Tribunale di Matera, Sez. Lav., 30 novembre 2021 - Legittimo il provvedimento di sospensione dell'OSS quale conseguenza all'inadempimento all'obbligo vaccinale
Presidente Digregorio
FattoDiritto
I - Con articolato ricorso depositato il 2 luglio 2021, P.T. (operatore socio sanitario con contratto a tempo indeterminato presso RSA) sosteneva l'illegittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro, comunicato con telegramma ricevuto il 3 giugno 2021, e rassegnava le seguenti conclusioni:
"ln via principale:
1) Accertare e dichiarare, la nullità della sospensione del lavoratore dall'esercitare il proprio legittimo diritto costituzionale, attesa la Violazione dell'art. 4 del D.L. n. 44/21, per incompetenza del medico competente, giudizio che ha determinato il provvedimento del datore di lavoro; - ove ritenuto necessario, rimettere alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione interpretativa: se l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea osti ad una disciplina nazionale quale quella di cui all'art. 4 del decreto-legge n. 44 del 1° aprile 2021 con cui viene imposto agli operatori sanitari l'obbligo di vaccinazione pena la perdita, sia pure temporanea, del lavoro e della possibilità di esercitare la loro professione; - ritenuta ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 dell'11 marzo 1953 la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale esposte in narrativa, rimettere gli atti alla Corte Costituzionale; - Dichiarare che i lavoratori non sono tenuti all'obbligatoria vaccinazione contro il SARS-CoV-2 per impossibilità di eseguire l'obbligazione, atteso che, nessuno dei prodotti in commercio è idoneo a prevenire il virus SARS - CoV-2, ma solo il Covid 19 (malattia)
2) Dichiarare che l'obbligo in questione è illegittimo e inapplicabile in conseguenza del contrasto tra il decreto-legge 44/2021 (e l'eventuale legge di conversione) e le norme dell'Unione Europea sopra illustrate e, pertanto, lo stesso va disapplicato.
3) condannare A. P. della N. B.M.V., in persona del legale rappresentante pro tempore, a tutte le conseguenze di cui all'articolo 2 del d.lgs. n. 23/2015 e cioè alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno subito dal ricorrente, stabilendo a tal fine un'indennità non inferiore a n. 6 mensilità non percepite della retribuzione, con rivalutazione monetaria e interessi legali maturati e maturandi dalla scadenza del credito all' effettivo saldo o della diversa maggiore o minore somma che risulterà di giustizia nonché, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
4) Condannare l'A. P. della N. B.M.V. al risarcimento dei danni, in favore del ricorrente, posto che il dipendente è caduto in uno stato di profonda prostrazione psichica e fisica e, ad oggi, è costretto a chiedere l'aiuto economico dei propri familiari, per sopravvivere.
5) con vittoria di spese, diritti ed onorari, oltre spese generali (15%), CPA, lVA e contributo unificato". Con memoria depositata il 30 agosto 2021 si costituiva la P. della N. della B.M.V. - Ordine SS. T.- C. "D. P. T." che rassegnava le seguenti conclusioni: "preliminarmente, dichiarare inammissibile il ricorso ex art. 414 c.p.c., per i motivi e le causali di cui alla narrativa del presente atto; in ogni caso, rigettare il ricorso e dichiararne l'infondatezza; con vittoria di spese e competenze di lite". All'odierna udienza il Tribunale ha pronunciato sentenza, dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
II - Il ricorso non merita accoglimento. L'art. 4 D.L. n. 44/2021, come convertito dalla L. n. 76/2021, recita:
"1. ln considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio- assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. La vaccinazione è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle regioni, dalle province autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano.
2. Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione di cui al comma 1 non è obbligatoria e può essere omessa o differita.
3. Entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l'elenco degli iscritti, con l'indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma in cui ha sede. Entro il medesimo termine i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l'elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l'indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano i medesimi dipendenti.
4. Entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le regioni e le province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi. Quando dai sistemi informativi vaccinali a disposizione della regione e della provincia autonoma non risulta l'effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell'ambito della campagna vaccinale in atto, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all'azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.
5. Ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l'azienda sanitaria locale di residenza invita l'interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell'invito, la documentazione comprovante l'effettuazione della vaccinazione o l'omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l'insussistenza dei presupposti per l'obbligo vaccinale di cui al comma 1. ln caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l'azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l'interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all'obbligo di cui al comma 1.
ln caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l'azienda sanitaria locale invita l'interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l'adempimento all'obbligo vaccinale.
6. Decorsi i termini per l'attestazione dell'adempimento dell'obbligo vaccinale di cui al comma 5, l'azienda sanitaria locale competente accerta l'inosservanza dell'obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all'interessato, al datore di lavoro e all'Ordine professionale di appartenenza. L'adozione dell'atto di accertamento da parte dell'azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS- CoV-2.
7. La sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all'interessato dall'Ordine professionale di appartenenza. 8. Ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l'assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9 non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato. 9. La sospensione di cui al comma 6 mantiene efficacia fino all'assolvimento dell'obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021". La disposizione in commento, al dichiarato fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza ha, dunque, previsto l'obbligatorietà del vaccino per gli esercenti le professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario, considerando la vaccinazione per il Covid-19 requisito essenziale per l'esecuzione della prestazione lavorativa. Alla luce di ciò non pare possa esservi dubbio sul fatto che il legislatore, nel varare la norma in commento, intendesse riferirsi ai vaccini Biontech-Pfizer, Moderna e Astrazeneca, essendo quelli i soli all'epoca disponibili, oltre agli eventuali altri vaccini che venissero in futuro commercializzati. Non sembra, invece, in alcun modo condivisibile la tesi anche da taluno sostenuta che parla di impossibilità giuridica di attuazione della norma: tesi, secondo cui, considerato che i ritrovati attualmente in commercio non proteggono dall'infezione ma esclusivamente dalla manifestazione della malattia in forma grave, gli stessi non possono tecnicamente definirsi vaccini; conseguentemente l'obbligo di legge sarebbe inattuabile per impossibilità giuridica dell'oggetto, non esistendo allo stato alcun vaccino per il covid. La fallacia si siffatta interpretazione, a prescindere da ogni disquisizione di natura tecnico-scientifica sulla definizione di vaccino, è resa palese dalla semplice osservazione che nessun senso avrebbe emanare un decreto-legge - che tra i suoi requisiti costitutivi richiede la necessità e l'urgenza dell'intervento - per porre un obbligo giuridico condizionato ad una scoperta scientifica futura e incerta.
III - Non è, inoltre, fondata la tesi (v. pag. 23 del ricorso) secondo la quale gli OSS non rientrerebbero tra i destinatari dell'obbligo non essendo l'OSS un operatore sanitario e non potendo neanche essere qualificato operatore di interesse sanitario mancando una legge o altro provvedimento della regione che lo qualifichi tale. La qualifica di operatore di interesse sanitario in relazione alla figura dell'OSS può, infatti, essere ricavata già dall'accordo Stato Regioni del 2001. Inoltre, lo stesso Consiglio di Stato, nell'escludere gli OSS dal novero degli esercenti professioni sanitarie, ne ha affermato la natura di operatori di interesse sanitario (cfr. Cons. Stato, n. 4340/2021). Alla luce di quanto sin qui esposto, deve quindi concludersi che P.T. rientra tra i soggetti destinatari dell'obbligo vaccinale previsto dall'art. 4 D.L. 44/2021 conv. in L. 76/21 poiché svolge le mansioni di operatore socio-sanitario presso la struttura della resistente (RSA).
