Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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Tribunale di Pavia, Sez. Lav., 25 febbraio 2022, n. 118 - Sospensione di alcuni docenti per inottemperanza all'obbligo vaccinale. Misura proporzionata e ragionevole 





R.G. 118/2022


REPUBBLICA ITALIANA

IL TRIBUNALE DI PAVIA


Il Giudice Monocratico - Sezione del Lavoro in persona del dott. Gabriele Allieri
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA


nella causa promossa da:
C.C.
C.DT.
S.M.O.
O.S.
avv.ti Mauro Sandri e Olav Gianmaria Taraldsen
ricorrenti

CONTRO

Ministero dell’istruzione


Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano
resistente


A scioglimento della riserva assunta in udienza; letti gli atti ed ascoltate le conclusioni del difensore

OSSERVA

Con ricorso ex artt. 414 e 700 c.p.c. depositato il 4 febbraio 2022, le ricorrenti, docenti presso istituti scolastici collocati nella provincia pavese, hanno convenuto in giudizio il Ministero dell’istruzione per ottenere, in via cautelare, la sospensione dei provvedimenti con cui i rispettivi dirigenti scolastici le hanno sospese dal servizio, senza il diritto a percepire la retribuzione e ogni altro compenso o emolumento, in ragione del fatto che costoro, pur ricorrendo i presupposti per sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria per il personale scolastico predisposta per fronteggiare l’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus Sars- Cov-2, non hanno trasmesso la documentazione attestante la sottoposizione al vaccino, la richiesta di sottoporvisi o l’attestazione della sua omissione o del suo differimento [cfr. doc. 2 ricorrenti].
Costoro, in effetti, hanno rappresentato d’aver scelto di non vaccinarsi e hanno contestato la legittimità del provvedimento con cui, a seguito della loro scelta, sono state sospese. A loro dire, infatti, il vaccino non sarebbe uno strumento valido per il contenimento dei contagi, tanto nella generalità dei contesti, quanto specificamente negli istituti scolastici.
Secondo la loro prospettazione - in tesi suffragata da documentazione proveniente dall’Istituto superiore di sanità, da rapporti e studi internazionali, da dichiarazioni rese a mezzo stampa da esperti e da rapporti dell’Organizzazione mondiale della sanità, come riprodotti da Wikipedia – il vaccino, più che una misura di contenimento dei contagi, ne sarebbe la principale fonte. Non a caso – sostengono – i casi di positività riscontrati in paesi situati in Africa, Asia (in particolare in India) e Sudamerica, contesti caratterizzati da un minor numero di persone vaccinate, sarebbero di gran lunga inferiori a quelli rilevati nei paesi occidentali, in cui invece il vaccino avrebbe avuto una maggiore diffusione. Sarebbe questa la prova, inconfutabile, che “sia proprio e solo la vaccinazione a favorire, in misura tra l’altro determinante, perché rilevantissima, la permanenza della circolazione del virus Sars-Cov-2” [p. 12 ricorso].
A questi dati numerici andrebbe poi affiancata la considerazione per cui la sottoposizione a vaccino indurrebbe il soggetto ad assumere un contegno disinvolto ed imprudente, contrassegnato da una minor cura nell’osservanza delle prescrizioni di base per evitare il contagio, sull’assunto erroneo di godere d’una protezione che, tuttavia, il vaccino non sarebbe in grado d’assicurare.
La loro scelta di non sottoporvisi – perché misura non solo inutile per contenere i contagi, ma addirittura pregiudizievole – sarebbe stata, in sostanza, una logica conseguenza in chiave auto-protettiva.
È da tale considerazione, quindi, che costoro hanno tratto l’abbrivio per argomentare l’irragionevolezza dell’imposizione del vaccino per accedere al luogo di lavoro, la cui sicurezza potrebbe essere preservata solo attraverso la sottoposizione preventiva a tampone di chi vi fa ingresso.
