Pubblichiamo il testo dell'audizione del Dott. Beniamino Deidda, Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Firenze, del giorno 24 febbraio 2010 alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli Infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette ‘morti bianche’


 

Senato della Repubblica

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli

Infortuni sul lavoro, con particolare riguardo alle cosiddette ‘morti bianche’


Audizione del giorno 24 febbraio 2010, h.14,30



1. Le omissioni nell’invio del referto medico in occasione di infortunio e di malattia professionale

La grande maggioranza dei medici delle strutture di diagnosi e cura, dei medici competenti delle aziende e dei medici di base si sottrae all’obbligo di inviare il referto medico che certifica la malattia o l’infortunio professionale. I dati statistici provano il fenomeno in maniera incontestabile. I referti che arrivano al pubblico ministero o agli ufficiali di polizia giudiziaria delle ASL sono molti di meno delle denunzie che pervengono all’INAIL. E, a loro volta, i casi trattati dall’INAIL sono molti di meno di quelli attesi secondo stime epidemiologiche largamente attendibili.
Del resto il fenomeno dell’omissione di referto da parte dei medici che prestano le loro cure ai lavoratori è conosciuto da molti decenni e mai sono state assunte iniziative rivolte a richiamare i medici agli obblighi che la legge gli assegna.
Le conseguenze di tale prassi sono gravi. Presso le procure della Repubblica si fanno molti meno processi di quanto sarebbe prescritto secondo le norme vigenti. In pratica arrivano i referti dei pochi medici competenti volenterosi; pochissimi ne arrivano dai medici dei base, per l’evidente omissione da parte del medico, anche quando abbia accertato l’origine lavorativa della patologia; quasi assenti sono i referti dei medici ospedalieri, convinti forse che il loro compito si esaurisca con la diagnosi e le terapie. Restano le denunzie dei patronati cui ricorrono coloro che hanno subito danni da lavoro; mentre anche l’INAIL talvolta omette di informare le Procure, come pure dovrebbe, in relazione ai casi trattati.
Chi invece sistematicamente invia le comunicazioni di reato in ordine ai referti ricevuti è il servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro delle ASL, cui spetta il compito di esperire le necessarie indagini per effettuare l’inchiesta di infortunio o di malattia professionale.
Complessivamente dunque i casi che vengono segnalati alle Procure sono frutto di circostanze casuali. A seconda dell’organo pubblico che ha notizia della malattia, può succedere o non che venga avviato un procedimento penale e che le vittime abbiano giustizia o vengano risarcite.
Si aggiunga che il fenomeno è generalizzato su tutto il territorio nazionale e non vi sono regioni o territori più virtuosi. Il comportamento dei medici è dappertutto al di sotto degli adempimenti che la legge pretende.
Occorre dunque aggredire il fenomeno dell’omissione di referto che tocca trasversalmente tutti i medici nelle diverse funzioni che essi ricoprono.
Si dovrebbe rivedere la norma che punisce l’omissione di referto finora sanzionato con la pena della multa. Occorre cioè intervenire sull’apparato sanzionatorio, sia inasprendo la pena, sia prevedendo la pena accessoria della sospensione dalla professione per il medico condannato a pena detentiva. L’inasprimento della sanzione avrebbe un notevole effetto di richiamo dell’attenzione dei medici su un obbligo finora disinvoltamente trascurato.
Le ragioni sono molteplici, ma quella principale è certamente legata al fatto che quando è stato varato il codice penale il legislatore non pensava certo di perseguire gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Ora, poiché le norme vivono storicamente una vita indipendente dalla volontà del legislatore, quella norma, un tempo forse di secondaria importanza, diventa oggi di importanza cruciale, dal momento che è lo strumento essenziale per conoscere l’esistenza dei reati di infortunio e malattie professionali e per procedere penalmente nei confronti dei responsabili.
Occorre dunque introdurre nell’ordinamento misure tali da scoraggiare il comportamento omissivo dei medici, favorito da una certa inerzia della Magistratura che non ha quasi mai contestato il reato di cui all’art. 365 c.p. Tuttavia l’inasprimento delle sanzioni non può essere l’unico rimedio: se si vuole ottenere la consapevole adesione dei medici occorre insistere sulla delicatezza ed importanza dell’obbligo del referto fin dalla formazione universitaria e trovare durante l’esercizio della professione lo scambio di esperienze e protocolli con i servizi delle ASL che rendano più semplice e non onerosa la corretta redazione e l’invio del referto.