IV - Ulteriori argomentazioni sull'illegittimità dell'art. 4 citato, fanno leva sul principio dell'autodeterminazione in campo medico e sulla presunta incompatibilità con i principi costituzionale e sovranazionali di una norma, quale quella in esame, che imporrebbe un trattamento sanitario dall'esito dubbio - essendo sperimentale e non potendo essere assicurata una copertura al 100% dall'infezione - e potenzialmente foriera di maggiori rischi per la persona rispetto a quelli che la stessa incorrerebbe qualora contraesse l'infezione, considerate anche le limitate possibilità di contagio nell'attuale situazione epidemiologica in atto. Anche queste argomentazioni non appaiono fondate. In primo luogo, occorre rilevare l'infondatezza della tesi di parte ricorrente laddove, dopo aver denunciato l'incompatibilità dell'obbligo vaccinale sancito dall'art. 4 D.L. 44/2021 con la risoluzione del Consiglio d'Europa n. 2361/2021, ha invocato il principio della disapplicazione del diritto interno in contrasto con il diritto comunitario. La tesi proposta, infatti, sconta un duplice ordine di errori poiché invoca il principio della disapplicazione in relazione ad un atto privo di efficacia vincolate e non proveniente da un'istituzione dell'unione europea. Il Consiglio d'Europa, infatti, è un'organizzazione internazionale a sé stante - e non un'istituzione dell'unione europea - di cui fanno parte sia stati membri dell'unione sia stati non membri. Oltre a ciò è dirimente la considerazione che la risoluzione invocata, adottata dal parlamento del Consiglio d'Europa, non ha efficacia vincolante per gli Stati.
V - La normativa in oggetto non contrasta poi neanche con i principi costituzionale e sovranazionali. In proposito non vi è dubbio che il principio di autodeterminazione in campo sanitario sia sancito nell'art. 32 Cost. e che lo stesso ricomprende anche la scelta di rifiutare le cure mediche, anche nel caso estremo in cui dal rifiuto delle cure derivi la morte del soggetto. Altresì vero è poi che il nostro ordinamento abbia recepito la convenzione di Oviedo in tema di consenso informato. Ciononostante, la Corte Costituzionale, in tema di vaccinazione, ha già avuto modo di chiarire che l'art. 32 Cost. impone un bilanciamento tra il diritto alla salute del singolo (anche nel suo diritto di rifiutare cure non gradite) con il pari diritto alla salute dei consociati, intesi come singoli e come collettività; in questi confini, l'obbligatorietà della vaccinazione è legittima qualora la stessa sia diretta non solo a preservare la salute di chi vi è assoggettato, ma anche quella degli altri. È, dunque, lecito comprimere il diritto di autodeterminazione del singolo qualora ciò sia giustificato anche dal fine di preservare la salute della collettività. Secondo la giurisprudenza della corte costituzionale, infatti, "la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell'ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)". Inoltre, vista la molteplicità dei valori costituzionali che entrano in gioco in tema di vaccinazioni, la necessità di contemperare gli stessi "lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell'obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l'effettività dell'obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell'esercizio delle sue scelte in materia (così, la giurisprudenza costante di questa Corte sin dalla fondamentale sentenza n. 282 del 2002)" (Corte Cost., sentenza n. 5/2018). Nel caso di specie, non appare censurabile il bilanciamento di interessi fatto in concreto dal legislatore. L'obbligo vaccinale è, infatti, stato previsto solo per gli operatori sanitari e per gli esercenti le professioni di interesse sanitario che operino