Questo genere di test, ampiamente utilizzato prima dell’introduzione dell’obbligo vaccinale, avrebbe fornito ottimi risultati, senz’altro superiori a quelli, di segno totalmente negativo, riconducibili al vaccino. Ne consegue che il datore di lavoro, per adempiere correttamente al proprio debito di sicurezza, dovrebbe astenersi dall’imporre ai lavoratori di sottoporsi al vaccino e subordinare il loro ingresso a lavoro all’esito del tampone, da eseguirsi ogni 48/72 ore e a sue spese.
In mancanza, il loro rifiuto di svolgere la prestazione sarebbe una legittima reazione alla carenza di adeguate misure di sicurezza sul posto di lavoro, ciò che giustificherebbe la loro assenza.
D’altra parte, la condotta datoriale, oltre che esecutiva d’una disciplina interna contraria alla disciplina dell’Ue predisposta per la tutela della salute e la protezione da ogni forma di discriminazione (1), si presenterebbe illegittima anche in ragione della mancata valutazione della possibilità di adibire le ricorrenti a mansioni differenti che non implichino la vaccinazione.
Con specifico riferimento alla posizione di C.C., è stato inoltre argomentato che l’illegittimità della sospensione deriverebbe anche dal fatto che il provvedimento che l’ha disposta è stato adottato quando la ricorrente, trovandosi assente per malattia, non poteva comunque svolgere la propria attività lavorativa [cfr. docc. 2 e 49 ricorrente].
Ciò argomentato sotto il profilo del fumus boni iuris, hanno sostenuto che ricorra anche il periculum in mora; i provvedimenti contestati sarebbero infatti tali da produrre un pregiudizio irreparabile alla loro salute, al loro diritto a lavorare e a ricevere l’unica fonte di sostentamento di cui dispongono. Hanno pertanto chiesto l’adozione d’un provvedimento che, sospesa l’efficacia dell’illegittima sospensione dal servizio, consenta il loro ritorno sul luogo di lavoro - subordinatamente alla sottoposizione al tampone a spese del Ministero - ed imponga a quest’ultimo il versamento delle retribuzioni maturate dalla data della sospensione. In via subordinata, hanno chiesto che sia ordinato all’amministrazione il versamento dell’assegno alimentare di cui all’art. 82, d.P.R. n. 57 del 1957.
Il Ministero dell’istruzione si è difeso eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, il suo difetto di legittimazione passiva e l’inammissibilità del ricorso per indeterminatezza delle domande; nel merito ne ha sostenuto l’infondatezza, per carenza d’ambo i requisiti necessari per l’adozione del provvedimento cautelare.
Istruita documentalmente, la causa è stata quindi discussa dai difensori delle parti che si sono riportati alle rispettive conclusioni.
Così ricostruito l’iter processuale, va in primo luogo respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dal Ministero. Con il ricorso introduttivo, le lavoratrici hanno infatti azionato posizioni giuridiche aventi lo spessore di diritto soggettivo – il diritto a svolgere l’attività lavorativa e il diritto a percepire la retribuzione – e hanno censurato un atto adottato dall’amministrazione nell’esercizio dei poteri datoriali di cui all’art. 5, comma 2, d. lgs. 165 del 2001. La controversia è pertanto devoluta alla giurisdizione ordinaria ex art. 63, d. lgs. cit.
Parimenti infondata è la difesa con cui l’amministrazione ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva; la res controversa attiene ad un suo provvedimento, adottato in qualità di datrice di lavoro, onde la corretta selezione del soggetto convenuto in giudizio.
Il ricorso è poi ammissibile, vista la determinatezza delle domande svolte; la difesa ministeriale che la nega è del tutto inconferente e, almeno in apparenza, riproduttiva d’un’eccezione svolta in altro e differente giudizio.
Nel merito, la domanda cautelare è infondata.
L’art. 2, decreto legge n. 172 del 2021, ha modificato il testo del decreto legge n. 44 del 2021 introducendo l’art. 4-ter, il quale, al comma 1, dispone che “dal 15 dicembre 2021, l'obbligo vaccinale per la prevenzione dell'infezione da SARS-CoV-2 di cui all'articolo 3-ter, da adempiersi, per la somministrazione della dose di richiamo, entro i termini di validità delle certificazioni verdi COVID-19 previsti dall'articolo 9, comma 3, del decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, si applica anche [al, n.d.r] personale scolastico del sistema nazionale di istruzione”.