2. L’azione dei Servizi di Prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro

Agli organi di vigilanza delle Aziende Sanitarie Locali è affidato non solo il compito di prevenire le malattie da lavoro, ma anche quello di perseguire i reati di lesioni gravi e gravissime che conseguono all’esposizione ad agenti nocivi sui luoghi di lavoro.
Né l’una né l’altra funzione vengono svolte in modo soddisfacente. La principale ragione è da ravvisarsi nella cronica insufficienza di personale dei servizi pubblici di vigilanza e nello scarso impegno che le direzioni delle ASL dedicano alla prevenzione. In questa situazione di cronica carenza è del tutto naturale che gli interventi per gli infortuni sul lavoro finiscano per essere privilegiati rispetto agli interventi di repressione dei reati legati ad esposizioni lavorative che sono state poste in essere molto tempo prima e qualche volta in anni assai lontani, come capita nei casi di mesotelioma della pleura la cui latenza è mediamente di 30-40 anni.
Dunque in generale gli organi di vigilanza nel nostro paese non sono in grado di affrontare con tempestive inchieste di malattia professionale tutti i casi di omicidio colposo o di lesioni gravi o gravissime che ogni anno derivano dal lavoro. Basti pensare che solo le malattie mortali derivanti dall’esposizione ad amianto sono in Italia più di mille all’anno e che le ASL interessate non sono in grado di svolgere diligentemente e tempestivamente le inchieste e le indagini delegate dalla Magistratura. Ci sono casi in cui l’inadeguatezza delle forze in campo è davvero imbarazzante. Ho avuto personalmente modo durante la mia permanenza a Trieste come Procuratore Generale di constatare come in un territorio in cui le morti per amianto dei lavoratori addetti alla costruzione delle navi hanno costituito per anni una vera e propria emergenza, i servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro delle ASL di Trieste e Monfalcone non fossero affatto in grado di svolgere le indagini necessarie per permettere alle Procure di affrontare i relativi procedimenti penali per omicidio colposo.
Naturalmente gli organi di vigilanza delle ASL non possono occuparsi solo delle morti per esposizione ad amianto, perché non è possibile che tutte le forze vengano concentrate nella repressione dei reati, senza concedere all’opera di prevenzione la necessaria attenzione.

L’efficace azione di prevenzione e repressione dei reati è poi ostacolata da una serie di elementi di rilevanza locale i quali fanno sì che in alcuni territori si ottengano risultati anche rilevanti, mentre in altri si registra una grave assenza del servizio pubblico. Vi sono servizi a regime e servizi che languono in una grave carenza di mezzi e di personale. La questione posta dall’azione fortemente disomogenea dei servizi nelle diverse zone del Paese riguarda essenzialmente i principii di eguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale. Vi sono territori in cui non viene esercitata alcuna sostanziale azione di vigilanza e territori in cui le malattie da lavoro non vengono penalmente perseguite.

