- Datore di Lavoro
- Lavoratore
- Informazione, Formazione, Addestramento
- Sostanza Pericolosa
Responsabilità del direttore di una casa di reclusione, dunque datore di lavoro di un detenuto, per colpa, consistita nella violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 21 e 22, - per avere omesso di provvedere affinché i detenuti lavoranti componenti la squadra addetta alla manutenzione del fabbricato carcerario, tra cui il D.B., ricevessero un'adeguata informazione sui pericoli connessi all'uso di sostanze e preparati pericolosi per la salute nonché un'adeguata formazione in materia di sicurezza, con specifico riferimento alle mansioni assegnate -aveva cagionato al predetto D.B. lesioni personali gravi, consistite nella perdita funzionale dell'occhio sinistro, con indebolimento permanente dell'organo della vista.
Condannato in primo grado, viene assolto in secondo grado perchè il fatto non costituisce reato.
Ricorre in Cassazione la parte civile - Fondato.
La Corte afferma che: "del tutto estranee alla
normativa di riferimento sono, quindi, le pretese limitazioni di responsabilità
del direttore dell'istituto di pena affermate dalla corte territoriale, peraltro
attraverso un percorso argomentativo non coerente sul piano logico.
La richiamata normativa ha, peraltro ricevuto, con il
D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, come novellato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n.
106, specifiche conferme quanto alla nozione di "datore di
lavoro" ed all'applicazione dello stesso a tutti i settori di attività, privati
e pubblici, ed a tutte le tipologie a rischio.
Deve quindi concludersi, alla stregua delle esposte considerazioni, che solo
un'errata interpretazione della normativa di riferimento ha impedito al giudice
del gravame di escludere l'esigibilità dal D. del rispetto degli obblighi
specifici ai quali era tenuto quale datore di lavoro dell'operaio infortunato.
Obblighi che, come aveva correttamente osservato il primo giudice, gli
imponevano, prima di avviare al lavoro un semplice apprendista, che non aveva
nessuna pregressa esperienza lavorativa e nessuna competenza nel settore:
- di assicurargli una specifica formazione professionale e di fornirgli precise
informazioni circa le regole minime di sicurezza da osservare, specie nella
manipolazione di preparati pericolosi per la salute;
- di renderlo consapevole della necessità di utilizzare i dispositivi
individuali di protezione, nel caso di specie gli occhiali; Gli imponevano,
altresì:
- di verificare che fosse garantita la perfetta osservanza delle norme di
sicurezza;
-di dare disposizioni perché fosse costantemente assicurata la presenza del capo
d'arte, Da., chiamato, il giorno dell'infortunio, ad altri incarichi;
Proprio l'assenza di costui aveva indotto il D.B., rimasto senza guida, a
cimentarsi, maldestramente, senza adottare precauzioni di sorta, nella
preparazione della vernice.
Assenza che rivela un ulteriore profilo di colpa in capo all'imputato che, nella
sua qualità, consapevole delle carenze formative ed informative sopra segnalate,
avrebbe dovuto, quanto meno, dare precise disposizioni ai suoi sottoposti, ed
allo stesso capo d'arte, affinché la presenza di costui fosse sempre ed in ogni
caso assicurata, proprio per evitare che operai inesperti fossero abbandonati
alle loro personali iniziative. "
____________________________________________
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RIZZO Aldo Sebastiano - Presidente
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere
Dott. IACOPINO Silvana Giovanna - Consigliere
Dott. FOTI Giacomo - rel. Consigliere
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da: 1) D.B.G.;
nei confronti di:
D.P. N. IL (
);
avverso la sentenza n. 2855/2006 CORTE APPELLO di FIRENZE, del 13/04/2007;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/11/2009 la relazione fatta dal Consigliere
Dott. GIACOMO FOTI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella, che ha concluso
per l'inammissibilità della sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni
civili con rinvio al giudice civile competente; Udito, per la parte civile,
l'Avv. Mascolo;
Udito il difensore Avv. Becchini in sostituzione dell'Avv. Zampi.
