Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 marzo 2022, n. 7390 - Mansioni usuranti del dipendente ENEL: movimentazione dei carichi, vibrazioni, posture incongrue ed eventi climatici. Sorveglianza sanitaria e valutazione dei rischi


 

 

Presidente: RAIMONDI GUIDO
Relatore: CINQUE GUGLIELMO
Data pubblicazione: 07/03/2022
 

Fatto


1. Il Tribunale di Larino, con la pronuncia n. 78 del 2016, rigettava la domanda proposta da G.P. ( che aveva già ottenuto il riconoscimento dell'origine professionale in ambito INAIL della patologia di discopatia su tutta la colonna vertebrale con postumi pari al 10%) nei confronti dell'ENEL Distribuzione spa, di cui era stato dipendente dal 1974 al 2000, volta all'accertamento e alla declaratoria di responsabilità contrattuale e/o extracontrattuale della società nella causazione dei danni biologici, morali, patrimoniali e non, ed esistenziali a lui causati dall'essere stato addetto all'esecuzione di mansioni usuranti, comportanti la movimentazione dei carichi, all'esposizione a vibrazioni, a posture incongrue e ad eventi climatici senza che parte datoriale fornisse idonea tutela per i suddetti rischi, operasse una loro corretta valutazione e impartisse la formazione specifica a prevenirli.
2. Sul gravame della società la Corte di appello di Campobasso, dopo avere acquisito i chiarimenti da parte del ctu di primo grado, con la sentenza n. 306/2018, in riforma della pronuncia di primo grado accoglieva, invece, la domanda del G.P..
3. A fondamento della decisione i giudici di seconde cure, in sintesi, evidenziavano che: a) stante la natura contrattuale della prospettata responsabilità datoriale, il termine di prescrizione applicabile era quello decennale; b) la copertura assicurativa garantita dall'INAIL non esonerava il datore di lavoro dal rispondere per i danni conseguiti dal lavoratore per la parte non indennizzata; c) dalle risultanze processuali era ravvisabile una responsabilità ex art. 2087 cc della società sotto il profilo dell'omessa sorveglianza sia in ordine al rischio ambientale cui era esposto il lavoratore, sia con riguardo agli adempimenti sanitari diretti ad evitare che i lavoratori fossero esposti, senza alcuna protezione, a fattori morbigeni susseguitisi tra loro senza soluzione di continuità, in quanto presenti in ciascuna fase lavorativa propedeutica e consequenziale alla elettrificazione; d) il danno differenziale, pari alla differenza tra quanto previsto nella tabella attuariale per il corrispondente danno e la somma liquidata dall'INAIL a titolo di indennizzo danno biologico, andava complessivamente quantificato in euro 6.378,75, oltre interessi e rivalutazione.
4. Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso per cassazione e-distribuzione spa (già ENEL Distribuzione spa) affidato a sei motivi, cui ha resistito con controricorso G.P.; la Generali Italia spa non ha svolto attività difensiva.
5. Il PG rassegnava conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
6. Le parti hanno presentato memorie.
 

