Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 27 ottobre 2021, n. 38422 - Infortunio mortale dell'operaio con mansioni di tagliatore ossiacetilenico. Mancata previsione dei rischi derivanti dall'attività lavorativa e mancanza di strumenti adatti a svolgerla


 

 

Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: NARDIN MAURA Data Udienza: 19/10/2021
 

 

Fatto


1. Con sentenza del 27 febbraio 2020 la Corte di Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale di Venezia, resa in sede di giudizio abbreviato, ha ritenuto F.V., responsabile del reato di cui all'art. 589, comma 2" cod. pen., perché, nella sua qualità di Amministratore unico della E. S.r.l. e datore di lavoro di R.D., operaio con mansioni di tagliatore ossiacetilenico, con colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché nella violazione degli artt. 17 comma 1 lett. a) e 28 commi 2 e 3 d.lgs. 81/2008, ometteva di effettuare la valutazione dei rischi durante le attività di demolizione di manufatti ferrosi per mezzo di fiamma ossidrica, nonché di indicare specifiche misure di prevenzione e protezione, così cagionando la morte del lavoratore che, in assenza di precise prescrizioni procedurali e di misure di cautela, postosi sotto la struttura da demolire, effettuava il taglio di un tratto di lamiera che sosteneva la porzione di coperta del pontone galleggiante di un'imbarcazione, la quale cedendo lo travolgeva, procurandogli gravissime lesioni che lo conducevano alla morte.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello propone ricorso F.V., a mezzo del suo difensore, formulando tre motivi.
3. Con il primo fa valere la violazione degli artt. 125, comma 3 e 546 lett. e) cod. proc. pen., nonché dell'art. 111, commi 4" e 5" Cost.. Lamenta che, nonostante l'atto di appello sollecitasse l'esame di profili non analizzati con la sentenza gravata, quella di seconda cura riprende sostanzialmente quella di primo grado, così violando l'obbligo, costituzionalmente garantito, di motivare la decisione. Contesta l'affermazione con cui si sostiene l'insussistenza della valutazione del rischio - documentalmente smentita dall'esistenza del D.V.R., esplicativo delle attività di sollevamento/spostamento e demolizione dei carichi­ nonché quella con cui si assume che l'imputato abbia confessato di non avere predisposto la valutazione del rischio dell'attività svolta, solo perché, rispondendo alla domanda sulle prescrizioni da adottare per la demolizione di una chiatta, ha prudentemente riferito di dover consultare il D.V.R.. Assume che il lavoratore deceduto era persona esperta, che solo qualche mese prima aveva provveduto ad analoga operazione di demolizione, ciò deponendo nel senso di una corretta formazione ed informazione in ordine ai rischi inerenti il tipo di attività, nonché nel senso dell'adeguatezza delle prescrizioni impartite. Osserva che in relazione alla sussistenza del nesso causale erano stati formulati motivi aggiunti all'atto di appello, con cui si poneva in luce che l'infortunio era derivato unicamente dall'abnormità del comportamento tenuto dal lavoratore, il quale non solo si era recato presso il cantiere navale al di fuori dell'orario di lavoro, senza neppure darne comunicazione, ma aveva dato inizio alle operazioni di demolizione, nonostante l'assenza dell'altro operatore addetto, provvedendo a tagliare un elemento portante della 'coperta' galleggiante, ponendosi in posizione sottostante, così assumendo un rischio inutile e non prevedibile, né evitabile dal datore di lavoro. Sicché l'esorbitanza della sua condotta configura un comportamento abnorme, idoneo a recidere il legame causale. D'altro canto, il datore di lavoro oltre ad avere provveduto ad assolvere gli obblighi di formazione ed informazione, aveva altresì fornito al lavoratore i dispositivi di protezioni individuali, mentre non è dubbia l'esperienza maturata dalla persona offesa in relazione all'attività svolta nell'occasione. R.D., infatti, era stato dipendente della E. S.r.l., ed anche successivamente alla formale cessazione del rapporto aveva continuato a collaborare, proprio procedendo alla demolizione di un'altra chiatta nel medesimo cantiere navale. Sostiene che la Corte territoriale, pur a fronte delle puntuali sollecitazioni introdotte con i motivi aggiunti, si è limitata a rispondere con una motivazione meramente apparente, senza approfondire alcuno degli aspetti sottoposti.
4. Con il secondo motivo si duole del vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale, da un lato, affermato che 'il lavoratore era stato abbandonato a sé stesso', dall'altro, sostenuto che all'imputato non è stato contestato 'di avere affidato i lavori ad un operaio privo di esperienza, bensì di averlo impiegato in un'attività pericolosa senza valutare il 'rischio'. Si tratta, invero, di assunti contraddittorii, posto che o l'operaio è specializzato oppure è 'abbandonato a sé stesso'. Sottolinea che nel corso del processo è emerso che R.D. aveva partecipato a diversi corsi di formazione ed era idoneo alla mansione affidatagli, come è risultato dalla Relazione Spisal, il che, unitamente alla dichiarazione del teste S., il quale ha affermato di avere lavorato con la persona offesa per oltre vent'anni, in favore della E. S.r.l., dimostra l'esperienza acquisita dalla vittima, certamente a conoscenza dei rischi e delle procedure per evitarli.
5. Con il terzo motivo fa valere il vizio di motivazione e la falsa applicazione degli artt. 62 n. 6), 63 e 69 cod. pen.. Ricorda che con l'atto di appello si era evidenziata la difformità fra il dispositivo della sentenza di primo grado, ove le circostanze attenuanti generiche erano concesse in regime di equivalenza con l'aggravante contestata, e la motivazione, che, invece le aveva considerate prevalenti. Assume che il giudizio della Corte, con cui si giustifica il regime dell'equivalenza e l'esclusione dell'attenuante del risarcimento del danno, poggia sul travisamento dei fatti e sull'omesso vaglio degli elementi favorevoli all'imputato. Rileva che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di appello, l'integralità del risarcimento delle parti civili ben può desumersi dalla revoca della loro costituzione. L'assenza di argomentazioni a fondamento del diniego dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6) cod. pen. e del giudizio di bilanciamento, impongono la censura del giudice di legittimità. Conclude per l'annullamento della sentenza impugnata.
6. Con requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23 d.l. 137/2020 il Procuratore
generale presso la Corte di cassazione ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
 