In base al successivo comma 2, “la vaccinazione costituisce requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei soggetti obbligati” e i dirigenti scolastici sono tenuti a verificare immediatamente l’osservanza di quest’obbligo. Il comma 3 prosegue precisando che “nei casi in cui non risulti l'effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell'ambito della campagna vaccinale in atto, [i dirigenti scolastici, n.d.r.] invitano, senza indugio, l'interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell'invito, la documentazione comprovante l'effettuazione della vaccinazione oppure l'attestazione relativa all'omissione o al differimento della stessa ai sensi dell'articolo 4, comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione da eseguirsi in un termine non superiore a venti giorni dalla ricezione dell'invito, o comunque l'insussistenza dei presupposti per l'obbligo vaccinale di cui al comma 1”; in caso di mancata presentazione della documentazione, “l'atto di accertamento dell'inadempimento determina l'immediata sospensione dal diritto di svolgere l'attività lavorativa, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati” (art. 4-ter, comma 3, d.l. cit.).
Come sopra osservato, le ricorrenti hanno teorizzato l’irragionevolezza di questa disciplina; il fulcro della loro ricostruzione, sinteticamente individuabile nell’inutilità e pericolosità dei vaccini, inidonei, diversamente dalla sottoposizione al tampone, ad evitare il diffondersi del virus nel luogo di lavoro, è però privo d’ogni fondamento e sostanzialmente riconducibile ad una personalissima visione – basata su eterogenee considerazioni che abbinano riferimenti normativi e inconferenti considerazioni politiche - smentita dalle stesse fonti richiamate a suo sostegno.
È in tal senso opportuno sgombrare il campo da ogni equivoco e precisare che il vaccino cui le ricorrenti sono tenute a sottoporsi per svolgere la loro prestazione lavorativa è uno strumento tanto «sicuro», quanto «efficace», e ciò non solo rispetto alla prevenzione di manifestazioni severe della malattia ma anche rispetto al contenimento della sua diffusione.
A tal riguardo, valgono le condivisibili considerazioni espresse dal Consiglio di Stato, il quale ha ricordato che “la commercializzazione del vaccino, secondo la vigente normativa dell’Unione europea, passa attraverso una raccomandazione da parte della competente Agenzia europea per i medicinali (EMA), che valuta la sicurezza, l’efficacia e la qualità del vaccino, sulla cui base la Commissione europea può procedere ad autorizzare la commercializzazione nel mercato dell’Unione, dopo avere consultato gli Stati membri che debbono esprimersi favorevolmente a maggioranza qualificata.
La normativa dell’Unione – in particolare l’art. 14-bis del Reg. CE 726/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e dal Reg. CE 507/2006 della Commissione – prevede uno strumento normativo specifico per consentire la rapida messa a disposizione di medicinali, da utilizzare in situazioni di emergenza, poiché in tali situazioni la procedura di “immissione in commercio condizionata” (CMA, Conditional marketing authorisation) è specificamente concepita al fine di consentire una autorizzazione il più rapidamente possibile, non appena siano disponibili dati sufficienti, pur fornendo un solido quadro per la sicurezza, le garanzie e i controlli postautorizzazione.
In questa procedura…si ha una parziale sovrapposizione delle fasi di sperimentazione clinica, che nella procedura ordinaria sono sequenziali, che prende il nome di «partial overlap» e che prevede l’avvio della fase successiva a poca distanza dall’avvio della fase precedente.