Diritto


1. I motivi possono essere così sintetizzati.
2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 10 dpr n. 1124/1965, ai sensi dell'art. 360 n. 3 cpc, quanto al mancato riconoscimento, da parte della Corte territoriale, della insussistenza dei presupposti di imputabilità penale per l'addebito del danno differenziale.
Con un secondo articolato motivo, formulato in via gradata, si censura:
a) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cc; b) la violazione e falsa applicazione del d.p.r. n. 164 del 7 gennaio 1956; c) la violazione e falsa applicazione dell'art. 37 CCNL ENEL 20.5.1973, degli artt. 4, 24, 33, 34 e Tabella d.P.R. n. 303/1956 nonché degli artt. 4, 16, 21 e 22 d.lgs. n. 626/1994 , in relazione alla imputata omissione della sorveglianza sanitaria; d) la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 d.lgs. n. 626/1994, 2087 cc e 11 diposizioni sulla legge in generale, in relazione al profilo della omessa considerazione della movimentazione manuale dei carichi da parte del DVR ENEL; e) l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che erano stati oggetto di discussione tra le parti; si sostiene che erroneamente la Corte di appello aveva dichiarato la sussistenza di un obbligo di sorveglianza sanitaria periodica predeterminata, rispetto al lavoratore in epigrafe, riconducendolo anche all'art. 37 CCNL ENEL 1973, al dpr 303/1956 e al d.lgs. n. 626/1994 i cui oneri non erano configurabili rispetto all'attività svolta dal lavoratore, anche per difetto di uso costante e prolungato di strumenti vibranti, nonché erroneamente aveva rilevato la mancata valutazione dei rischi specifici nel DVR predisposto nel 1996.
Premessa, inoltre, la genericità delle allegazioni di controparte - come riconosciuto dal giudice di prime cure- , e la contestazione delle allegazioni da parte di ENEL, si contesta la decisione per avere ritenuto di poter procedere all'accertamento di situazioni lavorative sulla base del libero interrogatorio dell'appellante senza considerare che le dichiarazioni rese in tale sede hanno la medesima natura e valenza delle deduzioni di parte contenute negli atti difensivi per cui devono essere provate, come chiarito dal giudice di legittimità.
3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 10 d.p.r. 1124/1965, 1223, 2087 e 2697 cc, in relazione al profilo della omessa sorveglianza sanitaria, ai sensi dell'art. 360
n. 3 cpc, per avere errato la Corte territoriale con riguardo alla ritenuta responsabilità per la omessa sorveglianza sanitaria, senza allegazione e prova oggettiva che una generica sorveglianza sanitaria avesse consentito di escludere le patologie in evoluzione.
4. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta: l'omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti; la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cc, 115, 132 co. 2 n. 4 cpc e 118 disp. Att. cpc in relazione alla omessa dimostrazione da parte dell'ENEL di avere adottato tutte le cautele possibili per l'attenuazione dei rischi specifici; la nullità del procedimento; sostiene che erroneamente la Corte territoriale aveva imputato ad essa società la mancata adozione di cautele finalizzate ad attenuare i rischi specifici nonché aveva violato le norme sulla disponibilità delle prove e non aveva ammesso la prova testimoniale richiesta dall'ENEL.
5. Con il quinto motivo si obietta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti; la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cc. 112, 113, 115, 132 co. 2 n. 4 cpc e 118 disp. att. cpc, in relazione alla mancata rinnovazione della CTU medico legale quanto al nesso eziologico fra le attività lavorative e l'insorgenza delle patologie.
6. Con il sesto motivo si eccepisce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1368 cc, con riferimento alla polizza assicurativa, per non avere la Corte territoriale ricompreso il danno differenziale nella copertura della polizza assicurativa oggi riferibile a Generali Italia spa, per una errata interpretazione delle relative clausole contrattuali.


