Cassazione Penale, Sez. 4, 27 settembre 2021, n. 35510 - Caduta mortale dell'elettricista dalla scala verticale a pioli nella chiatta battente bandiera indiana. Subappalto e responsabilità


 

Presidente: DI SALVO EMANUELE
Relatore: ESPOSITO ALDO Data Udienza: 20/05/2021






Fatto
 



1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Ferrara del 23 settembre 2014, con cui O.G., C.P. e B.G. erano stati condannati alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, coi benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, in relazione ai seguenti reati:
O.G.:
- 589 cod. pen., perché quale titolare della B.S. s.r.l., e di responsabile per la sicurezza sul lavoro, per colpa generica e specifica, cagionava colposamente la morte del dipendente B.A., ometteva di informare adeguatamente il dipendente sui rischi e sulle precauzioni da adottarsi in caso di utilizzo di scale verticali a pioli, prive di qualsiasi presidio di sicurezza e di vigilare affinché il B.A. indossasse e/o utilizzasse soprattutto in tali circostanze i dispositivi di protezione individuale (elmetto, cintura di sicurezza); nella fattispecie, il B.A. prestava la propria opera di elettricista sulla chiatta denominata "Bulk Prosperity" battente bandiera indiana, allorché l'imbarcazione si trovava ancorata nella baia antistante il porto di Bombay (India) in mare aperto - ove avrebbe dovuto effettuare taluni lavori di impiantistica, unitamente al collega ing. M.G. col quale aveva appena finito di comunicare via radio, quando nell'atto di utilizzare la scala fissa a pioli verticale, "priva di gabbia" e di altri idonei presidi di sicurezza, si sbilanciava precipitando nel vuoto e accasciandosi sul piano di calpestio più prossimo; in questo modo, a seguito del trauma da precipitazione, riportava lesioni gravissime quali: "politraumatismo contusivo-fratturativo, a prevalente applicazione cranica, produttivo di encefalopatia acuta ed irreversibile" a cagione delle quali decedeva successivamente, nel corso delle manovre di soccorso.
B.G. e C.P.:
- 40, comma secondo, 113 e 589 cod. pen., perché, in cooperazione colposa tra loro e con l'O.G., rispettivamente il C.P., in qualità di legale rappresentante della CoeC.P. s.p.a., committente dei lavori e il B.G., in qualità di legale rappresentante della B.G. s.p.a., appaltatore dei lavori che a sua volta ha subappaltato parte dei lavori alla ditta B.S. s.r.l., per colpa generica e specifica e precisamente, durante i lavori di messa in marcia di un impianto per il trasporto materiali, sulla chiatta denominata "Bulk Prosperity"' battente bandiera indiana, ormeggiata nella baia antistante il porto di Bombay (India), per non aver, nelle qualità sopra evidenziate in relazione alla natura dell'attività oggetto di appalto e subappalto, ognuno per la parte di propria competenza, effettuato una mirata e completa analisi e valutazione dei rischi connessi ai lavori su indicati, organizzato un preventivo sistema di informazione e formazione sui rischi individuati e su come operare in sicurezza ed inoltre per non aver nominato il preposto nonostante i lavori fossero in atto (violazione degli artt. 4, 7, 21 e 22 D.Lvo n. 626 del 1994) e per aver fatto utilizzare al B.A., una scala fissa a pioli, non regolare ai fini della sicurezza, perché priva di idonee misure atte ad evitare la caduta delle persone (violazione dell'art. 17 d.P.R. n. 547 del 1955); cagionavano per tali cause la morte del B.A.. In Bombay (India) il 3 aprile 2008.
In ordine alla ricostruzione della vicenda criminosa, il Tribunale esponeva quanto segue:
a) il C.P., in qualità di Presidente della società CoeC.P. Logistics s.p.a., era committente dell'impianto sul quale stava lavorando il B.A., come da contratto stabilito per la costruzione della nave con due società cinesi; quindi, in date 17 e 19 luglio 2006, la CoeC.P. Logistics s.p.a., in persona del C.P., aveva commissionato alla B.G. s.p.a. la fornitura di un sistema di movimentazione di carbone, da installare sulla nave;
b) il B.G. era il legale rappresentante della B.G. s.p.a. appaltatrice;
c) tale s.p.a. aveva a sua volta subappaltato la fornitura delle componenti elettriche del sistema di movimentazione (ed il connesso servizio di assistenza tecnica al montaggio, prove ed avviamento) alla B.S. s.r.l., della quale l'O.G. era titolare e responsabile della sicurezza e dunque datore di lavoro del B.A., diplomato come perito elettromeccanico.
Nel cantiere cinese, luogo di costruzione della nave e di montaggio del sistema di movimentazione, e a bordo dell'imbarcazione in India, era presente personale delle società CoeC.P. Logisitics s.p.a., B.G. s.p.a. e B.S. s.r.l..
Il gruppo della B.S. s.r.l., guidato dal B.A. (e composta anche dall'ing. M.G. e da M.E.), si coordinava necessariamente, per l'esecuzione dell'impianto elettrico, coi dipendenti della B.G. s.p.a., che si occupavano degli aspetti meccanici dell'impianto. Inoltre, l'ing. Corrado C. (della CoeC.P. Logistics s.p.a.) ed i suoi collaboratori ing. P.B. e A.S. erano presenti a bordo della nave, per supervisionare i lavori.
Il B.A., dipendente da molti anni in qualità di elettricista della B.S. s.r.l., aveva lavorato in cantieri di vario tipo, ma quella sulla Bulk Prosperity era la sua prima esperienza lavorativa a bordo di un'imbarcazione. Egli aveva seguito anche la fase finale della realizzazione dell'impianto B.G. in Cina (infatti la parte elettrica era stata effettuata nella fase finale della costruzione) e dal 1° aprile 2008 prestava la sua attività a bordo della nave in India, nella baia di fronte a Bombay.
Quanto alle modalità dell'infortunio, i testi M.G., M.E., B. e C. dichiaravano che, il 3 aprile 2008, il B.A. stava completando il cablaggio dei cavi elettrici di una centralina idraulica, per cui era dovuto salire fino a tale centralina, collocata quasi alla sommità dell'impianto meccanico B.G., ovvero della nave, nei pressi del ponte di comando.
L'ing. C., in particolare, dichiarava che, mentre si trovava nella cabina del comandante unitamente a quest'ultimo, aveva sentito prima dei rumori di oggetti che cadevano sul ponte e poi un forte tonfo; allertato dal comandante che gli aveva riferito della caduta del B.A., dopo circa un minuto usciva dalla cabina e vedeva il corpo del B.A. disteso sul ponte di coperta, in corrispondenza di una sovrastante scala verticale. Nel punto della caduta, infatti, v'era una scala obliqua, dotata di corrimano, che da un pianerottolo orizzontale portava al ponte di comando, e, più o meno a metà della stessa, si innestava la suddetta scala verticale a pioli lunga m. 3 circa, che portava al tetto della nave.
Il B.A. era posizionato su una barella improvvisata e trasportato, mediante un'altra imbarcazione, a terra; ma decedeva alcune ore dopo mentre riceveva le cure mediche. L'accertamento autoptico svolto a Mumbay il 4 aprile 2008 consentiva di individuare la causa del decesso nella lesione alla testa con ferite multiple. Il consulente tecnico del P.M. dr. Lorenzo Marinelli, che aveva esaminato il corpo del defunto l'11 aprile 2008, giungeva a conclusioni analoghe.
La costruzione della scala a pioli doveva essere ritenuta in sé legale, non essendo all'epoca imposta l'adozione di gabbie di protezione o simili per le scale a pioli come quella in esame, spesso realizzate in ambito navale, anche se per l'accesso a spazi di uso non frequente. Gli enti di classifica italiano ed indiano (RINA ed IRS) avevano ritenuto regolare La Bulk Prosperity.
Come dichiarato dal B., il B.A. doveva passare su vari tipi di scale varie volte al giorno; secondo il M.G., la scala a pioli appariva alzarsi sul vuoto; inoltre al termine della salita o prima di affrontare la discesa si doveva anche aprire o richiudere una catenella posta in alto, alla sommità della scala.
Come affermato dal consulente del P.M. Belloni, la scala avrebbe dovuto essere dotata di dispositivi di sicurezza quale un dispositivo anticaduta a rotaia o a fune; ad avviso dei consulenti della difesa ing. Guido Benetello ed ing. Martinoli, che avevano ritenuto il dispositivo indicato dal Belloni sovrabbondante ed abitualmente non in uso sulle navi - sarebbero stati necessari e sufficienti dispositivi di protezione individuali e, in particolare, un'imbracatura a doppio cordino, che in caso di perdita di equilibrio avrebbe evitato la caduta impedendo l'impatto a terra.
L'O.G. era il datore di lavoro e titolare di una posizione di garanzia, avendo l'obbligo di verificare la sicurezza dei luoghi di lavoro, valutare i rischi presenti e fornire i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale, formare i lavoratori in ordine ai rischi specifici, vigilare affinché usassero i dispositivi di protezione.
La committente era presente sulla nave mediante i propri funzionari: il M.G. (di B.S. s.r.l.) e il B. (di B.G. s.p.a.) dichiaravano che il punto di riferimento per i lavori in India era l'ing. C. della CoeC.P..
Quanto al B.G., la B.G. s.p.a. aveva subappaltato alla B.S. s.r.l. solo la componente elettrica dell'impianto, trattenendo per sé la parte meccanica: i lavoratori delle due società dovevano necessariamente coordinarsi. L'ingerenza della B.G. s.p.a. era persino contrattualmente prevista.
Il rischio che un lavoratore non marittimo - non adeguatamente informato e non indossante i necessari dispositivi di protezione - dovesse più volte al giorno percorrere la scala in questione era immediatamente percepibile e tuttavia i dipendenti della B.S. s.r.l. e della B.G. s.p.a. non li utilizzavano.

2. Secondo la Corte di appello, il Giudice di primo grado aveva compiutamente esposto e correttamente valutato le risultanze dell'istruttoria dibattimentale e i motivi di gravame non apparivano idonei a smentire la ricostruzione dei fatti e la valutazione probatoria compiuta dal Tribunale, costituendo riproposizione di tesi difensive ampiamente confutate in sentenza.
2.1. La Corte territoriale ha condiviso le conclusioni raggiunte dal Tribunale in ordine alla ricostruzione delle modalità dell'infortunio mortale.
Si è evidenziato che, il giorno del fatto, il B.A. stava completando, il giorno dell'incidente, il cablaggio dei cavi elettrici della centralina idraulica che era collocata nella cabina di guida dell'impianto meccanico B.G., posta quasi alla sommità dell'impianto medesimo ovvero quasi alla sommità della nave, nei pressi del ponte di comando. Circa mezz'ora/un'ora prima dell'infortunio, l'ing. M.G., dipendente della B.S. s.r.l., chiedeva al B.A. di effettuare alcuni controlli sulla consolle sita all'interno della suddetta cabina di guida dell'impianto B.; il B.A. li effettuava, parlando via radio col M.G., che al computer constatava la richiesta di accensione della consolle. Certamente quel giorno il B.A. stava lavorando nella centralina (indicata chiaramente dai testi M.G. e B. - quest'ultimo dipendente della B.G. s.p.a.), per sistemare gli ultimi elementi prima di poter effettuare le prove in bianco (senza materiali) dello ship loader, per le quali avrebbe dovuto coordinarsi proprio col B..
Il C., dopo avere udito il tonfo, uscito dalla cabina, vedeva il corpo del B.A. disteso sul ponte di coperta (nel punto ripreso nella foto 2, indicato anche dal teste M.G., corrispondente peraltro al punto individuato dal B. nella foto 3A). Il B.A. giaceva sul ponte in corrispondenza della sovrastante scala verticale (foto 4A) (che si innestava sulla scala obliqua - a gradini e dotata di corri­ mano - che da un pianerottolo orizzontale, da cui si accedeva alla cabina del comandante, portava al ponte di comando) che portava al tetto della nave.
Il C. dichiarava che, uscendo dalla cabina del comandante dopo l'allarme, aveva visto sul pianerottolo posto alla base della scala obliqua alcuni spezzoni di cavi elettrici prima non presenti e altri spezzoni dello stesso tipo erano stati trovati sul ponte vicino al corpo del B.A.: si trattava di oggetti del tipo di quelli utilizzati dal B.A. per il cablaggio della centralina idraulica. Peraltro, in prossimità del luogo di ritrovamento dei suddetti spezzoni non v'erano cavi penzolanti, sicché gli spezzoni non potevano che essere caduti all'infortunato, come ritenuto nell'immediatezza dai dipendenti delle tre le società impegnate sulla nave.
Il B.A., immediatamente prima della caduta, aveva percorso la scala obliqua e la scala verticale a pioli per raggiungere la propria postazione di lavoro: depongono in tal senso il fatto che tali scale conducevano al luogo in cui egli lavorava quel giorno (la centralina dell'impianto B.G.), il ritrovamento degli spezzoni di cavi elettrici prima non presenti e i rumori uditi dal C. e dallo stesso riferiti in dibattimento (prima la caduta di oggetti sul ponte e poi un tonfo).
Il B.A. avrebbe potuto percorrere una via alternativa per raggiungere la centralina, che prevedeva il passaggio attraverso le fondazioni dello ship loader e poi per una scala interna all'impianto B.G., ma quel giorno non aveva scelto tale via: si trattava di un percorso più sicuro, ma lungo e faticoso (come dichiarato dai vari testi). La caduta dalla scala verticale a pioli, priva di protezioni, è compatibile con le lesioni mortali riportate dal B.A.: A) l'ing. Belloni concludeva nel senso che il lavoratore era caduto da una considerevole altezza, di circa 10 - 11 metri; B) anche il dr. Marinelli chiariva in dibattimento che le lesioni riscontrate sul B.A. erano compatibili con una caduta da circa 10 metri di altezza, tenuto conto dell'altezza e del peso della vittima; C) con ciò non contrastava il fatto che, come evidenziato dall'ing. Jerry Mancini, consulente di difesa dell'O.G., il corpo del B.A. avrebbe dovuto essere ritrovato ad una distanza di circa tre metri dalla parete verticale, e non a due metri come indicato dai testimoni: invero, correttamente il Tribunale aveva considerato che l'indicazione del punto di ritrovamento del corpo effettuata dai testimoni non potesse essere ritenuta un'indicazione millimetrica ma unicamente di mas­ sima, essendosi i testi affidati solo alla memoria dei luoghi; D) l'esclusione da parte del dr. Marinelli della presenza di lesioni determinate dall'urto diretto contro una struttura contundente quale il parapetto della scala obliqua - lesioni che, secondo l'ing. Mancini, avrebbero dovuto essere state accertate se il B.A. fosse caduto dalla scala verticale - non contrastava con la caduta dalla medesima scala verticale: il dr. Marinelli chiariva di avere constatato la presenza di lesioni indicative dell'atter­ raggio del corpo su una superficie piana e priva di asperità, ma non escludeva che il corpo del B.A. potesse avere toccato altri corpi durante la caduta, perché a suo dire l'assenza di lesioni "a stampo" rivelava che il piano finale di arrivo era privo di elementi contundenti particolari, ma non escludeva che nella fase iniziale della caduta, quando minori erano la velocità e l'energia cinetica, potesse avere sfiorato qualche elemento come il parapetto della scala obliqua.
In ordine all'assenza di idonei presidi antinfortunistici, gli imputati non contesta­ vano che il B.A. non fosse dotato di idonei dispositivi di protezione individuale. L'ing. C. sosteneva di non aver visto dispositivi di protezione individuale accanto al corpo del B.A. (né elmetto, né cintura di sicurezza, né guanti), mentre il B., confermando di non avere visto imbracature, ma solo un caschetto per terra; il dr. Marinelli, dal canto suo, riferiva di non avere rilevato sul corpo del B.A. i segni tipicamente riconducibili alla presenza di imbracature o cinture.
La scala verticale a pioli, del tipo di quelle presenti comunemente sulle navi seppure per raggiungere spazi di uso non frequente, non era in sé stata costruita illegalmente, tanto vero che la "Bulk Prosperity" aveva superato le verifiche degli enti di classifica italiano ed indiano (RINA e IRS): all'epoca, infatti, non era imposta l'adozione di gabbie di protezione e simili. Ma l'uso di quella scala comportava un rischio significativo di cadute da un'altezza di m. 10 circa, e dunque avrebbero dovuto essere certamente adottate misure di protezione ed il lavoratore avrebbe dovuto essere adeguatamente informato e formato sull'uso della medesima e delle altre simili pre­ senti sulla nave. Anche l'ing. Martinoli, consulente tecnico della difesa del C.P., e l'ing. Benetello, consulente tecnico della difesa del B.G. chiarivano che le tecniche di utilizzo in sicurezza delle scale a pioli sono trattate nei corsi di formazione, la cui organizzazione è imposta al datore di lavoro ex D.Lvo n. 626 del 1994, e la relativa disciplina antinfortunistica era uguale per il personale marittimo e di terra.
2.2. In ordine alle doglianze prospettate dall'O.G., doveva ritenersi pienamente provato che il lavoratore B.A. non aveva ricevuto una formazione ed informazione specifica in relazione ai rischi derivanti dalla prestazione di attività lavorativa a bordo della "Bulk Prosperity". Egli da molti anni era elettricista presso la Biesse si­ stemi s.r.l., ma lavorava per la prima volta a bordo di un'imbarcazione.
Il M.G. e l'M.E., colleghi del B.A., pure essi dipendenti della B.S. s.r.l., riferivano che, rispetto ai rischi inerenti l'attività lavorativa a bordo di una nave, non avevano ricevuto nessuna formazione né informazione, nonostante i rischi dell'attività a bordo di una nave fossero specifici e significativi : il lavoratore doveva affrontare più volte al giorno scale di lunghezza significativa, spesso a quote elevate che potevano dare sensazione di vertigine (proprio la scala a pioli in questione, come riferito dal M.G., percorsa in discesa, appariva alzarsi sul vuoto; peraltro, al termine della salita o prima di affrontare la discesa si doveva anche aprire o richiudere una catenella posta in alto); lo stesso ing. Benetello, consulente tecnico della difesa del B.G., affermava che allorché egli assume l'incarico di consulente sulla sicurezza in campo navale, forma immediatamente marittimi e manutentori in ordine all'utilizzo delle scale e delle imbragature, costituenti uno dei rischi principali a bordo delle navi. Inoltre, avrebbero dovuto essere predisposti presidi di sicurezza. Secondo il consulente tecnico del P.M. ing. Belloni sarebbe stato necessario montare sulla scala in questione un dispositivo anticaduta "a rotaia" o "a fune", cui il singolo lavoratore avrebbe dovuto agganciarsi con un'imbracatura, come previsto dalle norme Uni 353.1 e 353.2. I consulenti tecnici delle difese ing. Benetello e ing. Martinoli affermavano che il suddetto dispositivo sarebbe stato in realtà sovrabbondante rispetto alla scala in questione e che infatti non è utilizzato abitualmente sulle navi e che sarebbero stati sufficienti e necessari dispositivi di protezione individuale come un'imbracatura a doppio cordino, la quale, assicurata ai supporti fissi mediante moschettoni, in caso di perdita di equilibrio avrebbe bloccato la caduta, evitando l'impatto a terra. I due ingegneri sottolineavano che l'imbracatura a doppio cordino era diversa dalla mera cintura di sicurezza fornita, in via esclusiva, al B.A. (quale risulta dalla documentazione prodotta dalla difesa dell'O.G. e dalla deposizione dell'M.E., il quale confermava che i dipendenti della B.S. s.r.l. avevano ricevuto una cintura con una sola cima ed un solo moschettone e che egli non la usava per percorrere la scala in questione o comunque quando si doveva muovere, ma solo nelle situazioni in cui doveva lavorare in posizione statica).
Il B.A. non aveva ricevuto in dotazione nemmeno il dispositivo di protezione individuale ritenuto necessario dai consulenti delle difese e non era stato formato ed informato sui rischi specifici dell'ambiente di lavoro (nave) in cui avrebbe dovuto svolgere la sua attività lavorativa. Doveva quindi affermarsi la responsabilità dell'O.G., datore di lavoro del B.A., il quale, peraltro, come riferito da B.M. e dal M.G., gli impartiva le direttive in azienda e avrebbe dovuto prima degli altri a valutare il rischio per la sicurezza del lavoratore.
Adduce L'O.G. che l'impresa appaltatrice e subappaltante B.G. s.p.a. avrebbe assunto contrattualmente il rischio dell'organizzazione e dell'esecuzione dei lavori a bordo della nave e che la B.S. s.r.l. avrebbe assunto il solo obbligo di delegare in cantiere "uno specialista competente" della B.G. s.p.a., che !'O.G. non avrebbe potuto controllare. Tale clausola contrattuale, tuttavia, era stata inserita dopo l'infortunio per cui è processo.
2.3. Come considerato dal Tribunale, il potere di ingerenza della B.G. s.p.a. nei confronti del subappaltatore era previsto anche contrattualmente: nel contratto tra la B.G. s.p.a. e la B.S. s.r.l. erano inserite le clausole "Estensione degli obblighi del fornitore per quanto riguarda la garanzia" (che prevedeva: "La responsabilità del fornitore sarà vincolata non solamente ad un ritardo di consegna del materiale o di documentazione ma anche: se egli non eseguirà in cantiere in tempo utile e/o nel tempo stabilito, le prestazioni che eventualmente gli venissero richieste... ") e "Assistenza tecnica di montaggio, prove ed avviamento" (ove si prevedeva: "Il fornitore si impegna a delegare in cantiere, alle condizioni di garanzia summenzionate e nei termini più brevi possibili, se B.G. ne farà richiesta, uno specialista competente per effettuare sul materiale consegnato, tutte le operazioni di montaggio e/o supervisione al montaggio, prove a vuoto, messa in servizio e tutte le operazioni di messa a punto e di riparazione che si dimostrassero necessarie ... ").
I tre imputati dovevano essere ritenuti responsabili a titolo di cooperazione colposa omissiva: l'O.G. quale datore di lavoro; il C.P. e il B.G. in quanto committente e subcommittente che chiamavano ad operare la B.S. s.r.l. (quale appaltatrice e subappaltatrice) di cui l'infortunato era dipendente, ditta non specializzata in lavori a bordo di una nave, che doveva svolgere attività necessariamente interferenti con quelle della CoeC.P. Logistics s.p.a.. (interessata all'esecuzione dei lavori sia sotto il profilo meccanico che elettrico) e della B.G. s.p.a. (che per eseguire i lavori meccanici appaltati doveva necessariamente coordinarsi con l'impresa subappaltatrice dei lavori elettrici).
Il mancato utilizzo dei dispositivi di sicurezza, in quell'ambiente di lavoro comune, era costante e diffuso tra i lavoratori di tutte e tre le società, le quali non avevano formato ed informato i lavoratori (che non avevano esperienza lavorativa a bordo delle navi) dei rischi specifici legati all'ambiente di lavoro (quale quello rappresentato dalla scala a pioli da cui è caduto il B.A.) né impartito indicazioni e vigilato affinché quella scala a pioli, senza dubbio alcuno pericolosa, non venisse usata.

