Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. 6, 15 febbraio 2022, n. 4899 - Domanda di rideterminazione per aggravamento della rendita INAIL


 

Presidente: ESPOSITO LUCIA
Relatore: CALAFIORE DANIELA
Data pubblicazione: 15/02/2022
 

Fatto


La Corte d'appello di Messina, con sentenza n. 684 del 2019, ha rigettato l'impugnazione proposta da G.S. avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda, proposta in via amministrativa il 29 giugno 2015, di rideterminazione per aggravamento della rendita INAIL riconosciuta allo G.S., con sentenza n.2231 del 2013 e con decorrenza dal 18 febbraio 2002, a seguito di infarto nella misura 42% poi ridotta al 28% per miglioramento;
la Corte territoriale ha ritenuto corretta, ai fini della individuazione del periodo massimo di rivalutazione dei postumi di cui agli artt. 83 e 137 dPR n. 1124 del 1965, la qualificazione dell'infarto come infortunio e non malattia professionale ed ha giudicato tardiva, per essere intervenuta successivamente al decennio ex art. 83 t.u. 1124 del 1965, la richiesta di aggravamento;
avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.S. sulla base di tre motivi;
resiste l'INAIL con controricorso; G.S. ha presentato memoria;
è stata comunicata alle parti la proposta del relatore, unitamente al decreto di fissazione della presente adunanza;
 

Diritto


il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 83 e 137 dPR n. 1124 del 1965 e dell'art. 34 c.p.c. ed in particolare deduce l'erroneità della sentenza impugnata nel punto in cui l'"ambito temporale entro il quale assume rilevanza l'aggravamento è stato ritenuto pari a dieci anni, nonostante che in realtà l'infarto occorso al ricorrente, derivato da stress lavorativo cronico ed abnorme, avrebbe dovuto ricollegarsi ad una cardiopatia ischemica avente origine professionale, con conseguente applicabilità del termine di quindici anni previsto dal penultimo comma dell'art. 137 D.P.R. n. 1124 del 1965;
il motivo è infondato giacché osta alla ricostruzione prospettata dal ricorrente il giudicato (ai sensi dell'art. 2909 c.c. e 324 c.p.c.) formatosi tra le parti in ordine alla costituzione della rendita per infortunio sul lavoro, con la sentenza della Corte d'appello di Messina n. 2231 del 2013 depositata il 3 gennaio 2014 e non impugnata, che non consente di qualificare diversamente dall'infortunio l'evento indennizzato;
è lo stesso ricorrente, infatti, che alle pagine 3 e 4 del ricorso ha affermato che la rendita oggetto di causa era stata costituita, con decorrenza dal 18 febbraio 2002, il 18 dicembre 2007, giusta sentenza del Tribunale di Messina n. 3562/2007, che aveva accertato il 42% di inabilità permanente derivando tale inabilità da cardiopatia ischemica con pregresso infarto al miocardio occorso il 17 gennaio 2000, mentre svolgeva mansioni di autista; detta sentenza, impugnata dall'INAIL proprio sull'assunto che non ricorresse alcuna causa violenta qualificabile come infortunio, fu confermata quanto all'affermazione del diritto alla rendita limitando la percentuale di inabilità nella misura del 28% a decorrere dal gennaio 2014; sulla base di tale giudicato il ricorrente presentò istanza di revisione con domanda del 29 giugno 2015 e fu per dare esecuzione al medesimo che l'INAIL ridusse la rendita dal 42 al 28%;
questa Corte (Cass. n. 18381 del 2009; Cass. n. 8650 del 201O; Cass. n. 25260 del 2016) ha affermato che qualora due giudizi tra le stesse parti (o i loro eredi) abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di fatto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del primo;
ora, non vi è dubbio che la qualificazione del presupposto medico legale necessario per l'insorgenza del diritto alla prestazione assicurativa di cui si chiede la maggiorazione per aggravamento (nel caso di specie l'evento del gennaio 2000 da cui scaturì la malattia cardiaca) costituisce accertamento in fatto e soluzione giuridica comune ad entrambi i giudizi;
inoltre, non intacca la detta preclusione l'esito del giudizio relativo al danno differenziale intercorso con la datrice di lavoro definito con sentenza della Corte d'appello di .Messina n. 43 del 2018 che viene allegata al ricorso, essendo l'INAIL rimasto estraneo a tale giudizio;
il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 83 e 137 nonché dell'art. 111 dPR n. 1124 del 1965 e l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che si ravvisa nel fatto che l'aggravamento, ricadente nell'arco temporale del decennio intercorrente tra il 18 febbraio 2002 ed il 18 febbraio 2012, era stato rilevato attraverso la perizia del c.t.u. dottor Lucibello espletata il 7 maggio 2007;
il motivo è inammissibile;
l'affermata violazione di legge non ha un contenuto specifico ed autonomo ma viene denunciata quale mera co nseguen za dell'ulteriore vizio dedotto ai sensi dell'art. 360, primo comma n.5) c.p.c., relativo all'omesso esame del fatto che nel corso del giudizio definito con la sentenza del 2013 già era emerso l'aggravamento che aveva indotto il Tribunale a riconoscere il 42% di inabilità;
è evidente, tuttavia, che la circostanza indicata, oltre che travolta dall'esito del giudizio d'appello ormai definitivo che riconobbe la percentuale del 28% come si è sopra chiarito, non integra un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); si tratta infatti, già in tesi, di omesso esame di elemento istrnttorio, non confluito nel giudicato formatosi in precedenza, che non integra, di per sé, il vizio denunciato;
il vizio di motivazione invocato richiede invece l' omesso esame di un fatto decisivo e cioè di un fatto storico, rilevante in causa, che sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014);
il terzo motivo, relativo alla violazione dell'art. 91 c.p.c. in ragione del fatto che il ricorrente avrebbe dovuto essere riconosciuto vittorioso all'esito del giudizio e quindi non avrebbe dovuto essere condannato alle spese, alla luce della correttezza della sentenza impugnata, risulta infondato;
in definitiva, il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2500,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso nell'adunanza camerale, il 21 ottobre 2021