Cassazione Civile, Sez. 6, 08 febbraio 2022, n. 4051 - Operaio vetraio travolto da lastre di vetro. Responsabilità del datore di lavoro


 


Presidente: DORONZO ADRIANA

 

Rilevato che

1. L.C. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale civile ordinario di Sassari S.F. ed esponeva di essere stato dipendente della ditta S.F. e di aver riportato lesioni a seguito dell’infortunio sul lavoro avvenuto in data 16.7.2001 quando, in esecuzione della proprie mansioni di operaio vetraio, era stato travolto da alcune lastre di vetro che stava trasportando con un carrello dal banco di taglio alla macchina per gli incassi; chiedeva l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro e la condanna al pagamento del risarcimento del danno differenziale;
2. il convenuto, chiamato in causa la società assicuratrice Fondiaria Sai s.p.a., resisteva alle domande di cui chiedeva la reiezione; svolta la fase istruttoria, il giudice ordinario – valutato il petitum e la causa petendi - rimetteva la causa alla Sezione lavoro del medesimo Tribunale con ordinanza 19.2.2015; il giudice designato della Sezione lavoro fissava, con decreto del 7.3.2015, l’udienza di discussione assegnando termine per l’eventuale integrazione degli atti e alla successiva udienza del 9.7.2015, dopo aver dato atto della presenza dei difensori e della mancata comunicazione ai difensori del S.F. del decreto del 7.3.2015, rinviava la causa all’udienza del 10.12.2015 “per valutare gli esiti dell’istruttoria e l’opportunità di disporre CTU…”; la causa è stata infine decisa, a seguito di incarico di CTU, con l’accertamento della responsabilità del S.F. e condanna al pagamento del danno differenziale non patrimoniale per la somma complessiva di euro 118.979,45;
3. proposto appello da parte di S.F., la Corte territoriale ha preliminarmente respinto l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio del c.d. giudice naturale, integrando una mera irregolarità la rimessione della causa dal giudice ordinario, inizialmente adito, al giudice della Sezione lavoro del medesimo Tribunale senza previo provvedimento del Presidente dell’ufficio; nel merito, alla luce degli elementi istruttori (di fonte documentale e testimoniale) acquisiti, ha accertato la sussistenza di una responsabilità del datore di lavoro nella causazione dell’evento per mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza (lastre di vetro che debordavano la misura del carrello, carrello con caratteristiche diverse da quelle normalmente in commercio, assenza di istruzioni circa il posizionamento delle lastre sul carrello e le modalità di trasporto, presenza di buche e sporgenze pericolose nel pavimento dove transitano carrelli) ed ha conseguentemente condannato il titolare della ditta al pagamento del danno differenziale;
4. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza S.F. con tre motivi, illustrati da memoria; L.C. ha resistito con controricorso;
5. veniva depositata proposta ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio;

 

Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 436 (rectius 426) , 420 c.p.c., 24 e 25 Cost. (in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.) avendo, il Tribunale, trasferito la causa dalla Sezione ordinaria alla Sezione lavoro con anomala procedura di assegnazione, invece che mutare il rito ma trattenere la causa presso di sè; la Corte territoriale, richiamando un precedente di legittimità, ha adottato una laconica motivazione concernente la mera irregolarità della procedura, ma il giudice di merito, invero, ha erroneamente applicato l’art. 426 c.p.c. che prevede il mero passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro e non già l’assegnazione della causa ad un diverso giudice, con conseguente violazione del principio del giudice naturale; dunque, il giudice ordinario doveva limitarsi a disporre il mutamento del rito, senza trasferire la causa alla Sezione lavoro dello stesso Tribunale; inoltre il decreto adottato, il 7.3.2015, dal giudice del lavoro, non venne comunicato ai difensori del S.F., tant’è che nel verbale dell’udienza del 9.7.2015 il giudice del lavoro - dopo aver dato atto della presenza dei procuratori delle parti - rinviò la causa ad altra udienza (10.12.2015), provvedimento anche questo non comunicato al difensore del S.F. e che ha impedito alla parte di integrare le difese;
2. con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2699 e 2700 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, erroneamente attribuito valore probatorio alle dichiarazioni degli Ispettori del lavoro rese nel corso delle indagini preliminari e confluite nel fascicolo del Pubblico Ministero, nonostante dette dichiarazioni non hanno subìto il vaglio del dibattimento (essendo stata emessa una sentenza di non luogo a procedere per prescrizione) né riferivano circostanze a cui gli Ispettori avevano assistito bensì mere valutazioni ed apprezzamenti;
3. con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 2087 e 1218 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale errato nell’affermare che il carrello per il trasporto delle lastre di vetro aveva caratteristiche diverse da quelli in commercio, nel sostenere la necessità dell’omologazione del carrello (non esistendo alcuna disposizione in tal senso), nel richiedere un abbigliamento di sicurezza (richiesto solo per l’industria del vetro ove vi sono alte temperature, ma non per coloro i quali lavorano i vetri a temperatura ambiente), nel rilevare l’assenza di un sistema di bloccaggio delle lastre (non essendo previsto perché il carico del carrello è tenuto in posizione, per gravità, dal peso, verso il basso, e dalla spalliera destinata a trattenere lastre più alte delle sponde soltanto di pochi centimetri); la Corte territoriale non ha, inoltre, considerato la cooperazione colposa del lavoratore, che anzi ha assunto un comportamento imprevedibile e abnorme, essendo emerso attraverso la prova testimoniale che l’unica persona presente al fatto, cioè il teste D., pur essendo un giovane apprendista, aveva percepito la situazione di pericolo dandone avviso al L.C.;
4. il primo motivo è manifestamente infondato;
4.1. costituisce circostanza pacifica che l’azione, promossa nelle forme ordinarie, è stata rimessa, dal giudice della Sezione civile, alla Sezione lavoro dello stesso Tribunale, ove la causa è stata assegnata ad uno dei (tre) giudici che – secondo le tabelle di organizzazione dell’ufficio – componeva la Sezione; all'udienza del 9.7.2015, trattata dal giudice del lavoro, lo stesso ricorrente deduce che nel verbale è stato dato atto della “presenza dei procuratori delle parti”. Tale verbale fa fede fino a querela di falso e quindi, in mancanza, deve ritenersi per certo che la parte fu presente all'udienza, il che rende irrilevante la mancanza di un provvedimento formale di assegnazione e cambiamento del rito da parte del Presidente del Tribunale ai sensi dell'art. 426 c.p.c.;
4.2. invero, principio fondamentale e consolidato in dottrina e in giurisprudenza vuole che, nei Tribunali divisi in Sezioni, il mutamento del rito (ex artt. 426 e 427 c.p.c.) comporti il trasferimento della causa dalla Sezione ordinaria alla Sezione lavoro (o viceversa); ebbene, il ricorrente assume la violazione del principio costituzionale del giudice naturale senza offrire alcuna indicazione delle modalità organizzative tabellari che sarebbero state disattese nell'assegnazione della causa, e senza invocare né la violazione dei criteri di assegnazione degli affari alle singole Sezioni e ai singoli giudici né alcuna sorta di pregiudizio subìto, palesando, dunque, l'insufficienza della censura come prospettata;
4.3. è noto, infatti, che ciò non determina alcun vizio del procedimento nè è causa di nullità quando, come nella specie, l'omissione non abbia comportato per la parte l'impossibilità di difendersi o anche solo una grave limitazione del diritto di difesa; il che non si verifica quando la parte ha avuto la possibilità di partecipare all'udienza e, in concreto, vi ha partecipato (cfr. Cass. n. 4656 del 1991); correttamente, pertanto, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di nullità del procedimento;
5. il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili;
5.1. preliminarmente, la censura di cui al secondo motivo è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto dei verbali acquisiti in giudizio, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l'individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod.pro.civ.;
5.2. in ogni caso, questa Corte ha già affermato che nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. n. 1593 del 2017);
5.3. più in generale, e con riguardo sia al secondo che al terzo motivo, va osservato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nelle rubriche dei motivi di ricorso, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti;
5.4. al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718);
5.5. la sentenza in esame (pubblicata dopo l’11.9.2012) ricade sotto la vigenza della novella legislativa concernente l’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134): l’intervento di modifica, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053/2014), comporta una ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, che va circoscritto al “minimo costituzionale”, ossia al controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta)”;
6. nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori, essendo altresì in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto circa la gravità del comportamento adottato dal datore di lavoro;
7. in conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo;
8. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), se dovuto;
 

P.Q.M.
 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per spese ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, addì 11 gennaio 2022.