La leggera sfasatura nell’avvio delle fasi di sperimentazione riduce i rischi connessi ad una sovrapposizione delle fasi e accelera i normali tempi di svolgimento delle sperimentazioni, anche se fornisce dati meno completi rispetto alla procedura ordinaria di autorizzazione.
E tuttavia…l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata non è una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria come quella attuale, ma una procedura di carattere generale, idonea ad essere applicata – e concretamente applicata negli anni passati, anche recenti, soprattutto in campo oncologico – anche al di fuori della situazione pandemica, a fronte di necessità contingenti (non a caso la lotta contro i tumori ne è il terreno elettivo), e costituisce una sottocategoria del procedimento inteso ad autorizzare l’immissione in commercio ordinaria perché viene rilasciata sulla base di dati che sono, sì, meno completi rispetto a quelli ordinari – cfr. 4° Considerando del Reg. CE 507/2006 – ma è appunto presidiata da particolari garanzie e condizionata a specifici obblighi in capo al richiedente.
Una volta adempiuti gli obblighi prescritti e forniti i dati mancanti, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata viene infatti convertita – ciò che diverse volte si è verificato in passato – in un’autorizzazione non condizionata.
Il bilanciamento, rispetto alla maggior completezza dei dati ottenuti nella procedura ordinaria di autorizzazione, è imposto e assicurato, nella previsione dell’art. 4 del Reg. (CE) n. 507/2006, da quattro rigorosi requisiti: a) che il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulti positivo; b) che sia probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) che il medicinale risponda a specifiche esigenze mediche insoddisfatte; d) che i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari.
Per quanto riguarda i vaccini contro la diffusione del virus Sars-CoV-2, l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata segue, a giudizio della Commissione, un quadro solido e controllato e fornisce valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini nel corso della campagna vaccinale, costituendo una componente essenziale della strategia dell’Unione in materia di vaccini, garanzie che distinguono nettamente questa ipotesi dalla c.d. “autorizzazione all’uso d’emergenza”, istituto diverso che, in alcuni Paesi (come gli Stati Uniti e l’Inghilterra) non autorizza un vaccino, ma l’uso temporaneo, per ragioni di emergenza, di un vaccino non autorizzato…Il carattere condizionato dell’autorizzazione non incide sui profili di sicurezza del farmaco (nel sito dell’ISS, che richiama a sua volta quello dell’EMA, si ricorda «una autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala») né comporta che la stessa debba essere considerata un minus dal punto di vista del valore giuridico, ma impone unicamente al titolare di «completare gli studi in corso o a condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è favorevole».
Il Consiglio di Stato ha inoltre chiarito che “sulla base non solo degli studi – trials – condotti in fase di sperimentazione, ma anche dell’evidenza dei dati ormai imponenti acquisiti successivamente all’avvio della campagna vaccinale ed oggetto di costante aggiornamento e studio in sede di monitoraggio, che – contrariamente a quanto sostengono gli appellanti – la profilassi vaccinale è efficace nell’evitare non solo la malattia, per lo più totalmente o, comunque, nelle sue forme più gravi, ma anche il contagio” [Cons. St., n. 7045/2021].
Questa lettura, anche in chiave aggiornata rispetto alla c.d. variante «omicron», maggiormente diffusa al tempo dei fatti di causa, trova plastica conferma negli stessi documenti depositati dalle ricorrenti.
In tal senso, nel bollettino dell’Iss del gennaio 2022, in ordine in efficacia della vaccinazione nel prevenire nuove infezioni, ricoveri e decessi, si legge testualmente che:
