I.F., che lo/a rappresenta e difende come da procura in atti, unitamente all'Avv. B.C. del Foro di Milano

RESISTENTE

E

INAIL - Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, - sede di Teramo, in persona del Direttore centrale delle prestazioni pensionistiche, elettivamente domiciliato presso la sede stessa in Teramo, rappresentato e difeso dall'Avv. L.M. e dall'Avv. P.D.S., come da procura generale alle liti per notar V.M. di R. in data (...), rep.(...)

TERZO CHIAMATO IN CAUSA

All'udienza del giorno 10 febbraio 2021 ha pronunciato sentenza con il seguente
 

Il Tribunale di Teramo, in composizione monocratica ed in funzione di Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando, contrariis reiectis, così provvede:
- accoglie parzialmente il ricorso e, per l'effetto, dichiara la responsabilità della S. s.p.a., in persona del legale rappresentante, in ordine all'aggravamento della malattia di origine non professionale da cui è affetta la ricorrente ("ernia disco vertebrale trattata chirurgicamente", con manifestazioni di nevralgia trigeminale), con coinvolgimento psichico reattivo e conseguente ulteriore danno, aggravamento da correlarsi eziologicamente alle mansioni di commessa alla vendita addetta al reparto di pescheria presso il punto vendita di Teramo, frazione P***d***, della società resistente, svolte dal 16.09.2014 al 16.11.2015 e quantificato alla data della proposizione del ricorso nella misura del 5% quale danno non patrimoniale;
- dichiara pertanto la convenuta, in persona del legale rappresentante, obbligata al risarcimento in favore della ricorrente del danno non patrimoniale, conseguente a "lesione permanente dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale", comprensivo del danno morale soggettivo, in termini di "sofferenza soggettiva" (c.d. liquidazione congiunta), liquidando equitativamente tale danno in complessivi Euro.7.261,00, con valutazione all'attualità, oltre interessi legali sulla somma devalutata alla data dell'01.01.2016 e sulle frazioni di capitale di cui essa si incrementa per effetto dell'applicazione dei coefficienti di rivalutazione monetaria secondo gli indici FOI pubblicati dall'ISTAT dall'01.01.2017 (per la variazione di indice rispetto al gennaio dell'anno precedente) e così via via sino alla data della presente sentenza, data da cui il credito risarcitorio si converte in credito pecuniario produttivo di interessi legali e rivalutazione monetaria nei limiti di cui agli artt.429 Cod.Proc.Civ. e 150 disp att. Cod.Proc.Civ.;
- rigetta la domanda di garanzia proposta dalla convenuta nei confronti dell'INAIL;
- rigetta la domanda di condanna della convenuta alla corresponsione delle retribuzioni maturate e non percepite dalla ricorrente dal 16.11.2015 al 05.07.2016;
- condanna la convenuta a rifondere alla ricorrente ed al terzo chiamato le spese del giudizio, che liquida, quanto alla prima, in complessivi Euro.4.900,00, oltre spese generali nella misura del 15% dell'importo dei predetti compensi difensivi, I.V.A. e C.A.P., con distrazione in favore del difensore, nonché Euro 259,00 a titolo di spese vive, e, quanto all'INAIL, in complessivi Euro 4.200,00, oltre spese generali nella misura del 15% dell'importo dei predetti compensi difensivi, I.V.A. e C.A.P.;
- pone a carico della convenuta le spese di c.t.u., liquidate come da separato decreto;
- fissa in giorni sessanta da oggi il termine di deposito della motivazione.
 