3. L'O.G., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo sette motivi di impugnazione.
3.1. Violazione degli artt. 43 e 40, comma secondo, cod. pen..
Si deduce che i Giudici del merito non hanno fatto buon governo dei principi giurisprudenziali in materia di colpa e di posizione di garanzia del datore di lavoro.
Il canone fondamentale che deve guidare il giudice nel giudizio sulla colpa è la concretezza: a) garante è il soggetto che gestisce il rischio in concreto e, in particolare, quando sul luogo del fatto storico esistono diverse aree di rischio e quindi di­ stinte aree di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; b) il garante deve avere un'effettiva e concreta conoscenza dei presupposti concreti dell'obbligo di attivarsi e non una conoscibilità astratta.
Il garante, anche se lontano dai luoghi dove dovrebbe esplicitare la propria garanzia, deve almeno avere percepito segnali di allarme circa anomalie esistenti nel luogo di lavoro. L'O.G. era lontano 6.000 Km. dal fatto: non gestiva direttamente il rischio e non aveva la c.d. 'presa sul fatto'. Non poteva avere contezza diretta della situazione tipica di rischio che fa scattare l'obbligo di impedire e i relativi poteri-doveri impeditivi. Il garante deve almeno avere avuto/ricevuto segnali di allarme o avvisi di anomalie tali da far supporre l'esistenza di un rischio concreto di accadimenti dannosi, ma !'O.G., invece, non ne aveva mai ricevuto dai presenti sulla chiatta.
Devono ricorrere i seguenti presupposti per configurare la posizione di garanzia:
a) l'esistenza in concreto di effettivi poteri idonei ad evitare la produzione dell'evento lesivo, cioè di poteri impeditivi, paradigma applicativo che specifica e impone la necessità di avere il potere di incidere con la propria condotta il decorso degli eventi;
b) la prossimità in concreto col bene da tutelare; c) l'esigibilità della condotta; cioè la possibilità di richiedere l'intervento impeditivo al garante nella situazione concreta;
d) l'accertamento in fatto di prevedibilità e di evitabilità.
Anche tali canoni devono essere accertati nell'ottica della concretezza e alla stre­ gua dell'agente modello razionale e tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute e in concreto (non in astratto) conoscibili dall'agente reale.
La causalità omissiva ha natura normativa e non fisico-naturalistica, per cui non è sufficiente attribuire ad un soggetto la qualifica di garante, ma occorre che il dovere di impedire sia accompagnato da effettivi poteri impeditivi e che il soggetto abbia un potere sulla situazione di fatto che gli consenta in concreto di agire. Nella fattispecie, alla base dei giudizi di responsabilità statuiti per O.G., manca un'analisi in concreto della prevedibilità, dell'evitabilità, dell'esigibilità, della gestione del rischio, della sussistenza di segnali di allarme nonché della situazione tipica che fa scattare l'obbligo di attivarsi e il correlato obbligo di esercitare i poteri impeditivi.
La scala teatro dell'infortunio era regolare. Era stata installata dopo le verifiche del RINA, e quindi, dopo il 27 dicembre 2007 in Cina. Tale dato di fatto costituiva una nuova e sopravvenuta situazione di rischio di cui O.G. non era mai stato a conoscenza, e non certo per sua negligenza. Il Comandante della Bulk Prosperity, i propri dipendenti presenti in loco M.G. ed M.E. e il personale della CoeC.P., presenti prima in Cina durante la costruzione del natante e poi in India non avevano mai avvertito l'O.G.. L'O.G. non poteva essere a conoscenza delle ulteriori fonti di pericolo, diverse da quelle valutate alla partenza del B.A. per l'India e derivanti dalla costruzione della chiatta e, in particolare, della scala de qua.
Due società cinesi sulla base di un contratto con la CoeC.P. Logistics s.p.a., stipulato il 5 luglio 2006, avevano appositamente costruito la chiatta in Cina a Nantong. Nel contratto, di costruzione e vendita, subentrava poi una società indiana.
L'O.G. non aveva mai visto l'imbarcazione - costruita ex novo al di fuori del suo ambito di conoscenze e di concreto intervento e ne ignorava la struttura oggettiva della imbarcazione. Non aveva mai avuto notizia dell'esistenza della scala a pioli.
Vale il principio di affidamento, che si unisce ai canoni precedentemente descritti circa la configurazione giuridica della colpa in concreto, e cioè della situazione per cui il garante può rispondere dell'omesso impedimento dell'evento soltanto se ha la direzione e il controllo della situazione concreta in essere storicamente: e, come minimo, se ha conoscenza dell'ambiente concreto in cui il fatto si è verificato; sempre sul presupposto che altri soggetti - anch'essi garanti - svolgano (e abbiano svolto) correttamente la propria attività di garanti e di controllo (si veda il RINA), salvo ovviamente il caso in cui pervengano segnali di allarme e anomalia. Se così non fosse, la posizione di garanzia verrebbe trasformata in un obbligo astratto e generalizzato, assurgendo ad un'ipotesi di responsabilità senza colpa.
Anche il tema della formazione del lavoratore va inquadrato e valutato giuridicamente coi parametri descritti sopra in materia di colpa. La formazione adeguata di un lavoratore concerne un determinato e concreto ambiente di lavoro e riguarda l'informazione su rischi specifici. L'O.G. non conosceva il luogo (la chiatta), la presenza di rischi specifici (la scala a pioli), l'organizzazione del lavoro sulla chiatta e i percorsi scelti dal B.A. nell'ambito del suo lavoro a bordo della chiatta stessa.
3.2. Vizio di motivazione.
La Corte territoriale, in modo del tutto illogico, non ha tenuto conto che il luogo del sinistro era un'imbarcazione ormeggiata in una rada in India ad una distanza di 6.228 km da Ravenna - e cioè dalla sede di B.S. s.r.l. e la nave - con gli specifici fattori di rischio - era stata costruita in Cina, al di fuori del controllo di O.G.. L'O.G. non era in India sull'imbarcazione in cui si era verificato il sinistro, non conosceva e non poteva conoscere lo stato dei luoghi e la collocazione delle scale presenti nell'imbarcazione. Inoltre, non era mai stata prevista contrattualmente la sua presenza a bordo dell'imbarcazione ove, invece, si trovavano il comandante e cioè la massima autorità per la sicurezza a bordo, rappresentanti della compagnia armatrice, rappresentanti della società CoeC.P. s.p.a. e rappresentanti della B. s.p.a. subappaltatrice della CoeC.P. s.p.a..
Il rapporto contrattuale intercorso tra la B.G. s.p.a. e la B.S. s.r.l., imponeva a quest'ultima di inviare ("delegare", per usare il termine contenuto nel contratto), su semplice richiesta della B.G. s.p.a., uno specialista competente per quanto riguarda il montaggio di un quadro elettrico. L'O.G. non poteva verificare la sicurezza dei luoghi di lavoro e valutare i rischi specifici ivi presenti, dovendosi limitare ad inviare un tecnico specializzato che sarebbe stato ovviamente "preso in carico" dalla B.G. s.p.a. già presente con propri incaricati sull'imbarcazione. Il B.A. non decedeva durante la lavorazione al quadro elettrico, ma cadeva in una zona dell'imbarcazione lontana dal luogo del montaggio.
3.3. Vizio di motivazione e travisamento delle prove.
La Corte di appello - là ove ha tentato di confutare le argomentazioni tecniche addotte dall'ing. Mancini, consulente tecnico della difesa dell'O.G., in ordine alla ricostruzione della dinamica del sinistro e in particolare del presunto punto dal quale sarebbe caduta la vittima e del punto di ritrovamento del corpo - ha sostenuto che il B.A. sarebbe caduto da un'altezza di m. 10 circa dalla scala verticale a pioli e che ciò non contrastava il fatto che, come evidenziato dall'ing. Mancini, in tal caso il corpo del B.A. avrebbe dovuto essere ritrovato ad una distanza di m. 3 circa dalla parete verticale e non a m. 2, come indicato dai testi e che correttamente il Tribunale aveva ritenuto l'indicazione del punto di ritrovamento del corpo effettuata dai testi non millimetrica ma unicamente di massima, avendo essi fatto affidamento solamente sulla memoria dei luoghi. In realtà, i testi non avevano mai riferito nulla in relazione al punto di ritrovamento del corpo della vittima: il che si inquadra a pieno titolo nello schema giuridico del travisamento delle prove e nel relativo vizio motivazionale. La ricostruzione effettuata dal consulente tecnico ing. Mancini, della difesa dell'O.G., si era basata sulle foto contenute nel fascicolo delle indagini effettuate dalla polizia indiana a seguito di rogatoria, dalle quali era possibile ricavare il punto esatto di ritrovamento del corpo. La Corte di merito evidentemente non ha esaminato tale fascicolo, per cui non ha potuto avere contezza delle foto ivi contenute.
3.4. Vizio di motivazione, quale risultante dal testo della sentenza impugnata e travisamento delle prove.
Nella sentenza impugnata si è esposto che, ad avviso dell'O.G., l'impresa appaltatrice e subappaltatrice B.G. s.p.a. si sarebbe assunta contrattualmente il rischio dell'organizzazione e dell'esecuzione dei lavori a bordo della nave e la B.S. s.r.l. si sarebbe obbligata unicamente a delegare in cantiere "uno specialista competente della B.G. s.p.a." "che l'O.G. non avrebbe potuto controllare".
In realtà, tale rappresentazione non trovava riscontri negli atti del processo e, in particolare, nel documento contrattuale acquisito, per cui, anche in questo caso, il paradigma del vizio motivazionale è costituito dal travisamento della prova.
La Corte di appello non ha effettuato la doverosa disamina del contratto in atti, traendo in tal modo una conclusione illogica, giuridicamente errata e non riscontrata; ha altresì affermato in modo illogico e contraddittorio che si trattava di una clausola contrattuale inserita dopo l'infortunio in oggetto.
Tale circostanza è assolutamente infondata, per cui si deve ragionevolmente presumere che la Corte avesse "equivocato" circa il contenuto dei contratti depositati. La difesa dell'O.G., infatti, aveva costantemente sottolineato le differenze fra il con­ tratto in essere al momento del fatto e quello successivo all'evento mortale. Il contratto in essere al momento del sinistro testualmente conteneva la clausola del seguente tenore "Il fornitore (B.S. s.r.l.) si impegna a delegare in cantiere, alle condizioni di garanzia summenzionate e nei termini più brevi possibili, se BE. ne farà richiesta, uno specialista competente per effettuare sul materiale consegnato tutte le operazioni di montaggio e/o supervisione al montaggio, prove a vuoto, messa in servizio e tutte le operazioni di messa a punto e di riparazione che si dimostrassero necessarie", testo radicalmente diverso dal contratto intercorso fra le stesse parti successivamente all'evento.
Tale contratto, successivo, come detto, all'evento, conteneva delle clausole - artt. 2, comma 3, e 5 - dal contenuto evidentemente ben diverso dall'unica clausola contenuta nel contratto in essere al momento del sinistro, che dimostravano chiaramente lo scrupolo col quale la B.G. s.p.a. avesse voluto, successivamente al sinistro, escludere tassativamente una assunzione a proprio carico di una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore della B.S..
La B.G. s.p.a, dunque, era consapevole che, con un contratto contenente la clausola sopra riportata, aveva assunto in via esclusiva una posizione di garanzia e quindi un obbligo di sicurezza nei confronti della vittima.
La Corte di merito poi è incorsa in un'ulteriore evidente contraddizione, là ove ha ritenuto lo stesso contratto di cui sopra - e cioè quello che conterrebbe una clausola contrattuale inserita dopo l'infortunio - valido ed operante al momento del sinistro, addirittura riportando in modo integrale il testo della clausola contrattuale, virgolettandolo ed arguendo dallo stesso elementi per stabilire la responsabilità della BE. s.p.a. nei confronti del subappaltatore B.S. s.r.l., cogliendo nel con­ tratto un potere di ingerenza della B.G. s.p.a..
3.5. Vizio di motivazione, quale risultante dal testo della sentenza impugnata.
La Corte bolognese si è occupata della responsabilità del comandante della nave, incredibilmente escluso dal processo di primo grado, sebbene compiutamente identificato dagli atti della rogatoria internazionale. Le difese O.G. e C.P. negli atti di appello avevano rilevato la responsabilità esclusiva del comandante della nave quale unico responsabile della sicurezza a bordo.
In modo del tutto illogico la Corte di appello ha rappresentato che il comandante della nave riveste a sua volta una posizione di garanzia avendo oneri di informazione circa i rischi specifici connessi alle interferenze tra navigazioni ed attività lavorative a bordo. In tal modo argomentando, non ha valutato che l'intero impianto accusatorio si è basato su una ritenuta pericolosità di una parte strutturale della nave (la nota scala verticale sovrastante la scala obliqua) e che tale peculiarità del luogo non poteva essere conosciuta dall'O.G., bensì dal comandante della nave rispetto al quale la Corte territoriale ha omesso di considerare quanto segue: a) il luogo del sinistro era una nave battente bandiera indiana alla fonda in acque territoriali dello stato indiano; b) una nave alla fonda non è un cantiere, ma un luogo dove vigono le normative del paese di bandiera e che per tutte le norme internazionali e nazionali la massima ed esclusiva autorità per la sicurezza delle persone a bordo è il comandante. Inoltre, soltanto il comandante era in grado di rendere edotte tutte le persone presenti a bordo della nave e non appartenenti all'equipaggio delle insidie presenti sull'imbarcazione, sui percorsi da seguire, sugli spostamenti e sulla pericolosità di alcuni passaggi; era in grado di impartire direttive in ordine ai luoghi non accessibili dell'imbarcazione; aveva la c.d. presa sul fatto e, cioè, la piena e concreta conoscenza della specifica situazione storica; aveva obblighi informativi nei confronti dei datori di lavoro dei lavoratori impiegati sulla nave: obblighi del tutto inadempiuti.
3.6. Erronea applicazione degli artt. 62, n. 6, e 69 cod. pen. sull'errato giudizio di valenza nonché dell'art. 133, comma secondo, n. 3, cod. pen. per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio nei confronti di O.G. B c.p.p.).
3.6.1. Si rileva che la Corte di appello non ha considerato, ai fini della configura­ zione dell'attenuante ex art. 62, n. 6, cod. pen., l'avvenuto integrale risarcimento del danno da parte di O.G..
L'intervenuta revoca di costituzione di parte civile sottoscritta dai parenti della vittima e la dichiarazione degli stessi, in cui si dava atto dell'avvenuto integrale risarcimento effettuato dall'O.G. e dalla sua Compagnia Assicuratrice non sono state valutate. Il C.P. aveva pagato la propria quota: si trattava di un'obbligazione solidale dal punto di vista civilistico, ma dal punto di vista penalistico l'attenuante ex art. 62, n. 6, cod. pen. ha valenza oggettiva e si estende a tutti i concorrenti nel fatto­ reato. Inoltre, l'art. 62, n. 6, cit. prevede anche una seconda parte incentrata comportamento del reo post-factum: comportamento spontaneo teso ad elidere o atte­ nuare efficacemente le conseguenze del reato. In questa figura rientra certamente, se applicata correttamente in termini giuridici, la condotta dell'O.G..
3.6.2. Si osserva che non è stato formulato un giudizio di prevalenza delle circo­ stanze ex art. 62 bis cod. pen. sull'aggravante nonostante l'integrale risarcimento del danno.
La Corte di merito ha censurato il ritardo di anni nel risarcimento e la presunta gravità della colpa. Il ritardo, tuttavia, non era imputabile all'O.G., bensì alla compresenza di varie compagnie assicurative e alla necessità di intese reciproche tra le stesse. Non si versava in ipotesi di colpa grave, perché, oltre quanto già esposto, le misure di sicurezza oggettive ed individuali presupponevano la conoscenza del luogo concreto di svolgimento del lavoro si svolgeva: ciò non si verificava per !'O.G., il quale non aveva mai visto la chiatta, costruita e messa in esercizio in Cina e in India.
3.7. Violazione degli artt. 589 e 157 cod. pen..
Il reato era stato commesso in data 3 aprile 2008, quando la pena massima prevista per tale reato era di cinque anni. Poiché l'ipotesi accusatoria elevata nei con­ fronti dell'O.G. concerneva profili di colpa generica (omessa informazione ed omessa vigilanza), in ogni caso il reato risultava prescritto in epoca anteriore all'inizio del processo in grado di appello. Il raddoppio dei termini prescrizionali era disposto solo col D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con L. 24 luglio 2008, n. 125, e, cioè, successivamente alla data del reato.
4. Il B.G., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo cinque motivi di impugnazione.
4.1. Violazione degli artt. 175 e 468 cod. proc. pen..
Si deducono l'inammissibilità e l'inutilizzabilità della consulenza tecnica, in materia antinfortunistica, disposta dal P.M., ma non preceduta da nessuna nomina del consulente tecnico nella lista depositata ex art. 468 cod. proc. pen. né da richiesta di prova contraria, a norma degli artt. 493, comma 2 e 495, comma 2, cod. proc. pen. e senza provvedimento di ammissione della stessa ex art. 507 cod. proc. pen..
Non sono state osservate le norme processuali che disciplinano la forma legale del giusto processo, nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, quanto all'ammissione ed all'assunzione della consulenza tecnica extraperitale, disposta dal P.M. a seguito di provvedimento di restituzione nel termine, disposto dal Tribunale di Ferrara, con l'ordinanza del 14 maggio 2014 (pp. 14-16 sentenza impugnata).
L'eccezione processuale de qua è protesa ad evocare il rispetto della legalità dell'ammissione della prova, quest'ultima risultando costituita da plurimi atti processuali, rigorosamente cadenzati dal cd. "diritto delle prove", quanto alla successione temporale, alla forma della richiesta, alla legittimazione del soggetto richiedente ed agli altri ben noti requisiti prescritti dalle corrispondenti disposizioni processuali.
Nella fattispecie, il P.M. chiedeva in via principale il consenso delle parti all'audizione del proprio consulente tecnico o all'acquisizione della relazione scritta da costui; in subordine, l'ammissione di tale nuova prova ex art. 507, comma 1, cod. proc. pen.. Le altri parti non prestavano il consenso né il giudice disponeva ex officio l'assunzione del mezzo di prova richiesto.
Al contrario, in aperta contraddizione logico-giuridica col principio dell'inesistenza di un limite cronologico rispetto al compimento delle indagini del P.M., il Tribunale di Ferrara restituiva «nel termine stabilito a pena di decadenza» (art. 175, comma 1, cod. proc. pen.), eludendo completamente l'accertamento dell'adempimento probatorio concernente l'inosservanza del termine «per caso fortuito o per forza maggiore». Su questo profilo giuridico la difesa del ricorrente eccepiva, nell'atto di appello la violazione delle condizioni prescritte ad hoc dall'art. 175 cod. pen. e l'estraneità della fattispecie processuale concreta rispetto a quella astratta, disciplinata nell'art. 175 cit.. Col corollario che la Corte di appello avrebbe dovuto scrutinare la dedotta questione, cui è sotteso il problema dell'applicabilità o meno della regola per la quale soltanto errantibus iura succurrunt.
La sentenza di secondo grado non ha esaminato tali eccezioni, ma ha argomentato solo sulla mancanza di termini di durata massima delle indagini. La sentenza ha violato il dovere di confutazione logico-giuridica della questione specificamente enunciata nell'appello difensivo, l'orda procedendi e le regole probatorie sopra indicate.
Il "diritto delle prove" garantisce la parità delle parti e la legalità del giudizio, condizioni ineludibili del giusto processo, inteso come attività disciplinata dalla legge. I poteri di indagine e di investigazione difensiva vanno esercitati nel rispetto delle norme processuali, dovendo essere «limitati e controllati» fuori delle fase delle indagini preliminari, come risulta dalle seguenti disposizioni: l'inutilizzabilità degli atti d'indagine compiuti dopo la scadenza del termine (art. 407, comma 3, cod. proc. pen.); la necessità di un provvedimento del giudice per riaprire le indagini dopo il provvedimento di archiviazione (art. 414 cod. proc. pen.) o per prorogare tale termine (art. 406 cod. proc. pen.). Una diversa interpretazione viola la regola della legalità processuale stabilita nell'art. 111, comma primo, Cost., ed è viziata da illegittimità costituzionale. La qualcosa va enunciata, in via subordinata al rigetto delle precedenti argomentazioni, come eccezione di incostituzionalità.
4.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di causalità.
Si deduce l'illogicità della proposizione di talune circostanze come "univoche" in funzione dell'individuazione della dinamica dell'incidente, ai fini dell'accertamento del rapporto di causalità.
In tema di causalità, non può prescindersi dalla precisa individuazione della dinamica dell'incidente, soprattutto quando l'imputazione concerne - come nella fattispecie - un reato omissivo improprio. Soltanto la rigorosa descrizione storiografica delle modalità di avvenimento dell'incidente consente di selezionare le omissioni ex art. 40, comma secondo, cod. pen. in connessione eziologica all'evento mortale. Quella descrizione, perciò, ha rilevanza decisiva in funzione della determinazione della condotta colposa eventualmente integrativa della fattispecie aggravata di cui all'art. 589, comma secondo, cod. pen..
E' erroneamente affermato che la dinamica cinetica tratteggiata in sentenza della caduta era stata provata. La semplice visione della foto della scala incriminata pone in luce il vizio testé denunciato, quanto alla prima fra le circostanze addotte nell'impugnata sentenza come univocamente deponenti per una caduta della vittima dalla scala verticale che a metà circa della stessa si innestava.
La prima circostanza è stata indicata dalla Corte di merito, invero, nella posizione del corpo: «ritrovato sul ponte in corrispondenza della scala verticale a pioli». Come la foto attesta, poiché l'una scala (quella verticale) si innesta, ictu oculi, sull'altra (quella obliqua), il posizionamento del corpo sul piano del ponte, in corrispondenza alla scala verticale risulta in corrispondenza anche alla scala obliqua, in quanto trasversale, appunto, a quella verticale. Sicché la circostanza del posizionamento del corpo in corrispondenza di entrambe quelle scale non può razionalmente assumersi ad indice univoco della caduta del lavoratore dall'una, piuttosto che dall'altra scala.
Il vizio dell'illogicità travolge pure l'ulteriore circostanza enfatizzata dalla Corte di appello: la mancanza, cioè, di «gabbie di sicurezza od altri dispositivi che impedissero fisicamente la caduta dalla scala a pioli», mentre «invece la scala obliqua era dotata di parapetto per cui non era compatibile con la caduta della vittima>>.
E' illogica la critica incentrata sulla mancanza, nella scala a pioli, di presidi, quali le gabbie di contenimento; ugualmente viziato è l'effetto di essa critica, di sussunzione di tale mancanza entro il perimetro rilevante della colpa. L'illogicità discende dal travisamento, per eliminazione, di specifico risultato di prova. Sull'altezza della scala a pioli non vi è dubbio alcuno: dai due ai tre metri, non di più, dato il numero dei pioli e la distanza (nel range tra cm. 25 e 30) tra l'uno e l'altro.
La Corte di appello palesemente ha ignorato l'elemento discendente da siffatto dato metrico espressamente segnalato dall'ing. Benetello, consulente tecnico della difesa, e non confutato da alcuno. Questi spiegava l'impossibilità fisica di realizzare una gabbia protettiva su scala a pioli di altezza così ridotta. Non a caso l'art. 17 d.P.R. n. 547 del 1955 prevede l'obbligo di installazione, a partire da m. 2,50, della gabbia protettiva solo su scale pioli di altezza superiore a m. 5: la norma tiene evidentemente conto della fisica, della tecnica, dell'ingegneria e della matematica. Il consulente tecnico Benetello constatava che «avendo la scala un'altezza di 2,5 metri una gabbia non poteva essere applicata in quanto avrebbe impedito l'accesso alla stessa». L'immotivata elusione di tale elemento vizia l'impugnata sentenza ai sensi dell'art. 606, co. 1, lett. e) cod. proc. pen.: risulta palese, invero, l'illogicità del tratteggio di una mancanza di cautela laddove fu provata l'impossibilità della realizzazione fisica (e l'inesistenza di una corrispondente pretesa normativa) di quella stessa cautela.
Il vizio appare ancor più grave in considerazione, poi, di altra risultanza dibattimentale ignorata dalla Corte bolognese: la «bocciatura a livello europeo» della gabbia di protezione (pag. 85 verb. ud. 11 giugno 2014). Al cospetto di ciò, si coglie il carattere tautologico della proposizione in termini espressi di «mancanza» di un quid, che invece obiettivamente doveva non esservi, su quella scala a pioli. Ciò attinge logicamente il successivo confronto tra l'una scala e l'altra obliqua, di talché l'avversativa «invece» di introduzione della circostanza per cui la scala obliqua «era dotata di parapetto» esige d'essere elisa, per la ricomposizione dell'argomentazione nel rispetto dei requisiti della logicità e coerenza rispetto al risultato di prova processualmente utilizzabile. La scala a pioli e la scala obliqua erano conformi alle esatte prescrizioni normative disciplinanti l'una e l'altra tipologia di scala. Il simmetrico dover essere - cautelare e giuridico - risultava perciò rispettato da ciascuna scala.
L'ing. Mancini (che attraverso l'analisi basata sull'applicazione della teoria delle leggi fisiche del lancio balistico, o moto di caduta, partendo dal punto di caduta individuò, a ritroso, l'altezza del punto di partenza, collocandolo a 5 metri circa, riconducibili a posizionamento della vittima sulla scala obliqua) sottolineava un dato ovvio al cospetto della mancanza di testimoni diretti sulla dinamica dell'incidente, ma pretermesso dalla Corte di appello: «le mie ricostruzioni cinematiche, quindi le leggi della fisica mi portano dal punto di caduta indietro fino ad un probabile punto di partenza. Poi, in quel punto di partenza, cosa stesse facendo, come fosse disposto, in che direzione fosse orientato il corpo, sono tutti dettagli che, con questi elementi, non le so fornire. So solo che si trovava a quell'altezza. Il resto non si può dire. Cioè, non è possibile con gli elementi oggettivi. Nessuno può dirlo» (es. ing. Mancini, pag. 24 verb. ud. 15 luglio 2014).
L'assunto della Corte di merito, secondo cui il B.A. non era caduto dalla scala obliqua perché munita di parapetto, è stato formulato in via assiomatica, dando per certo un dato in realtà inesistente. L'asserzione dei Giudici di appello può funzionare sul piano logico, in quanto su quella scala obliqua con parapetto il lavoratore fosse posizionato e si muovesse correttamente, ma nessuno poteva dirlo con certezza.
4.3. Violazione dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. e vizio di motivazione in relazione agli elementi di prova decisivi per l'individuazione della dinamica causale; illogicità del loro travisamento per eliminazione.
Si osserva che, a sostegno della tesi della presenza del B.A. sulla scala verticale, anziché su quella obliqua, la Corte di appello ha invocato la compatibilità delle lesioni mortali riportate con una caduta da altezza pari a m. 10-11, corrispondente a quella, appunto, della scala a pioli, ricordando le dichiarazioni rese al riguardo dai consulenti tecnici Belloni e dr. Marinelli. Essi concludevano nel senso di una caduta dalla considerevole altezza di circa m. 10-11 e, in particolare, il dr. Marinelli chiariva in dibattimento di aver considerato ai fini del calcolo l'altezza e il peso della vittima.
Il consulente tecnico del P.M. non era un ingegnere, sicché non gli competevano calcoli ingegneristici, tra l'altro, neppure eseguiti; egli non spiegava come avesse ritenuto il B.A. caduto da simile altezza, in quanto la sua consulenza era interamente dedicata alla valutazione della regolarità della scala a pioli e della legislazione applicabile. Alla richiesta, nel dibattimento, di giustificare la sua collocazione su quella scala verticale del punto iniziale della caduta, il dr. Belloni esponeva la personalissima deduzione dal «fatto che ci sia la presenza di questa scala a pioli compatibile con le lavorazioni che stava facendo il signor B.A. da come c'è stato descritto durante il dibattimento» (esame del consulente tecnico dr. Belloni, pag. 24 verb. ud. 11 giugno 2014).
La palese illogicità era frutto di distorsione di specifica risultanza dibattimentale: il B.A. quel giorno era al lavoro in collegamento via radio col collega M.G.. Quest'ultimo gli chiedeva - poco prima che fosse ritrovato steso sul ponte più basso - «di accendere e spegnere», per un opportuno controllo, un computer che si trovava vicino alla cabina di guida dello ship loader, in alto sulla nave. B.A. lo fece (pag. 57 verb. ud. 6 novembre 2013; «P.M - Sa se ci è andato? - Dich. M.G.: - Certo perché me l'ha spento effettivamente [ ...] Su questo non c'è ombra di dubbio perché io col computer vedo se mi accende o mi spegne l'altro computer»), appositamente interrompendo il proprio lavoro di cablaggio. Ed ecco il punto obiettivamente travisato dal Belloni: il ritorno al proprio lavoro di cablaggio, da parte del B.A., non richiedeva e non implicava affatto il passaggio sulla scala a pioli. Il M.G. era chiaro al riguardo: «P.M - Per tornare a fare quello che (n.d.r. B.A.] doveva fare, è una domanda un po' particolare, per tornare alle sue mansioni, ai suoi lavori ordinari doveva scendere attraverso questa scala che avevamo prima descritto come scala a pioli verticale e scala obliqua? - Dich. M.G.: No, dalla cabina di guida doveva fare due scalinate oblique normalissime con il corrimano e tutto, non doveva passare da quella scala» (es. M.G., pag. 57 verb. ud. 6 novembre 2013).
Il dr. Marinelli riteneva compatibili le lesioni riportate dal B.A. con una caduta da «media altezza, per l'aspetto lesivo complessivo e per la tipologia delle fratture, in medicina legale la media altezza è diciamo tra i due e i cinque metri sostanzialmente» (pag. 7 verb. ud. 6 novembre 2013). Attribuirgli una ponderazione tecnico­ scientifica di compatibilità (anche) con una caduta da 10-11 metri in considerazione dei parametri fisici della vittima integra una palese "deformazione" dell'effettivo risultato probatorio. In dibattimento, al consulente medico-legale era richiesto di ipotizzare una caduta da 10-11 metri di altezza e di spiegare se ciò avrebbe modificato le sue conclusioni (che erano - pag. 22 della relazione tecnica del dr. Marinelli - per un «impatto diretto al suolo, su ampia superficie priva di asperità, secondo modalità traumatica idonea a produrre focolai lesivi di tipo fratturativo e contusivo»). Egli rispondeva che in una tale ipotesi «<può essere anche elevata quella che è la distanza»: pag. 19 verb. ud. 6 novembre 2013), la conclusione cui egli era pervenuto, di impatto del corpo su «ampia superficie» (pag. 20), non veniva a modificarsi.
Dunque, il dr. Marinelli non si esprimeva sulla probabilità di verificazione della caduta dalla sommità della scala a pioli né avrebbe potuto, non disponendo dei dati necessari: «la valutazione relativa all'altezza è una valutazione che si fa [ ...] in funzione della massa, nel senso che il corpo se ha un determinato peso ovviamente è sottoposto ad una determinata forza di gravità e ad una determinata velocità con la quale impatta al suolo, il signor B.A. adesso io non ho controllato» (pag. 19 verb. ud. 6 novembre 2013); «se il corpo pesava poco o comunque se aveva una massa ridotta può essere anche compatibile con una precipitazione da un livello più alto, però siamo comunque in un'altezza ... io l'ho definita una media altezza» (esame dr. Marinelli, p. 21 verb. ud. 6 novembre 2013).
Il dr. Marinelli non poteva verificare l'ipotesi attraverso calcoli precisi, per non essergli nota la variabile peso della vittima. La grandezza fisica "peso", infatti, non figurava nella relazione medico-legale, non era indicata fra i dati dell'ispezione cadaverica esterna effettuata dopo l'autopsia avvenuta in India e dopo la parziale imbalsamazione del cadavere.
Il silenzio mantenuto dai Giudici a quibus sulla non conoscenza di tale parametro comporta un travisamento del compendio probatorio, causa di illogicità dell'attribuzione al dr. Marinelli di un vaglio (tecnicamente da lui non effettuato) sulla compatibilità delle lesioni «con una caduta da circa m. 10 metri di altezza, tenuto conto dell'altezza e del peso della vittima».
Il vizio denunciato appare ingrandito dall'arbitrario oscuramento, ad opera dei Giudici, di altro - decisivo - risultato di prova. Il riferimento è ai risultati del calcolo tecnico esposto dall'ing. Mancini sulla forza di caduta da 10 metri di altezza, ipotizzando una massa corporea nella norma (70 kg.) per soggetto dell'età del deceduto.
Una caduta da 10 metri di altezza produce una forza F pari a 7.000 kg., mentre la soglia di lesività è individuabile intorno ai 600 (esame del consulente tecnico ing. Mancini, pag. 9 verb. ud. 15 luglio 2014): con la conseguenza della produzione, sul corpo umano, di «devastanti lesioni» (cfr. consulenza tecnica dell'ing. Mancini), per­ ché «gli organi interni, il fegato, la milza, i polmoni, quello che è, subiscono una decelerazione improvvisa, cioè devono assorbire tutta l'energia in un piccolo spazio. In sostanza, si comportano come il palloncino pieno d'acqua, come i gavettoni. Se uno lo fa cadere da un metro di altezza succede una cosa. Se uno lo fa cadere da dieci metri esplode, scoppia, perché subisce una decelerazione violenta. Questo è quello che succede agli organi interni [...] si demoliscono, praticamente, cosa che non è stata riscontrata» (esame dell'ing. Mancini, pagg. 21-22, verb. ud. 15 luglio 2014). La crucialità del calcolo, del suo risultato e del parallelo raffronto con l'esito degli accertamenti sul cadavere appaiono evidenti. Siffatti elementi - immotivatamente oscurati dalla Corte di appello - escludono invero su ogni piano (logico, medico-scientifico, tecnico, fisico, matematico e, quindi, storiografico) la dinamica della caduta - dalla scala a pioli, altezza 10-11 metri. Essi acclarano l'illogicità dell'assetto argomentativo plasmato a sostegno di quel che le risultanze dibattimentali escludono sia in termini di certezza, sia come ipotesi: le condizioni degli organi interni non consentono di posizionare la vittima, al momento della disgraziata caduta, sulla scala a pioli, all'altezza di m. 10-11.
4.4. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'immotivato oscuramento della pluralità dei punti di collocamento alla maggiore altezza.
Ammesso che la caduta fosse avvenuta dall'altezza di 10-11 metri, la collocazione del B.A. ad una tale altezza sulla scala a pioli, anziché sul piano del tetto dell'imbarcazione, costituiva il frutto di una dogmatica opzione attuata dai giudici di merito a prescindere dall'esistenza di elementi a presidio di essa opzione. Difatti, se tale altezza corrispondeva alla «sommità della citata scala a pioli» e questa a sua volta coincideva al piano del tetto calpestabile, ove peraltro il lavoratore passava per i suoi cablaggi, difettavano elementi tali da escludere che lo stesso si trovasse, al momento della perdita di equilibrio e caduta, sul tetto dell'imbarcazione, sulla scala a pioli.
4.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al carattere meramente possibilistico della successione eziologica e i suoi riflessi sull'individuazione delle disposizioni in materia di sicurezza; adempimenti posti in essere dal B.G..
Si rileva che la serie eziologica asserita dalla Corte di appello è scaturita dall'illegittima omissione di considerazione di elementi decisivi, per cui rimaneva su un piano meramente possibilistico. L'incertezza sulla dinamica si riverbera sul tema delle omissioni addebitabili al B.G.. Può affermarsi la sussistenza di una sua condotta omissiva con rilevanza causale incentrata sulla scala verticale solo risultando certa la verificazione dell'evento mortale in connessione eziologica alla scala a pioli. Ciò non era in base a quanto già esposto, perché, riconducendo la causa genetica alla scala obli­ qua, si annullava l'incidenza delle omissioni ritenute in capo al B.G. in relazione a quella a pioli. L'omissione del committente B.G., in relazione alla scala verticale, consisteva secondo i giudici di merito, nell'omessa informazione al lavoratore su «un rischio appunto tipico dell'ambiente di lavoro, in relazione al quale l'art. 7 D. Lvo n. 626/1994 [...] impone l'obbligo di coordinamento e di cooperazione in caso di compresenza di più imprese nel cantiere». La Corte territoriale ha illogicamente forzato l'esegesi del testo legislativo. L'art. 1, lett. b), D. Lgs. n. 626 del 1994 sancisce piuttosto l'obbligo di fornire ai lavoratori «dettagliate informazioni sui rischi specifici nell'ambiente in cui sono destinati ad operare».
Il rischio, cioè, deve essere specifico (e non «tipico», come invece asserito nell'impugnata sentenza) e deve - punto dogmaticamente obliterato dai giudici di merito - esistere dove il lavoratore è destinato ad operare. Il B.A. non era né destinato né richiesto di operare sulla scala a pioli. Egli doveva effettuare attività di cablaggio altrove (vicino alla cabina guida sul tetto della nave). Per spostarsi sul luogo del suo lavoro, la B.G. s.p.a. gli aveva precedentemente realizzato due percorsi interni alla struttura macchina per la movimentazione del carbone, tali da permettere e da garantire un accesso a quella zona in condizioni di massima sicurezza, come attestato dal Bo. (pag. 110 del verbale di udienza del 6 novembre 2013). Inoltre, il B.A. non operava in un cantiere, ma una nave in classe (esame ing. P.B., pag. 51 verb. ud. 11 giugno 2014). Sicché l'opposta qualificazione attribuitagli dalla Corte di appello (pag. 24) realizzava un'arbitraria distorsione di una risultanza dibattimentale e determinava l'illogicità dell'applicazione di norme proiettate sull'ambiente lavorativo del cantiere.
A voler effettivamente considerare la fase cantieristica riferita a quella nave, svoltasi in precedenza, in Cina, non poteva sfuggire che, come ricordato dal teste Ba., collega del B.A., i due, dopo la partecipazione a più riunioni tecniche e l'ascolto di consigli su come affrontare la situazione, si portavano in Cina, per essere ivi accolti dall'ing. P.B. e da lui accompagnati sul cantiere. Direttamente sulla nave allo stato di cantiere i due lavoratori dipendenti di BS erano quindi concretamente formati ed informati dall'ing. P.B. esattamente sui passaggi da percorrere, per spostarsi in sicurezza nel cantiere (esame Ba., pag. 11 verb. ud. 22 gennaio 2014).
Si trattava dei passaggi appositamente realizzati, a garanzia di sicurezza, dalla B.G. s.p.a., per cui risulta illogico (perché infondato e frutto, piuttosto, di manifesto travisamento del compendio probatorio) ascrivere al B.G. un'omissione di partecipazione sul piano del coordinamento per la sicurezza. L'apporto del B.G., al contrario, fu fondamentale. Grazie al coordinamento sinergico con l'appaltatore BS (tramite il suo ing. P.B.), i lavoratori della BS (Ba. e B.A.) erano stati formati ed informati sull'utilizzo delle vie sicure per lo spostamento, per l'appunto, appositamente realizzate. Se l'obbligo da adempiere dovesse effettivamente essere individuato in un'attività di «cooperazione» tra committente ed appaltatore, al cospetto degli elementi suindicati - pretermessi dalla Corte bolognese - risulta illogico affermarne l'inottemperanza. Palesemente siffatta cooperazione era stata realizzata.