7. Il primo motivo di ricorso è infondato.
8. La pronuncia resa dalla Corte di appello di Campobasso, infatti, accerta la responsabilità del datore con criteri di tipo civilistico, conformemente all'orientamento consolidato espresso da questa Suprema Corte (Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 27699/2017; Cass. n. 12041/2020; Cass. n. 17655/2020).
9. Già con la sentenza n. 9817/2008, cui sono seguite pronunce di analogo tenore, si è affermato che "il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni ... ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno". Da una panoramica complessiva del sistema normativo vigente e della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti tra giudizio civile e penale emerge come l'attuale sistema si caratterizzi per la pressoché completa autonomia e separazione tra i due giudizi, per cui il giudizio civile inizia e procede senza essere condizionato da quello penale. Invero, le numerose pronunce del Giudice delle leggi che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni hanno esteso la responsabilità del datore di lavoro, prima limitata agli eventi derivati da fatto imputabile ai soli incaricati della direzione o della sorveglianza dei lavoratori, anche a quelli commessi da qualunque altro dipendente di cui dovesse rispondere ex art. 2049 e.e. (sentenza n. 22 del 1967); hanno dichiarato l'incostituzionalità del quinto comma dell'art. 10, nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare incidentalmente il fatto-reato soltanto nell'ipotesi di estinzione dell'azione penale per morte dell'imputato e per amnistia, e non anche per prescrizione del reato. Con successive pronunce, unitamente a modifiche normative, si è sostanzialmente decretata la fine della pregiudizialità penale. Con la sentenza n. 102 del 1981 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma quinto dell'art. 10 cit., "nella parte in cui non consente che, ai fini dell'esercizio del diritto di regresso dell'INAIL, l'accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione"; inoltre ha dichiarato illegittime le norme impugnate, "nella parte in cui precludono al giudice civile di valutare i fatti dinanzi a lui dedotti in maniera diversa da quella ritenuta in sede penale, anche nei confronti del datore di lavoro che non sia stato posto in condizioni di partecipare al relativo procedimento". La sentenza n. 118 del 1986 ha esteso la declaratoria di illegittimità in favore dell'infortunato nel caso in cui il procedimento penale, nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con un provvedimento di archiviazione o proscioglimento in sede istruttoria. Con la sentenza n. 372 del 1988 la Corte costituzionale ha, poi, chiarito che pure il diritto di regresso dell'INAIL prescinde "dalla sorte contingente del procedimento penale" ed anche in sede di legittimità è pacifico che l'Istituto non debba necessariamente attendere l'instaurazione o l'esito del giudizio penale (Cass. n. 9601 del 2001; Cass. n. 5578 del 2003). Questo progressivo percorso di autonomizzazione del giudizio civile da quello penale è culminato con l'adozione del nuovo codice di procedura penale, che ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della loro reciproca indipendenza, soprattutto a seguito della modifica dell'art. 295 cod. proc. civ., che ha limitato casi di sospensione necessaria alle ipotesi previste dall'art. 75, co. 3, cod. proc. pen. da interpretarsi restrittivamente, stante il favore per la separazione dei giudizi con implicita accettazione del rischio di giudicati difformi. A seguito di questi mutamenti l'esonero non costituisce più una regola, bensì un elemento tendenzialmente recessivo rispetto all'esigenza prioritaria di assicurare alla vittima dell'infortunio, per i profili non coperti da indennizzo, una integrale riparazione del danno alla persona. Pertanto, la "condanna penale", che risulta ancora presente nella formulazione del secondo comma dell'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965, ha perduto del tutto la sua valenza prescrittiva, non solo perché sostituita dall'accertamento, in sede civile, del fatto che costituisce reato, ma anche perché non assolve più all'originaria funzione per cui era stata concepita, che era quella di disciplinare i rapporti di un pregiudiziale e prevalente procedimento penale rispetto ad un eventuale giudizio civile. In questo ambito la disciplina di cui agli artt. 10 ss. del d.P.R. 1124/1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in relazione all'elemento soggettivo della colpa e al nesso causale fra fatto ed evento dannoso. Dall'allegazione fornita dal lavoratore in ordine alla sussistenza di gravi infortuni o patologie professionali e alla presenza di condizioni di lavoro incompatibili con lo stato di salute, la Corte territoriale ha affermato la responsabilità datoriale per violazione quantomeno dell'art 2087 c.c. (posto che il lavoratore non deve essere mai posto ad operare in condizioni di lavoro nocive). Ciò vale ad integrare, ad un tempo, sia l'illiceità penale del fatto ex art.10 TU, sia l'esistenza dei requisiti occorrenti tanto per la liquidazione del danno differenziale. Infatti, laddove vi sia la violazione dell'art. 2087 e.e. è sempre astrattamente configurabile un fatto di reato.
