Cassazione Civile, Sez. Lav., 02 novembre 2021, n. 31130 - Legittimo il licenziamento del responsabile del negozio che perseguita e minaccia i colleghi


 

 


Presidente Raimondi – Relatore Pagetta

 

Fatto



1. La Corte di appello di Napoli, rigettando il reclamo di M.S., ha confermato la legittimità del licenziamento per motivi disciplinari intimato con nota del 29.8.2014 al detto lavoratore dalla Harmont & Blaine s.p.a.

2. La Corte di merito, affermata la tempestività della contestazione disciplinare, esclusa la natura discriminatoria/ritorsiva del licenziamento, ha osservato che gli addebiti contestati al lavoratore, consistenti in comportamenti persecutori e minacciosi nei confronti dei colleghi di lavoro del punto vendita all'interno dell'outlet di (omissis) del quale il M. era responsabile, avevano trovato riscontro nelle emergenze in atti ed in particolare nella prova orale. Per la loro reiterazione e gravità tali condotte giustificavano la grave e irrimediabile lesione del vincolo fiduciario e giustificavano la sanzione espulsiva.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso M.S. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

4. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 - bis, conv. con modif. dalla L. n. 176 del 2020, con la quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

 

 

Diritto



1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce: violazione ed erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 per carenza di tempestività della contestazione disciplinare - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2909 c.c.: impossibilità di contestare i fatti addotti. Censura la valutazione di tempestività della contestazione disciplinare che assume non giustificata a fronte di episodi che si erano verificati in epoca antecedente al primo licenziamento intimato al M., licenziamento definito con declaratoria di illegittimità del recesso datoriale ed applicazione della tutela reale ex art. 18 St. lav. nel testo antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 92 del 2012; si duole in particolare che il giudice di appello non avesse considerato che i fatti alla base del secondo licenziamento erano stati appresi dalla datrice di lavoro nel corso delle testimonianze rese nel procedimento originato dalla impugnativa del primo licenziamento e, quindi, circa un anno prima della relativa contestazione.

2. Con il secondo motivo deduce: violazione ed erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7; violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare. Sostiene, in sintesi, che consentire la contestazione, ai fini dell'irrogazione di un nuovo licenziamento, di fatti relativi ad un lasso temporale "coperto" dal giudizio relativo al primo licenziamento si traduceva in una inammissibile mutatio della originaria contestazione e comportava un aggiramento delle preclusioni processuali rispetto a fatti storici che avrebbero dovuti essere dedotti nel primo giudizio; invoca il principio del dedotto e deducibile.

3. Con il terzo motivo di ricorso deduce: violazione, errata e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c.; inversione dell'onere probatorio- insussistenza degli estremi del licenziamento per giusta causa, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 2106 c.c. Censura la sentenza impugnata sul rilievo che l'onere della prova degli addebiti ascritti gravava sul datore di lavoro e che tale prova non era stata offerta alla stregua della istruttoria espletata.

4. Con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1343,1344,1345 e 2909 c.c. censurando la sentenza impugnata per avere escluso il carattere ritorsivo o arbitrario del licenziamento. Assume che il licenziamento, fondato su fatti già oggetto di una prima contestazione, era non solo palesemente arbitrario ma anche ritorsivo; invoca il principio del giudicato e le conseguenti preclusioni processuali che assume destinati ad operare anche in presenza di fatti ignoti alla società all'epoca del giudizio avente ad oggetto il primo licenziamento.

5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

5.1. La sentenza impugnata ha ritenuto tempestiva la contestazione relativa al secondo licenziamento, avente ad oggetto comportamenti persecutori e minacciosi nei confronti dei colleghi di lavoro, adottati dal M. all'interno del punto vendita del quale questi era responsabile, comportamenti, protrattisi nel tempo, già più volte denunciati dai colleghi dell'odierno ricorrente e proseguiti anche nei mesi di (OMISSIS) , dopo la formale reintegrazione conseguente alla declaratoria giudiziale di illegittimità del primo licenziamento; in particolare ha valorizzato la circostanza che alcuni di questi fatti erano stati conosciuti dalla società datrice solo nelle more del processo avente ad oggetto il primo licenziamento, procedimento definito in prime cure con sentenza del Tribunale di Venezia del 2.7.2014, per cui la contestazione del 7.8.2014 doveva considerarsi intervenuta senza ritardo.

5.1. La valutazione di tempestività della contestazione rispetto ai fatti appresi nel corso del giudizio avente ad oggetto la legittimità del primo licenziamento non è incrinata dalla deduzione relativa alla data delle escussioni testimoniali nel corso delle quali sarebbero emerse le condotte a base del secondo licenziamento. Tale deduzione presenta un profilo di inammissibilità posto che parte ricorrente, in violazione dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non trascrive il contenuto dei verbali delle udienze nel corso delle quali erano emersi i fatti in seguito addebitati al M. , come prescritto (Cass. n. 29093 del 2018, Cass. n. 195 del 2016Cass. n. 16900 del 2015, Cass. n. 26174 del 2014, Cass. n. 22607 del 2014, Cass. Sez. Un, n. 7161 del 2010)

5.2. L'approdo della Corte distrettuale in tema di rispetto del requisito di immediatezza della contestazione risulta coerente con il riconosciuto carattere relativo di tale requisito ed esprime una valutazione che per consolidata giurisprudenza di legittimità è riservata al giudice di merito e non è sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata (Cass. n. 281 del 2016, Cass. n. 29480 del 2008, Cass. n. 16841 del 2018), come avvenuto nel caso di specie.