- “l’efficacia del vaccino (riduzione del rischio rispetto ai non vaccinati) nel prevenire la diagnosi di infezione SARS-CoV-2 è pari a 77,6% entro 90 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, 64,5% tra i 91 e 120 giorni, e 41,6% oltre 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale;
- rimane elevata l’efficacia vaccinale nel prevenire casi di malattia severa: 95,7% nei vaccinati con ciclo completo da meno di 90 giorni, 93% nei vaccinati con ciclo completo da 91 e 120 giorni, e 88,8% nei vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 120 giorni;
- Nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster, l’efficacia nel prevenire la diagnosi e i casi di malattia severa è pari rispettivamente al 75% e al 97,8%” [cfr. doc. 8 ricorrenti].
Dunque, proprio il documento che secondo le ricorrenti svelerebbe al contempo incognite e inutilità del vaccino conferma invece la sua efficacia, a partire da quella relativa al contenimento del virus.
È del resto affatto distorta la lettura che le ricorrenti offrono dei dati relativi al numero di persone contagiate fra i vaccinati e i non vaccinati.
Le ricorrenti ricordano che, al 01.12.2021, a fronte di 75.512 contagiati non vaccinati, v’erano 134.084 contagiati vaccinati; al 07.12.2021, a fronte di 93.220 contagiati non vaccinati, v’erano 168.131 contagiati vaccinati; al 15.12.2021, a fronte di 114.674 contagiati non vaccinati, v’erano 205.304 contagiati vaccinati.
Emerge, in sostanza, che i contagiati vaccinati sono stati costantemente in numero quasi doppio rispetto ai contagiati non vaccinati.
Il dato però, lungi dal rappresentare un’acuta rivelazione sull’inefficacia dei vaccini, offre piuttosto la dimostrazione del contrario, se solo si considera che la popolazione di soggetti vaccinati è enormemente superiore a quella composta da chi ha ritenuto di aderire alla campagna. Infatti, richiamando i dati del bollettino dell’Iss di cui sopra, risulta, nel dettaglio, “al 5 gennaio 2022, in Italia, la copertura vaccinale completa (due dosi o una dose di vaccino monodose) nella popolazione di età ≥ 5 anni è pari a 80,7%, mentre la copertura vaccinale relativa alla dose aggiuntiva/booster è pari al 37,4%. Nelle fasce di età 70-79 e 80+ la percentuale di persone che hanno completato il ciclo vaccinale è rispettivamente 92,0% e 94,1%, mentre la percentuale di vaccinati con la dose aggiuntiva/booster si attesta rispettivamente al 64,7% e al 74,1%. Nelle fasce di età 20-29, 30-39; 40- 49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che hanno ricevuto due dosi è superiore all’80%, mentre nella fascia 12-19 la percentuale di soggetti completamente vaccinati è pari al 74,2% (Tabella 4). Nella fascia 5- 11 la percentuale di vaccinati con prima dose è del 11,8%” [cfr. doc. 8 ricorrenti].
D’altra parte, è lo stesso bollettino a spiegare le ragioni – invero ovvie – dei dati numerici in ordine ai contagi. Vi si legge che “quando le coperture vaccinali nella popolazione sono elevate, si verifica il cosiddetto «effetto paradosso» per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi. Non è, quindi, possibile confrontare i numeri in valore assoluto…degli eventi nei diversi stati vaccinali all’interno della stessa fascia d’età, in quanto fanno riferimento a popolazioni diverse e per rendere possibile il confronto è necessario considerare il tasso specifico…, ovvero il numero di eventi in ciascuna fascia d’età diviso la popolazione di ciascuna fascia d’età nel periodo di riferimento per 100.000” [cfr. doc. 8, p. 28].
Dalla successiva tabella 6 allegata allo stesso bollettino, si evince che, anche rispetto alla mera contrazione del virus, il rischio cui sono esposti i non vaccinati rispetto a qualunque vaccinato (a prescindere dal tempo intercorso dal completamento del ciclo e dall’inoculazione della dose aggiuntiva/booster) è costantemente e sensibilmente superiore.
In sostanza, i dati dimostrano il contrario di quanto indicato nel ricorso.
In particolare, se è vero che la vaccinazione non è in grado di porre con certezza al riparo dal virus, è altrettanto vero che essa, oltre a ridurre drasticamente i casi di malattia severa, ha indubbia valenza protettiva dal contagio.