Motivi della decisione

Con ricorso ex art.414 Cod.Proc.Civ. depositato, in data 18.11.2016, E.B. ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo, in funzione di giudice del lavoro, la S.p.A. S., per sentir dichiarare la responsabilità della ditta convenuta, propria datrice di lavoro, in relazione ai danni fisici e morali arrecatile a causa della protratta adibizione a mansioni della lavoratrice a mansioni - commessa di pescheria all'interno di un supermercato gestito dalla società - alle quali il medico competente la aveva dichiarata inidonea dopo la visita obbligatoria cui l'aveva sottoposta l'08.09.2014, in qualità di impiegata di 4 livello del CCNL Terziario, al rientro da un periodo d'assenza dal lavoro, a seguito di intervento chirurgico e conseguente convalescenza.
La ricorrente spiegava che, dopo la visita medica citata, non aveva ricevuto la copia del relativo certificato ed era stata adibita nuovamente alle mansioni citate, che aveva appreso solo dopo la nuova visita (periodica), cui veniva sottoposta l'01.10.2015, essere state, in realtà, dichiarate non ulteriormente assegnabili, per come risultava da certificato trasmessole dalla datrice di lavoro, a seguito di specifica richiesta a mezzo di legale.
Poiché la cessazione dell'adibizione alle mansioni cui era inidonea, dunque, era cessata solo con la nuova visita medica (che aveva confermato il giudizio di inidoneità ad esse), l'attrice specificava che nel periodo intercorso tra le due visite (della prima risultando anche un verbale di idoneità con limitazioni, da ritenersi non genuino a differenza di quello da ultimo trasmessole) aveva riportato, a causa della protratta adibizione a quelle mansioni, i danni indicati nella relazione del CTP prodotta in atti.
Illustrava le modalità di svolgimento delle mansioni e la natura dei rischi a cui esse esponevano la lavoratrice, ravvisandovi, in relazione alla tipologia delle conseguenze riportate, la causa dell'insorgere di nuovi stati patologici o dell'aggravarsi di quelli residuati all'intervento chirurgico, sia quali danni fisici, sia quali danni psichici. Dichiarava, pertanto, di limitare la domanda risarcitoria alla sola percentuale dei danni complessivamente riscontrati nella relazione del CTP eziologicamente riferibili alla violazione da parte della società dell'obbligo di cui all'art.2087 cod. civ. e delle disposizioni specifiche in materia di sicurezza del lavoro, in base alle quali il datore di lavoro avrebbe dovuto adibire la dipendente ad altre mansioni conformi alle proprie attuali condizioni di salute, come indicate anche dal medico competente nel certificato; determinava il credito risarcitorio a tale titolo maturato nella somma di Euro 46.003,20, o nella diversa somma ritenuta di giustizia.
Esponeva poi che - in seguito al giudizio espresso dopo la visita di revisione in data 01.10.2015 dal medico competente, che dichiarava (rectius, confermava) l'inidoneità della lavoratrice allo svolgimento delle mansioni nel reparto pescheria del supermercato - la società la sospendeva provvisoriamente dal servizio senza retribuzione, sospensione a cui faceva seguire, in base al presupposto dell'impossibilità di trovare alla stessa una diversa collocazione nel supermercato, la richiesta alla DTL di convocazione delle parti davanti alla Commissione di conciliazione ai sensi dell'art.7 L. n. 604 del 1966 in previsione del di lei licenziamento per giustificato motivo oggettivo, inidoneità sopravvenuta al lavoro.
Faceva presente di aver raggiunto con la società un accordo transattivo, come da verbale di conciliazione redatto davanti all'apposita Commissione nell'ambito della procedura prevista dal citato art.7 L. n. 604 del 1966, accordo in forza del quale la società si impegnava a ricollocare la lavoratrice in altro reparto del supermercato in mansioni a cui sarebbe stata dichiarata idonea dal medico competente, dietro rinuncia della lavoratrice ad ogni pretesa per il periodo in cui era rimasta forzatamente assente dal lavoro dopo il giudizio di inidoneità alle mansioni recepito dalla società, salvo il pagamento da parte di questa dell'importo di Euro 2.000,00, da eseguirsi entro la prima mensilità successiva alla data in cui sarebbe stato espresso tale giudizio di idoneità alle nuove mansioni.
Il giudizio di idoneità alle mansioni presso il nuovo reparto di assegnazione della lavoratrice (profumeria e scanal) interveniva l'11.07.2016; la società però non onorava l'obbligo di pagare la somma promessale, sicché la lavoratrice rivendicava il diritto alla corresponsione di tutte le mensilità retributive dalla data della sospensione dal lavoro per inidoneità alle vecchie mansioni (16.11.2015), per l'importo di Euro 11.773,77.
La ricorrente concludeva, pertanto, con le seguenti richieste:
"- accertare e dichiarare la responsabilità della società S. S.p.A. nella causazione dei danni tutti, fisici e morali, subiti dalla ricorrente descritti in narrativa;
- per l'effetto, condannare la società S. SpA al risarcimento dei danni in favore della ricorrente nella misura complessiva di Euro 46.003,20 ovvero nella diversa misura, maggiore o minore, che risulterà di Giustizia, eventualmente a seguito di espletanda CTU medico-legale, oltre interessi e rivalutazione monetaria;
- inoltre, condannare la società S. SpA al pagamento in favore della ricorrente di tutte le retribuzioni spettanti alla stessa relativamente al periodo da novembre 2015 ad agosto 2016 nella misura complessiva di Euro 11.773,77, oltre interessi e rivalutazione monetaria ....
La S. s.p.a. si è costituita in giudizio ed ha resistito al ricorso; con riferimento alla domanda risarcitoria, ha eccepito di essersi uniformata a tutte le norme di sicurezza; quanto a quella di pagamento della somma dovuta in base al verbale di conciliazione sottoscritto presso la DTL, deduceva di aver pagato l'importo dovuto insieme con la corresponsione della retribuzione relativa alla mensilità di novembre 2016 in favore della lavoratrice. Ha altresì chiesto di essere autorizzata a chiamare in causa l'INAIL, chiedendo di esserne manlevata dalle pretese risarcitorie avanzate dalla ricorrente.
Si è costituito in giudizio l'INAIL ed ha eccepito l'inoperatività della garanzia assicurativa a favore del datore di lavoro ed in subordine ha spiegato azione di regresso verso la chiamante per il rimborso di quanto fosse stata condannata a pagare all'attrice.
La causa è stata istruita con l'assunzione delle prove per testi ammesse a richiesta della ricorrente e della convenuta. A seguito di una c.t.u. medico-legale sulla persona della lavoratrice, diretta all'esatta determinazione dei danni fisici e morali da lei subiti per effetto della denunciata adibizione a mansioni cui era stata dichiarata inidonea, la causa è stata rinviata per la discussione e, disattesa la richiesta attorea di integrazione di tale c.t.u., è stata decisa come da dispositivo letto in udienza.
 

RAGIONI DELLA DECISIONE

Stante la eterogeneità delle relative problematiche, si rende necessaria una trattazione separata della domanda di risarcimento del danno da lesione dell'integrità psico-fisica, da un lato, e della domanda di pagamento della somma convenuta nel verbale di conciliazione intercorso tra le parti, dall'altro.