Diritto


1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3. Si sostiene, innanzitutto, che il giudice di seconda cura avrebbe omesso di rispondere alle doglianze proposte con l'appello, appiattendosi sulla motivazione della sentenza appellata, in secondo luogo, che gli elementi acquisiti in giudizio consentono di escludere sia la sussistenza della colpa, che quella del nesso causale fra la condotta contestata e l'evento, essendo il collegamento interrotto dall'abnormità del comportamento tenuto dal lavoratore.
4. La semplice lettura della decisione qui impugnata consente di smentire l'asserita assenza dell'apparato giustificativo. Invero, la Corte territoriale esamina ciascuno dei motivi di appello proposti, confrontandosi con il contenuto delle censure sollevate con il gravame. Così, risponde alla contestazione con cui si era dedotto che, contrariamente a quanto assunto dalla sentenza di primo grado, le prescrizioni contenute nel D.V.R. concernevano non solo le lavorazioni presso lo stabilimento della E. S.r.l., ma anche quelli svolte in cantieri esterni. E lo fa esaminando il contenuto del documento ed escludendo che le previsioni di cui ai fogli 105 e 107, relative rispettivamente alle lavorazioni sul piazzale con l'uso di materiali infiammabili e quelle inerenti l'attività di taglio ossiacetilenico riguardino la prevenzione di infortuni come quello occorso.
Secondo il giudice di appello, infatti, la prima prescrizione attiene al pericolo di incendio, la seconda è volta ad evitare danni alla vista, tanto che contiene l'obbligo di fornire specifiche protezioni individuali (maschere). Invece, nessuna previsione è contenuta nel D.V.R., in ordine a lavorazioni da svolgere all'esterno dello stabilimento E. -e del suo piazzale- ed è questa la contestazione elevata all'imputato, in relazione alla mancata previsione dei rischi derivanti dall'attività lavorativa. D'altra parte, coerentemente con questa premessa, assume il significato della sussistenza delle violazioni degli artt. 17 e 28 lett. a) e b) d. lgs. 81/2008 la circostanza che il datore di lavoro, si sia adeguato, successivamente all'infortunio alle prescrizioni imposte dallo Spisal.