FattoDiritto
- 1 - Con sentenza del 26 febbraio 2004, il Tribunale di Livorno, sezione
distaccata di Piombino, ha ritenuto D.P. colpevole, quale direttore della casa
di reclusione di (
), del delitto di cui all'art. 41 c.p., e art. 590 c.p.,
commi 1 e 2, commesso, con violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro, in pregiudizio del detenuto lavorante D.B.G., e lo ha
condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio
di prevalenza sulla contestata aggravante, alla pena di 200,00 Euro di multa ed
al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da liquidarsi
in separato giudizio.
Secondo l'accusa, condivisa dal tribunale, l'imputato, nella richiamata qualità,
e dunque di datore di lavoro del detenuto, per colpa, consistita nella
violazione del
D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 21 e
22, - per avere omesso di provvedere affinché i detenuti lavoranti
componenti la squadra addetta alla manutenzione del fabbricato carcerario, tra
cui il D.B., ricevessero un'adeguata informazione sui pericoli connessi all'uso
di sostanze e preparati pericolosi per la salute nonché un'adeguata formazione
in materia di sicurezza, con specifico riferimento alle mansioni assegnate
-aveva cagionato al predetto D.B. lesioni personali gravi, consistite nella
perdita funzionale dell'occhio sinistro, con indebolimento permanente
dell'organo della vista. Ulteriore profilo di colpa specifica è stata
individuata dal PM, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, in relazione alla
violazione dell'art.
43, del richiamato D.Lgs., per avere l'imputato tollerato che il D.B. non
indossasse gli appositi occhiali di protezione.
Il procedimento ha preso avvio dalla denuncia - querela proposta dal detenuto
infortunato che ha lamentato di avere subito, nello svolgimento dell'attività
lavorativa assegnatagli, gravi lesioni all'occhio sinistro, consistite nella
ustiocausticazione corneo congiuntivale cagionata dallo spruzzo di calce viva
che lo stesso stava versando in un recipiente; ciò al fine di diluirla per
preparare la vernice necessaria per eseguire opere di imbiancatura delle pareti
di un locale della casa di reclusione.
Fatto accaduto il (
).
Il primo giudice ha ritenuto di affermare la responsabilità dell'imputato,
rilevando: a) che non risultava essere stata effettuata, da parte della
direzione dell'istituto di pena, un'attività di formazione professionale e di
informazione mirata ad istruire il lavoratore infortunato anche con riguardo
all'esigenza di indossare i previsti dispositivi di protezione individuale; in
realtà, secondo il tribunale l'addestramento e la formazione avvenivano "sul
campo", ad opera del capo d'arte Da. che tuttavia, il giorno dell'infortunio era
stato assegnato ad altro servizio; b) che tale attività formativa ed informativa
si imponeva nei confronti del D.B. poiché lo stesso non vantava alcuna
esperienza lavorativa e competenza nel settore, tanto che era stato avviato al
lavoro con la qualifica di "apprendista muratore"; c) che il giorno
dell'infortunio il lavoratore non indossava gli occhiali di protezione, pur
obbligatori, e che in occasione di un sopralluogo, eseguito a circa due mesi di
distanza, ne era stato rinvenuto nel magazzino un solo paio; d) che durante i
tre mesi di attività lavorativa il D.B. non aveva frequentato alcun corso
formativo, ne' era stato addestrato nella preparazione del grassello di calce
viva; e) che l'imputato non aveva mai sollecitato lo stanziamento, da parte
delle autorità competenti, di fondi di bilancio per l'organizzazione di corsi
professionali.
- 2 - Su appello proposto dall'imputato, la Corte d'Appello di Firenze, con
sentenza del 13 aprile 2007, in riforma della decisione del primo giudice, ha
assolto il D. da ogni addebito perché il fatto non costituisce reato ed ha
revocato, in conseguenza, le statuizioni civili.