1) RISARCIMENTO DEL DANNO

È noto che la responsabilità per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ha natura contrattuale, in quanto essa deriva dall'inadempimento dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro, che, pur se previsto dalla legge (D.Lgs. n. 626 del 1994, D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2087 cod. civ., ecc.), integra nella sfera degli effetti il contenuto del contratto di lavoro. Trattasi infatti di responsabilità che, in relazione alla natura sui generis dell'obbligazione di sicurezza del lavoro, essendo le norme che ne determinano il contenuto dirette alla realizzazione anche di interessi generali (tant'è che dalla loro violazione può derivare anche responsabilità penale), presenta anche aspetti della responsabilità aquiliana (con conseguente applicazione, ad esempio del disposto normativo di cui agli artt. 2049 e 2050 Cod.Civ.). Deve infatti ritenersi che il datore di lavoro riveste una posizione primaria di garante della sicurezza, in quanto soggetto che organizza l'attività produttiva. La sua sfera di attribuzioni e competenze ha, infatti, carattere generale ed investe tutta la politica aziendale. Il datore di lavoro deve osservare, oltre a tutta la normativa specifica, anche le comuni regole di prudenza, diligenza e perizia in un'attività che di per sé è pericolosa ed adottare tutte le altre misure imposte dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica (art. 2087 cod. civ.), senza poter ricorrere ad equipollenti o affidarsi alla diligenza ed esperienza dei lavoratori. Deve rendere sicuro tutto l'ambiente di lavoro, scegliere per ogni operazione le persone idonee, evitare di affidare lavori pericolosi a soggetti privi della necessaria esperienza e capacità tecnica ed apprestare la tutela anche contro gli incidenti dovuti a negligenza degli stessi lavoratori.
Ciò posto, ritiene il giudicante che la domanda di risarcimento del danno proposta da E.B. sia fondata e vada pertanto accolta.
La ricorrente lamenta la violazione dell'art.2087 Cod.Civ., che sancisce per il datore di lavoro l'obbligo di adottare nell'esercizio dell'impresa "le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", nonché la mancata attuazione delle prescrizioni di cui al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
La specifica norma in tema di sicurezza, con riferimento a tale ultimo obbligo, va individuata nell'art.41 D.Lgs. n. 81 del 2008, che nel comma 6 stabilisce quanto segue: "Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica: (lett. a, b e c omissis) d) inidoneità permanente".
Rileva inoltre, nel caso di specie, anche il successivo art.42, che dispone quanto segue:
"Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla L. 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all'art.41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un'inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza".
Orbene, la disposizione di cui all'art.2087 cod. civ., come noto, costituisce una norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all'imprenditore l'obbligo di tutelare l'integrità fisico - psichica dei dipendenti con l'adozione - ed il mantenimento perfettamente funzionale - non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell'ambiente od in costanza di lavoro (Cass. civ., Sez.lav., 03/09/1997, n.8422).
Ne consegue che, una volta che il lavoratore il quale lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, abbia assolto all'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro nonché la connessione tra l'uno e l'altra, è il datore di lavoro ad essere gravato dell'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del pregiudizio subito ovvero che la malattia non è ricollegabile alla violazione degli obblighi a suo carico (Cass. civ., Sez.lav., 27/06/1998, n.6388; Cass. civ., Sez.lav., 21/10/1997, n.10361; Cass. civ., Sez.lav., 11/12/1995, n.12661).
Ebbene, alla luce della documentazione in atti e dell'istruttoria, rileva il giudicante che l'attrice ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lei ricadente, della sussistenza di una specifica omissione datoriale nell'adozione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.
La ricorrente deduce di aver prestato servizio presso il reparto di pescheria del supermercato Iper*** di P**d'*** della società resistente dal 2013 e lamenta che durante le ore lavorative è stata costretta ad accedere nelle celle frigorifere spesso, oltre a dover stare a contatto con l'acqua di continuo, nonché eseguire lavori di sollevamento di pesi e trascinamento di gravi.
Per come riferito anche nell'anamnesi svolta dal CTU, della quale si riprende qui il contenuto (che consente di evitare di ripercorrere la puntuale esposizione del ricorso), l'attrice ritiene che a causa del lavoro svolto, per la ripetìtività di queste manovre, si siano istaurate o comunque aggravate le patologie a carico della colonna vertebrale. All'inizio si sono manifestate con sintomatologie dolorose delle spalle ed ai quattro arti con presenza di cefalee recidivanti e vertigini posizionali. La persistenza della suddetta sintomatologia, costringeva l'attrice ad intraprendere un iter diagnostico che culminava con la diagnosi di ernie discali vertebrali a carico della colonna cervicale e lombo sacrale e la presenza di una voluminosa ernia a livello di C5/C6 con segni di compressione midollare e sofferenza trigeminale, che si manifestava con dolore persistente talora con esacerbazioni violente, di verosimile natura mielopatica. Doveva pertanto sottoporsi ad intervento chirurgico ed osservare un periodo di convalescenza, dopo l'intervento avvenuto a maggio 2014, che terminava il 22.08.2014.
Prima della riammissione al lavoro, come prescritto (in caso di assenza per motivi di salute di durata superiore a sessanta giorni) dall'art.41, comma 1, lett. e-ter), D.Lgs. n. 81 del 2008 (lettera aggiunta dall'art.26, comma 2, D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106), la ricorrente doveva sottoporsi alla visita del medico competente, al fine di verificarne la persistente idoneità alla mansione.
La ricorrente ha dedotto che all'esito di tale visita, eseguita l'08.09.2014, era risultata idonea con le seguenti limitazioni "non M.M.C. > 3 Kg. Microclima < 18 sfavorevole l'interessato dovrà indossare DPI adeguati", come risulta dal relativo verbale (doc.6 fasc. ric.), anche se, per come esposto successivamente, si era trattato, invece, di una inidoneità.
Era accaduto che l'esito di tale visita era stato comunicato alla lavoratrice a distanza di oltre un anno, come risulta dalla ricevuta di avvenuta consegna apposta sullo stesso verbale, ma, cosa ancor più grave, la società datrice di lavoro aveva continuato a far svolgere alla ricorrente le stesse identiche mansioni svolte nel reparto "Pescheria" con le medesime modalità e senza alcuna osservanza delle limitazioni imposte dal medico competente, con particolare riferimento alla movimentazione manuale di carichi superiori a kg.3.
Inoltre, nel medesimo verbale dell'08.09.2014, era prevista l'esecuzione di una visita di controllo a marzo 2015, invece omessa.
Nell'esposizione attorea a tali circostanze si aggiunge quella della scoperta, da parte della lavoratrice, della difformità del giudizio di idoneità - risultante dal verbale di visita trasmessole a distanza di oltre un anno (esattamente il 3 novembre 2015) - rispetto al giudizio, di inidoneità della lavoratrice alla mansione specifica di addetta al reparto "Pescheria", che risultava dal verbale di cui la stessa era venuta in possesso a seguito della richiesta della propria cartella sanitaria e di rischio rivolta al medico competente con lettera del 30.07.2016 (doc.7 ric.).
La convenuta ha inteso giustificare il tardivo invio alla lavoratrice del verbale di visita dell'08.09.2014, contenente il giudizio di idoneità con limitazioni, deducendo che il documento era stato rinvenuto dal direttore di zona, tra le carte dell'ex direttore del supermercato di P*** d'*** di Teramo, che avrebbe dovuto consegnarlo al nuovo.