5. Il C.P., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo sette motivi di impugnazione.
5.1. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta applicabilità delle disposizioni dell'allora vigente D. Lgs. n. 626 del 1994 per un evento verificatosi a bordo di una nave straniera in acque territoriali estere.
Si deduce che l'infortunio si era verificato a bordo di una nave armata da una società di diritto indiano, battente bandiera indiana, nelle acque territoriali indiane antistanti il porto di Mombay.
La nazionalità italiana del lavoratore coinvolto, dipendente della società B.S. e la tempestiva richiesta del Ministero rendevano il fatto procedibile in Italia, ma non risolvevano la tematica relativa all'applicabilità della normativa speciale di cui al D.lgs. n. 626 del 1994 a fatti verificatisi interamente all'estero, nell'ambito di una attività di lavoro necessariamente regolata dalle leggi - anche di natura tecnica ed in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro - dello Stato in cui il lavoratore prestava la propria attività. Occorre individuare - per i lavoratori stessi e per i soggetti preposti a garantire la sicurezza sui luoghi di lavoro - la normativa tecnica di riferimento nell'ipotesi appunto di cantieri o attività lavorative all'estero.
In difetto, e dovendosi ipotizzare la contemporanea applicabilità di due autonomi corpi normativi (dello Stato del luogo e di quello di appartenenza del lavoratore, quale che sia) si verrebbe inevitabilmente a creare una situazione di incertezza incompatibile con le esigenze di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Un'applicazione sistematica e corretta dei principi già enunciati dalla Corte di Cassazione in un proprio precedente arresto porta infatti a conclusioni opposte rispetto a quelle alle quali sono giunti i giudici di merito. La questione allora sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguardava "la applicabilità delle stesse norme (nel caso il d.P.R. n. 547 del 1955) ai processi lavorativi [...] svolti da maestranze ed imprese italiane a bordo di navi straniere all'ancoraggio in porti nazionali" (Sez. 4, n. 7409 del 02/05/2000). Una tematica che, si osserva, "dovrà essere valutata di volta in volta e con riferimento ai particolari aspetti del caso concreto" per statuire se "... alla luce del principio affermato nell'art. 1 della Convenzione di Ginevra sul mare territoriale ... possa derogarsi al principio generale della obbligatorietà della legge penale verso chiunque si trovi nel territorio dello Stato".
Posta tale premessa, viene quindi espresso il principio di diritto per il quale "... secondo i principi elaborati nel richiamato arresto delle Sezioni Unite di Questa Corte, nel caso in cui l'illecito perpetrato concerna esclusivamente la attività e gli interessi della comunità navale prevarrà la giurisdizione dello Stato estero, dovendosi la nave considerare come un frammento distaccato della comunità nazionale di cui batte la bandiera, mentre prevarrà il principio generale della legge penale dello Stato costiero... tutte le volte che le conseguenze del fatto compiuto a bordo ed avente carattere di reato si ripercuota, o sia idoneo a ripercuotersi, all'esterno, incidendo sugli interessi primari della comunità dello Stato di attracco".
Per l'evidente coinvolgimento degli interessi dello Stato costiero si è affermata la cogenza delle norme in materia di sicurezza sul lavoro (D.P.R. n. 547 del 1955) con riferimento all'attività di un lavoratore portuale italiano intento alle operazioni di carico/scarico dalla banchina alla nave ormeggiata in un porto italiano. L'applicazione del medesimo principio di diritto alla vicenda in esame deve muovere da due presupposti fattuali: a) l'evento ha coinvolto esclusivamente la comunità navale, intesa come insieme di persone che svolgevano la propria attività a bordo della nave, senza che vi fosse alcuna interferenza con lo Stato costiero; b) lo Stato costiero - laddove anche si dovesse ritenere che il fatto compiuto a bordo incida sugli interessi primari della comunità dello Stato di attracco è comunque, nella specie, uno Stato estero.
In entrambi i casi, in ossequio all'orientamento giurisprudenziale evocato dalla Corte di appello, potrà trovare applicazione la sola normativa antiinfortunistica dettata dallo Stato estero costiero e di bandiera della nave. Ciò è coerente con l'imprescindibile esigenza di fornire al personale operante ed all'intera filiera della sicurezza un'indicazione certa sulle disposizioni tecniche da seguire in un cantiere (in materia di procedure, di presidi di sicurezza, di dispositivi di protezione o di costruzione ed utilizzo di una scala a pioli). Da quanto sopra deriva l'inapplicabilità in concreto, nel caso di specie, dell'intero corpo normativo dettato col D. Lgs. n. 626 del 1994.
5.2. Violazione della legge penale, rilevante ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen. quanto all'individuazione della normativa nazionale in ipotesi applicabile a cantieri a bordo nave e vizio di motivazione.
Si osserva che occorre individuare correttamente la normativa in ipotesi applicabile a cantieri e comunque a lavorazioni eseguite interamente a bordo di una nave.
Come già esposto in sede di gravame, il D.L. n. 271 del 27 luglio 1999, evidentemente successivo al D.l.vo n. 626 del 1994, aveva infatti varato un sistema di norme volto ad "adeguare la normativa sulla sicurezza dei lavoratori marittimi a bordo delle navi... "; così - tra l'altro da "determinare gli obblighi e le responsabilità specifiche da parte di armatori, marittimi ed altre persone interessate in relazione alla valutazione dei rischi a bordo nave" (art. 1, lett. b, D.Lvo n. 271 del 1999). Un quadro di norme che espressamente disciplina l'ipotesi di lavori eseguiti a bordo della nave da imprese o soggetti terzi, all'evidenza in parallelo e - laddove incompatibile - in deroga alle norme di carattere generale dettata all'art. 7 D. Lvo n. 626 del 1994.
L'art. 10 D.Lvo n. 271 del 1999, in particolare, nel prevedere l'ipotesi del "contratto d'appalto o d'opera", individua in capo all'armatore precisi e specifici obblighi, "in caso di affidamento di lavori o di servizi a bordo della nave mercantile o da pesca nazionale, ad imprese appaltatrici od a lavoratori autonomi... ".
Tra questi: "a) verificare l'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d'opera, secondo quanto previsto dall'articolo 68 del Codice della Navigazione; b) fornire agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti a bordo delle navi e nei locali interessati alle attività appaltate e sulle relative misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro da adottare".
Il titolare dell'impresa appaltatrice o il lavoratore autonomo e l'armatore devono inoltre: a) cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi di cui al comma 1 lettera b), incidenti sulle attività oggetto dell'appalto o del contratto d'opera; b) coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi dei propri lavoratori, al fine di evitare interferenze con l'attività lavorativa di bordo connessa all'esercizio della navigazione.
Tale norma riprende e si sovrappone alla disposizione dell'art. 7 D.Lvo n.626 del 1994 per l'ipotesi di lavori affidati ad imprese appaltatrici dal datore di lavoro all'interno della propria azienda, adattando il sistema alle peculiarità proprie di lavori eseguiti a bordo di una nave. Essa si sostituisce alla regola "generale" e tratteggia una specifica posizione di garanzia in capo ai soggetti che - soli - possono in concreto assolvere i compiti propri di colui che affida determinati lavori in appalto od a prestatori d'opera: l'armatore/committente ed il Comandante della nave, chiamati a fornire agli stessi soggetti le imprese appaltatrici dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti a bordo delle navi e nei locali interessati alle attività appaltate nonché sulle relative misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro da adottare a bordo. Solo l'armatore o il comandante, infatti, possono conoscere i rischi specifici del peculiare ambiente di lavoro - quali in ipotesi quelli connessi alla presenza di una scaletta a pioli - e renderne edotti i soggetti chiamati ad operare sulla nave. Tale conoscenza ed onere informativo non possono presumersi né porsi a carico del legale rappresentante di una società italiana che circa due anni prima del sinistro aveva firmato con una primaria società del settore un ordine di acquisto di un'apparecchiatura di movimentazione di minerali, da installare poi a bordo di una nave di una società indiana. Non si comprende come il ricorrente avrebbe potuto adempiere agli obblighi di informazione sui rischi specifici di un lavoro a bordo nave che sono e non possono che essere esclusivi della comunità navale e, in particolare, dell'armatore e del comandante, stante il chiaro disposto dell'art. 10 del D. Lvo. n. 271 del 1999.
5.3. Erronea applicazione dell'art. 7 D.lvo n. 626 del 1994, quanto alla figura del committente ed alla corretta delimitazione del relativo campo di applicazione.
Ferme restando le precedenti censure, ed in via gradata, si lamenta l'erronea applicazione del disposto dell'art. 7 D.Lvo n. 626 del 1994, elevato ad esclusivo profilo di colpa specifica.
Non sussisteva in capo alla CoeC.P. Logistics s.p.a. la qualifica di committente in relazione ai lavori affidati alla B.S..
Come si riporta in sentenza - ed è del resto pacifico in atti - la società CoeC.P. Logistics acquistava da una primaria azienda del settore, la B.G. s.p.a. di Padova, un complesso impianto di movimentazione di carbone. Occorre rinviare sul punto all'offerta della ditta B.G. nr. ep/1348 dell'11 luglio 2006 ed all'ordine di acquisto del 19 luglio 2006 (atti in allegato al ricorso). Come si legge, la fornitura è "chiavi in mano" completa di tutte le sue parti e, in particolare, anche dell'impianto elettrico (pag. 13 dell'offerta), con l'ulteriore precisazione che "il montaggio dell'impianto pro­ posto nella presente offerta sarà eseguito nel pieno rispetto delle normative vigenti ivi comprese quelle relative alla sicurezza da personale esperto" (pag. 16: assistenza al montaggio ed avviamento). Solo successivamente, nell'ambito della propria autonomia di impresa, il fornitore decideva di affidare la realizzazione dei lavori elettrici ad altra ditta, la B.S..
In tale quadro fattuale di riferimento, il solo contratto d'opera, che poteva assumere diretta incidenza causale con l'evento verificatosi in danno del B.A., dipendente della B.S., e rilevante ai sensi dell'art. 7 D.L.vo n. 626 del 1994, era quello in essere tra quest'ultima impresa e la committente B.G. s.p.a., non avendo la CoeC.P. Logistics rapporti contrattuali, di fornitura, di appalto o di prestazione d'opera, con la ditta B.S..
La contestazione della citata disposizione in capo al C.P. si palesa erronea sotto l'ulteriore profilo della delimitazione del campo di applicazione della norma mede­ sima. La ratio del sistema secondo cui anche il datore di lavoro-committente riveste una specifica posizione di garanzia va ricercata nella possibilità di quest'ultimo - e di questi soltanto - di conoscere e prevedere tutti i possibili rischi connessi al peculiare ambiente di lavoro (stabilimento/macchinari in movimento o quant'altro) ed allo specifico ciclo produttivo, o che derivano dalla coesistenza in un medesimo ambiente di lavoro di due o più attività lavorative: quella propria della azienda committente e caratterizzante appunto il "ciclo produttivo dell'azienda medesima" - come recita la norma - e quella tipica delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi chiamati a prestare la propria opera "all'interno dell'azienda" del committente.
Da qui gli oneri posti a carico del committente medesimo: la verifica della idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi chiamati a lavorare "in casa propria" ed una adeguata informativa sui rischi specifici esistenti all'interno della azienda in cui questi sono destinati ad operare o che ne caratterizzano l'intero ciclo produttivo. Sempre dalla coesistenza di più realtà lavorative all'interno di un medesimo ambito, deriva l'esigenza di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto, nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare i rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese.
Il DVR, di cui all'art. 7, comma 3, cit., infatti, ha l'espressa finalità di valutare e prevenire i rischi interferenziali tra l'attività propria dell'azienda committente o del suo ciclo produttivo e quella dell'impresa appaltatrice. Ai fini della richiamata normativa, in sintesi, non rileva il mero affidamento di lavori ad un'impresa appaltatrice o ad un lavoratore autonomo ma che tali lavori debbano essere eseguiti all'interno della azienda committente o nell'ambito del suo ciclo produttivo. Ciò non avviene nel caso di specie, in quanto la CoeC.P. Logistics s.p.a. ha sede ed uffici a Milano e qui si esaurisce il "ciclo produttivo aziendale", se tale può ritenersi un'attività di natura meramente commerciale o di supporto e consulenza tecnica.
In particolare, i lavori commissionati dalla ditta B.G. alla società B.s. non avevano mai interessato l'ambiente aziendale o l'attività propria di C.L. S.p.a. né si era quindi mai configurato un rischio interferenziale da sottoporre ad analisi e valutazione. L'opera del personale della B.S. e di quello del committente B.G. era stata prestata interamente presso terzi: il cantiere in Cina che aveva realizzato la nave ed a bordo della nave medesima, di proprietà della società di diritto indiano CGU Logistics, ed all'ancora nella rada di Mombay.
Né il C.P. né altri nella CoeC.P. Logistics s.p.a. avevano l'onere o la mera possibilità di fornire quelle "dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro", che il disposto dell'invocato art. 7 richiede solo al datore di lavoro­ committente che affidi a terzi dei lavori da effettuarsi all'interno della propria azienda.
5.4. Vizio di motivazione sulla specifica posizione soggettiva del dr. C.P..
Si osserva che la Corte di appello ha affrontato il tema delle "responsabilità di C.P. quale legale rappresentante della CoeC.P. Logistics s.p.a." in un breve paragrafo (pagg. 26 e 27 sent.), il quale ha affrontato tuttavia sostanziaimente scio il profilo della mancata correlazione tra l'imputazione contestata e quella ritenuta in sentenza, rilevante ai sensi dell'art. 521 cod. proc. pen..
La specifica posizione soggettiva e la fonte eventuale della asserita responsabilità omissiva sono solo accennate nel capoverso conclusivo del paragrafo, laddove ricorda che"...responsabile dell'ufficio tecnico per la CoeC.P. Logistics s.p.a. era stato nominato l'ing. C. e... egli avrebbe dovuto svolgere i controlli circa la sicurezza dei lavori"; per concludere tuttavia, in evidente contrasto col passaggio prece­ dente, che "né C.P. né B.G. avevano nominato un responsabile per la sicurezza e tale non poteva essere ritenuto l'ing. C. in qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico".
L'apodittico assunto si pone in contrasto con altri passaggi del medesimo corpo motivazionale (che come si dirà ha elevato proprio la presenza dell'ing. C. in cantiere ad elemento fondante l'asserito obbligo impeditivo dell'evento lesivo in concreto verificatosi), evidenziando così l'intrinseca illogicità della motivazione. La nozione di "responsabile della sicurezza" evocata in sentenza, inoltre, di per sé, è priva di significato giuridico con riferimento alla posizione e agli obblighi propri del "committente", quali disciplinati dall'art. 7 D. Lvo n. 626 del 1994, la sola norma contestata al C.P., che non era datore di lavoro del B.A. e non è imputato in tale veste. Non possono trovare applicazione, per vagliare eventuali profili di una sua responsabilità soggettiva, le norme ed i principi elaborati in materia di delega di funzioni e di conseguente trasferimento di parte degli obblighi propri del datore di lavoro al soggetto delegato (oggi disciplinata dall'art. 16 D.Ivo n. 81 del 2008); anche in tal caso, peraltro, la nozione di "responsabile per la sicurezza" - come acriticamente richiamata dalla Corte di merito - non trova una chiara definizione legislativa, salvo che la si voglia far coincidere, di volta in volta, con quella del responsabile per la sicurezza in fase di progettazione od esecuzione, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del delegato del datore di lavoro o del preposto in materia di sicurezza. L'incertezza e l'uso non giuridico del termine non consentono nessun vaglio critico sull'iter logico seguito dalla Corte di merito.
La doverosa verifica in ordine all'elemento soggettivo del reato contestato, sotto i profili della colpa generica e della violazione di specifiche norme antinfortunistiche, non può prescindere da una dettagliata analisi (e prima ancora dalla compiuta conoscenza) della struttura organizzativa del gruppo CoeC.P. e del ruolo concretamente ricoperto al suo interrio dal C.P.. Il C.P. era ed è tuttora il Presidente di CoeC.P. s.p.a.: società capogruppo che svolge e svolgeva all'epoca "attività... di controllo e fornisce servizi di staff, quindi l'attività di contabilità, direzione del personale, finanziario, amministrativo per le altre società operative" e non aveva una "propria struttura tecnica" (cfr. deposizione Andrea P., già direttore del personale, ud. 12 febbraio 2014, pagg. 13 - 15, allegata in stralcio). In tale veste è stato imputato e sulla base di tale imputazione ha svolto le proprie difese.
Il C.P. ricopriva altresì la carica formale di Presidente di altre società del gruppo, tra le quali la CoeC.P. Logistics s.p.a., che svolgeva all'epoca una attività tecnica di "supervisione della progettazione... che ha un ufficio tecnico per la progettazione ... ", un amministratore delegato, all'epoca nelle persona "dell'ing. Andrea C.", ed un responsabile dell'ufficio tecnico, sempre in allora l'ing. Corrado C. e prima di lui l'ing. Giovanni Stecconi (ud. 12 febbraio 2014, pp. 15-16).
A questi ultimi, in particolare, era demandata l'intera attività di progettazione e supervisione, svolta tramite la sottostante struttura tecnica ed in forza di espressa procura, con espliciti poteri di spese, rilasciata - per quanto concerne il C. con verbale del Consiglio di amministrazione del 19 settembre 2007 (allegato in stralcio unitamente all'organigramma aziendale).
In questo contesto occorre vagliare la sussistenza di profili di responsabilità in ipotesi ascrivibili alla posizione dell'odierno ricorrente, il quale forniva evidenza di avere predisposto un'articolata struttura organizzativa, che potesse di fatto ed efficacemente adempiere, anche nell'ipotesi di affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici od a lavoratori autonomi, agli obblighi informativi e di concreto coordinamento previsti all'art. 7 D.Lvo n. 626 del 1994.
Tanto più nel caso specifico, in cui: 1) i profili fondanti le ritenute responsabilità del committente - o dei committenti - attenevano ad un'inadeguata formazione dei lavoratori sui rischi specifici dell'ambiente di lavoro (si ribadisce, una nave di un soggetto terzo) ed alla omessa verifica in ordine al corretto utilizzo dei necessari dispositivi di protezione individuale (in sostanza di una idonea cintura di sicurezza); 2) tale attività formativa e di controllo necessariamente richiedeva la presenza presso il luogo di lavoro: presso il cantiere in Cina ed a bordo della nave nelle acque indiane; diversamente, il committente non avrebbe neppure potuto conoscere i rischi "specifici" dell'ambiente di lavoro (non trattandosi di lavori commissionati all'interno della propria azienda) né controllare l'operato dei lavoratori delle ditte "appaltatrici"; 3) il C.P. non si era recato presso il cantiere in Cina né a bordo della nave una volta trasferita nella rada di Mombay; le sue funzioni all'interno del Gruppo CoeC.P., come emerse a dibattimento, non lo avrebbero reso di una qualche utilità; 4) in cantiere e a bordo della nave era presente qualificato personale tecnico della società, demandato - in tesi di accusa - a svolgere in concreto la funzione di coordinamento e controllo propria della committente dei lavori, la cui asserita omissione è stata elevata ad elemento fondante la responsabilità del C.P. a pag. 25 della sentenza impugnata: "la... CoeC.P. era presente come si è detto sulla nave con i propri funzionari (l'ing. C. ed i suoi collaboratori P.B. e A.S.)".