La corte territoriale, dopo avere affermato la piena applicabilità, al caso di
specie, del
D.L. n. 626 del 1994, il quale, all'art. 1, comma 2, espressamente estende
l'applicazione delle norme contenute nello stesso decreto anche alle strutture
penitenziarie, ha tuttavia sostenuto che gli obblighi nascenti da detta
normativa devono essere, nel contesto carcerario, rapportate ed articolate
secondo i limiti e le caratteristiche proprie di tale struttura, che presenta
un'organizzazione del tutto diversa rispetto all'impresa vera e propria, cui
sono tipicamente riferiti gli obblighi in materia di prevenzione degli infortuni
sul lavoro.
In particolare, quanto all'addebito di mancata formazione ed informazione dei
detenuti lavoratori, il giudice del gravame ha sostenuto che quanto rilevato dal
primo giudice non poteva ascriversi a colpa dell'imputato, trattandosi, si legge
nella sentenza, "di settore d'intervento sottratto alla sua competenza". Né
spettava al direttore dell'istituto sollecitare fondi per la qualificazione
professionale delle maestranze, di guisa che, nessun profilo di colpa potrebbe
rilevarsi, neanche sotto tale profilo, nella condotta dell'imputato.
Non era emerso, d'altra parte, hanno ancora rilevato i giudici del gravame, che
usualmente il capo d'opera fosse destinato a mansioni diverse da quella di
dirigere la squadra dei detenuti lavoranti, di guisa che non poteva addebitarsi
al direttore l'assenza del Da. il giorno dell'infortunio, della quale il
direttore ben avrebbe potuto non essere al corrente. Neanche spettava al D.,
secondo gli stessi giudici, accertarsi dell'effettivo uso, da parte del
detenuto, degli occhiali, che, in ogni caso, l'istituto aveva messo a
disposizione dei lavoratori.
-3 - Avverso tale sentenza propone ricorso, per il tramite del difensore, la
parte civile che deduce: violazione di legge e vizio di motivazione della
sentenza impugnata, in relazione:
a) alla ritenuta non applicabilità o parziale applicabilità della normativa
antinfortunistica dettata dal richiamato D.Lgs., in ragione delle asserite
particolarità connesse con il luogo di lavoro e con l'organizzazione dello
stesso;
b) alla asserita inesigibilità dell'obbligo di formare ed informare le
maestranze, laddove proprio al direttore dell'istituto di pena spettava di
verificare che il lavoratore avesse ricevuto la formazione e le informazioni
necessarie per l'espletamento dell'attività per la quale era stato avviato al
lavoro, ovvero, in ogni caso, di evitare l'avviamento al lavoro di personale
impreparato e non qualificato, mentre nessun rilievo ha, secondo il ricorrente,
la circostanza che non erano stati destinati fondi per l'organizzazione di corsi
professionali;
c) alla ritenuta irresponsabilità del D., per l'omesso uso degli occhiali da
parte del lavoratore infortunato, sol perché, accertata la presenza di tale
dispositivo di protezione, non incombeva al direttore di verificarne l'effettivo
utilizzo; con ciò avendo la corte territoriale ignorando, si sostiene nel
ricorso, il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale risponde
dell'infortunio subito dal lavoratore il datore di lavoro che omette di
accertare, direttamente o a mezzo di propri incaricati, che il dipendente si
avvalga degli strumenti di protezione idonei a salvaguardare la sua incolumità.
Conclude, quindi, la parte civile ricorrente, chiedendo affermarsi, agli effetti
civili, la responsabilità del D. e, per l'effetto, riconoscersi, a carico dello
stesso, l'obbligo di risarcire il danno e di versare la provvisionale di Euro
25.000,00 riconosciuta dal primo giudice.
-4 - Con memoria depositata presso la cancelleria di questa Corte, D.P.P.
contesta la fondatezza del ricorso e chiede che lo stesso venga dichiarato
inammissibile, ovvero venga rigettato.