10. Il secondo motivo di ricorso deve essere respinto.
11. Dallo storico di lite della sentenza impugnata si evince che il G.P. quale fonte della responsabilità datoriale aveva dedotto: a) la omessa sorveglianza obbligatoria ex d.P.R. n. 303/1956 prevista annualmente per i rischi tabellati (vibrazioni e scuotimenti); b) la omessa sorveglianza sanitaria obbligatoria ex d.lgs. n. 626/1994 a fronte di attività implicanti la movimentazione manuale dei carichi, posture incongrue e coatte, la spinta e il traino con le caratteristiche dell'allegato V al d.lgs. n. 626/1994; e) la omessa valutazione rischi prevista sia dal d.P.R. n 303/1956 per le vibrazioni che dal d. lgs n. 626/1994 per le posture incongrue, movimentazione manuale dei carichi spinta e traino.
12. La Corte di merito ha ritenuto accertato lo svolgimento delle attività fonte degli obblighi datoriali come sopra dedotti (v. sentenza, pag.9) sulla base delle dichiarazioni rese dal lavoratore nel corso del libero interrogatorio che ha ritenuto suffragate dalla documentazione in atti evidenziando altresì che non vi era stata specifica contestazione da parte datoriale.
13. Tale accertamento non è validamente censurato dalla odierna ricorrente; la decisione non si pone infatti in contrasto con il principio per cui le dichiarazioni rese nel libero interrogatorio costituiscono argomenti di prova ossia elementi sussidiari al libero convincimento, posto che il decisum di secondo grado non risulta fondato solo su tali dichiarazioni ma anche sulla produzione documentale del ricorrente; né possono trovare ingresso in sede di legittimità le valutazioni relative al significato probatorio di tale documentazione in quanto a prescindere dalla genericità della doglianza sul punto tali documenti in violazione del disposto dell'art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. non sono specificamente individuati, né è trascritto il relativo contenuto e neppure indicata la sede di relativa produzione, dovendo ulteriormente osservarsi che le critiche sviluppate investono il giudizio di fatto riservato al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato, come nello specifico.
14. Tanto premesso, fermo l'accertamento del giudice di merito, non vi è spazio per ritenere il vizio di sussunzione sostanzialmente denunziato dalla società ricorrente, in relazione alle attività svolte dal G.P. in quanto l'utilizzo di strumenti vibranti è espressamente previsto dalla tabella allegata al d.P.R. n. 303/1956 e determinava l'obbligo per la società datrice della sorveglianza sanitaria; le caratteristiche dell'attività come in sentenza ricostruite implicavano l'adozione delle necessarie misure di prevenzione; quanto al documento di valutazione dei rischi il relativo apprezzamento sotto il profilo della completezza ed effettività della valutazione delle lavorazioni appartiene al merito ed è insindacabile con il ricorso per cassazione.
15. La Corte ha accertato, con apprezzamento insindacabile in questa sede perché adeguatamente motivato, che le mansioni cui era adibito il lavoratore rientrassero nell'ipotesi prevista dalla lettera i dell'art. 37 CCNL ENEL ("personale che presta la propria opera in condizione di particolare gravosità e disagio") e, quindi, il datore di lavoro fosse tenuto ad adottare delle tutele ulteriori e diversificate: in particolare, l'avvicendamento tra i lavoratori che prestassero la loro opera nelle predette condizioni e la loro sottoposizione a controlli medici necessari a prevenire il verificarsi di conseguenze dannose per la loro integrità.
16. L'esame delle concrete mansioni svolte dal lavoratore, così come l'ambiente in cui egli si trovava a prestare la propria attività hanno condotto i Giudici di seconde cure a ritenere che ricorressero i presupposti operativi richiesti dalla normativa speciale, che prevede degli obblighi di sorveglianza gravanti sul datore, aggiuntivi e ulteriori rispetto a quelli previsti in via generale, stante la natura particolarmente gravosa delle mansioni svolte. Pertanto, non è ravvisabile il vizio di sussunzione invocata dalla ricorrente. Gli ulteriori profili di censura attengono altresì al merito e aspirano ad ottenere una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, già ampiamente esaminate dalla Corte territoriale. I Giudici di seconde cure, infatti, si sono conformati al consolidato orientamento di questa Suprema Corte che ha specificato che grava sul lavoratore l'onere di provare di aver subito un danno a causa dell'attività svolta, nonché il nesso di causalità tra l'uno e l'altra, mentre incombe sul datore l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie al fine di evitare il danno, ricomprendendosi in questa categoria anche quelle misure di sicurezza c.d. innominate, intendendosi quelle non espressamente contemplate dalla legge, ma comunque fondate su conoscenze tecnico-scientifiche o su altre fonti analoghe (Cass. 10319/2017; Cass. 29879/2019; Cass. n. 12041/2020).
17. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
18. Invero, con il motivo in esame parte ricorrente pur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione di norma di diritto contesta in realtà il concreto accertamento della esistenza del nesso di causalità tra condotta datoriale (v. pag. 9 e ss.), che costituisce un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed incrinabile solo ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ. solo dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo e controverso neppure prospettata dall'odierna ricorrente.
19. Il quarto motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità derivanti: a) dal fatto che l'omesso esame denunziato ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ. è prospettato con riferimento ad una deduzione difensiva anziché a un fatto in senso storico come richiesto alla luce della condivisibile interpretazione dell'attuale configurazione del vizio di motivazione (v. Cass. Sez. Un. n. 8053/2014) e dal fatto; b) dal fatto che la denunzia relativa alla mancata ammissione della prova orale non è formulata in termini idonei a dimostrare la decisività delle circostanze capitolate; parte ricorrente limitata si è limitata alla trascrizione dei numerosi capitoli di prova articolati senza collocarli nell'ambito della allegazioni e deduzioni delle parti onde dimostrare che ove confermate le stesse avrebbero, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, comportato il rigetto della domanda di controparte. Infine, è infondata la denunzia di motivazione apparente affidata ad affermazioni apodittiche che non si confrontano con il percorso argomentativo dei Giudici di seconde cure, i quali hanno chiarito il percorso alla base dell'accertamento della responsabilità datoriale in particolare facendo riferimento agli esiti della consulenza tecnica d'ufficio ed alla produzione documentale.
20. Il quinto motivo di ricorso è infondato e presenta altresì profili di inammissibilità. Esso censura in maniera piuttosto confusa sia la decisione della Corte di appello di non rinnovare la CTU sia la sua adesione alle risultanze peritale. Inoltre, la doglianza, sebbene prospettata ai sensi dell'art. 360 n. 5 cpc e, quindi, come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, non indica in maniera chiara e specifica quale sia il suddetto fatto storico di cui sia stato omesso l'esame. Devono, poi, essere disattesi integralmente tutti i profili di questo motivo, in quanto, in primo luogo, non è rinvenibile il vizio di motivazione invocato dalla ricorrente in ordine alla pedissequa adesione da parte della Corte territoriale alle conclusioni della CTU. Questa Suprema Corte, al riguardo, ha in più occasioni chiarito che il giudice di merito può legittimamente fare richiamo alle risultanze emergenti dalla CTU, non essendo necessario che vengano fornite ulteriori motivazioni in ordine all'adesione all'elaborato peritale (Cass. n. 282/2009; Cass. n. 1815/2015). Parimenti infondata la censura con cui si lamenta la mancata rinnovazione della CTU e l'assenza di motivazioni a sostegno di questa decisione. Infatti, in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di un'esplicita richiesta di parte, a disporre una nuova ctu, atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia sul punto (Cass. n. 9379/2011; Cass. n. 17693/2013; Cass. 22799/2017).
21. Conseguentemente, non può, nel caso concreto, ravvisarsi un'ipotesi di motivazione solo apparente, non essendo la Corte territoriale tenuta a esplicitare le ragioni per le quali ha negato la rinnovazione della consulenza tecnica.
22. Il sesto motivo di ricorso è infondato.
23. La ricorrente non specifica in maniera chiara e precisa vizi esegetici in cui sia incorsa la Corte territoriale nell'interpretare il contratto di assicurazione e nel rigettare, in particolare, la domanda di manleva, non sussistendo, peraltro, alcuna contraddizione tra la mancata considerazione del rilievo penale della condotta datoriale e il rigetto della suddetta domanda di manleva. Invero, l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un'indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile avanti al giudice di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità. (Cass. n. 27136/2017).
24. La censura, quindi, non può risolversi nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest'ultima non deve essere l'unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra. (Cass. n. 28319/2017; Cass. n. 9461/2021).
25. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
26. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo, con distrazione.
27. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
 

PQM
 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari; nulla per Generali Italia spa. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15 dicembre 2021