all'interno di strutture ospedaliere, RSA o studi privati. È evidente, dunque, che la scelta della categoria cui è stato imposto l'obbligo vaccinale non è stata casuale: si tratta, infatti, di soggetti che operano a stretto contatto con quella categoria di persone che, una volta infettatasi, sconta un'alta probabilità di sviluppare la malattia in forma grave con esiti anche mortali. Dunque, la scelta del legislatore è stata quella di limitare la libertà di autodeterminazione dell'appartenente a dette categorie al fine di salvaguardare il bene salute dei soggetti più fragili che si trovano costretti ad avere contatti con i primi in quanto bisognosi di cure. Si consideri, poi, che al singolo è comunque garantito il diritto di non sottoporsi al vaccino, sebbene con le conseguenze sopra evidenziate in ordine all'impossibilità di rendere la prestazione lavorativa. In tale ottica la posizione del singolo è ulteriormente salvaguardata dalla previsione dell'obbligo per il datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse, se disponibili, e dalla previsione della mera sospensione dal servizio (con conseguente eventuale illegittimità - per stessa volontà legislativa - di un licenziamento irrogato per tali motivi). Da ultimo si consideri come, in caso di accertato rischio per la salute conseguente all'inoculazione del vaccino, l'obbligo cessa di esistere e il lavoratore conserva il diritto di svolgere le mansioni di appartenenza. Alla luce di quanto esposto, può affermarsi che il legislatore abbia effettuato un equo contemperamento dei diritti in gioco, limitando il diritto di autodeterminazione del singolo in materia sanitaria nella misura in cui i rischi conseguenti all'inoculazione del vaccino appaiono tollerabili per il soggetto a ciò obbligato e al fine di salvaguardare il diritto dei soggetti fragili i quali, qualora infettati, avrebbero un'alta probabilità di incorrere in conseguenze gravi, finanche mortali. Diversamente, la tesi del ricorrente non presenta alcun bilanciamento tra gli interessi in gioco; tutto il ricorso è, infatti, incentrato sui diritti di libertà del singolo e in nessuna parte di esso si prende in considerazione la posizione dell'ospite della struttura il quale è costretto ad entrate in contatto con il suo personale - essendo bisognoso di cure - e si trova in una situazione di vulnerabilità che necessita di essere tutelata. VI - Non minano il ragionamento sinora esposto gli argomenti del ricorrente che fanno leva, in ogni caso, sulla mancanza di efficacia al 100% della protezione vaccinale, con conseguente possibilità del soggetto vaccinato di trasmettere la malattia, e sulla possibilità che un soggetto vaccinato non elabori la risposta immunitaria. Sebbene, infatti, la protezione dalla malattia non risulti totale, secondo la letteratura scientifica maggiormente accreditata, il vaccino, nella maggior parte dei casi, riduce significativamente le possibilità sia di contrarre l'infezione che di trasmetterla. E ciò è sufficiente ai fini che qui rilevano. VII - Non occorre, invece, prendere in considerazione l'argomento circa la presenza di feti abortiti nel preparato e il possibile diritto all'obiezione di coscienza. Né dal ricorso né dalla documentazione versata in atti, infatti, si evince che il ricorrente abbia rifiutato il vaccino ritenendo che, diversamente, si sarebbe reso complice di un procurato aborto. L'argomento è, invece, proposto solo in maniera ipotetica. Si legge, infatti, "come i musulmani possono legittimamente rifiutarsi di consumare la carne di maiale (.) analogamente (.) il sig. P. potrebbe legittimamente rifiutare di farsi inoculare farmaci sviluppati o testati su tessuti estratti da feti umani" (pag. 48 del ricorso).