In particolare, il D. sostiene:
a) che la parte civile non avrebbe alcun interesse ad impugnare la sentenza
assolutoria, con la formula "perché il fatto non costituisce reato", in quanto
tale decisione non le preclude la tutela dei propri diritti nella competente
sede civile;
b) l'inammissibilità del ricorso, posto che in esso si richiede l'accertamento
della responsabilità penale della persona assolta e non si fa alcun riferimento,
specifico e diretto, agli effetti di carattere civile che si intendono
perseguire;
c) l'infondatezza dello stesso, alla luce della corretta applicazione, da parte
della corte territoriale, della normativa di riferimento e della congruità e
coerenza logica della motivazione della sentenza impugnata.
- 5 - Il ricorso è fondato.
A) Deve, preliminarmente, la Corte affermare la piena ammissibilità della
proposta impugnazione, sotto il profilo sia dell'interesse della parte civile ad
impugnare, sia della legittimità della richiesta di accertamento della
responsabilità della persona definitivamente assolta nella sede penale.
In realtà, quanto al secondo dei profili segnalati, occorre rilevare non esser
rispondente al vero che la ricorrente parte civile si sia limitata a richiedere
l'affermazione della penale responsabilità del soggetto assolto; al contrario,
il ricorso dalla stessa proposto fa preciso e specifico riferimento, sia nella
premessa che nelle conclusioni, agli effetti di carattere civile che si
intendono perseguire con l'atto d'impugnazione. Riferimento puntuale, che rende
anche inutile rilevare l'esistenza di un indirizzo giurisprudenziale che ritiene
ammissibile il ricorso della parte civile anche quando meno diretti siano i
richiami agli effetti civili perseguiti, ritenendosi la richiesta di
affermazione della responsabilità dell'imputato - pur quando sulla decisione
penale assolutoria si sia formato il giudicato in mancanza di impugnazione del
PM - quale necessaria premessa e logico presupposto per ottenerne la condanna al
risarcimento del danno.
B) Ugualmente ammissibile è la proposta impugnazione con riguardo all'interesse
della parte civile ad impugnare. In proposito, invero, proprio con la sentenza
n. 40049/08, richiamata nella memoria del D., le Sezioni Unite di questa Corte
hanno affermato che la parte civile "...ha interesse ad impugnare tutte le
sentenze di assoluzione che possono compromettere il suo diritto ad ottenere il
risarcimento del danno, anche in considerazione dell'effetto preclusivo della
sentenza dibattimentale irrevocabile di assoluzione nel giudizio civile di
danno..... Più in generale, la parte civile ha normalmente interesse ad
impugnare una sentenza di assoluzione che rigetti l'azione civile esercitata nel
processo penale e precluda l'ulteriore esercizio dell'azione civile in sede
civile, sia al fine di ottenere una pronuncia di accertamento della
responsabilità sia anche al più limitato fine di ottenere una pronuncia che non
abbia affetto preclusivo nel giudizio civile ". E tuttavia, si legge ancora
nella richiamata sentenza, "...Non è sufficiente il fatto che la sentenza di
assoluzione non abbia effetto preclusivo dell'azione civile dinanzi al giudice
civile per escludere automaticamente l'interesse della parte civile ad impugnare
per ottenere una pronuncia diversa e l'affermazione della responsabilità
dell'imputato..... Ciò perché l'interesse ad impugnare assume un contenuto di
concretezza tutte le volte in cui dalla modifica del provvedimento impugnato
possa derivare l'eliminazione di un qualsiasi effetto pregiudizievole per la
parte che ne invoca il riesame".
Interesse che è stato riconosciuto, nella stessa sentenza, anche nel caso in cui
l'oggetto del ricorso riguardi, non la questione, certo più rilevante e decisiva
per la parte civile, della negata responsabilità dell'imputato, ma solo la
formula assolutoria adoperata; ciò perché, si sostiene nella richiamata
sentenza, la parte civile ha "..interesse ad impugnare la sentenza di
assoluzione perché il fatto non costituisce reato, che non abbia effetto
preclusivo, alfine di ottenere l'affermazione di responsabilità per il fatto
illecito perché chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in
sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua
controparte si giova di tale accertamento e si trova in una situazione migliore
di chi deve cominciare dall'inizio".