In tale contesto, l'accertamento del richiesto elemento psicologico impone un'attenta verifica dell'adeguatezza o meno della struttura organizzativa predisposta dal dr. C.P. e dal Consiglio di Amministrazione della società e non può certo esaurirsi nell'ermetico ed apodittico addebito di non avere questi nominato un non meglio precisato "responsabile per la sicurezza". Se anche il personale della CoeC.P. presente a bordo fosse in ipotesi venuto meno, nella singola occasione, ai propri oneri di informazione e coordinamento (e il CU. - come il predecessore ing. St. - era il diretto responsabile del servizio tecnico, dotato di ampia autonomia e poteri di spesa), ciò non può essere acriticamente addebitato al legale rappresentante di una società, al vertice di una complessa organizzazione, articolata in specifiche strutture, alle quali erano state demandate le singole competenze: tra queste, la progettazione e l'assistenza tecnica allo specifico ufficio diretto appunto dal CU..
5.5. Violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. per mancata correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza.
Il C.P. era stato tratto a giudizio in qualità di legale rappresentante della Coe S.p.a.. I giudici di merito ne hanno invece affermato al penale responsabilità quale Presidente di altra società, pur se appartenente al medesimo gruppo: CoeC.P. Logistics s.p.a., firmataria dell'ordine di fornitura siglato con la B.G..
La violazione del disposto degli artt. 521e 522 cod. proc. pen. si traduceva in una concreta limitazione del diritto di difesa del C.P.. La difesa in tale sede era volta proprio a dimostrare come l'ordine di acquisto non fosse stato deciso e formalizzato dalla capogruppo, in seno alla quale il C.P. di fatto svolgeva la propria attività di direzione e coordinamento, ma altra società, nell'ambito della quale - al pari di tutte le società operative del gruppo - rivestiva una veste e svolgeva un ruolo sostanzialmente di mera rappresentanza.
Se l'imputazione fosse stata correttamente formulata, già dall'inizio, nei termini poi ritenuti in sentenza, la difesa fin da subito avrebbe approfondito la struttura e l'organizzazione interna alla CoeC.P. Logistics s.p.a., senza adoperare tale argo­ mento solo come tema di un successivo motivo di doglianza, con tutti i limiti alla produzione in sede di appello di documentazione nuova od all'introduzione di ragionamenti non trattati nel dibattimento di primo grado. Tra questi, in particolare, le funzioni e le mansioni attribuite di fatto ed in via esclusiva all'amministratore delegato, firmatario di quell'ordine di acquisto dell'impianto di movimentazione del carbone che viene elevato, in ogni passaggio della gravata sentenza, ad unica fonte dell'obbligo impeditivo e quindi della penale responsabilità del C.P..
5.6. Violazione dell'art. 62, n. 2, cod. pen. e vizio di motivazione.
Si evidenzia la scrittura privata sottoscritta tra il C.P. ed i prossimi congiunti del B.A., con la quale le parti, già in data 11 luglio 2013 (ben prima quindi della dichiarazione di apertura del dibattimento e del rinvio a giudizio) avevano liberamente determinato in euro 300.000 la somma dal primo astrattamente dovuta a titolo di integrale risarcimento del danno imputabile allo stesso (od a società del gruppo).
In conseguenza di ciò, gli eredi del B.A. avevano espressamente dichiarato "di essere tacitati a saldo/stralcio e transazione onnicomprensive" nei confronti del dr. C.P. e delle società del gruppo "della quota a questi imputabile del complessivo credito vantato". Tale circostanza e l'immediato e conseguente pagamento dell'importo concordato sono pacifiche e non contestate (pag. 29 sent. Trib.: "prima dell'udienza del 16 ottobre - in occasione della quale è stato dichiarato aperto il dibatti­ mento - la difesa del C.P. corrispondeva la somma di euro 300.000").
Il solo C.P. provvedeva interamente e tempestivamente al risarcimento del danno, come determinato dagli stessi danneggiati, i quali contestualmente lo liberavano dal vincolo della solidarietà coi due altri coobbligati per la quota parte di danno residua, secondo le disposizioni di diritto civile che regolano la materia. Il creditore, rinunciando al beneficio della solidarietà prevista all'art. 2055 cod. civ., può libera­ mente decidere di agire nei confronti di uno dei condebitori solidali solo per la parte del debito gravante su quest'ultimo e, allo stesso modo, decidere di definire la relativa posizione in via transattiva e stragiudiziale.
La circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen. ha natura soggettiva per ciò che attiene agli effetti prodotti dall'avvenuto risarcimento; natura che trova la sua giustificazione prevalente nell'avvenuto ravvedimento del reo.
Ad aderire alla diversa opinione espressa dai giudici di merito, ogni qualvolta si proceda a carico di più imputati - il che è quasi la regola in tema di infortuni sul lavoro
- la condotta virtuosa di colui il quale si adoperi tempestivamente per ristorare la parte lesa del danno patito ed astrattamente riconducibile alla propria condotta finirebbe per essere inevitabilmente ed ingiustamente resa vana, con grave pregiudizio, innanzitutto, per la medesima parte lesa che - è ragionevole supporre - avrebbe maggiori difficoltà a raggiungere accordi transattivi in sede penale che si rivelassero poi inefficaci ai fini del riconoscimento della specifica circostanza attenuante.
Inoltre, ai fini del diniego dell'attenuante della riparazione del danno, in presenza di una dichiarazione liberatoria della persona offesa, il giudice è tenuto a motivare specificatamente sulle ragioni per cui ritenga tale dichiarazione inadeguata.
5.7. Vizio di motivazione in ordine al giudizio di mera equivalenza delle già con­ cesse circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante.
Si rileva che l'avvenuto risarcimento del danno non è stato considerato neanche ai fini della determinazione della pena. Al contrario, è richiamata la circostanza di un parziale risarcimento dei danni, pur essendo pacifico che anche il terzo imputato aveva integralmente corrisposto la propria residua quota di danno prima del giudizio di appello (tanto che alla prima udienza la costituzione di parte civile era stata formalmente revocata anche nei suoi confronti).
La Corte ha così privato la condotta virtuosa di chi si è adoperato spontaneamente e tempestivamente per garantire un giusto ristoro alla parte lesa (pagando tra l'altro la somma maggiore) di ogni rilievo e ha accomunato, nel trattamento sanzionatorio, la posizione del C.P. con quelle, ben distinte, del datore di lavoro e del committente diretto dei lavori dati in appalto.