VIII- Per quanto attiene le questioni di ordine formale (v. pag. 4 e ss. del ricorso), il ricorrente ha dedotto l'assenza in capo al datore di lavoro del potere di disporre la sospensione dal servizio atteso che l'art. 4 D.L. 44/2021 disciplina un articolato procedimento che vede nell'autorità sanitaria il soggetto demandato a esercitare detto potere. Anche detta tesi non può essere accolta. In primo luogo, la lettera della norma fa ritenere che la sospensione dall'attività lavorativa sia una conseguenza direttamente voluta dalla legge e che all'ASL competa solo l'adozione dell'atto di accertamento dell'inadempimento dell'obbligo da cui consegue la prescritta sospensione. In tale ottica, dunque, al datore di lavoro deve essere riconosciuto il potere di sospendere il lavoratore dalla prestazione lavorativa - conformemente da quanto previsto dalla normativa in esame - ove abbia accertato che il dipendente non sia vaccinato. Per altro, avendo la norma espressamente configurato il vaccino quale requisito essenziale per l'esercizio della prestazione lavorativa, non viola le disposizioni di cui all'art. 8 st. lav., il datore di lavoro che si informi circa le determinazioni del lavoratore in tale ambito. Si osserva, inoltre, come il potere di sospendere il lavoratore non vaccinato da parte del datore trovi fondamento nel principio di prevenzione che è alla base dei comportamenti doverosi dettati in materia dal T.U. n. 81/2008 (per quanto qui di interesse, in particolare, dagli artt. 41, 42 e 279) e dall'art. 2087 c.c. come specificato dall'art. 29-bis D.L. 23/2020 ed integrato dalle c.d. "misure innominate", ovvero quelle suggerite dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Non si deve, inoltre, dimenticare la responsabilità che grava sul datore di lavoro nell'adempiere a precisi obblighi di protezione nei confronti dei terzi che entrino a contatto con la sua organizzazione imprenditoriale. Come osservato dal Tribunale di Verona in relazione ad una fattispecie sorta in epoca antecedente all'introduzione dell'obbligo vaccinale "non può essere (.) messo in dubbio che già il d.lgs. 81/2008 nel capo dedicato alla "sorveglianza sanitaria" per quei lavoratori esposti ad agenti biologici imponga al datore di lavoro su conforme parere del medico competente, di adottare misure protettive "particolari", misure speciali di protezione, fra cui la messa a disposizione di vaccini efficaci (che non significa, però, obbligo di sottoporsi al vaccino) e l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell'art. 42 (art. 279, comma 2, d.lgs. n. 81/2008). ll medico competente, dunque, valutati i compiti svolti dal dipendente ed il contesto aziendale di riferimento, può esprimere un giudizio di inidoneità rivolto al lavoratore nelle ipotesi in cui questi abbia rifiutato di vaccinarsi, con allontanamento temporaneo dello stesso e adibizione ad altre mansioni, anche inferiori, ove possibile. Le procedure previste dagli artt. 41 e 42 tuttavia, nella attuale e perdurante situazione emergenziale di pandemia mondiale, con particolare riferimento ai casi relativi ai dipendenti delle strutture sanitarie e socio-assistenziali, a fronte della possibilità del moltiplicarsi dei rifiuti alla vaccinazione, possono risultare incompatibili e inefficaci nell'immediatezza, tanto da giustificare un intervento cautelativo del datore di lavoro in attesa dell'esito della procedura stessa, consistente proprio nella sospensione del rapporto di lavoro (o nell'eventuale utilizzazione delle ferie residue del lavoratore), in attesa dell'esito di tali procedure. ll datore di lavoro infatti, nell'esercizio dei suoi poteri, può disporre quanto meno in via provvisoria e in attesa dell'espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all'interno dell'organizzazione dell'impresa, mutando le mansioni, ove possibile o nel caso di impossibilità, sospendendo appunto il rapporto di lavoro" (Tribunale Verona, 16 giugno 2021, n. 3183).