C) Nel merito, il ricorso è fondato.
Ciò ove anche si consideri che con il decreto del Ministero della Giustizia del
18.4.1996, secondo quanto ha avuto modo di osservare questa Corte (Cass. n.
36981/05), è stata attribuita al direttore dell'istituto di pena la titolarità
di una posizione di garanzia in riferimento al dovere di sicurezza degli
istituti penitenziari, per cui egli assume la qualifica di datore di lavoro che
comprende tutti i luoghi di lavoro interni (ovvero anche esterni) all'istituto e
con riguardo a chiunque vi svolga attività lavorativa.
In realtà, la corte territoriale, pur partendo dal corretto presupposto
dell'applicabilità, anche alla fattispecie in esame, delle norme dettate dal
D.L. n. 626 del 1994, è, tuttavia, in concreto, pervenuta a conclusioni del
tutto erronee e sostanzialmente contrastanti con la normativa richiamata, avendo
sostenuto che gli obblighi nascenti da detta normativa dovrebbero commisurarsi e
raffrontarsi con le condizioni e le caratteristiche di una struttura carceraria,
del tutto particolari e diverse da quelle di una normale impresa, ovvero del
soggetto al quale sono tipicamente riferibili gli obblighi in materia di
prevenzione degli infortuni sul lavoro. In tal guisa avendo la predetta corte
sostanzialmente affermato lo sconcertante principio secondo cui gli istituti di
pena debbano quasi considerarsi delle "zone franche", impermeabili al rispetto
delle norme di legge, invece che, al contrario, come luoghi in cui debba venir
assolutamente perseguita e garantita l'osservanza delle leggi.
In specie, proprio delle norme antinfortunistiche e di quelle che attengono alla
sicurezza dei luoghi di lavoro, la cui precisa osservanza, pretesa
dall'imprenditore privato, non può non essere richiesta a chiunque, nella
pubblica amministrazione, ricopra un ruolo di responsabilità del tutto simile a
quello dell'imprenditore privato, ed al quale si debba riconoscere una posizione
di garanzia nei confronti del lavoratore.
Rispetto delle norme che ancor più deve pretendersi in una struttura carceraria,
a tutela di un lavoratore detenuto che, in ragione della propria condizione di
grave subalternità e di soggezione derivante dalla carcerazione, non ha tutele
di alcun genere, se non quella che deve garantirgli la struttura e chi la
dirige.
Né può rinvenirsi, come vorrebbe il giudice del gravame, nel riferimento -
contenuto sub art. 1, comma 2, del D.L. sopra richiamato -alla applicazione
delle norme contenute nel stesso testo normativo "...tenendo conto delle
particolari esigenze connesse al servizio espletato, individuate con decreto del
Ministero competente di concerto con i Ministri del lavoro e della previdenza
sociale, della sanità e della funzione pubblica". Ciò perché:
a) "le particolari esigenze connesse al servizio espletato" riguardano
evidentemente problemi di organizzazione e di sicurezza interna alle strutture
che certamente non possono portare alla sostanziale abrogazione di precise norme
di legge ed all'azzeramento, o anche solo alla compressione, delle garanzie
riconosciute dalla legge a tutti i lavoratori, senza differenze di sorta, e con
riguardo a tutti i luoghi di lavoro, nessuno escluso; mentre il richiamo,
contenuto nella sentenza impugnata, all'esigenza di "declinare" gli obblighi
discendenti dalla citata normativa "secondo i limiti e le caratteristiche
proprie delle strutture carcerarie, profondamente diverse da quelle riferibili
ad un' impresa o all'imprenditore", costituisce osservazione del tutto
apodittica e, nella sua totale genericità, pericolosa, oltre che inaccettabile,
poiché finisce con l'attribuire al dirigente carcerario del momento il potere di
individuare, di volta in volta, quali obblighi prevenzionali debbano essere
rispettati e quali no, se non, addirittura, nei confronti di chi tra i