 

Diritto
 



1. I ricorsi sono infondati.
Per ragioni di ordine logico i motivi di impugnazione saranno esaminati qui di seguito in base ad un ordine diverso da quello riportato nei ricorsi.

2. Il primo motivo del ricorso del C.P., con cui il ricorrente si duole del difetto di giurisdizione italiana, per essersi verificato l'evento letale a bordo di una nave straniera in acque territoriali estere, è manifestamente infondato.
2.1. Va premesso che, in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all'estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero (Sez. 6, n. 56953 del 21/09/2017, Guerini, Rv. 272220; Sez. 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Amato, Rv. 259486).
Tale principio, di portata generale, è stato affermato anche in tema di concorso di persone nel reato e di frazione di condotta contestata ad uno dei concorrenti (Sez. 5, n. 57018 del 15/10/2018, Alali Alhussein, Rv. 274376) nonché in tema di condotta omissiva del datore di lavoro (Sez. 4, n. 6376 del 20/01/2017, Cabrerizo Morillas, Rv. 269062, in fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha riconosciuto la giurisdizione italiana per essersi verificata nel territorio dello Stato la parte iniziale della condotta dell'imputato, comandante di una motonave straniera diretta alla pesca del corallo, che, senza alcun previo accertamento medico sulla idoneità alla immersione profonda, aveva consentito l'imbarco di un lavoratore che era poi deceduto nel corso di una immersione in acque internazionali).
2.2. Ciò posto sul quadro giurisprudenziale in materia, nella fattispecie in esame, ai tre imputati è contestata, ai sensi degli artt. 113 e 589 cod. pen., la condotta omissiva di mancata formazione ed informazione del lavoratore, obbligo al quale avrebbero dovuto adempiere non soltanto nel corso della navigazione, ma in epoca anteriore al momento dell'imbarco, in Italia, per prevenire qualsiasi rischio di infortunio.
Pertanto, la doglianza difensiva va respinta sotto tale profilo, dovendosi comunque rilevare che le argomentazioni giuridiche appena esposte integrano le pur corrette considerazioni della Corte di appello, secondo la quale:
a) è perseguibile in base alla legislazione italiana e davanti al giudice italiano la violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro accertata a bordo di una nave battente bandiera straniera, quando detta violazione, ed i conseguenti effetti lesivi, non abbiano interessato gli appartenenti alla c.d. "comunità navale" sottoposta, come tale, alla giurisdizione dello Stato cui la nave appartiene, ma bensì estranei alla detta comunità quali, nella specie, lavoratori italiani (Sez. 4, n. 7409 del 02/05/2000, D'Este, Rv. 216605, richiamata anche da Sez. 4, n. 16028 del 15/01/2003, Hutar, Rv. 225426), peraltro dipendenti di un'impresa italiana;
b) la normativa italiana in materia infortunistica, essendo posta a presidio del bene fondamentale della salute in ambito lavorativo, di sicura rilevanza costituzionale, deve considerarsi di ordine pubblico, per cui i datori di lavoro e gli altri responsabili della sicurezza sono tenuti ad adottare tutte le misure necessarie, al fine di prevenire possibili infortuni, ovunque l'attività lavorativa si svolga;
c) nella fattispecie, le conseguenze del reato non interessavano la c.d. "comunità navale" e non incidevano sulle finalità primarie della comunità dello Stato di attracco, dal momento che il datore di lavoro, l'impresa e il lavoratore erano italiani nonostante la "Bulk Prosperity" battesse bandiera indiana e nonostante l'italiana CoeC.P. Logistics s.p.a., della quale era presidente il C.P. (che controllava la joint venture indiana CGU Logistics Limited) avesse commissionato l'impianto sul quale stava lavorando il B.A., la cui costruzione era stata affidata alla B.G. s.p.a. (società italiana), la quale a sua volta aveva subappaltato le componenti elettriche del sistema alla B.S. s.r.l. datore di lavoro del B.A..
Al riguardo, si è anche correttamente rilevato che, in tema di illeciti penali commessi a bordo di una nave straniera, sussiste la giurisdizione dello Stato italiano in relazione a fatti idonei ad interferire nella vita della comunità costiera: pertanto, è compito del giudice verificare in concreto se dal fatto contestato siano derivate conseguenze estesesi allo Stato rivierasco ovvero se il medesimo fatto sia stato di per sé idoneo a turbare la pace pubblica del Paese o il buon ordine del mare territoriale, dovendosi escludere, in entrambe le ipotesi, il difetto di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana (Sez. 1, n. 44306 del 07/11/2007, Tsvirinko, Rv. 238588, fatti­ specie in cui la S.C. ha affermato che con la ratifica della Convenzione di Ginevra del 29 aprile 1958 - art. 19 -, lo Stato italiano ha rinunciato alla giurisdizione in relazione ad illeciti penali commessi a bordo di una nave straniera che abbiano rilevanza solo all'interno della comunità viaggiante sulla stessa; richiamando anche la prassi internazionale, la Corte, inoltre, ha precisato che per riconoscere la giurisdizione dello Stato costiero devono farsi riferimento al requisito del "disturbo effettivo" e a quello del "disturbo morale", quest'ultimo relativo a fatti la cui natura è solo potenzialmente idonea a turbare l'ordine pubblico e la sicurezza della comunità territoriale; nel caso di specie, è stata ritenuta la giurisdizione dello Stato italiano in considerazione delle ripercussioni all'esterno del fatto contestato - un tentato omicidio - e dell'allarme creato nella comunità locale, evidenziato dall'attivazione dell'apparato sanitario di emergenza e dell'apparato di polizia; vedi anche Sez. 6, n. 48 del 30/12/2014, dep. 2015, Miccio, non massimata sul punto).
Alla luce di tutti i predetti principi, la sottoposizione alla giurisdizione italiana è di palese evidenza nella fattispecie in esame. Ciò implica necessariamente anche l'applicazione della disciplina relativa alla tutela della sicurezza dei lavoratori vigente in Italia, non potendosi immaginare che gli organi di giustizia italiani debbano interpretare la normativa straniera.