IX - Da ultimo prive di pregio sono le considerazioni circa la sperimentalità del vaccino. È vero, infatti, che i preparati sono stati autorizzati sotto condizione e che, necessariamente non sono scientificamente provati gli effetti a medio e lungo periodo, ma è altrettanto vero che gli enti regolatori (EMA e AIFA) hanno approvato la commercializzazione di detti vaccini. Pertanto, gli stessi devono ritenersi passibili di obbligo vaccinale. D'altra parte, nel presente contesto pandemico, la scelta in esame è evidentemente una scelta politica sulla quale il giudice non ha potere di sindacare, in assenza di evidenze circa la loro potenziale ed elevata nocività. Scrive Consiglio di Stato sez. III, 20 ottobre 2021, 7045, in De Jure: "In fase emergenziale, di fronte al bisogno pressante, drammatico, indifferibile di tutelare la salute pubblica contro il dilagare del contagio, il principio di precauzione, che trova applicazione anche in ambito sanitario, opera in modo inverso rispetto all'ordinario e, per così dire, controintuitivo, perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l'utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito - va ribadito - tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l'utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l'utilizzo di quel farmaco. La vaccinazione obbligatoria selettiva introdotta dall'art. 4 d.l. n. 44 del 2021 per il personale medico e, più in generale, di interesse sanitario risponde ad una chiara finalità di tutela non solo - e anzitutto - di questo personale sui luoghi di lavoro e, dunque, a beneficio della persona, secondo il già richiamato principio personalista, ma a tutela degli stessi pazienti e degli utenti della sanità, pubblica e privata, secondo il pure richiamato principio di solidarietà, che anima anch'esso la Costituzione, e più in particolare delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l'esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l'avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza. La ratio di questa specifica previsione si rinviene non solo nelle premesse del d.l. n. 44 del 2021, laddove si evidenzia «la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per garantire in maniera omogenea sul territorio nazionale le attività dirette al contenimento dell'epidemia e alla riduzione dei rischi per la salute pubblica, con riferimento soprattutto alle categorie più fragili, anche alla luce dei dati e delle conoscenze medico -scientifiche acquisite per fronteggiare l'epidemia da COVID-19 e degli impegni assunti, anche in sede internazionale, in termini di profilassi e di copertura vaccinale», ma nello stesso testo normativo dell'art. 4, quando nel comma 4 richiama espressamente il «fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» o precisa ancora, nel comma 6, che «l'adozione dell'atto di accertamento da parte dell'azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2». Nel bilanciamento tra i due valori, quello dell'autodeterminazione individuale e quello della tutela della salute pubblica, compiuto dal legislatore con la previsione dell'obbligo vaccinale nei confronti del solo personale sanitario, non vi è dunque legittimo spazio né diritto di cittadinanza in questa fase di emergenza contro il virus Sars-CoV 2 per la c.d. esitazione vaccinale". Tale sentenza, in buona sostanza, si è occupata della compatibilità con i principi costituzionali della Repubblica e dell'Unione Europea della disposizione di legge appena ricordata, ed ha condivisibilmente evidenziato come detta previsione risponda non solo ad un preciso obbligo di sicurezza e di protezione dei lavoratori sui luoghi di lavoro, a contatto con il pubblico, già desumibile in fase emergenziale dall'applicazione dell'art. 2087 c.c. e delle disposizioni specifiche del d. lgs. n. 81 del 2008, ma anche al principio, altrettanto fondamentale, di sicurezza delle cure, rispondente ad un interesse della collettività (art. 32 Cost.), interesse questo che deve ritenersi sicuramente prevalente, nelle attuali condizioni epidemiologiche, sul diritto al lavoro, di cui all'art. 36 Cost.
X - In definitiva, il ricorso non può essere accolto (ivi compresa la domanda di risarcimento danni). Le spese del procedimento seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come da dispositivo, sulla base della tabella n. 3 del D.M. Giustizia n. 55/2014, tenuto conto della natura e del valore (scaglione "indeterminabile - complessità bassada" e non "determinato" come da iscrizione a ruolo, stante anche la domanda generica di risarcimento danni) della causa, dell'assenza di particolare attività istruttoria nonché dell'effettiva attività difensionale.
P.Q.M.
Il Tribunale di Matera, nella persona del Giudice del Lavoro dott. S. D., definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa, cosi provvede:
1) rigetta il ricorso;
2) condanna P.T. al pagamento delle spese di lite in favore della resistente, che liquida in complessivi euro 3.513,00 per onorario (di cui euro 1.545,00 per la fase di studio, euro 573,00 per la fase introduttiva ed euro 1.395,00 per la fase decisionale), oltre spese generali 15%, nonché Cassa ed IVA (se dovuta) come per legge.