Rispetto a questa ricostruzione il ricorrente nulla oppone, limitandosi a riproporre lo stesso motivo già sottoposto al giudice di appello, di cui lamenta, a torto, l'apparenza.
A fronte degli argomenti spesi dalla decisione di nessun rilievo è la deduzione secondo la quale la mancata previsione del rischio nel documento di valutazione sarebbe desunta dalle dichiarazioni dell'imputato, cui secondo il ricorrente viene 'inopinatamente' attribuito significato confessorio, solo perché egli avrebbe ammesso di dover consultare il D.V.R, al fine di rispondere. Ed invero, sebbene la Corte territoriale ritenga di mettere in evidenza la scarsa puntualità della risposta data da F.V., nondimeno, non è certamente su quella base che afferma l'incompletezza del documento di valutazione dei rischi, desunta, invece, dalla sua lettura. Il richiamo delle dichiarazioni rese sul punto dall'imputato vale, dunque, come semplice sottolineatura, come elemento ad colorandum, non costituendo affatto il fondamento della decisione.
5. Anche in relazione alla censura formulata -particolarmente con i motivi aggiunti- alla sentenza di primo grado, nella parte in cui affronta la sussistenza della condotta consistita nella concreta omissione di misure cautelative e del suo nesso causale con l'evento, la decisione qui gravata non mostra alcun vizio motivazionale.
Le questioni sono ampiamente approfondite dal giudice di appello, che precisa come siano mancate tanto le indicazioni procedurali sull'attività da svolgere, quanto gli strumenti indispensabili a renderla sicura. La Corte ricorda come sia risultato dall'istruttoria svolta che nell'esecuzione della demolizione della chiatta per le pareti laterali può provvedersi posizionandosi a lato del manufatto, mentre quando si opera sulla copertura può fisicamente procedersi sia dal basso che dall'alto. Per farlo in sicurezza, nondimeno, è necessario l'utilizzo di una piattaforma elevabile sino all'altezza dalla quale è possibile procedere alle operazioni di taglio. Siffatto strumento, tuttavia, non fu mai messo a disposizione del lavoratore che fu costretto ad ingegnarsi, commettendo però un errore fatale. Pacifico, dunque, che fu proprio l'insieme delle omissioni relative alla valutazione dei rischi ed alla mancata predisposizione di mezzi indispensabili per evitare il pericolo insito nell'attività a cagionare il sinistro, posto che l'opera svolta dall'operaio rientrava nelle mansioni affidategli, non costituendo attività eccentrica rispetto ad esse.
Si tratta di una motivazione del tutto in linea con la più recente giurisprudenza, che abbandonando il criterio dell'imprevedibilità del comportamento del lavoratore nella verifica della relazione causale tra condotta del reo ed evento ha sostenuto che affinché "la condotta del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia" (cfr. da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 15124 del 13/12/2016, dep. 27/03/2017, Rv. 269603; sulla base del principi enunciati da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261106, in motivazione).
E' per questo che, nel caso di specie, la condotta del lavoratore non può collocarsi al di fuori della sfera di governo del datore di lavoro, perché, da un lato, essa realizza proprio il compito assegnato, dall'altro, l'evento derivatone è proprio quello paventato dalle regole preventive omesse (mancata valutazione dei rischi, omessa predisposizione di una procedura sicura per procedere alla demolizione della chiatta e più precisamente della parte costituita dal pontone galleggiante, omessa fornitura di strumenti adeguati ad evitare i pericoli derivanti dall'attività).
Ma, nel rispondere alle doglianze, la Corte territoriale va oltre, e rinviene nel compendio probatorio a disposizione la prova, costituita dalla testimonianza di un altro dipendente dell'E. s.r.l., che fu F.V. a richiedere a R.D. di recarsi in cantiere di sabato per procedere alla demolizione della chiatta. Dal che, correttamente, trae che neppure sotto il profilo dell'estemporaneità rispetto ai tempi lavorativi può parlarsi di eccentricità della condotta posta in essere dalla persona offesa.
6. Ecco che, allora, emerge che non è affatto la sentenza a non rispondere ai motivi formulati con l'appello, ma sono i motivi proposti in questa sede ad essere meramente ripetitivi di quelli già sottoposti al giudice di seconda cura.