La resistente ha, dunque, ritenuto che quel verbale contenesse il giudizio di idoneità con limitazioni espresso dal medico competente a seguito della visita dell'08.09.2014, escludendo l'esistenza del giudizio di inidoneità allegato dall'attrice come trasmessole da tale professionista al proprio legale in seguito alla di lei richiesta scritta del 30.07.2016.
La teste M.F., medico competente della S.p.A. S. per il personale (tra altri, si presume) del punto vendita all'insegna Iper*** di P***d*** di Teramo all'epoca dei fatti per cui è causa, nella deposizione resa ha confermato di aver espresso il giudizio di inidoneità della ricorrente alla mansione specifica di addetta al reparto "Pescheria" del supermercato in occasione della visita dell'08.98.2014 (cfr. risp. al cap.1 della prova articolata in ricorso data dalla teste all'udienza del 15 marzo 2018).
Non vi è motivo di dubitare dell'attendibilità della dichiarazione resa dalla teste, che ha riferito in merito ad una circostanza a lei nota in qualità di medico competente, che aveva sottoscritto il verbale di visita in questione.
La teste, sentita sui capitoli articolati dalla società resistente, ha escluso di aver barrato per errore (come pure sostenuto dalla società secondo la quale il verbale genuino era quello da essa esibito) la casella dedicata al giudizio di non idoneità alla mansione ed ha chiarito di averla barrata in modo corretto, poiché aveva accertato tale inidoneità.
Circa la prescrizione ulteriore, apposta nel verbale, di evitare la movimentazione manuale di carichi di peso superiore a kg. 3, la teste, nel rispondere ai capitoli di prova articolati dalla società, ha del pari confermato di averla impartita.
È poi pacifico, oltre che accertato, sulla base delle deposizioni rese dalla sindacalista, che ha seguito sia il caso della ricorrente sia il restante personale del punto vendita S. di P***d*** di Teramo, nonché da colleghi di lavoro della ricorrente stessa, che al rientro dalla convalescenza seguita all'intervento alla colonna cervicale l'attrice è stata adibita alle stesse mansioni che svolgeva presso il reparto "Pescheria" del supermercato.
Tali mansioni, come rilevato dal CTU, il quale ha riportato nella relazione il contenuto di tutte le deposizioni, esponevano l'attrice al rischio di aggravamento delle condizioni del tratto della colonna vertebrale interessato dall'operazione chirurgica.
Il giudizio medico - legale espresso dal CTU è fondato sulle deposizioni rese da altri lavoratori e, de relato da questi, dalla sindacalista M.L..
Si tratta di deposizioni attendibili, che, nella parte in cui descrivono le modalità di lavoro seguite presso il reparto "pescheria" del supermercato, non si discostano in maniera particolarmente significativa, peraltro, da quelle rese dai testi di parte resistente. I secondi hanno confermato che tali mansioni consistevano nelle seguenti operazioni: ricevimento merce dal fornitore, stoccaggio in cella, preparazione e allestimento del banco con il ghiaccio, taglio dei grossi pesci, pulizia del pesce, rifornimento dei banchi, pulizia delle macchine, degli utensili e dei pavimenti.
La teste E.L. ha riferito quanto segue: "la Signora B. si è rivolta al nostro sindacato perché, nonostante fosse risultata inidonea allo svolgimento delle mansioni presso il reparto pescheria, l'azienda aveva continuato a farle svolgere tali mansioni che aggravavano le sue patologie e le sue condizioni di salute. Pertanto nella mia qualità ho contattato il responsabile del personale della ditta signor T.D. al quale, facendogli presente che la permanenza nel reparto pescheria aggravava le condizioni di salute della B., ho chiesto il suo trasferimento in altro reparto. Aggiungo che in quel periodo alcuni dipendenti risultati inidonei sono stati collocati in altri reparti anche perché era in corso una trattativa sindacale legata ad una riorganizzazione del punto vendita. Tuttavia nonostante la mia richiesta la ricorrente ha continuato a svolgere le medesime mansioni nel reparto pescheria, nonostante la sua inidoneità. Ricordo di un verbale del medico competente che avrebbe dovuto essere consegnato alla ricorrente nell'immediatezza della visita e che invece è stato consegnato con vari mesi di ritardo e che conteneva un giudizio di inidoneità. Il verbale di cui parlo e che mi è stato mostrato dalla B. è il documento 6 del fascicolo di parte ricorrente ricordo che è stato consegnato alla ricorrente solo a novembre 2015".
La teste L., richiesta di confermare se la movimentazione manuale dei carichi, il microclima, il sovraccarico biomeccanico degli arti superiori e le posture incongrue rappresentassero dei fattori di rischio presenti nel reparto "pescheria", ha così risposto: "Si è vera la circostanza. Sono le problematiche che avevo esposto al responsabile del personale per quanto riguarda la posizione lavorativa della ricorrente".
Gli altri testi sentiti a richiesta della ricorrente hanno così confermato la circostanza:
- M.M.: "Confermo la circostanza in pescheria ci sono celle frigorifere a 0 e pesce da decongelare in celle a -24";
- M.S.: "Confermo la circostanza in quanto anche io ho lavorato nel reparto pescheria";
- dott.ssa M.F.: "Non conosco altrettanto la circostanza; mi è stato riferito dalla ricorrente e la stessa cosa me l'hanno riferita anche altri addetti che ho visitato".
La società resistente ha dedotto di aver redatto un regolare documento di valutazione dei rischi e di aver dotato il personale addetto al reparto "pescheria" e in generale tutti i dipendenti addetti a reparti "freddo" (macelleria, gastronomia, frutta) di abiti idonei alla protezione dal freddo per l'ingresso nella cella frigorifera (giacca e copricapo).
Quanto alla dotazione della giacca, essa è risultata di tipo regolamentare (cfr. dichiarazione resa dai vari testi, in particolare la dott.ssa F.), mentre il copricapo è altrettanto unanimemente risultato inidoneo, in specie, alla protezione della testa, del collo e del viso, stante l'inidoneità del tessuto (semplice cotone) di cui è confezionato.
La società ha altresì dedotto di aver consegnato ai lavoratori, compresa l'attrice, la brochure sulla movimentazione manuale dei carichi e la dispensa "Lavorare in sicurezza", di cui ha prodotto copia.
La consegna di tali pubblicazioni è inidonea ad esaurire gli obblighi gravanti sul datore di lavoro posti a tutela della sicurezza dei dipendenti.
Dalla lettura della prima di esse si evince trattarsi di un insieme di istruzioni e di indicazioni circa le modalità di svolgimento delle mansioni implicanti movimentazione manuale di carichi, in specie sollevamento e spinta, con l'uso della forza delle braccia e delle gambe e senza impegno funzionale della colonna vertebrale.
Che, tuttavia, in concreto il datore di lavoro abbia fatto in modo che a tali consigli ci si uniformasse nella prestazione dell'attività lavorativa è circostanza neppure dedotta in memoria difensiva, avendo la società fatto presente solo di aver dotato il personale di carrelli per il trasporto delle cassette del ghiaccio e di roll box per il trasporto delle cassette di polistirolo contenenti il pesce da posizionare sull'espositore ed il pesce invenduto da riporre nella cella frigorifera a fine giornata.
La semplice visione della fotografia prodotta dalla società relativa al roll box denota che ci si trova in presenza di un mezzo di trasferimento di grandi dimensioni, sebbene da condursi da un solo addetto con la forza muscolare (da spingersi e non trascinarsi, per come precisato dalla resistente).
Oltre a ciò, deve rilevarsi che, per come ritenuto dal CTU, anche in questo caso sulla base di univoci riferimenti testimoniali, è stata la ripetitività dei movimenti delle spalle e delle braccia a rappresentare il fattore nocivo costante delle operazioni eseguite presso il reparto "pescheria" dagli addetti, che vi si alternavano durante la giornata di lavoro.
Infatti in tale reparto si richiede la predisposizione del banco con il riempimento delle bacinelle di ghiaccio mediante una pala sino a raggiungere il livello che consente di immergere tra esse i contenitori dei pesci, lungo una estensione espositiva di sei metri.