5.3. La censura che denunzia violazione dell'art. 2909 c.c. è inammissibile in quanto non corredata nell'ambito della complessiva illustrazione del primo motivo da argomentazioni destinate a chiarirne i presupposti ed il contenuto in relazione alla concreta fattispecie.

6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

6.1. La questione della mutatio libelli e, più in generale, delle preclusioni processuali scaturenti dalla contestazione disciplinare relativa al primo licenziamento non è stata specificamente affrontata dal giudice di merito per cui, a fronte di ciò, onde impedire una valutazione di novità della questione, era onere del ricorrente quello di allegare l'avvenuta deduzione di esso innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione, quello di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. n. 20694 del 2018, Cass. n. 15430 del 2018, Cass. n. 23675 del 2013), come viceversa non è avvenuto.

6.2. È ancora da rimarcare che la complessiva prospettazione del ricorrente muove da una non chiara definizione dei piani sui quali sono destinati ad operare il principio di immutabilità della contestazione e, con le connesse preclusioni processuali, il principio del dedotto e del deducibile; invero il principio di immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del medesimo licenziamento, circostanze nuove rispetto a quelle contestate (Cass. n. 26678 del 2017, Cass. n. 6499 del 2011) ed esprime la necessità di correlazione dell'addebito con la sanzione inflitta in chiave di tutela dell'esigenza difensiva del lavoratore per cui anche in sede giudiziale la verifica demandata al giudice di merito deve avere ad oggetto le medesime circostanze non alterate nella loro sostanza fattuale - oggetto di addebito nella lettera di contestazione (Cass. n. 3079 del 2020, Cass. n. 10853 del 2019); da tanto deriva che l'invocato principio è destinato ad operare in relazione al medesimo licenziamento e non, come sembra adombrare la odierna parte ricorrente, con riferimento a due diversi atti di recesso datoriale, per i quali, ove dovessero ritenersi fondati sulle medesime condotte andrebbe più propriamente invocato il principio del ne bis in idem.

6.3. Analogamente, l'assunto della preclusione processuale scaturente dal principio per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile implicava la allegazione prima ancora che la dimostrazione che i fatti contestati con il secondo licenziamento fossero riconducibili a quelli oggetto di accertamento giudiziale relativo al primo licenziamento, assunto questo escluso in radice dal fatto che, come riconosce anche l'odierno ricorrente, alcune delle condotte contestate in relazione al secondo licenziamento erano state apprese dalla datrice di lavoro solo nel corso del giudizio relativo al primo licenziamento e quindi erano, per definizione, estranee al dedotto ed al deducibile in quel giudizio.

7. È inammissibile il terzo motivo di ricorso la cui articolazione non è conforme al vizio denunziato (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il quale esige non solo l'indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 287 del 2016, Cass. n. 635 del 2015, Cass. n. 25419 del 2014, Cass. n. 16038 del 2013, Cass. n. 3010 del 2012); in particolare la violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove, come in concreto avvenuto, oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013, Cass. n. 13395 del 2018).

7.1. Dalla sentenza impugnata non è dato evincere alcun sovvertimento della regola dell'onere probatorio, pacificamente ricadente sul soggetto datore di lavoro, nè affermazioni in diritto in contrasto con il principio secondo il quale è il datore di lavoro a dover provare i fatti oggetto di addebito; le doglianze del ricorrente per come concretamente formulate investono il profilo della ricostruzione fattuale operata dal giudice del merito in ordine alla sussistenza dei fatti contestati sulla base delle emergenze in atti, ricostruzione astrattamente incrinabile, alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo dalla deduzione, neppure formalmente prospettata in ricorso, nei rigorosi limiti delineati dal codice di rito, di omesso esame di un fatto controverso e decisivo (v. fra le altre, Cass. Sez. Un. 8053 del 2014); tale denunzia in concreto sarebbe risultata comunque preclusa, ai sensi dell'art. 348 ter c.p.c., u.c. dalla esistenza di "doppia conforme”, non avendo parte ricorrente indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse erano tra loro diverse (Cass. 20994 del 2019, Cass. n. 5528 del 2018, Cass. n. 19001 del 2016).

7.2. La deduzione di violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dell'art. 2106 c.c. è anch'essa inammissibile in quanto non incentrate sul significato e sulla portata applicativa delle norme in oggetto ma intese in concreto a censurare la valutazione del materiale probatorio ed a sollecitarne un diverso apprezzamento, sindacato precluso al giudice di legittimità.

8. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per essere le censure articolate prive di pertinenza con le ragioni alla base della decisione.

8.1. Parte ricorrente muove, infatti, dall'assunto, che introduce un tema nuovo, estraneo all'accertamento della Corte di appello, che il secondo licenziamento era fondato sugli stessi fatti alla base del primo ed in forza di tale assunto, indimostrato, costruisce le proprie censure in tema di preclusioni scaturenti dal giudicato sul primo licenziamento. Le ragioni di doglianza non si confrontano con le effettive ragioni alla base del decisum; il presupposto logico giuridico del percorso motivazionale sviluppato dalla sentenza impugnata è costituito dalla diversità delle condotte alla base del primo e del secondo licenziamento, venendo in rilievo, per quelle realizzatesi in epoca antecedente al primo licenziamento ma conosciute dalla società datrice solo in un secondo momento, un problema di tempestività della contestazione, risolto dal giudice del merito nei condivisibili termini confermati mediante la statuizione di inammissibilità del primo motivo di ricorso.

9. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.

10. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 4315 del 2020).

 

P.Q.M.
 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 6.000, 00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.