L’abbinamento di questi benefici del vaccino giustifica quindi la scelta di ritenere sufficiente l’esibizione della certificazione che attesta l’avvenuta somministrazione, senza che occorra anche la sottoposizione del vaccinato al costante monitoraggio mediante tampone; quest’ultimo, alla luce dei dati illustrati dal bollettino e sopra richiamati, può infatti ritenersi superfluo per via della concomitante riduzione e progressiva «normalizzazione» degli effetti del virus.
Chi ha ricevuto il vaccino, in sintesi, ha meno possibilità di contrarre il virus e quindi di diffonderlo, valendo invece l’opposto per chi invece si è astenuto dal farselo somministrare.
Va quindi seccamente respinta la tesi per cui l’imposizione dell’obbligo vaccinale per fare ingresso nei locali scolastici abbia reso quei luoghi pericolosi – addirittura in termini tali da giustificare ex art. 44, d. lgs. 81 del 2008, la condotta del lavoratore che, per preservare la sua incolumità, se ne allontani – dovendosi invece affermare che si tratta di una scelta ragionevole, funzionale allo scopo di ridurre i contagi e abbattere il rischio di forme patologiche gravi. Il tutto, considerando che questi accorgimenti beneficiano non solo il generale interesse alla salute individuale e pubblica, ma, nel contesto in esame, accrescono anche la possibilità di garantire continuità e «normalità» alla didattica, fortemente penalizzata nel contesto emergenziale.
Oltre che ragionevole, la scelta risulta anche proporzionata allorché venga valutata alla luce del sacrificio imposto a chi risulta obbligato, per l’effetto, a sottoporsi al vaccino per proseguire la propria attività lavorativa e così esercitare diritti, d’indubbio spessore costituzionale, quali quello a lavorare e percepire una retribuzione.
In tal senso, infatti, non esiste alcun riscontro che l’alternativa al vaccino proposta dalle ricorrenti – suscettibile di valutazione solo allo scopo di verificare che il bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco sia congruo – offra le stesse garanzie proprie di un’estesa e capillare vaccinazione.
Anzi, i dati emergenti dai bollettini dell’Iss paiono dimostrare il contrario, illustrando come soltanto con l’avvento del vaccino il fenomeno pandemico si sia avviato, anche se con difficoltà, ad una progressiva soluzione.
In tal senso, depone anche la valutazione espressa in merito dal Consiglio di Stato, il quale ha condivisibilmente osservato che solo la vaccinazione produce il risultato di limitare la diffusione del contagio, in quanto le altre misure, per quanto utili e raccomandate non sono state decisive nel limitarlo, come dimostrano la prima e la seconda ondata della pandemia [cfr. Cons. St., n. 7045/2021].
È allora da osservare, per inciso, che l’imposizione del tampone predicato dalle ricorrenti, potrebbe apprezzarsi non già in sostituzione del vaccino, ma solo in via aggiuntiva ad esso.
Conclusivamente, va quindi rilevato che la misura adottata è proporzionata e ragionevole; essa resiste alle censure sollevate dalle ricorrenti.
Del resto, che le censure indicare nel ricorso siano fondate su una lettura errata – al limite del distorto – degli stessi documenti posti a loro corredo, trova conferma analizzando, a titolo puramente esemplificativo, le interpretazioni offerte ad un’ordinanza delle Regione Veneto e ad un’intervista rilasciata dal Sottosegretario del Ministero della salute Pierpaolo Sileri, entrambe allegate al ricorso [cfr. docc. 3 e 4].
Quanto al provvedimento regionale, le ricorrenti vi fanno riferimento quale atto dimostrativo della sufficienza della sottoposizione al tampone per evitare i contagi; trascurano però che lo stesso documento afferma, apertamente, che “la vaccinazione rimane la componente fondamentale per ridurre l'impatto della diffusione del virus e che è necessario cercare di aumentare al massimo l'adesione alla campagna vaccinale delle persone non ancora completamente vaccinate e accelerare la somministrazione delle dosi "booster" a tutta la popolazione adulta” [cfr., doc. 3, p. 3].