La reintegrazione del ghiaccio è risultata necessaria in maniera costante, specie durante le stagioni calde, anche nel corso della giornata lavorativa. Tale esigenza è stata resa, evidentemente, più pressante, nonostante il contrario avviso espresso dal teste U.D.F., ex direttore del punto vendita, dalla ristrutturazione del supermercato. Infatti, per come ricordato anche dalla teste dott.ssa F., oltre che dalla sindacalista e dai colleghi della ricorrente, il reparto gastronomia era stato avvicinato alla "pescheria".
È pacifico che il reparto gastronomia fosse dotato di un forno per la doratura del pane, che rendeva evidentemente l'aria più calda, indipendentemente dalla possibilità che gli addetti al reparto "pescheria" fossero, in tal modo, anche soggetti a degli sbalzi termici.
Alla ripetitività dei movimenti con impegno fisico del distretto cervico-brachiale, poi, si aggiungeva l'impegno di forza che tali movimenti richiedevano, in ragione del peso dei contenitori del pesce da sistemare all'inizio ed alla fine della giornata di lavoro.
Tale peso non era necessariamente contenuto nei limiti di tre chilogrammi, come ipotizzato dalla resistente in base alla destinazione del pescato alla vendita a pezzi interi.
Dai riferimenti testimoniali risulta, infatti, che i colleghi di lavoro aiutavano la ricorrente nel sollevamento di pezzi di peso rilevante e dalla stessa descrizione resa dalla resistente delle mansioni svolte nel reparto, siccome comprendenti lo spezzamento dei pesci, si evince che ve ne erano anche di dimensioni e peso notevolmente superiori.
L'impiego di forza muscolare consistente nella reintegrazione del ghiaccio prelevato con una pala dagli appositi contenitori, da portare fuori della cella frigorifera, infine, rappresenta altro dato risultante dalla stessa descrizione delle mansioni svolte dagli addetti al reparto "pescheria" fatta in memoria difensiva.
In base ai risultati della prova per testi, coordinati con i rilievi svolti dal CTU, deve, pertanto, ritenersi pienamente assolto l'onere della prova della nocività dell'ambiente di lavoro, peraltro caratterizzato da forte umidità per l'uso frequente di acqua per la pulizia.
La società resistente ha dedotto, come anticipato, di aver sostanzialmente ignorato l'esistenza di limitazioni disposte dal medico competente, escludendo anche l'esistenza di un verbale di accertamento dell'inidoneità permanente dell'attrice alle mansioni a cui la stessa era tornata ad essere addetta dopo l'intervento chirurgico per cervicopatia.
La ragione addotta dalla società e confermata dal teste M.F., sentito a richiesta della stessa, dell'ignoranza delle limitazioni impartite dal medico curante, vale a dire essere il fatto che il relativo verbale era rimasto tra le carte dell'ex direttore del supermercato, anziché essere consegnato al nuovo in sede di passaggio delle consegne, è in realtà inidonea ad escludere la responsabilità del datore di lavoro.
Questi, come già detto, ai sensi dell'art.2087 cod. civ. deve assicurarsi che il personale sia preservato dai rischi connessi all'ambiente di lavoro ed incorre, in caso di mancata osservanza di tale precetto, in responsabilità anche per fatto dei suoi preposti. La responsabilità ex art.2087 cod. civ., proprio in quanto non oggettiva bensì derivante da fatto colposo, si propaga al datore di lavoro dai suoi preposti ai sensi dell'art.2049 cod. civ.
Inoltre, nel caso di specie, è risultato che la società resistente è venuta meno non solo ad una limitazione stabilita dal medico competente, qual è quella di adibire l'attrice ad attività implicanti movimentazione manuale dei carichi di peso contenuto entro i tre chilogrammi, con riferimento alle mansioni svolte prima dell'intervento chirurgico, ma si è astenuta dall'adottare i provvedimenti necessari a seguito della dichiarazione di idoneità permanente dell'attrice alle mansioni stesse, emessa dal medico competente.
La dott.ssa F. ha, infatti, confermato in maniera univoca di aver emesso tale dichiarazione, chiarendo di non aver barrato per errore la relativa casella del modulo, sicché diviene irrilevante stabilire il motivo per cui la società sia in possesso di altro verbale, in pari data 08.09.2014, contenente, invece, la sola previsione di limitazioni.
Il medico competente ha, altresì, precisato di che presso il reparto a cui riteneva che la lavoratrice potesse essere adibita, in base alle condizioni di salute dopo l'intervento chirurgico, ossia il reparto profumeria, l'impegno di forza per sollevare carichi è di gran lunga inferiore che nel reparto di "Pescheria" e non ci sono carichi da spostare o movimentare, né microclima o posture incongrue da assumere ed i prodotti, assai leggeri, vengono prelevati e sistemati uno per volta. Tale circostanza è stata confermata da tutti i testi esaminati (D.F., F., L., M. e S.).
Accertata l'esistenza di inadempimento dell'obbligo di sicurezza del datore di lavoro, l'esame va portato sulle patologie accusate dalla lavoratrice e sul nesso di derivazione causale da tale inadempimento di un aggravamento delle stesse, stante la riconosciuta origine extra-professionale dell'insorgenza del quadro clinico iniziale, che aveva reso necessario, in base alla prospettazione attorea, l'intervento chirurgico, a cui, per come ha rilevato il CTU, la lavoratrice si era sottoposta per ernie discali, la più importante a livello di C5/C6, con segni di compressione midollare.
L'ausiliario ha annotato che nella fase successiva all'intervento emergeva una sofferenza trigeminale che si manifestava con dolore persistente talora con esacerbazioni violente e che il periodo di convalescenza dopo l'intervento avvenuta a maggio 2014 terminava il 22.08-2014.
Ha quindi ricostruito l'attuale quadro clinico siccome caratterizzato da:
-riferiti dolori da nevralgia trigeminale in trattamento ortodontico;
-cicatrice alla base del collo sul versante destro in esito all'intervento subito dolenzia spontanea rachidea nel tratto cervicale, dolore alla digitopressione, fenomeni di spasmo muscolare a livello cervicale ed arti;
-limitazione dei movimenti del rachide crvicale di circa 1/3;
-spalla dx limitazione dei movimenti di 1/2;
-spalla sx presenta una limitazione dei movimenti di 1/3;
-ridotta la forza contro opposizione dei movimenti degli arti superiori e inferiori;
- fini tremori e fascicolazioni a livello degli arti superiori specie il sinistro più evidenti in opposizione;
- accosciamento non possibile;
- riflessi osteotendinei vivaci.
Il CTU ha infine descritto il quadro psichico ed ha espresso le seguenti conclusioni medico-legali: "La patologia (ernia disco cervicale) trattata chirurgicamente e la tendinopatia degenerativa delle spalle non sono riferibili con criterio di certezza ne' di fondata probabilità all'attività lavorativa. Il quadro clinico cervicale rilevato a carico del distretto anatomico cervico mandibolare all'esito dell'intervento per ernia discale (riduzione dei movimenti del tratto cervicale, fascicolazioni arti superiori ed incongruenza cervico-mandibolare) è espressione di stimolazione del midollo spinale distrettualmente alla sede di intervento non in nesso con l'attività lavorativa.
L'esposizione per circa un anno alla noxa lavorativa (non consentita) ha influito negativamente marginalmente sul quadro clinico descritto comportando un modesto ulteriore peggioramento con modesto maggior danno.
La riammissione al lavoro è stata condizionata da errori (cfr doc.6,7,8) di parte resistente rappresentati da
1-mancato rispetto delle prescrizioni formulate dal Medico competente (cfr doc.6)
2-mancato rispetto della condizione di non idoneo alla mansione (cfr. doc 8)
Detti errori hanno determinato una riammissione al lavoro non conforme al parere del Medico Competente che ha provocato coinvolgimento psichico reattivo con maggior danno.
Il disturbo psichico (sindrome ansioso depressiva reattiva) certificata il 17.2.2016 (cfr certificato Dr N.) e confermata da successive certificazioni specialistiche in atti 21.5.2014 così nella relazione; recte: 22.9.2016 (cfr. ultimo certificato psichiatrico in atti) è in relazione con il clima lavorativo ritenuto avversativo dalla B. ed è riconducibile a Disturbo dell'adattamento cronico lieve.
Il maggior danno riconducibile all'attività lavorativa è quantificabile nel 5%".
Tali conclusioni non sono state fatte oggetto di osservazioni dalle parti entro il termine ad esse assegnato dal CTU ai fini della trasmissione di eventuali rilievi.