Una parte non piccola in questa forte disomogeneità ha la formazione degli addetti ai servizi di prevenzione. Vi sono ASL che non hanno mai intrapreso alcuna azione di formazione degli addetti ai servizi di prevenzione e ASL che non curano la formazione degli ufficiali di polizia giudiziaria dei loro servizi di prevenzione.
Si poteva ragionevolmente sperare che una formazione comune potesse venire dai corsi di laurea breve per tecnici della prevenzione che si tengono nelle Facoltà di Medicina. Ma la speranza si è rivelata mal riposta, dal momento che i tecnici della prevenzione escono dal corso di studi sostanzialmente impreparati in materia di prevenzione e del tutto incapaci di compiere le indagini necessarie o anche soltanto di fare correttamente un atto di polizia giudiziaria. La ragione risiede nel fatto che il corso di studi prevede lo studio di materie tradizionali per la facoltà di medicina, ma del tutto inutili per il futuro lavoro dei tecnici della prevenzione. Solo pochi cenni sono dedicati alla legislazione in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, mentre vengono del tutto ignorati gli strumenti della procedura penale che sono invece essenziali per l’esercizio delle funzioni di vigilanza sui luoghi di lavoro. E così capita che il tecnico della prevenzione abbia sostenuto un esame di istologia o di altre materie di grande interesse per i medici, mentre invece durante il suo lavoro gli verrà chiesto di fare una puntuale inchiesta di malattia professionale per la quale non serviranno le cognizioni sulle cellule apprese all’università.
Si dovrebbe perciò intervenire sui programmi del corso di laurea dei tecnici della prevenzione, prevedendo l’inserimento del corso di studi di materie che siano strettamente attinenti alle future mansioni di questi operatori, con particolare riguardo alla conoscenza delle norme che essi dovranno applicare durante la vigilanza nei luoghi di lavoro e alle conoscenze processuali che saranno utili nell’apprestamento degli atti di polizia giudiziaria e nelle indagini loro delegate dalla magistratura.
Tuttavia tale formazione produrrebbe effetti solo sul piano generale, non potendosi pretendere che in ambito universitario le conoscenze siano così approfondite e orientate verso la pratica dell’azione di polizia giudiziaria.
A questo proposito si potrebbe prevedere che tutti gli ufficiali di polizia giudiziaria che si occupano di vigilanza, di infortuni e malattie professionali frequentino un corso che abbia i medesimi contenuti in tutte le regioni italiane. A tale scopo il Coordinamento tra le Regioni potrebbe varare con l’aiuto di magistrati, tecnici ed esperti un modello di corso di formazione destinato ai servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro delle ASL, da attuare in tutte le regioni del nostro Paese.

3. L’azione della Magistratura nella repressione delle malattie da lavoro

Come si è accennato l’azione delle Procure e dei Tribunali è del tutto insufficiente rispetto ai esigenze poste dall’andamento delle malattie professionali in Italia. Le ragioni di queste difficoltà sono molteplici.
Cominciamo col dire che i casi di malattia dal lavoro segnalati alle Procure giungono per lo più sforniti di dettagliate informazioni che consentano al magistrato di indirizzare correttamente la sua azione. I referti del medico, quando arrivano, sono privi delle indicazioni necessarie per circoscrivere i fatti, per spiegarne la dinamica, per identificare i responsabili e spesso non contengono nemmeno l’indicazione della ditta per la quale l’infortunato lavorava. Fanno eccezione i casi in cui i referti arrivano direttamente alle ASL (come in qualche regione avviene), per i quali dunque sono i servizi pubblici di prevenzione a procedere di iniziativa alle indagini e alla inchiesta di malattia professionale. In questi casi si innesca un circolo virtuoso per il quale arrivano in Procura solo i casi che l’organo di vigilanza ha ritenuto meritevoli di indagine. Mentre vengono archiviati i referti che non presentano situazioni di pericolosità o comunque violazioni da parte del datore di lavoro della normativa di prevenzione. è chiaro che questo sistema presuppone che la Procura abbia concordato col servizio di prevenzione della ASL procedure molto chiare e stringenti sulla trattazione dei casi di malattia professionale, indicando anche le priorità nella trattazione e impartendo specifiche direttive agli organi di polizia giudiziaria. Tuttavia su questo terreno sono poche le Procure che si sono mosse con chiarezza di idee. Esistono protocolli ben congegnati tra ASL e Procura che andrebbero diffusi nella speranza che altre Procure adottino questi utili strumenti di lavoro. Recentemente, nel corso del 2009, vi è stata un’iniziativa della Procura Generale di Trieste con la partecipazione delle Procure del Friuli Venezia Giulia e di tutte le ASL del distretto le quali insieme hanno elaborato una serie di prassi vincolanti per disciplinare rigidamente i percorsi di indagine in tema di infortuni e malattie professionali, redigendo un protocollo molto dettagliato (che si allega).
La grande maggioranza delle Procure italiane non dedica invece molta attenzione alle malattie da lavoro, lasciando a sé stessi gli ufficiali di polizia giudiziaria i quali molto spesso non sanno quali siano i contenuti imprescindibili di un’indagine di malattia professionale svolta correttamente.