Rispetto all’intervista di Pierpaolo Sileri, le ricorrenti si spingono ad affermare che questi abbia “ammesso esplicitamente che la responsabilità dell’aumento dei contagi in senso assoluto, e, in particolare, su luoghi di lavoro, si debba attribuire ai vaccinati, rilevando l’impossibilità che sia addebitabile un simile esito ai non vaccinati, essendo questi ultimi sottoposti a tampone preventivo” [p. 8 ricorso]; trascurano però che leggendo attentamente l’intervista - senza limitarsi al titolo sensazionalistico “Sileri ammette: i novax non sono responsabili della quarta ondata, si tamponavano, la colpa può essere dei vaccinati” attribuito al video da cui è estratta, reso fruibile, limitatamente peraltro a taluni spezzoni unidirezionali e arbitrariamente selezionati, nel sito web indicato in ricorso (www.grandeinganno.it) - si nota che Pierpaolo Sileri ha affermato che “la colpa della nuova ondata non è da attribuire ai non vaccinati, la colpa in primis è solo del virus. Quando c’è una pandemia succede questo, ovvero si vivono delle ondate. Chi non si è vaccinato, per fare delle attività, ovviamente faceva il tampone...Ma attenzione, la colpa può essere anche dei vaccinati. Uno dei concetti sbagliati che è passato, è che chi è vaccinato non contagia. Chi è vaccinato contagia sette volte meno di chi non è vaccinato, ma deve continuare ad usare la mascherina e il distanziamento per evitare che anche lui possa fare danni”. In sostanza, e non diversamente da quanto indicato in precedenza, trovano sì conferma la possibilità che i vaccinati contagino e la concorrente necessità di utilizzare precauzioni individuali, ma anche il dato decisivo che i vaccinati sono di gran lunga meno contagiosi dei non vaccinati [cfr. doc. 12 ricorrenti].
In definitiva, le tesi delle ricorrenti non solo non trovano alcun riscontro ma, piuttosto, incontrano puntuali e cristalline smentite.
Ciò posto, deve conclusivamente affermarsi che le misure normative applicabili resistono alle censure sollevate nei loro confronti, anche rispetto alla contrarietà a disposizioni di fonte eurounitaria, con le quali sono invece del tutto coerenti. Nello specifico, va precisato che la loro contrarietà rispetto alla Risoluzione n. 2361/2021 del Consiglio d’Europa, dalle quale si evincerebbe la non obbligatorietà del vaccino, è irrilevante, dal momento che le risoluzioni non hanno efficacia normativa e precettiva, rappresentando piuttosto uno strumento che il Consiglio impiega, all’esito della propria discussione, al mero scopo di esprimere un proprio indirizzo, senz’altro non vincolante per gli Stati membri. Va inoltre escluso che le misure in esame integrino una discriminazione a danno di chi assuma la decisione di non vaccinarsi, atteso che esse, senza impiegare arbitrariamente un criterio basato sulle opinioni, convinzioni e scelte personali dell’individuo, fungono da strumento per la tutela di interessi generali quali la salute individuale e pubblica e la tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Su un altro versante, va inoltre escluso che, diversamente da quanto opinato in ricorso, prima di procedere alla sospensione il MI avrebbe dovuto sperimentare la possibilità di collocare le ricorrenti in mansioni compatibili con la loro mancata sottoposizione al vaccino.
Costoro lo sostengono affermando che quest’onere datoriale - previsto dalla versione originaria dell’art. 4, comma 6, d.l. cit., “ove possibile” e limitatamente al personale sanitario, e poi imposto, sempre limitatamente a quest’ultimo, in presenza di un certificato di differimento o esenzione dalla vaccinazione – discenda non solo da un’interpretazione letterale dell’impianto normativo, che non esclude espressamente questo onere, ma anche da una sua interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata.
La tesi, tuttavia, non è condivisibile.