Il giudicante reputa le conclusioni peritali pienamente condivisibili, in quanto conformi ai risultati dell'istruttoria espletata, da cui è emerso che le mansioni di "addetta al reparto pescheria" svolte da E.B. presso il supermercato Iper*** di P***d*** di Teramo della S. S.p.A. prevedevano la movimentazione manuale di carichi, l'esposizione ad un microclima sfavorevole, il sovraccarico biomeccanico degli arti superiori e l'assunzione di posture incongrue per come rilevato dal medico competente nella visita dell'01.10.2015 (cfr.doc. 9 fasc. ric. e riferimento a pag.12 e sg. relazione del CTU).
Dalle deposizioni testimoniali è stata infatti pienamente confermata l'esposizione della lavoratrice ai fattori di rischio indicati.
Circa la deduzione di concorso di colpa della ricorrente, è noto che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica e psichica del lavoratore, è interamente responsabile del danno che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo, nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente - in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente preposto che ne faccia le veci) - finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza), funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso (Cass. civ., Sez.lav., 08/04/2002, n.5024; Cass. civ., Sez.lav., 16/07/1998, n.6993).
L'eventuale mancato rispetto di regole di sicurezza da parte del lavoratore non esonera quindi il datore di lavoro dalla responsabilità per l'evento dannoso, atteso che la posizione primaria di garante della sicurezza spetta all'imprenditore, in quanto soggetto che organizza l'attività produttiva.
Deve di conseguenza affermarsi la responsabilità del datore di lavoro (S. S.p.A.) per la malattia da cui è affetta la ricorrente, avendo questi omesso di impedire che l'attività venisse prestata in violazione delle predette norme.
Per le ragioni sopra svolte, va affermata la responsabilità della convenuta S. S.p.A. nella causazione dell'aggravamento della patologia per cui è causa, così come accertato dal CTU.
Tutto ciò premesso, la domanda proposta attiene al c.d. danno biologico o alla salute, intesa come integrità fisica del soggetto compromessa o alterata dal fatto lesivo (invalidità permanente), ed al danno morale.
Passando ad esaminare la determinazione del danno, dalla consulenza medico legale, a cura del dr.M.M., risultano sia l'aggravamento del danno subito dalla ricorrente rispetto all'entità dei postumi a carattere permanente residuati alla malattia per cui ella si era sottoposta ad intervento ("cervicopatia"), sia l'esistenza del necessario nesso di causalità dell'aggravamento della suddetta patologia con le mansioni di addetta al reparto "pescheria" svolte dall'attrice presso la resistente e l'irreversibilità dei postumi.
La complessiva valutazione dell'aggravamento nella misura del 5% appare condivisibile in quanto immune da errori o vizi logici e supportata da congrua ed esauriente motivazione, come tale idonea a fondare il convincimento del giudice.
A fronte del quadro patologico sopra riportato, spetta alla ricorrente il seguente risarcimento con riguardo al danno alla salute da invalidità permanente (figura, com'è noto, individuata dalla giurisprudenza di legittimità, in considerazione dei principi elaborati in particolare dalla Corte Costituzionale n.184 del 1986 e n.372 del 1994, con affrancazione di essa dal vincolo della riserva di legge di cui all'art.2059 cod. civ., dopo la riconduzione del danno biologico nella figura del danno non patrimoniale ad opera delle sentenze cd. gemelle delle Sezioni unite della S.C. n.8827 e 8828/2003, in forza della sentenza n.233 del 2013 della Corte costituzionale), esso va inteso come menomazione arrecata all'integrità psicofisica del soggetto, in violazione dell'art. 32 Cost., che trova la sua fonte di tutela nell'art.2059 Cod.Civ. e va risarcito indipendentemente dal fatto che dalla menomazione sia derivata anche una perdita patrimoniale. Trattasi quindi di danno di natura non patrimoniale, così come definitivamente chiarito nella sentenza della Corte Costituzionale n. 233 del 2013, indennizzato indipendentemente dalle ripercussioni sul reddito o sulle capacità di guadagno del soggetto.
È noto che la Suprema Corte, nella sentenza n.12408 del 2011, ha chiarito che nella liquidazione del danno biologico è congeniale l'adozione di criteri valutativi, che consentano di coniugare l'esigenza di uniformità pecuniaria di base con la flessibilità atta ad adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto, requisiti, questi, che si ravvisano nelle cd. tabelle elaborate presso gli Uffici giudiziari del distretto di Milano. Tale impostazione è seguita dalla giurisprudenza successiva (cfr., e multis, Cass.20 aprile 2017, n.9950), stanti la perdurante mancanza di criteri oggettivi e la conseguente esigenza di continuare a fare ricorso ad un metodo, qual è quello del "criterio a punto variabile", idoneo ad assicurare la parità di trattamento, siccome spontaneamente recepito dalla maggior parte degli altri uffici giudiziari.
Si ritiene quindi di adottare, ai fini della quantificazione del risarcimento, il criterio sopra specificato, rispondente ai requisiti dell'uniformità pecuniaria di base (in assenza di un parametro legale di determinazione) e della flessibilità atta a consentire di adeguare la liquidazione alla effettiva incidenza della menomazione sulla qualità della vita.
Le tabelle attualmente in uso presso il Tribunale di Milano, ed i criteri approvati dall'osservatorio sulla giustizia civile del medesimo Tribunale in data 10.10.2017 (c.d. liquidazione congiunta), devono ritenersi rispondenti a tali esigenze in considerazione dell'idoneità all'estensione del loro utilizzo nell'applicazione giurisprudenziale del criterio equitativo indicato negli artt.1223 e 2056 Cod.Civ., come rivela l'omogeneità dei precedenti anche presso questo Tribunale; l'adozione del criterio a punto d'invalidità conformemente con tali tabelle consente, d'altra parte, di valutare l'incidenza progressiva della menomazione anche secondo l'età del danneggiato mediante coefficienti di moltiplicazione articolati in una scala discendente anno per anno.
La valutazione del danno non patrimoniale viene espressa come segue: valore attuale del punto desunto dalla tabella per l'accertato grado d'invalidità per il coefficiente corrispondente all'età al momento del sinistro.
Alla stregua dei criteri sopra richiamati, pare equo liquidare a titolo di danno non patrimoniale conseguente a "lesione permanente dell'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico legale" e di danno morale soggettivo, conseguente alle medesime lesioni in termini di "dolore" e "sofferenza soggettiva" (c.d. liquidazione congiunta) la somma di Euro.7.261,00, valutata all'attualità e calcolata utilizzando il suddetto criterio della liquidazione a punto, prendendo a base del calcolo la misura dell'alterazione psicofisica indicata dal consulente (pari al 5%), fissando il valore del punto danno non patrimoniale 2017, sostanzialmente corrispondente a quello attuale, in Euro.1.847,61 e moltiplicando il danno espresso in Euro per il coefficiente demoltiplicatore (0,785), relativo all'età anagrafica della danneggiata al tempo del fatto (anni 44), sulla base delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano che si ritiene di far proprie in considerazione della affidabilità dei criteri ispiratori che consentono il serio ristoro del danno ed in funzione dell'uniformità di trattamento a parità di danno.
Circa la richiesta di personalizzazione del risarcimento, si osserva che non sono state allegate qualità personali della danneggiata che facciano apparire verosimile che le ripercussioni sul fare a-reddituale della stessa delle conseguenze dell'evento lesivo siano destinate ad assumere una rilevanza maggiore rispetto a quella espressa dalla misura del cd. punto di invalidità. La somma liquidata a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale è determinata con valutazione attuale. Competono quindi alla ricorrente gli interessi legali ed il risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria.