Questa diffusa impreparazione della magistratura requirente e giudicante in Italia è stata recentemente documentata da una pratica aperta in settima commissione del CSM con il n. 129/VV/2007 al fine di verificare “se una giusta attenzione alla repressione qualificata e tempestiva dei reati in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro viene realizzata dai dirigenti degli uffici giudiziari, in particolare dalle Procure della Repubblica e dai Tribunali”. I lavori si sono conclusi con una delibera del CSM del 28 luglio 2009 (che si allega) che prende atto della situazione assai disomogenea nelle varie Procure del territorio nazionale e invita i dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti ad adottare ogni misura idonea perché la trattazione e la repressione dei reati in materia di salute sul lavoro sia assicurata con tempestività ed efficacia.
In realtà le statistiche raccolte dal CSM presso gli uffici giudiziari sono assai deludenti e rivelano che su 165 Procure e Tribunali solo poche decine hanno istituito un gruppo specializzato per la trattazione di queste materie o hanno incaricato singoli magistrati specialisti di trattare i casi di infortuni e malattia professionale. Questa diffusa disattenzione nasconde evidentemente, da un lato, problemi di organizzazione degli uffici giudiziari e, dall’altro, problemi di formazione dei magistrati. Anzi le due cose vanno di pari passo dal momento che solo chi abbia un’acuta consapevolezza dei problemi sociali e giuridici che si nascondono dietro il fenomeno degli infortuni e delle malattie da lavoro riesce ad attrezzarsi adeguatamente per perseguire i reati che da quelle emergenze derivano.
Ma, a proposito della formazione dei magistrati, si può ripetere quello che è stato già rilevato per gli organi di polizia giudiziaria. La formazione universitaria non contempla questi temi nei suoi corsi di studi, né i magistrati durante il loro lavoro hanno ricevuto strumenti adeguati per affrontare autorevolmente una materia così specialistica.
Solo recentemente il CSM, accogliendo le sollecitazioni di qualcuno di noi, ha varato programmi di formazione dei magistrati su questi temi, deliberando di invitare durante le giornate di formazione anche i rappresentanti degli organi di polizia giudiziaria delle ASL e delle Direzioni Provinciali del Lavoro delle varie province italiane. Si è trattato di iniziative molto utili che opportunamente il CSM ha consigliato di riproporre in sede distrettuale attraverso il coordinamento degli uffici di formazione dei magistrati esistenti in ogni Corte di Appello. è una strada che va tenacemente perseguita in modo da giungere ad una diffusa formazione dei magistrati in materia di reati che attentano alla salute sui luoghi di lavoro. Si aggiunga che le comunicazioni di reato che arrivano all’attenzione delle Procure e dei Tribunali in questa materia, sono numerosissime e ben superiori a quelle che riguardano i pochi reati ai quali viene dedicata grande attenzione nella formazione specialistica dei magistrati: reati societari, reati finanziari, violenze sessuali nei confronti dei soggetti deboli, ecc. Tutti reati certamente meritevoli di grande attenzione, ma che per numero e qualità non impegnano i magistrati più di quanto avvenga per gli infortuni sul lavoro e malattie professionali.
Proprio prendendo spunto da questo inequivocabile dato numerico è opportuno intervenire proponendo che presso ogni Procura e presso ogni Tribunale delle città capoluogo di provincia siano istituiti gruppi di magistrati specializzati per la trattazione dei reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, gruppi ai quali si possa accedere solo dopo aver frequentato appositi corsi organizzati dal CSM.
L’istituzione di gruppi specializzati non è invece concretamente attuabile nelle sedi di piccole Procure o Tribunali nelle quali il numero dei magistrati non consente di prevedere una distribuzione di materie per gruppi di lavoro, almeno finché non si provvederà alla revisione delle circoscrizioni giudiziarie.