3. E' infondato il primo motivo del ricorso del B.G., con cui si deducono l'inammissibilità e l'inutilizzabilità della consulenza tecnica, in materia antinfortunistica, disposta dal P.M., ma non preceduta da nessuna nomina del consulente tecnico nella lista depositata ex art. 468 cod. proc. pen. né oggetto di richiesta di prova contraria, a norma degli artt. 493, comma 2 e 495, comma 2, cod. proc. pen. e, infine, senza nessun provvedimento di ammissione della stessa, in forza dell'art. 507 cod. proc. pen..
3.1. In relazione alle ordinanze del Tribunale emesse in date 16 ottobre 2013 e 14 maggio 2014, costituenti oggetto di doglianza, la Corte territoriale ha premesso che, secondo le difese del B.G. e del C.P., l'avviso dell'accertamento tecnico irripetibile relativo all'esame autoptico compiuto 1'11 aprile 2008 ed affidato al consulente tecnico del P.M. dr. Marinelli era stato erroneamente notificato solamente all'O.G. e non anche ai due predetti che, seppure non ancora indagati, erano comunque attinti da "sospetti" ed erano già individuabili come potenziali indagati quali legali rappresentanti delle due imprese operanti a bordo della nave.
L'organo giudicante ha osservato in contrario che, quando il P.M. debba procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili ex art. 360 cod. proc. pen., ricorre l'obbligo di dare avviso al difensore solo nel caso in cui al momento del conferimento dell'incarico al consulente sia già stata individuata la persona nei cui confronti si procede, mentre tale obbligo non ricorre nel caso di persona indagata individuata nel corso dell'espletamento delle operazioni peritali o ancora in un momento successivo (Sez. 4, n. 20591 del 23/02/2010, Colesanti, Rv. 247327; vedi anche Sez. 1, n. 18246 del 25/02/2015, B., Rv. 263858).
Nella sentenza impugnata si è precisato che, nella fattispecie, l'infortunio mortale si era verificato il 3 aprile 2008, il giorno successivo era stato svolto accertamento autoptico a Mumbay, ed il dr. Marinelli era intervenuto l'11 aprile 2008, ovvero una settimana dopo, quando il corpo della vittima era stato riportato in Italia: all'epoca, innanzitutto, non essendo ancora state adeguatamente specificate le modalità di caduta del B.A. e le circostanze dell'infortunio, indagato ed indagabile risultava essere il solo datore di lavoro (l'O.G.); in ogni caso, come chiarito dal Tribunale, la B.G. s.p.a. e la CoeC.P. Logistics s.p.a. avevano comunicato i nominativi dei responsabili in materia di sicurezza soltanto, rispettivamente, il 21 e il 27 maggio 2008. Per tali ragioni, la Corte di merito ha rilevato che l'accertamento tecnico svolto dal dr. Marinelli era stato regolarmente conferito e si era legittimamente svolto, con conseguente utilizzabilità anche nei confronti del B.G. e del C.P..
La Corte territoriale ha ritenuto infondata anche l'eccezione di inutilizzabilità della consulenza tecnica in materia antinfortunistica disposta dal P.M. e svolta dal dr. Belloni per violazione degli artt. 175 e 468 cod. proc. pen., in quanto l'incarico era stato conferito in sede di attività integrativa ex art. 430 cod. proc. pen., nonostante il P.M. non avesse in precedenza indicato il suo nominativo nella lista a suo tempo depositata ex art. 468 cod. proc. pen.. Il Tribunale avrebbe secondo l'appellante erroneamente restituito in termini il P.M., per chiedere l'audizione del dr. Belloni, nonostante l'insussistenza di ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, stante la prevedibile rilevanza nel processo del tema delle valutazioni ingegneristiche sui profili relativi alla sicurezza.
In proposito, la sentenza impugnata ha affermato che l'attività integrativa di indagine da parte del P.M. non è soggetta a nessun limite cronologico finale, coerentemente col principio della parità delle parti nel processo stabilito dall'art. 111, comma secondo, Cost., essendo il difensore legittimato allo svolgimento di attività di investigazione difensiva in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell'art. 327 bis, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 40467 del 16/04/2018, Torino, Rv. 273884); non essendo previsti limiti temporali per lo svolgimento delle investigazioni, l'attività integrativa di indagine è sempre esercitabile durante il dibattimento, senza poterla circoscrivere entro i termini stabiliti dall'art. 468 cod. proc. pen. o in quelli coincidenti con gli adempimenti richiamati dall'art. 493 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 31512 del 24/04/2012, Barbaro, Rv. 254028).
Si è infine precisato che la difesa era stata posta nelle condizioni di confrontarsi ed interloquire sulle acquisizioni di indagini, avendo il P.M. chiesto l'audizione del dr. Belloni, poi esaminato in dibattimento nel contraddittorio delle parti all'udienza dell'l1 giugno 2014, con successiva acquisizione della sua consulenza, ed in ordine alla stessa erano stati sentiti Martinoli Giovanni, Benetello Guido e Mancini Jerry, consulenti tecnici delle difese degli imputati.

3.2. Alla luce del contenuto della risposta ai rilievi difensivi riportata al paragrafo precedente, la Corte di merito risulta aver fatto buon governo dei principi giuridici in materia.
Non può, infatti, ritenersi che la questione processuale dedotta dalla difesa attenga a profili di inutilizzabilità della prova, come tale rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità.
Va osservato, a questo riguardo, che rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito la valutazione delle circostanze addotte dalle parti processuali per dimostrare di non avere potuto indicare tempestivamente le prove nella lista e della situazione di impossibilità che consente, secondo l'art. 493, comma 2, cod. proc. pen., l'acquisizione di prove non indicate nella lista prevista dall'art. 468 cod. proc. pen., potendo tale situazione ricorrere anche in presenza di un contesto di difficile esercizio della facoltà riconosciuta alle parti dall'art. 468 cit. (Sez. 3, n. 5327 del 15/01/2004, Sevà, Rv. 227442; Sez. 1, n. 1079 del 16/01/1995, Catti, Rv. 201236).
In proposito, si è altresì affermato che il riconoscimento di una causa di forza maggiore, impeditiva dell'esercizio di una facoltà processuale, costituisce apprezzamento di fatto del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità purché esente da vizi logici e giuridici (Sez. 3, n. 19918 del 14/04/2010, S., Rv. 247494, relativa a fattispecie in cui il giudice di merito aveva ritenuto la forza maggiore nella tardiva ricezione degli atti da parte del pubblico ministero, che era stato cosi impedito al deposito della lista testimoniale ex art. 468 cod. proc. pen., e aveva pertanto con­ cesso la restituzione nel termine).
Se è vero che l'art. 493, comma 3, cod. proc. pen., col prevedere la possibilità di acquisizione di prove non indicate nella lista prevista dall'art. 468 dello stesso codice quando la parte che le richiede dimostra di non averle potute indicare tempestiva­ mente, contempla una sorta di rimessione nel termine, è altrettanto vero che si tratta di una speciale procedura rimessiva fondata su un parametro di maggiore ampiezza. Il che consente di ritenere come la situazione di impossibilità non debba essere assoluta, potendo essa ricorrere anche in presenza di un contesto di difficile esercizio della facoltà riconosciuta alle parti dall'art. 468, in un sistema che, coinvolgendo immediatamente l'azionabilità del diritto alla prova, deve poter consentire all'interessato l'effettivo e concreto esercizio di tale diritto; ed è certo che la restituzione nel termine - nella conformazione delineata dall'art. 493, comma 3 - permette comunque alla "controparte" di articolare la prova contraria, secondo il modello indicato dall'art. 468, comma 4, da ritenere implicitamente richiamato dal terzo comma dell'art. 493 (Sez. 6, n. 1450 del 03/12/1993, dep. 1994, Faccin, Rv. 197082).
Nella fattispecie in esame, Il P.M. ha legittimamente svolto un'integrazione indagine successiva, disponendo l'audizione del proprio consulente (dr. Belloni) che aveva eseguito l'ulteriore incarico affidatogli dopo l'effettuazione di una prima perizia. Il P.M., in via principale, aveva chiesto il consenso delle parti all'audizione del proprio consulente tecnico o all'acquisizione della relazione scritta da costui; in subordine, l'ammissione di tale nuova prova ex art. 507, comma 1, cod. proc. pen.. Il veicolo processuale attraverso il quale dovevano essere introdotte le risultanze processuali suindicate è rappresentato proprio dall'integrazione istruttoria ex art. 507 cit., ma in ogni caso non emergono vizi patologici in ordine alle modalità di compimento dell'atto istruttorio in questione.
A quanto sopra esposto, va aggiunto che il ricorrente non ha neanche chiarito adeguatamente quale ipotesi di nullità e di inutilizzabilità sarebbe riscontrabile e che la Corte territoriale ha esaurientemente specificato le ragioni per le quali ha ritenuto il diritto di difesa pienamente tutelato.
Peraltro, non è agevolmente comprensibile la rilevanza della questione prospettata in termini di resistenza, apparendo la dinamica dell'infortunio in termini lineari e coerenti.
Va poi ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 493 cod. proc. pen., prospettata in relazione all'art. 111, primo comma, Cost., non trattandosi di disposizione funzionale all'attuazione del principio del giusto processo.

4. Il quinto motivo del ricorso del C.P., con cui si deduce il difetto di correlazione tra imputazione e sentenza, è manifestamente infondato.
In linea generale, va premesso che il fondamentale principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza comporta l'esigenza di assicurare all'imputato la piena possibilità di difendersi in rapporto a tutte le circostanze rilevanti del fatto, che è oggetto dell'imputazione; il principio in parola non è violato ogni qualvolta siffatta possibilità non risulti sminuita.
Siffatta violazione non ricorre, quando nella contestazione, considerata nella sua interezza, siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza (Sez. 4, n. 8612 del 24/05/1994, Tomasich, Rv. 199689; Sez. 2, n. 5907 del 11/04/1994, De Vecchi, Rv. 197831). Sussiste, invece, violazione del principio di correlazione della sentenza all'accusa formulata, quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto, così, di fronte - senza avere avuto alcuna possibilità di difesa - ad un fatto del tutto nuovo.
Il fatto, di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., va definito come l'accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione tra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica (Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2004, dep. 2005, Addis, Rv. 230771). La violazione del suddetto principio postula, quindi, una modificazione - nei suoi elementi essenziali - del fatto, inteso appunto come episodio della vita umana, originariamente contestato. L'imputazione è da ritenersi completa nei suoi elementi essenziali quando il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017, Ioghà, Rv. 269455; Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini, Rv. 248847).
Si ha, perciò, mancata correlazione tra fatto contestato e sentenza quando vi sia stata un'immutazione tale da determinare uno stravolgimento dell'imputazione originaria.
Nella fattispecie in esame, l'imputazione era posta a carico del C.P., in qualità di legale rappresentante della CoeC.P. s.p.a., mentre egli risultava condannato, in relazione al ruolo di Presidente della CoeC.P. Logistics s.p.a., appartenente al medesimo gruppo, la quale aveva concordato la fornitura di personale con l'impresa BE..
In proposito, la Corte di appello ha affermato che ciò non integrava un difetto di correlazione tra imputazione e sentenza, dal momento che il C.P. era certamente presidente di entrambe ed aveva personalmente sottoscritto il contratto con la Be. a sua volta subappaltante verso la B.S. s.p.a., datore di lavoro del B.A.; si è osservato che il C.P. aveva potuto pienamente difendersi sul fatto, e peraltro proprio dal dibattimento, ovvero nel contraddittorio delle parti, erano emerse chiaramente la struttura della holding, la carica attribuitagli e la posizione di garanzia contestatagli.
Effettivamente, alla luce di quanto dettagliatamente illustrato dalla Corte territoriale, la contestazione risulta formulata in modo chiaro, preciso e completo sotto il profilo materiale e soggettivo, in quanto contiene l'analitica indicazione delle condotte contestate e dei profili di colpa generica e specifica addebitati al C.P.. L'aspetto dell'irregolare legatura dei telai tra loro formava oggetto delle prove testimoniali e documentali, per cui il ricorrente aveva avuto ampia possibilità di difendersi dalla relativa accusa.
Le censure difensive sul punto appaiono prive di rilievo, in quanto non risultano documentate la struttura e l'organizzazione interna alla CoeC.P. Logistics s.p.a., argomenti che, a dire del ricorrente, sarebbero stati approfonditi solo in caso di imputazione precisa sin dall'origine. Né il C.P. ha evidenziato di essere stato limitato nei propri diritti di difesa, ad esempio, per essergli stato impedito di produrre documentazione attestante una delega di funzioni o una particolare ripartizione dei ruoli all'interno della diversa società, che avrebbero consentito di esonerarlo da responsabilità, in quanto tali ipotesi alternative erano state esaminate (vedi infra la tematica della delega al C.) o tracciate in via del tutto generica.

5. Il quinto motivo del ricorso dell'O.G. e il secondo motivo del ricorso del C.P., coi quali si sostiene la tesi della responsabilità esclusiva del comandante della nave, sono infondati.
Vanno ricordate le disposizione in materia, applicabili alla fattispecie ratione temporis:
A) Art. 10 D. Lgs. n. 271 del 1999:
«Contratto d'appalto o d'opera.
1. L'armatore, in caso di affidamento di lavori o di servizi a bordo della nave mercantile o da pesca nazionale, ad imprese appaltatrici od a lavoratori autonomi, deve:
a) verificare l'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d'opera, secondo quanto previsto dall'art. 68 del Codice della Navigazione;
b) fornire agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti a bordo delle navi e nei locali interessati alle attività appaltate e sulle relative misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro da adottare;
c) fornire istruzioni al servizio di prevenzione e protezione di bordo di cui all'art. 13 del presente decreto, al fine di coordinare le misure di protezione di cui al comma 2, lettera b) con le attività oggetto dell'appalto o del contratto d'opera.
2. Il titolare della impresa appaltatrice o il lavoratore autonomo e l'armatore devono:
a) cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi di cui al comma 1, lettera b), incidenti sulle attività oggetto dell'appalto o del contratto d'opera;
b) coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi dei propri lavoratori, al fine di evitare interferenze con l'attività lavorativa di bordo connessa all'esercizio della navigazione.
3. L'armatore promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2. Tale obbligo non si estende ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi».
B) Art. 7 D.lgs. n. 626 del 1994 (abrogato ma in vigore al momento del fatto):
«1. Il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima:
a) verifica, anche attraverso l'iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, l'idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o contratto d'opera;
b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.
2. Nell'ipotesi di cui al comma 1 i datori di lavoro:
a) cooperano all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto;
b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva.
3. il datore di lavoro committente promuove la cooperazione ed il coordinamento di cui al comma 2, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare le interferenze. Tale documento è allegato al contratto di appalto o d'opera. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi.
3-bis. L'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
3-ter. Ferme restando le disposizioni in materia di sicurezza e salute del lavoro previste dalla disciplina vigente degli appalti pubblici, nei contratti di somministrazione, di appalto e di subappalto, di cui agli articoli 1559, 1655 e 1656 del codice civile, devono essere specificamente indicati i costi relativi alla sicurezza del lavoro. A tali dati possono accedere, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori di cui all'articolo 18 e le organizzazioni sindacali dei lavoratori».
Al riguardo, la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che l'art. 10 D. L.vo n. 271 del 1999 prevede, in deroga all'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994, la responsabilità dell'armatore, in caso di affidamento di lavori o di servizi a bordo delle navi mercantili, ad imprese appaltatrici, in ordine alle informazioni sui rischi specifici esistenti a bordo e sulle relative misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro e che, tuttavia, il comma 2 del citato art. 10 prevede l'obbligo del titolare dell'impresa appaltatrice e dell'armatore di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi incidenti sulle attività dell'appalto o del contratto d'opera e coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi dei propri lavoratori, al fine di evitare interferenze con l'attività lavorativa di bordo connessa all'esercizio della navigazione. In base a tale quadro normativo, si è logicamente ritenuto che l'art. 10 cit. non esonera i titolari delle imprese appaltatrici B.G. ed O.G. e il committente C.P.; quest'ultimo, non avendo nominato un responsabile per la sicurezza ed essendo il committente del B.G. e titolare, per espressa previsione contrattuale, delle attività di supervisione, di coordinamento del progetto e dell'installazione degli equipaggiamenti della nave, come concordato con la società armatrice indiana CGU Logistics Ltd, deve rispondere necessariamente della prevenzione in relazione ai rischi da in­ terferenze, come stabilito dall'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994, non abrogato dall'art. 10 cit., che si limita a meglio specificare il coinvolgimento dell'armatore quale titolare di un'ulteriore posizione di garanzia; ugualmente il comandante della nave riveste a sua volta una posizione di garanzia, laddove ha oneri di informazione circa i rischi specifici connessi alle interferenze tra navigazioni ed attività lavorative a bordo: ma la sua responsabilità non esclude gli oneri ed obblighi in capo agli altri soggetti che rivestono posizioni di garanzia come, nel caso di specie, gli imputati.
La disposizione di cui all'art. 10, comma 2, D. Lgs. n. 271 del 1999, in particolare, prevede obblighi di cooperazione e di coordinamento in materia di predisposizione di misure per la prevenzione degli infortuni sul lavoro a carico del titolare della impresa appaltatrice, del lavoratore autonomo e dell'armatore. Pertanto, la sua ratio è rinvenibile nell'intento del legislatore di allargare il novero dei soggetti responsabili, affinché operino sinergicamente tra loro per evitare infortuni nei luoghi di lavoro.
D'altronde, un'eventuale deroga alla disposizione di carattere generale di cui all'art. 7 D. Lgs. n. 626 del 1994 sugli obblighi del datore di lavoro sarebbe dovuta essere ben più esplicita.
I ricorrenti non basano le proprie valutazioni sull'asserita responsabilità esclusiva del comandante sull'analisi del dato normativo, come compiuto dalla Corte di merito; essi non si confrontano con le argomentazioni prospettate nella sentenza gravata, propugnando la tesi della specialità della disposizione in materia rispetto a quella di carattere generale e della possibilità di conoscenza specifica delle peculiarità della nave in capo al solo comandante.
E' opportuno rilevare altresì che le poche pronunzie di questa Corte in materia di infortuni sul lavoro su un natante hanno riguardato esclusivamente la posizione del comandante della nave (estraneo al procedimento in esame) e non soggetti estranei alla navigazione e il datore di lavoro.