2) Domanda di pagamento delle retribuzioni per il periodo di sospensione dal servizio dal 16.11.2015 al trasferimento dell'attrice presso il reparto profumeria.

La ricorrente ha impugnato il provvedimento di sospensione dal servizio senza retribuzione adottato dalla società resistente a seguito dell'espressione da parte del medico competente, in data 01.10.2015, dopo l'effettuazione di visita di controllo, del giudizio di inidoneità della lavoratrice alle mansioni di addetta al reparto "pescheria".
La ricorrente rileva che, poiché, in realtà, il medico competente aveva già espresso un giudizio di inidoneità a quelle mansioni in data 08.09.2014 e la lavoratrice era poi risultata idonea a quelle di commessa del reparto profumeria, ciò significava che, se la società si fosse subito uniformata al giudizio del medico competente, come suo dovere, avrebbe adibito la lavoratrice stessa a tali nuove mansioni senza sospenderla dal lavoro.
Il provvedimento di sospensione adottato tardivamente era pertanto illegittimo ed aveva concretato inadempimento della società all'obbligazione contributiva dalla data della sospensione (16.11.2015) alla data di riammissione in servizio della lavoratrice presso altro reparto aziendale.
La società resistente ha eccepito che la questione relativa alla legittimità del provvedimento aziendale e quindi della mancata erogazione delle retribuzioni in tale periodo era definita dalla transazione intercorsa tra le parti con il verbale di conciliazione redatto davanti all'apposita Commissione istituita presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Teramo, nell'ambito della procedura ex art.7 L. n. 604 del 1966 (come modificato dalla L. n. 92 del 2012).
La ricorrente ha replicato nelle note finali che la società aveva adempiuto la prima obbligazione assunta nel verbale di conciliazione, consistente nel reperire nel complesso aziendale una postazione di lavoro confacente alle sue condizioni di salute, senza invece rispettare l'obbligo di corrisponderle la somma di Euro 2.000,00 con il primo cedolino paga successivo alla visita medica di verifica dell'idoneità dell'attrice alle nuove mansioni.
Infatti il medico competente aveva dichiarato la lavoratrice idonea alle nuove mansioni in data 11.07.2016, l'esito della visita le era stato comunicato il 26.07.2016 e l'attrice con lettera del 23.08.2016 era stata convocata per la ripresa del servizio dal 24.08.2016.
Ha, pertanto, ritenuto che, in ragione dell'inadempimento della società datrice di lavoro e del mancato rispetto dell'obbligo di pagamento di Euro 2.000,00 stabilito nel verbale di conciliazione del 05.07.2016, tale parte della conciliazione doveva ritenersi risolta e non più efficace, con conseguente inefficacia della rinuncia della lavoratrice al pagamento delle ulteriori retribuzioni non percepite durante l'intero periodo di sospensione dal lavoro dal 16.11.2015 al 31.08.2016 e con reviviscenza del diritto della stessa al pagamento di tutte tali retribuzioni non percepite.
Ai fini del decidere in ordine alle contrapposte domanda ed eccezione delle parti circa tale punto della controversia, a parere del giudicante, necessita verificare, anche d'ufficio, se il verbale di conciliazione intercorso tra le parti in data 05.07.2016 contenga un termine essenziale o una clausola risolutiva espressa nella parte in cui indica il termine di pagamento della somma di Euro 2.000,00 alla scadenza della prima mensilità successiva al buon esito della visita medica ("primo cedolino successivo al buon esito della visita medica", secondo l'espressione adoperata nel verbale di conciliazione").
Nell'ipotesi affermativa, infatti, sarebbe configurabile una risoluzione ipso iure del verbale di conciliazione, salvo, poi, dover verificarsi se questa sia ammissibile come risoluzione parziale, secondo quanto richiesto dalla ricorrente, questione da risolversi mediante l'indagine volta a stabilire le parti avessero inteso l'oggetto delle pattuizioni intercorse in tale verbale come scindibile e se, quindi, avessero ritenuto ammissibile che si verificasse la risoluzione della transazione limitatamente alla parte relativa allo scambio tra la rinuncia espressa dalla ricorrente a retribuzioni ulteriori e l'assunzione da parte della società dell'obbligo di corrispondere alla lavoratrice la somma di Euro 2.000,00, intendendo, cioè, tale oggetto della transazione come indipendente da quello riferito allo scambio tra rinuncia da parte della lavoratrice ad altri diritti e riammissione in servizio; nell'alternativa, invece, ossia dovendo escludersi l'esistenza di un termine essenziale o di una condizione risolutiva riferita al pagamento della somma di Euro 2.000,00 nel verbale di conciliazione, la pretesa della ricorrente di reviviscenza degli obblighi derivanti dalla funzionalità del rapporto di lavoro dal 16.11.2015 al 31.08.2016 risulta valutabile solo alla condizione che la ricorrente abbia proposto una vera e propria domanda riconvenzionale di risoluzione parziale della transazione (sempre dovendosi accertare, anche in tale ipotesi, poi, se sia ammissibile la risoluzione parziale), domanda necessaria in ragione del fatto che la pronuncia invocata avrebbe natura costitutiva e sarebbe subordinata, ex art.1454 cod. civ., alla positiva valutazione giudiziale circa la non scarsa importanza dell'inadempimento dell'obbligo, avuto riguardo all'interesse del creditore.
Ciò posto, si esamina il contenuto del verbale di conciliazione intercorso tra le parti.
In tale verbale - redatto nell'ambito di una procedura ex art.7 L. n. 604 del 1966 - si legge che "... tenuto conto del fatto che si è recentemente liberata una postazione di lavoro in un reparto diverso da quello occupato precedentemente dalla lavoratrice, previo controllo di carattere sanitario da parte del medico della ditta, quest'ultima si dichiara disponibile al reintegro subito dopo l'esito positivo della predetta visita medica; a fronte del pregresso periodo di inattività, la Commissione propone un indennità di risarcimento danno da quantificare da parte del datore di lavoro; la ditta accetta la proposta della Commissione e quantifica il risarcimento nella somma di Euro 2.000,00 netti da corrispondersi con il primo cedolino paga successivo al buon esito della visita medica; la lavoratrice, a questo punto, accetta senz'altro quanto proposto dalla ditta, senza null'altro a pretendere dalla ditta stessa per l'intero periodo di sospensione dal lavoro".
Le parti hanno indicato il termine di adempimento con un'espressione che denota l'intenzione di individuare una data certa per l'adempimento dell'obbligazione, assunta con il verbale di conciliazione dalla società, di corrispondere detta somma di Euro 2.000,00 a titolo risarcitorio in favore della lavoratrice a fronte del pregresso periodo di inattività.
La stessa ricorrente si è astenuta dal dedurre che in tale modalità di fissazione del termine fosse insita la manifestazione della volontà di considerare lo stesso essenziale.
Né, in ogni caso, una qualificazione in tal senso del termine di pagamento è predicabile in base al rilievo della funzione della retribuzione del lavoratore subordinato (della quale il risarcimento del danno da inattività per causa imputabile al datore tiene luogo).
Infatti, anche con riferimento all'obbligazione retributiva, deve escludersi che la ritardata corresponsione di una mensilità di essa costituisca di per sè giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro subordinato da parte del prestatore.
Anche il comportamento successivo alla stipulazione della transazione conferma che era estranea alla volontà delle parti l'attribuzione al termine di adempimento di carattere essenziale, ove si consideri che la società ha pacificamente corrisposto l'importo di Euro 2.000,00 con il prospetto paga del mese di novembre 2016 e che la lavoratrice, che pure avrebbe avuto diritto di rifiutare tale pagamento ai sensi dell'art.1453 cod. civ., siccome offerto dopo la data di deposito del ricorso giurisdizionale, lo ha invece accettato.
Da quanto precede discende che la valutazione di gravità dell'inadempimento rimane affidata necessariamente alla valutazione giudiziale, avendone le parti omessa una predeterminazione convenzionale, e che la valutazione giudiziale postula una domanda di risoluzione ex art.1453 cod. civ., con esclusione, invece, della risoluzione automatica.
In mancanza di proposizione di una domanda di risoluzione giudiziale del verbale di conciliazione giudiziale, dunque, la deduzione attorea di reviviscenza dell'obbligazione retributiva per il periodo dal 16.11.2015 al 31.08.2016 non può essere accolta, in quanto preclusa dalla natura necessariamente costitutiva della sentenza a tal fine indispensabile.