Nell’attuale situazione sono poche le Procure che riescono a portare avanti indagini tempestive in materia di infortuni e malattie professionali e ad ottenere il rinvio a giudizio degli imputati. Di questi processi pochissimi sono quelli che si concludono con una sentenza di condanna. Ancora troppe sono le archiviazioni, spesso immotivate, e le assoluzioni che talvolta trovano la loro ragione nell’incapacità del magistrato di cogliere i nessi di causa o di orientarsi tra i criteri della responsabilità penale.
Ma ancor più frequente è l’inerzia dei magistrati i quali lasciano i procedimenti penali negli armadi arrivando all’inevitabile prescrizione.
Recentissima e clamorosa è l’esperienza della Procura di Gorizia nel cui territorio si trova il cantiere navale Fincantieri di Monfalcone. In quindici anni sono state denunziate alla Procura circa novecento malattie da amianto che i magistrati non sono stati in grado di affrontare. Dopo oltre dodici anni, di fronte alla prolungata inerzia dell’ufficio di Procura, il Procuratore Generale ha dovuto avocare a sé oltre quaranta casi mortali, avviando una laboriosa indagine preliminare. Ciò ha fatto si che finalmente venissero completate decine di indagini preliminari. Ma, una volta rinviati a giudizio gli imputati, i processi rischiano di fermarsi per l’inadeguatezza dell’organico dei giudici del Tribunale di Gorizia, dei quali nessuno è uno specialista della materia. Attualmente un solo giudice è stato incaricato della trattazione dibattimentale di decine e decine di complessi casi di mesotelioma pleurico e di tumore polmonare derivanti da esposizione ad amianto.
Ancora una volta l’organizzazione giudiziaria non è in grado di far fronte alla pressante domanda di giustizia che viene dalle vittime dei reati.
è dunque necessario rivedere con provvedimenti urgenti l’organico del Tribunale di Gorizia in modo che sia messo in condizione di affrontare il grave carico di processi nella fase dibattimentale per i reati di mesotelioma pleurico e di tumore polmonare derivanti da esposizione ad amianto.

Ulteriore conseguenza di questa scarsa attenzione per la materia della salute e sicurezza sul lavoro è l’impossibilità di monitorare in maniera sufficiente e attendibile il lavoro delle Procure e dei Tribunali. E noto che spesso le Procure e i Tribunali non sono in grado neppure di rilevare, se non manualmente e con grande dispendio di tempo, quanti procedimenti di infortunio o malattia professionale siano stati iscritti nell’anno e quanti esauriti, dal momento che il registro generale delle notizie di reato non registra i reati per materia ma soltanto per numero dell’articolo del codice penale violato. E poiché il reato di lesioni colpose (art. 590 c.p.) prevede in maniera indifferenziata le malattie derivanti da incidente stradale, da colpa medica, da infortunio sul lavoro, ecc. ne deriva che la conoscenza del fenomeno è totalmente mancante, così come è impossibile il calcolo del lavoro degli uffici giudiziari.
Nessuno è oggi in grado di dire con certezza quanti siano in ogni ufficio giudiziario i casi denunziati di infortuni o malattia professionale, quanti siano i procedimenti archiviati, quanti si siano conclusi in dibattimento e quali siano stati gli esiti dei processi.
A questo proposito sarebbe sommamente opportuno prevedere che al momento dell’iscrizione della notizia di reato negli appositi registri, gli uffici giudiziari abbiano l’obbligo di differenziare gli omicidi colposi e le lesioni colpose per cause di lavoro da quelle dovute ad altre cause.

Queste più puntuali modalità di iscrizione concorreranno a far convergere l’attenzione sul fenomeno infortunistico e su quello delle malattie da lavoro ai quali i magistrati si sono avvicinati finora con scarsa consapevolezza delle oggettive difficoltà che insorgono nella trattazione e che sono legate soprattutto all’accertamento del nesso di causalità, alle modalità dell’esposizione ad agenti nocivi, all’accertamento delle misure di prevenzione adottate all’interno dell’azienda, all’organizzazione aziendale in materia di salute dei lavoratori, oltre che naturalmente all’accertamento delle responsabilità dei singoli.
Accade che, oberati dai procedimenti pendenti e dalle oggettive difficoltà connesse alle indagini su questi reati, i magistrati finiscano per affidare consulenze tecniche e perizie ad esperti esterni agli organi di polizia giudiziaria a cui affidano improbabili quesiti relativi non solo agli accertamenti tecnici ma anche alla violazione delle norme di prevenzione. Il risultato di questa prassi non può che essere deludente dal momento che i consulenti tecnici generalmente non sono, né debbono essere, in grado di risolvere le questioni giuridiche che sono oggetto tipico della pronunzia del giudice.
E’ dunque necessario impedire che le consulenze tecniche spesso vengano affidate a persone che hanno conoscenze della materia della sicurezza sul lavoro molto inferiori a quelle che hanno i servizi pubblici di prevenzione al cui interno si trovano specialisti di prim’ordine spesso anche con funzioni di polizia giudiziaria, i quali sono assolutamente in grado di far fronte alle esigenze di indagine della magistratura.