6. Vanno ora affrontate le doglianze inerenti alla sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi del reato contestato.
Il primo motivo di ricorso, con cui l'O.G. deduce l'insussistenza della posizione di garanzia, la mancata violazione dell'obbligo di formazione del lavoratore e la regolarità della scala adoperata in occasione dell'infortunio, è infondato.
In ordine alla posizione di garanzia, la Corte territoriale ha logicamente ritenuto irrilevante lo svolgimento dell'attività lavorativa da parte del B.A. non presso l'azienda dell'O.G. bensì a bordo di una nave ancorata in acque distanti migliaia di chilometri dalla sede della società, rappresentando che il datore di lavoro che incarica un dipendente di svolgere determinate attività lavorative all'esterno della propria azienda, ha l'obbligo di verificare la sicurezza del luogo di lavoro, di valutare i rischi presenti, di fornire al dipendente i necessari ed idonei strumenti di protezione individuale, di formare ed informare adeguatamente lo stesso sui rischi specifici dell'attività lavorativa in quel luogo (tanto più nel caso di specie, in cui il B.A. era alla sua prima esperienza lavorativa a bordo di una nave) nonché di vigilare sull'osservanza delle disposizioni aziendali in materia di uso dei dispositivi di sicurezza.
La Corte di appello ha altresì correttamente osservato che la regolarità in sé della scala verticale non escludeva l'obbligo del datore di lavoro di verificare i rischi specifici connessi al suo uso, trattandosi di luogo di lavoro, seppure non interno all'azienda, e di fornire al lavoratore tutte le nozioni formative ed informative e tutti gli strumenti di protezione collettivi ed individuali idonei a garantire la sua sicurezza.
Inoltre, nella sentenza impugnata si è precisato che la formazione del lavoratore era insufficiente: il B.A. era dipendente della B.S. s.r.l. da molti anni in qualità di elettricista, ma non aveva ricevuto una formazione ed informazione specifica in relazione ai rischi che avrebbe corso ed era stato destinato a prestare attività lavorativa a bordo della "Bulk Prosperity", sua prima esperienza lavorativa a bordo di un'imbarcazione. Secondo l'organo giudicante, come risultante dalla stessa documentazione prodotta dalla difesa dell'O.G., il B.A. aveva ricevuto una formazione molto generica in tema di sicurezza e di rischi di caduta dall'alto: aveva frequentato alcuni corsi organizzati da Confartigianato e ricevuto alcuni opuscoli/manuali sulla sicurezza che dedicavano alcune pagine all'uso delle scale; ma si trattava di scale portatili di lunghezza limitata e non di scale fisse a pioli (per di più innestate su un'altra scala) e collocate su una nave, dove il rollio (anche in assenza di moto ondoso rilevante) può creare elementi di pericolo ulteriori.
Si tratta di argomentazioni in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, il datore di lavoro distaccante, oltre all'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, ha il dovere di vigilare, per tutta la durata della lavorazione, anche sulla corretta funzionalità dei presidi, strumentali rispetto alla lavorazione, dei quali ha dotato il lavoratore (Sez. 4, n. 4480 del 17/11/2020, dep. 2021, Tremacchi, Rv. 280392, in fattispecie in cui, in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva riconosciuto la responsabilità, tanto del distaccante quanto del distaccatario, per le lesioni subite dal lavoratore distaccato, caduto nel corso del montaggio di un palo a causa della scarsa efficienza di un moschettone fornito dal datore di lavoro distaccante).
Tale condivisibile affermazione ricalca il principio già in precedenza affermato, secondo cui in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita (Sez. 4, n. 37079 del 24/06/2008, Ansaloni, Rv. 241021).
In proposito deve precisarsi che la giurisprudenza appena esaminata riguarda l'ipotesi di «distacco» di personale, mentre nella sentenza impugnata si discute di «subappalto» di personale (competente per l'impianto elettrico), ma ciò non muta i termini della questione, perché in ogni caso l'informazione e la formazione del lavoratore competono in primis al datore di lavoro.
In materia, pertanto, è preclusa la possibilità del datore di lavoro di inviare il personale dipendente «al buio» nel cantiere di un'altra società e di limitarsi ad indicare le mansioni da espletare, esonerandosi da ogni responsabilità. Il titolare ha l'obbligo di verificare l'azienda dove il lavoratore deve svolgere la prestazione e le specifiche condizioni di sicurezza del cantiere.
La dislocazione all'estero del cantiere costituisce un fattore del tutto irrilevante, inidoneo di per sé ad escludere l'operatività degli obblighi incombenti sul datore di lavoro. Anzi, il datore di lavoro avrebbe dovuto considerare lo svolgimento dell'attività lavorativa all'estero e su di una nave, in quanto egli risponde dell'infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte (Sez. 4, n. 45808 del 27/06/2017, Catrambone, Rv. 271079, relativa a fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del titolare di uno studio di progettazione, per il decesso di una dipendente con mansioni di disegnatrice che, incaricata di effettuare un sopralluogo all'interno di un cantiere, era precipitata in un vano ascensore privo di protezione).
In via generale, in materia di infortuni sul lavoro, il D.Lgs. n. 626 del 1994, se da un lato prevede anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore dì lavoro, e le altre figure ivi istituzionalizzate, ed, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica, dal debito di sicurezza nei confronti dei subordinati; questo consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e di informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all'art. 2087 cod. civ., norma "di chiusura" del sistema, da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Sez. 4, n. 49492 del 29/10/2003, Dessì, Rv. 227073, in fattispecie, relativa alla responsabilità del preposto che non aveva impedito un'operazione pericolosa, la Corte ha sottolineato come la condotta si appalesa colpevole proprio in considerazione del fatto che il soggetto si era allontanato dal luogo dell'incidente pur sapendo che gli operai sarebbero ricorsi a mezzi di azione pericolosi per affrettare i lavori).
Peraltro, secondo quanto esposto dalla Corte territoriale, l'O.G. comunque impartiva le direttive al B.A., per cui doveva accertare la sussistenza delle condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro, indipendentemente dalla lontananza della sede dell'incarico affidatogli.
Non si pone un problema di prossimità col bene da tutelare, requisito richiesto ai fini dell'assunzione in concreto della posizione di garanzia e mancante nella fattispecie secondo la difesa: il datore di lavoro avrebbe dovuto provvedere all'obbligo di formazione già in Italia, prima di destinare il proprio dipendente sulla nave all'estero. Con riferimento all'impiego della scala, la Corte di appello ha sottolineato che, anche se la scala verticale era in sé regolare, il datore di lavoro avrebbe dovuto verificare i rischi specifici connessi al suo uso, trattandosi di luogo di lavoro, seppure non interno all'azienda, e di fornire al dipendente tutte le nozioni formative ed informative e tutti gli strumenti di protezione collettivi ed individuali idonei a garantire fa sua sicurezza, argomentazione con fa quale la difesa del ricorrente non si confronta.

7. Il secondo motivo di ricorso, con cui l'O.G. rileva che l'infortunio non era avvenuto sul posto di lavoro e che la barca era stata costruita in Cina ed ormeggiata in India, al di fuori di ogni sua possibilità di controllo, è infondato.
7.1. Va ricordato che, in tema di infortuni sul lavoro, nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro e in cui il lavoratore deve o può recarsi per provvedere ad incombenze di qualsiasi natura in relazione alla propria attività (Sez. 4, n. 43840 del 16/05/2018, C., Rv. 274265); inoltre, nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell'obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessaria­ mente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all'attività che si svolge nel cantiere (Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011, Tessari, Rv. 250760, in fatti­ specie relativa ad incidente verificatosi su una strada pubblica ed aperta al pubblico transito, esterna al cantiere).
7.2. Alla luce di tali principi, non può dubitarsi che l'incidente fosse indiscutibilmente avvenuto sul posto di lavoro, in cui rientrava anche la diversa zona della nave, dove il B.A. stava eseguendo un'attività strettamente connessa con le mansioni affidategli, sebbene situata in luogo lontano dalla sua ordinaria postazione (il quadro elettrico).
Come esaurientemente evidenziato dalla Corte di appello, infatti, il giorno dell'infortunio, in base alle concordi deposizioni dei testi M.G., M.E., B. e Cu., il B.A. stava completando il cablaggio dei cavi elettrici di una centralina idraulica, per cui era dovuto salire fino a tale centralina, collocata quasi alla sommità dell'impianto meccanico B.G., ovvero della nave, nei pressi del ponte di comando; il giudice a quo ha desunto tale circostanza dalla presenza nel luogo della caduta di spezzoni elettrici del tipo di quelli utilizzati dal B.A. per il cablaggio (vedi testimonianza del C.).
La circostanza evidenziata dalla difesa della costruzione della nave in Cina è del tutto irrilevante. Come illustrato innanzi, l'inosservanza dei doveri di formazione e di informazione da parte dell'O.G. presupponeva che questi si informasse preventivamente e compiutamente della tipologia e delle condizioni di lavoro che il B.A. avrebbe trovato in loco, al fine di poterlo porre in condizione di svolgere il compito impartitogli in totale sicurezza.

8. E' generico il terzo motivo di ricorso'4:brioli assume la sussistenza di un travisamento della Corte di appello in relazione al punto di caduta della vittima, conseguente alla mancata visione degli atti di cui all'informativa della Polizia indiana acquisita per rogatoria e che non avrebbe consentito di valorizzare le conclusioni pro­ spettate dal consulente tecnico di difesa.
Tale censura è eminentemente in fatto e, pertanto, non è consentita in sede di legittimità.
Il ricorso, peraltro, non riporta le conclusioni del consulente tecnico di difesa; inoltre, in violazione del principio di autosufficienza, non sono stati allegati al ricorso l'informativa, le foto e la perizia di parte, in modo da consentire di verificare la sussistenza del dedotto travisamento.
In proposito, è opportuno precisare che, in tema di ricorso per Cassazione, anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall'art. 7, comma 1, d. lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell'onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l'allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Talamanca, Rv. 276432, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, contenente un limitato stralcio di una testimonianza ritenuta decisiva, con il quale si era dedotto il travisamento della prova dichiarativa).
I richiami della difesa alla documentazione allegata all'atto di appello non sono sufficienti a far ritenere rispettato il principio di autosufficienza.

9. E' generico il quarto motivo di ricorso, con cui l'O.G. sostiene che la B.G. s.p.a. aveva assunto contrattualmente il rischio dell'organizzazione e dell'esecuzione dei lavori a bordo della nave, esonerando la B.S. s.r.l., a lui facente capo.
Al riguardo, va ricordato che i poteri-doveri del datore di lavoro non possono essere validamente trasferiti ad altro imprenditore, in quanto eventuali accordi sarebbero privi di efficacia, appartenendo le norme antinfortunistiche al diritto pubblico ed essendo le stesse inderogabili in forza di atti privati (Sez. 4, n. 7931 del 17/11/2020, dep. 2021, Carena, non massimata; Sez. 4, n. 10043 del 08/07/1994, Vigani, Rv. 200149).
L'O.G., quale titolare della B.S. s.r.l., pertanto, non poteva delegare a te le sue responsabilità. Egli, d'altronde, non ha neanche prodotto il contratto originario né quello modificato, così non consentendo di verificare il contenuto del presunto accordo negoziale, così violando il principio di autosufficienza anche in relazione al motivo di ricorso.

10. E' infondato il secondo motivo del ricorso del B.G., con cui si deduce l'insussistenza del nesso causale, in relazione a varie circostanze, attinenti alla dinamica della caduta dalla scala a pioli, alla posizione del cadavere e all'impossibilità di installare una gabbia protettiva.
10.1. La Corte di appello sul punto ha condiviso il percorso argomentativo del Tribunale, secondo cui era provato che il B.A. fosse precipitato sul ponte di coperta, cadendo dalla scala verticale a pioli, come del resto ritenuto fin dall'inizio dai presenti sul posto, nonostante non avessero assistito alla caduta; ha altresì sottolineato che deponevano nel senso sopra detto plurimi e concordanti elementi:
a) il ritrovamento del corpo sul ponte in corrispondenza di quella scala;
b) la frequente utilizzazione da parte del B.A. di tale scala, per recarsi dal ponte alla propria postazione di lavoro e viceversa (i testi riferivano che il B.A., per raggiungere dal ponte la propria postazione di lavoro di quel giorno - la centralina - e per tornare indietro, poteva percorrere due vie alternative o salire dalla citata scala a pioli o usare una scala interna, che avrebbe costituito una strada più sicura ma più lunga e faticosa);
c) il ritrovamento sul pianerottolo alla base della scala obliqua e sul ponte di coperta di spezzoni di cavo del tipo di quelli da lui usati e prima non presenti;
d) i rumori come di oggetti che cadevano uditi dal C. prima del forte tonfo;
e) l'assenza di spiegazioni alternative plausibili.
La Corte territoriale ha poi riportato le considerazioni dell'ing. Mancini, consulente della difesa dell'O.G., secondo cui era più probabile che la caduta fosse avvenuta dall'ultimo tratto discendente della scala obliqua, in quanto il consulente tecnico del P.M. aveva inizialmente parlato di una caduta da un'altezza di 2-5 metri ed aveva escluso la presenza di lesioni contro parti contundenti (quindi anche contro il parapetto della scala obliqua) e il corpo del B.A. era stato ritrovato a soli due metri dalla parete verticale, e non a tre come sarebbe dovuto avvenire se fosse caduto dalla sommità della scala verticale; inoltre, in udienza, l'ing. Mancini, consulente della difesa dell'O.G., prospettava anche la caduta da un'altra scala obliqua visibile in una foto.
In contrario, i giudici di merito hanno valutato che:
1) tale ultima scala era troppo lontana dal punto del ritrovamento del corpo del B.A., era dotata di parapetto per cui non era compatibile con la caduta della vittima e portava al ponte di scialuppa ove il B.A. non aveva motivo di andare;
2) gli spezzoni di cavo erano stati trovati sul pianerottolo alla base della scala obliqua e sul ponte di coperta;
3) il dr. Marinelli ha ritenuto le lesioni compatibili anche con una caduta da m. 10 circa di altezza;
4) la posizione del corpo a due metri di distanza dalla parete verticale era stata necessariamente riportata dai testi in via indicativa e di massima e non millimetrica e il corpo poteva essere stato spostato nel corso delle operazioni di soccorso;
5) il corpo poteva aver toccato o sfiorato qualche elemento come il parapetto della scala obliqua nella fase iniziale della caduta, quando la sua velocità era minore, e non avere prodotto lesioni.
10.2. Alla luce di quanto appena esposto, deve rilevarsi che i giudici di merito hanno esaurientemente spiegato le ragioni per le quali hanno ritenuto la caduta avvenuta dalla scala a pioli e non da quella obliqua (riportando quanto concordemente affermato da tutti i testimoni) e poco significativa la circostanza del ritrovamento del cadavere a 2 o a 3 metri.
Nella sentenza impugnata si è altresì evidenziata, con motivazione logica ed immune da censure, la mancanza di dispositivi di sicurezza anticaduta della scala a rotaia od a fune oppure dispositivi individuali (come un'imbracatura a doppio cordino), e si è sminuito il rilievo dell'affermazione di un solo consulente di difesa circa l'impossibilità di uso della gabbia, essendo acclarata la totale assenza di qualsiasi dispositivo di protezione. Al riguardo, va richiamato l'assunto degli stessi consulenti di difesa ing. Benetello ed ing. Martinoli, che, interpellati sulla questione, nell'escludere l'utilizzabilità di dispositivi di sicurezza quale un dispositivo anticaduta a rotaia o a fune (indicato dal consulente del P.M. Belloni) sovrabbondante ed abitualmente non in uso sulle navi riconoscevano che sarebbero stati necessari e sufficienti dispositivi di protezione individuali tra i quali, in particolare, un'imbracatura a doppio cordino.
Va rilevato altresì che il ricorrente formula le doglianze in esame solo mediante l'estrapolazione di alcuni brani di consulenze di difesa o il richiamo all'evidenza di immagini contrarie alla descrizione dei fatti riportata in sentenza. Il motivo di ricorso, pertanto, è altresì non autosufficiente in ragione della mancata allegazione degli elaborati tecnici richiamati e delle fotografie menzionate.

11. Sono generici il terzo e il quarto motivo di ricorso, Al B.G. contesta la sussistenza del nesso di causalità, censurando la ricostruzione della dinamica causale con riferimento all'erronea valutazione circa l'ipotesi formulata dall'organo giudicante circa la caduta da m. 10-11 metri del B.A. e la non necessità del ritorno del B.A. alla propria postazione di lavoro tramite la scala a pioli.
11.1. In proposito, la Corte di appello si è basata sulle convergenti dichiarazioni dei due consulenti tecnici del P.M. dr. Belloni ed ing. Marinelli; quest'ultimo, in particolare, specificava che le lesioni riportate dal B.A. erano compatibili con una precipitazione da un'altezza compresa tra i due ed i cinque metri, ma anche, tenuto conto dell'altezza della vittima di soli cm. 1,65 circa e del peso non elevato, con una caduta da un'altezza di m. 10 circa.
Secondo la Corte bolognese, l'uso di quella scala, pur regolare, comportava un rischio significativo per l'incolumità delle persone per il pericolo di una caduta da un'altezza di circa 10 metri, per cui dovevano essere adottate misure di protezione ed il lavoratore doveva essere adeguatamente informato e formato: tutto ciò, invece, era mancato.
11.2. Le censure prospettate difettano di specificità, in quanto le consulenze del P.M. e quelle di difesa, a supporto dei rilievi tecnici non sono allegate al ricorso così come i relativi verbali testimoniali e i documenti scritti, mezzi di prova oggetto di continui richiami nel suddetto atto difensivo. Non si configura, d'altronde, un vizio di motivazione della sentenza che utilizzi i risultati della consulenza tecnica del P.M., in difetto di un effettivo e documentato contrasto con la tesi contrapposta prospettata dal consulente dell'imputato (Sez. 1, n. 52872 del 12/10/2018, P., Rv. 275058).
Ad ogni modo, occorre evidenziare che, in tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice delle acquisizioni tecnico-scientifiche, essendo solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al relativo sapere, che include la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti della prova suddetta, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente argomentato (Sez. 1, n. 58465 del 10/10/2018, T., Rv. 276151; Sez. 5, n. 6754 del 07/10/2014, dep. 2015, C., Rv. 262722).
Da tali premesse derivano l'esaustività e la non manifesta illogicità della motivazione sul punto, fondata sulle conclusioni dei consulenti della pubblica accusa, la cui attendibilità scientifica non è, di fondo, contestata neppure dalla difesa, che si limita a prospettare alternativi decorsi causali, che, tuttavia, non risultano ancorati a concreti elementi probatori.
Le considerazioni del giudice a quo sull'inottemperanza agli obblighi di cautela prescinde dalla verifica esatta dell'altezza dalla quale era caduto il B.A..
Quanto alle dichiarazione del M.G. (riportate in ricorso solo per stralcio) circa il diverso percorso che avrebbe seguito il B.A. dopo il servizio espletato su sua richiesta, essa è stata evidentemente e logicamente intesa nella sentenza impugnata non come una assoluta impossibilità di usare la scala a pioli, bensì come non necessità di transitare necessariamente da detto passaggio.