3) Domanda di garanzia proposta nei confronti dell'INAIL.

Va da ultimo esaminata la posizione dell'INAIL, che la S. S.p.A. ha inteso chiamare in giudizio al fine di esserne sollevata dall'onere di pagamento delle somme spettanti alla lavoratrice a titolo di risarcimento dei danni in caso di accoglimento della domanda.
Come eccepito dall'Istituto assicuratore, la copertura da questo per legge offerta in caso di malattie professionali, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, ha funzione indennitaria a favore dei lavoratori destinatari della tutela, anche se questa è strutturata in forma assicurativa, mediante una modalità di ripartizione dell'onere economico delle prestazioni erogate a tali lavoratori che tiene conto del tasso specifico aziendale, oltre che di quelli medi di tariffa, per la determinazione dell'importo dei contributi dovuti dalle imprese, indicati, infatti, come premi.
L'assicurazione sociale si distingue pertanto da quella regolata dagli artt.1882 sgg. cod. civ., come stabilito esplicitamente nell'art.1886 cod. civ., ai sensi del quale le assicurazioni sociali sono disciplinate dalle leggi speciali e solo in mancanza di esse si applicano le norme del capo XX del Titolo III del Libro quarto del Codice civile.
Nel D.P.R. n. 1124 del 1965 le prestazioni erogabili agli assicurati sono partitamente regolate in relazione alla tipologia di esse, sotto forma di rendita, indennizzo una tantum (in specie a seguito del D.Lgs. n. 38 del 2000) e di sussidi sanitari, con esclusione di qualsiasi previsione di indennizzo in favore dei datori di lavoro a garanzia del risarcimento dei danni da questi dovuto ai lavoratori infortunatisi o ammalati, anche nell'ipotesi in cui il tasso di invalidità da costoro riportato sia inferiore alla soglia indennizzabile dall'INAIL.
In tale caso, che ricorrente nella specie, infatti, si verifica semplicemente l'esclusione dell'operatività dell'assicurazione sociale e l'onere economico connesso all'obbligazione risarcitoria resta interamente a carico del datore di lavoro, restando di conseguenza esclusa la rivalsa dell'Istituto assicuratore ai sensi dell'art.10, comma 3, D.P.R. n. 1124 del 1965 cit.
La domanda di garanzia proposta dalla società resistente nei confronti dell'INAIL va pertanto rigettata.
 

P.Q.M.

4) SPESE

Le spese di lite seguono la regola generale della soccombenza sulla domanda principale della lavoratrice (risarcimento del danno) e si liquidano come da dispositivo.
Nella liquidazione delle spese, si tiene conto del valore della causa, della complessità delle questioni trattate e dell'articolato svolgimento del presente giudizio.
Per gli stessi motivi sopra esposti le spese di consulenza tecnica d'ufficio, liquidate con separato decreto, restano a totale carico della S. S.p.A.
Circa le spese di costituzione e difesa sostenute dall'INAIL, l'attribuzione segue del pari il criterio della soccombenza e la relativa liquidazione tiene conto della minore complessità delle questioni trattate.
Questi i motivi del retroscritto dispositivo.
Così deciso in Teramo, il 10 febbraio 2021.
Depositata in Cancelleria il 16 agosto 2021.