lavoratori essi debbano essere osservati;
b) il D.M. Giustizia n. 338 del 1997, art. 2, che ha individuato le "particolari
esigenze" delle strutture penitenziarie (e giudiziarie) ai fini delle norme
contenute nel
D.L. n. 626 del 1994, ha chiarito che dette esigenze sono quelle preordinate
ad evitare la eliminazione di fortificazioni o strutture di vigilanza, ed
ancora, pericoli di fuga, aggressioni, sabotaggi di apparecchiature o impianti,
pericoli di auto o etera aggressività, autolesionismo, nonché il conferimento di
posizioni di preminenza ad alcuni detenuti o internati per mantenere l'ordine e
la disciplina all'interno del carcere; direttive che attengono a specifiche ed
irrinunciabili esigenze di sicurezza della struttura carceraria, e di quanti la
frequentano, che non possono essere, né sono dalle disposizioni vigenti,
ritenute in competizione con le norme prevenzionali che specificamente attengono
alla sicurezza del detenuto lavorante.
Orbene, del tutto estranee alla normativa di riferimento sono, quindi, le
pretese limitazioni di responsabilità del direttore dell'istituto di pena
affermate dalla corte territoriale, peraltro attraverso un percorso
argomentativo non coerente sul piano logico.
La richiamata normativa ha, peraltro ricevuto, con il
D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, come novellato dal D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106,
specifiche conferme quanto alla nozione di "datore di lavoro" ed
all'applicazione dello stesso a tutti i settori di attività, privati e pubblici,
ed a tutte le tipologie a rischio.
Deve quindi concludersi, alla stregua delle esposte considerazioni, che solo
un'errata interpretazione della normativa di riferimento ha impedito al giudice
del gravame di escludere l'esigibilità dal D. del rispetto degli obblighi
specifici ai quali era tenuto quale datore di lavoro dell'operaio infortunato.
Obblighi che, come aveva correttamente osservato il primo giudice, gli
imponevano, prima di avviare al lavoro un semplice apprendista, che non aveva
nessuna pregressa esperienza lavorativa e nessuna competenza nel settore:
- di assicurargli una specifica formazione professionale e di fornirgli precise
informazioni circa le regole minime di sicurezza da osservare, specie nella
manipolazione di preparati pericolosi per la salute;
- di renderlo consapevole della necessità di utilizzare i dispositivi
individuali di protezione, nel caso di specie gli occhiali; Gli imponevano,
altresì:
- di verificare che fosse garantita la perfetta osservanza delle norme di
sicurezza;
-di dare disposizioni perché fosse costantemente assicurata la presenza del capo
d'arte, Da., chiamato, il giorno dell'infortunio, ad altri incarichi;
Proprio l'assenza di costui aveva indotto il D.B., rimasto senza guida, a
cimentarsi, maldestramente, senza adottare precauzioni di sorta, nella
preparazione della vernice.
Assenza che rivela un ulteriore profilo di colpa in capo all'imputato che, nella
sua qualità, consapevole delle carenze formative ed informative sopra segnalate,
avrebbe dovuto, quanto meno, dare precise disposizioni ai suoi sottoposti, ed
allo stesso capo d'arte, affinché la presenza di costui fosse sempre ed in ogni
caso assicurata, proprio per evitare che operai inesperti fossero abbandonati
alle loro personali iniziative.
Si impone, quindi, l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alle
statuizioni civili, con rinvio, ex art. 622 c.p.p., al giudice civile competente
per valore in grado di appello, cui rimette anche il regolamento, tra le parti,
delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, con
rinvio al giudice civile competente
per valore in grado di appello, cui rimette anche il regolamento delle spese tra
le parti del presente giudizio. Così deciso in Roma, il 25 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2010