12. Il quinto motivo del ricorso del B.G., con cui si censura la ritenuta sussistenza del nesso causale in relazione alle disposizioni in materia di sicurezza ed agli adempimenti posti in essere dal B.G., è infondato.
12.1. Al riguardo, la Corte di merito ha richiamato le dichiarazioni rese dai testi sulla mancata adozione delle misure di prevenzione dagli infortuni: l'M.E. (dipendente della B.S. s.r.l.) sosteneva che detta scala era utilizzata da tutti e che nemmeno i dipendenti della B.G. s.p.a. indossavano l'imbracatura per percorrerla; il B. (dipendente della B.G. s.p.a.) riferiva che anch'egli utilizzava a volte quella scala, anche se normalmente preferiva un'altra via, seppure più lunga e faticosa, perché meno pericolosa, ma nessuno gli aveva prescritto di usare una scala piuttosto che un'altra (anche lui alla prima esperienza di lavoro su una nave) e gli aveva spiegato le potenziali insidie a bordo); l'ing. P.B. (della CoeC.P. Logistics s.p.a.) dichiarava di percorrere sempre quella scala, senza indossare imbracature di sicurezza (a suo giudizio la scala non era pericolosa) e di non aver mai ricevuto indicazioni circa l'utilizzo del dispositivo e non aveva frequentato corsi in proposito.
12.2. La difesa richiama al riguardo la formazione che avrebbe effettuato l'ing. P.B., accompagnando il B.A. e i colleghi sul posto e spiegando i vari percorsi della nave; tuttavia, come appena riportato, lo stesso ing. P.B. ammetteva, a sua volta, di non aver mai ricevuto formazione.
In materia di infortuni sul lavoro, l'obbligo di sicurezza imposto nei confronti dei subordinati dal D. Lgs. n. 626 del 1994, al datore di lavoro, e alle altre figure ivi istituzionalizzate e, in mancanza, al soggetto preposto alla responsabilità e al controllo della fase lavorativa specifica, consiste, oltre che in un dovere generico di formazione e informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i suddetti rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza (Sez. 4, n. 41997 del 16/11/2006, Perin, Rv. 235679, in fattispecie, relativa alla responsabilità del datore di lavoro che non aveva impedito lo svolgimento di un'attività pericolosa da parte del lavoratore - il quale era uscito dal cestello elevatore per le operazioni di pulizia, privo delle relative imbracature - la Corte ha ravvisato la colpa anche nel non aver vigilato sulla adozione in concreto da parte del lavoratore delle misure di sicurezza per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa).
Nella fattispecie, la Corte di appello ha esaustivamente chiarito che il B.A. aveva ricevuto una formazione molto generica in ordine ai rischi di caduta dall'alto e (come i suoi colleghi M.G. ed M.E.) non aveva ricevuto formazione e informazione sui pericoli inerenti alle lavorazioni a bordo di una nave, nonostante si trattasse di posti di lavoro comportanti rischi specifici e significativi (vedi la documentazione prodotta dalla difesa dell'O.G.).
In proposito, va ricordato che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Sez. 4, n. 39765 del 19/05/2015, Vallani, Rv. 265178, in fattispecie, in cui il lavoratore, che si era trovato nella necessità di sganciare il rimorchio di un autocarro, si procurava la morte rimanendo schiacciato fra le due parti del veicolo mentre stava procedendo ad un incauto riaggancio, non rispettando quelle misure di sicurezza che una specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere). Il datore di lavoro, peraltro, essendo tenuto a rendere edotto i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e a fornir loro adeguata formazione in relazione alle mansioni cui sono assegnati, risponde degli infortuni occorsi in caso di violazione di tale obbligo (Sez. 4, n. 11112 del 29/11/2011, dep. 2012, Bortoli, Rv. 252729, relativa a fattispecie di lavoratore, cui veniva comandata la pulitura dell'albero motore di un autocarro aziendale, che si procurava la morte per effetto della chiusura repentina del cassone di copertura del motore conseguente all'incauto smontaggio, che una specifica formazione avrebbe evitato, del raccordo del tubo idraulico).

13. Il terzo motivo del ricorso del C.P., con cui si deduce l'insussistenza della qualifica di committente della CoeC.P. Logistics s.p.a., è infondato.
13.1. Al riguardo, la Corte territoriale ha precisato che il C.P. era il Presidente della holding CoeC.P. s.p.a. e della società operativa CoeC.P. Logistics s.p.a., che aveva stipulato il 5 luglio 2006 un contratto (cui erano seguiti novazione ed addendum) con due società cinesi per costruire la nave, e committente dell'impianto sul quale stava lavorando il B.A. e che controllava la joint venture indiana CGU Logistics Limited e che, come il B.G., era obbligato ex art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994 a comunicare dettagliatamente i rischi specifici dell'ambiente di lavoro e a promuovere la cooperazione per l'attuazione delle misure di prevenzione ed il coordina­ mento degli interventi di protezione; la committente era presente sulla nave mediante i propri funzionari: il M.G. (della B.S. s.r.l.) e il B. (della B.G. s.p.a.) dichiaravano che il punto di riferimento per i lavori in India era l'ing. C. della CoeC.P..
La Corte di appello ha evidenziato quanto segue:
a) gli imputati nelle loro diverse posizioni di garanzia, non cooperavano e non coordinavano i rispettivi interventi, al fine di garantire la sicurezza del luogo di lavoro, in violazione dell'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994;
b) il committente si ingeriva nell'esecuzione dei lavori da parte del subappaltatore;
c) il mancato utilizzo dei dispositivi di protezione era palese, costante e diffuso e nessuno aveva formato né informato i lavoratori (privi di esperienze a bordo di una nave) dei rischi specifici legati all'ambiente di lavoro e all'utilizzo delle scale del tipo a pioli;
d) la scala a pioli rappresentava un rischio proprio dell'ambiente di lavoro in quanto presente su una nave dove andava collocato l'impianto di movimentazione del carbone che il B.G. si era impegnato, quale appaltatore, a costruire, e di un tipo di scala comunemente presente sulle navi (seppure per un uso non frequente) e la cui presenza nell'ambiente di lavoro era di conseguenza - peraltro - ampiamente prevedibile;
e) la B.G. s.p.a. aveva subappaltato alla B.S. s.r.l. solo la componente elettrica dell'impianto, ed aveva trattenuto per sé la parte meccanica, ma i lavoratori delle due società dovevano necessariamente coordinarsi tra loro, tanto vero che sulla nave era presente contemporaneamente il personale della B.G. s.p.a. (B. e Pisarenco), della B.S. s.r.l. (B.A., M.G., M.E.) e della CoeC.P. Logistics s.p.a. (ing. C., P.B., A.S.);
f) quel giorno, il B.A. (della B.S. s.r.l.) stava lavorando nella centralina per sistemare gli ultimi elementi prima di poter effettuare le prove in bianco (senza materiali) dello ship loeder, per le quali avrebbe dovuto coordinarsi proprio col B. (della B.G. s.p.a.) e il M.G. (della B.S. s.r.l.) e il B. (della B.G. s.p.a.) dichiaravano che il comune punto di riferimento per i lavori in India era l'ing. C. quale esponente della cliente CoeC.P. Logistics s.p.a., che aveva commissionato l'impianto meccanico sul quale doveva essere completato e messo in funzione l'impianto elettrico;
g) il rischio insito nel fatto che un lavoratore non marittimo percorresse più volte al giorno la scala in questione era immediatamente percepibile da parte non solo del datore di lavoro O.G., ma anche dai legali rappresentanti delle altre due imprese coinvolte (B.G. e C.P.): anche se all'interno dell'impianto B.G. era stata inserita un'altra scala utilizzabile dal B.A., sussisteva il concreto e prevedibile rischio che egli, come i dipendenti della B.G. s.p.a. e della CoeC.P., adoperasse la scala a pioli in questione, via più breve e veloce per raggiungere una postazione di lavoro comune alle due imprese, ovvero la centralina;
h) il B.G. e il C.P. non avevano formato i loro dipendenti o funzionari del pericolo insito nella presenza della scala a pioli sul luogo di lavoro, né li avevano dotati dei necessari dispositivi di sicurezza, per cui dovevano rispondere di tali omissioni non solo nei confronti dei propri dipendenti, ma, ai sensi dell'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994, anche nei confronti dei dipendenti delle altre imprese coinvolte, che tutte dovevano cooperare sulla nave, con rischi, evidenti, di interferenze delle rispettive attività;
i) in particolare l'art. 7 cit. costituisce le società committenti (nel caso di specie la CoeC.P. s.p.a. e la B.G. s.p.a.) come corresponsabili con l'appaltatore per le violazioni delle misure prevenzionali e protettive, al fine di rafforzare la tutela del bene della sicurezza e dell'igiene sui luoghi di lavoro;
I) i tre imputati erano responsabili a titolo di cooperazione colposa omissiva: l'O.G. quale datore di lavoro; il C.P. e il B.G. in quanto committente e subcommittente che chiamavano ad operare la B.S. s.r.l. (quale appaltatrice e subappaltatrice), della quale l'infortunato era dipendente, società non specializzata in lavori a bordo di una nave, che doveva svolgere attività necessariamente interferenti con quelle della CoeC.P. Logistics s.p.a.. (interessata all'esecuzione dei lavori sia sotto il profilo meccanico che elettrico) e della B.G. s.p.a. (che per svolgere i lavori meccanici appaltati doveva necessariamente coordinarsi con l'impresa subappaltatrice dei lavori elettrici).
13.2. Alla luce di quanto esposto, la Corte di merito ha correttamente individuato i principi giurisprudenziali applicabili alla fattispecie, evidenziando che il rischio non era specifico dell'attività della B.S. s.r.l., ma appunto tipico dell'ambiente di lavoro, in relazione al quale l'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994 (non valendo l'esclusione di cui al comma terzo) impone l'obbligo di coordinamento e di cooperazione in caso di compresenza di più imprese nel cantiere per la cui operatività occorre avere riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro, ma all'effetto che tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni che operano sul medesimo luogo di lavoro e che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori delle imprese coinvolte (Sez. 4, n. 37776 del 24/05/2019, Unipol Sai Assicurazioni s.p.a., Rv. 277354; Sez. 4, n. 1777 del 06/12/2018, dep. 2019, Perano, Rv. 275077; Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016, Carfi, Rv. 267687).
In proposito, occorre precisare che il concetto di "rischio interferenziale" non riceve una declinazione normativa; una definizione, invero, può rinvenirsi nella Determinazione n. 3 del 2008 dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che la intende come «circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell'appaltatore o tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti. Ne discende che la ratio dell'art. 7 D. L.vo n. 626 del 1994 (ora art. 26, comma 2, lett. a, D. Lgs. n. 81 del 2008) consiste nel tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative nel medesimo luogo di lavoro e far sì che il datore di lavoro committente organizzi la prevenzione dei rischi interferenziali, derivanti da tale compresenza, attivando e promuovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione e soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltatrici all'ambiente di lavoro dove prestano la loro attività lavorativa.
Ciò che rileva, quindi, per ravvisarne l'operatività, non è la qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra imprese che cooperano tra loro, quanto l'effetto creato da tale rapporto, cioè l'interferenza tra organizzazioni, che può costituire fonte di ulteriori rischi per i lavoratori di tutte le imprese coinvolte.
Per tali ragioni non ricorre la violazione di legge denunciata, avendo la Corte territoriale operato una interpretazione della norma del tutto coerente con la ratio dell'istituto.
Il ricorrente, senza confrontarsi con le argomentazioni della sentenza impugnata, si diffonde nell'analisi del contenuto delle clausole contrattuali applicabili alla fattispecie e sulla natura dei rapporti tra le varie società coinvolte, senza invece neanche tentare di confutare la situazione concreta sussistente nel cantiere (con particolare riferimento alla presenza di tecnici e personale appartenenti a tutte le società in questione), unico aspetto decisivo per stabilire la presenza di un rischio interferenziale.
Da ciò consegue che correttamente la Corte di merito ha riconosciuto anche in capo al C.P. la responsabilità per l'inosservanza degli obblighi di cura della formazione e dell'informazione dei lavoratori (tra i quali il B.A., sebbene estraneo al suo organigramma) e di dotazione ai medesimi dei necessari strumenti di sicurezza collettiva ed individuale.
14. E' infondato il quarto motivo del ricorso proposto dal C.P., con cui si deduce che il CU. era il diretto responsabile dell'Ufficio tecnico della CoeC.P. Logistics s.p.a., dotato di ampia autonomia e poteri di spesa, per cui la responsabilità non poteva essere riconosciuta al vertice della società.
14.1. Occorre precisare sul punto che, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere delegati, con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, fermo restando, comunque, l'obbligo, per il datore di lavoro, di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (Sez. 4, n. 24908 del 29/01/2019, Ferrari, Rv. 276335; Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109).
Tale principio era già stato affermato da questa Corte in relazione a fattispecie (come quella in esame), in cui era applicabile la disciplina previgente all'entrata in vigore del D. lgs. n. 81 del 2008, art. 16 (Sez. 5, n. 38425 del 19/06/2006, Del Frate, Rv. 235184).
Le particolari caratteristiche che deve rivestire la delega sono coerenti con il ruolo del datore di lavoro e con le responsabilità che da questo al medesimo derivano di garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore (di cui all'art. 2087 cod. civ.), con la conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40, comma secondo, cod. pen..
14.2. Delineati i principi operanti in materia, occorre rimarcare che, nella sentenza impugnata si è escluso che il C. rivestisse il ruolo di responsabile della sicurezza - evidentemente intendendosi con tale termine il responsabile del servizio di prevenzione e protezione - in quanto egli era mero responsabile dell'ufficio tecnico della CoeC.P. Logistics s.p.a..
La Corte territoriale ha altresì sottolineato che anche la designazione espressa, da parte della B.S. s.r.l., di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione a bordo della nave - anche se alle direttive della B.G. s.p.a. - non avrebbe esonerato il datore di lavoro e gli altri due imputati- dai loro obblighi specifici. Sul punto la giurisprudenza ha richiamato la pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la mera designazione di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (il responsabile del servizio di prevenzione e protezione svolge un ruolo di consulente in materia antinfortunistica del datore di lavoro - come previsto, all'epoca dei fatti, dall'art. 9 D. Lvo n. 626 del 1994 - ed è privo di effettivo potere decisionale - Sez. 4, n. 24958 del 26/04/2017, Rescio, Rv. 270286).
Tale ruolo non coincide con nessuna delle qualifiche ipotizzate dallo stesso ricorrente e di per sé non significa delega di funzioni. Dall'atto di delega allegato al ricorso emerge l'attribuzione - in via estremamente generica - anche di poteri di spesa al C., ma senza il conferimento di una piena autonomia economica e, tanto­ meno, in materia della sicurezza.

15. Il sesto motivo di ricorso (prima parte) dell'O.G. e il sesto motivo di ricorso del C.P., con cui si chiede il riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall'art. 62, n. 6, cod. pen., sono generici e manifestamente infondati.
In materia, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che l'attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62, comma primo, n. 6, prima parte, cod. pen. esige esclusivamente che la riparazione del danno - mediante le restituzioni o il risarcimento - sia integrale e avvenga prima del giudizio; non richiede, invece, che l'attività del reo sia anche spontanea (come nella seconda ipotesi della stessa disposizione), essendo sufficiente che si tratti di attività volontaria (Sez. 5, n. 57573 del 31/10/2017, P., Rv. 271872).
Inoltre, la circostanza attenuante del ravvedimento operoso, di natura soggettiva, richiede che la condotta resipiscente, posta in essere dopo la consumazione del reato, ma prima del giudizio, per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, sia spontanea e determinata da motivi interni, senza pressioni o costrizioni e non influenzata da fattori quali l'arresto e lo stato di detenzione (Sez. 5, n. 17226 del 09/12/2019, dep. 2020, Pronesti, Rv. 279167, in fattispecie relativa a plurimi fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di appello che non aveva riconosciuto l'attenuante in esame nella condotta dell'imputato, amministratore unico della società fallita, che, contestualmente alla dichiarazione di fallimento, in una primissima fase di indagini aveva inoltrato alla polizia giudiziaria un memoriale il cui contenuto, oltre a svelare le trame societarie criminose, aveva consentito l'individuazione dei complici, abituali interlocutori della società sotto falso nome).
Infine, l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen. non è applicabile nei confronti del coimputato di un reato colposo che abbia effettuato nelle forme prescritte il risarcimento non dell'intero danno, ma solo della quota riferibile al suo comportamento (Sez. 4, n. 222 del 06/02/1968, Zurla, Rv. 108856; Sez. 4, n. 2496 del 29/11/1965, dep. 1966, Sommaruga, Rv. 100209).
Al riguardo, secondo quanto esposto dalla Corte di appello con motivazione lineare e coerente, il Tribunale aveva correttamente ritenuto non concedibile agli imputati l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., non avendo essi integralmente risarcito i danni patiti dalle parti civili prima dell'apertura del procedimento in primo grado, evidenziando altresì che, trattandosi di un'obbligazione solidale, non rilevava la cor­ responsione parziale da parte del C.P. prima dell'apertura del dibattimento.
In sostanza, in base a quanto logicamente rappresentato dalla Corte territoriale era stata corrisposta una somma di danaro alle parti civili non anteriormente all'inizio del giudizio e mediante una cifra non congrua; neanche la seconda parte dell'art. 62, n. 6, cit. era applicabile, occorrendo l'effettuazione della condotta riparatoria per elidere o attenuare le conseguenze del reato prima del giudizio.
Il C.P. aveva pagato solo la propria quota di risarcimento sia pur anteriormente all'apertura del dibattimento, aspetto irrilevante stante la natura solidale dell'obbligazione, dalla quale discende la necessità di un risarcimento integrale dei danni inferti.

16. Il sesto motivo di ricorso (seconda parte) dell'O.G. e il settimo motivo di ricorso del C.P., con cui si contesta la mancata formulazione di un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche è manifestamente infondato.
Va osservato che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione (Sez. 2, n. 31543 dell'0B/06/2017, Pennelli, Rv. 270450).
In tema di concorso di circostanze, peraltro, il giudizio di comparazione risulta sufficientemente motivato, quando il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 cod. pen. scelga la soluzione dell'equivalenza, anziché della pre­ valenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. 2, n. 31531 del 16/05/2017, Pistilli, Rv. 270481).
Tanto premesso, nella fattispecie, la Corte di appello ha correttamente ritenuto di concedere le circostanze attenuanti generiche, in ragione della incensuratezza dei tre imputati e del pur parziale risarcimento dei danni, non formulando un giudizio di prevalenza sull'aggravante: non solo perché i risarcimenti sono intervenuti dopo anni dall'infortunio, ma anche per il grado della colpa: sulla Bulk Prosperity non risultavano rispettate evidenti misure di sicurezza, con violazione degli obblighi di formazione ed informazione verso tutti i lavoratori/funzionari delle tre società coinvolte, e con mancata fornitura di minime dotazioni di sicurezza individuali, nonostante almeno alcuni lavoratori fossero alfa loro prima esperienza lavorativa a bordo di una nave; indi, ha inflitto la pena di un anno di reclusione, superiore al minimo edittale, lontana dalla media edittale, ma risulta equa e rispettosa dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen. e, in particolare, della colpa.
La Corte di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, pertanto, ha formulato un giudizio esente da censure rilevabili in sede di legittimità circa la gravità della colpa, quale elemento decisivo per denegare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante, legittimamente escludendo rilevanza agli elementi favorevoli agli imputati, con particolare riferimento alla corresponsione di somme di danaro a titolo di risarcimento dei danni.

17. Il settimo motivo del ricorso dell'O.G., con cui si chiede la declaratoria di prescrizione del reato, è manifestamente infondato.
Nella fattispecie, i termini prescrizionali di cui all'art. 157, comma sesto, cod. pen. sono raddoppiati ai sensi della L. n. 251 del 2005, per cui il termine massimo è di anni quindici, con scadenza in data 3 aprile 2023.

18. Per le ragioni che precedono, i ricorsi vanno rigettati.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.).

 

P. Q. M.




Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 20 maggio 2021.