La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, chiarito in plurime occasione come sia inammissibile per genericità "il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della m,otivazione. {Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970) e ciò perché la pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, non assolve la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso" (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 - dep. 28/10/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 6, n. 34521 del 27/06/2013, Ninivaggi, Rv. 256133; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009 , Amone e altri, Rv. 243838).
La critica alla sentenza impugnata, si realizza, infatti, attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Ciò spiega perché se il motivo di ricorso in sede di legittimità si limita a ripetere quanto già chiesto al giudice precedente, riproponendo le medesime doglianze fallisce lo scopo dell'impugnazione, perché non critica la decisione che ne forma oggetto, che diviene indifferente rispetto alla stessa richiesta, ma quella del grado precedente. Questo di per sé giustifica l'inammissibilità del motivo.
7. La seconda doglianza è parimenti inammissibile.
Mal si comprende, invero, perché l'idoneità del lavoratore alle mansioni o la sua esperienza -peraltro non messa in dubbio dalla sentenza che, anzi, la riconosce- potrebbero fare venire meno la violazione integrata dal non avere previsto né regolato il rischio, e dal non averlo evitato, se non ritenendo che il personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, sia idoneo a sgravare il datore di lavoro dagli obblighi di prevenzione e salvaguardia che là legge gli impone. Il che, tuttavia, significherebbe cancellare tutte le tutele normative rivolte alla tutela della salute dei lavoratori, rimettendo la loro sicurezza alla loro esperienza, obiettivo certamente còntrario a tutta la legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, che non distingue fra lavoratore inesperto ed esperto, né potrebbe farlo, se non a costo di violare il principio costituzionale di eguaglianza.
8. Il terzo motivo è anch'esso inammissibile, anche perché generico. Ed invero, lamentando la mancata considerazione sia degli elementi positivi che avrebbero dovuto indurre il giudice di secondo grado ad un più favorevole bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche con l'aggravante contestata, nonché alla concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6) cod. pen., il ricorrente omette di indicare quali sarebbero quelli pretermessi, di cui pretende il vaglio. Così come non specifica di avere fornito alla Corte territoriale elementi da cui desumere in quali termini è intervenuto il risarcimento delle parti civili, pretendendo che il riconoscimento dell'attenuante del risarcimento del danno si fondi sulla mera revoca della loro costituzione.
Dimentica, tuttavia, il ricorrente che la valutazione circa l'esaustività del risarcimento spetta al giudice, che ha facoltà di negare la sussistenza del completo ristoro, addirittura indipendentemente dalla soddisfazione delle parti (Cfr. Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011, Allegra, Rv. 25150801 Sez. 2, n. 53023 del 23/11/2016, Casti, Rv. 26871401) ed addirittura dalla loro costituzione nel giudizio penale. La lettera dell'art. 62 n. 6) cod. pen., infatti, disciplinando i presupposti per la concessione dell'attenuante non fa riferimento alcuno all'esercizio dell'azione risarcitoria, così dimostrando la sostanziale indipendenza fra il giudizio di esaustività del ristoro i fini della commisurazione della pena ed il risarcimento del danno ai fini del soddisfacimento delle conseguenze lesive del reato in capo al singolo danneggiato. Ed invero, mentre la richiesta di risarcimento del danno va proposta da ciascun singolo danneggiato attraverso l'esercizio della relativa azione nel giudizio penale od autonomamente nel giudizio civile, ben potendo la parte danneggiata rinunciarvi, la riparazione richiesta per la concessione dell'attenuante implica il ristoro del danneggiato indipendentemente dalla sua domanda. Tanto che per poter ottenere la relativa diminuzione di pena, a fronte dell'eventuale rifiuto o della dichiarazione di rinuncia, occorre che l'imputato dimostri di avere messo a disposizione la somma di danaro mediante offerta reale, nei modi stabiliti dagli art. 1209 e ss. cod. civ., al fine di consentire al giudice di valutarne la serietà e la congruità (Sez. 2, Sentenza n. 36037 del 06/07/2011 Ud. (dep. 05/10/2011 ) Rv. 251073; Sez. 1, Sentenza n. 18440 del 28/04/2006 Ud (dep. 25/05/2006 ) Rv.
233817).
9. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
 

P.Q.M.
 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende
Così deciso il 19/10/2021