Va in primo luogo osservato che “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”. L’obbligo datoriale di assegnare al lavoratore non vaccinato mansioni che escludono il rischio di contagio è stata previsto, nelle diverse declinazioni sopra indicate, per il solo personale esercente professioni sanitarie e per gli operatori di interesse sanitario; l’art. 4-ter, dedicato invece al personale scolastico, tace integralmente sul punto. Il criterio di interpretazione letterale, suggerito dalle ricorrenti, conduce quindi ad un esito opposto a quello da loro auspicato.
Lo stesso è a dirsi rispetto ad un’interpretazione sistematica o costituzionalmente orientata. L’onere in commento, infatti, echeggia l’obbligo di repêchage imposto ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Richiamando la consolidata giurisprudenza intervenuta sul punto, va allora ricordato che la condizione dell’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse è un “elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore” [Cass., n. 24882/2017]. Ciò posto, deve però rilevarsi che nel caso di specie non ricorrono i presupposti per imporre al datore di lavoro, in modo automatico e nel silenzio della legge, un tale onere. In primo luogo, poiché la scelta adottata dal MI corrisponde alla piana applicazione delle norme vigenti a fronte di un quadro fattuale pacifico, va senz’altro escluso che si tratti di una scelta pretestuosa. In secondo luogo, l’obbligo in esame è funzionale a tutelare il diritto al lavoro a fronte di un atto espulsivo, mentre le ricorrenti sono destinatarie di un mero provvedimento di sospensione, del tutto temporaneo ed immediatamente revocabile a fronte della loro decisione di adeguarsi alle prescrizioni normative vigenti.
Precisato altresì che la qualifica delle ricorrenti quali docenti rende del tutto improbabile la possibilità di assegnare mansioni che non implichino contatti personali, va in definitiva escluso che la loro sospensione debba essere subordinata all’impossibilità di impiegarle altrimenti.
Le complessive considerazioni che precedono, senz’altro valide per C.DT., S.M.O. e O.S., valgono anche per C.C., a nulla rilevando che la sua sospensione, datata 28.12.2021, sia intervenuta allorché costei era assente per malattia (dal 17.12.2021 al 09.01.2022. Trattasi, per inciso, di patologia per cui non è allegata documentazione che dimostri che essa fosse ostativa alla somministrazione del vaccino).
Dal provvedimento che ne ha disposto la sospensione [cfr. doc. 2 ricorrenti], risulta infatti che la docente, prima dell’avvio del periodo di malattia, sia stata debitamente invitata a trasmettere la documentazione attestante la sua sottoposizione al vaccino o la richiesta di sottoporvisi o l’attestazione della sua omissione o del suo differimento; il provvedimento fa in particolare riferimento, tra l’altro, alla Nota prot. 6652 del 09.12.2021, avente ad oggetto “Obbligo vaccinale: trasmissione e invito ad adempiere D.L. n. 172/2021 con cui il personale scolastico veniva informato dei tempi di subentro dell’obbligo vaccinale, sulla necessità di regolarizzazione della propria posizione vaccinale ed invitato ad adempiere, secondo le previsioni normative, nei termini di legge”.
Ne deriva che il 17.12.2021, primo giorno d’astensione per malattia della ricorrente, il termine di cinque giorni entro cui avrebbe dovuto trasmettere i documenti utili a verificarne la posizione era già ampiamente decorso.
Il provvedimento di sospensione, benché intervenuto il 28.12.2021, quando costei era assente da lavoro, ha dunque preso atto d’un inadempimento già effettivo prima dell’avvio del periodo di malattia; il protrarsi di quell’inadempimento giustifica quindi la sospensione, anche in considerazione del fatto che il suo rientro in servizio era imminente.
È infine da respingersi la domanda delle ricorrenti volta ad ottenere la condanna del Ministero al versamento dell’assegno alimentare di cui all’art. 82, d.P.R. n. 57 del 1957. L’art. 4-ter, comma 3, d.l. n. 44 del 2021, stabilisce che “per il periodo di sospensione, non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati”, sicché la tesi secondo cui non ricorrerebbero indicazioni normative atte ad escludere la spettanza dell’assegno è infondata.
Il ricorso va dunque integralmente respinto. Le spese di lite vengono rimesse al merito.

 

P.Q.M.
 


Respinge la domanda cautelare;
rinvia la statuizione delle spese al giudizio di merito, per il quale, confermate le altre indicazioni contenute nel decreto del 7 febbraio 2022, fissa l’udienza del 24 marzo 2022, ore 10.00.
Pavia, 25 febbraio 2022
Il Giudice Gabriele Allieri

 

1 Nel ricorso è sostenuto che alle norme interne ostino l’art. 191 Tfue, la dir. n. 2000/54/CE, l’art. 3, comma 3, Tue, l’art. 21 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Risoluzione n. 2361/2021 del Consiglio d’Europa, le direttive n. 2000/78/CE e n. 2000/43/CE.