4. Le cause della diffusione delle malattie derivanti da lavoro e i possibili rimedi

Se all’attività dei medici, degli organi di prevenzione delle ASL e dei magistrati è possibile far risalire alcune difficoltà del lavoro di prevenzione e di repressione dei reati in materia di salute sul lavoro, è certo che la responsabilità maggiore dei danni riportati dai lavoratori deve farsi risalire alla organizzazione aziendale in materia di sicurezza e salute e alla diffusa violazione delle norme antinfortunistiche e di igiene da parte delle aziende.
Non vi è dubbio infatti che il tasso di legalità esistente in questa materia nei luoghi di lavoro del nostro Paese è assolutamente basso. Le ispezioni condotte dagli organi di prevenzione all’interno delle aziende, per quanto sporadici e relativi ad una esigua percentuale delle aziende esistenti, ci rivelano che quasi nessuna ispezione si conclude senza che si sia rilevata una diffusa violazione delle norme di prevenzione.
Durante i lunghi decenni trascorsi fino all’entrata in vigore del decreto legislativo 81/2008 sono state frequentissime e diffuse le violazioni dei DPR degli anni ’50, oggi abrogati dal T.U. n. 81/2008. Si è trattato di un fenomeno tutto italiano che ha visto, ad esempio, il DPR 547/55 sistematicamente violato da parte della stragrande maggioranza delle aziende italiane. Credo che non sia dato scorgere un esempio del genere in nessun altro paese europeo: che, cioè, ancora cinquant’anni dopo la sua entrata in vigore un testo di legge sia rimasto largamente inapplicato.
Ciò chiama in causa evidentemente i datori di lavoro e la loro organizzazione del lavoro, nella quale la sicurezza non occupa quella posizione di priorità strategica che dovrebbe avere in relazione all’importanza dei beni giuridici tutelati quali la vita, la salute e l’incolumità della persona.
Se questo accade significa che occorre porre la questione della professionalità dei datori di lavoro, soprattutto perché si tratta di una categoria che in gran parte è alla testa di strutture produttive (piccole e micro aziende) caratterizzate da una straordinaria frammentazione. La gran massa di questi datori di lavoro non ha nessuna formazione specifica in materia di sicurezza e di igiene del lavoro. Credo che l’Italia sia l’unico paese dell’Europa avanzata che, a dispetto della definizione che l’art. 2082 del codice civile dà dell’imprenditore come soggetto che professionalmente esercita l’attività di produzione e scambio di beni o di servizi, consenta di diventare imprenditori senza dimostrare di avere alcuna preparazione professionale per esercitare una funzione così delicata. E così capita che personaggi improvvisati, dopo essere stati alle dipendenze di un datore di lavoro e avere imparato un mestiere, improvvisamente “si mettano in proprio” diventando datori di lavoro. Le conseguenze di scelte così improvvide si riverberano automaticamente sulla salute e sulla incolumità dei lavoratori dipendenti ai quali datori di lavoro impreparati non riescono affatto a garantire condizioni di lavoro sicure e dignitose come dovrebbero.
è pertanto indispensabile disporre per legge che chiunque svolga funzioni di datore di lavoro a norma della definizione fornita dall’art. 2 del decreto legislativo 81/2008, frequenti appositi corsi di formazione in materia di sicurezza, che non si esauriscano nelle ridicole sedici ore di preparazione che attualmente sono obbligatorie per esercitare funzioni di RSPP nelle piccole o piccolissime aziende. Solo la formazione professionale dei datori di lavoro può alimentare la speranza di far passare nelle strategie e nell’organizzazione delle aziende una accettabile cultura della sicurezza.
Ciò che infatti manca nel nostro Paese non è la cultura specialistica della sicurezza, che anzi a volte vede significative punte di preparazione e di elaborazione. Quello che manca è invece una cultura diffusa e non specialistica della sicurezza che fin dai primi anni della formazione dei giovani faccia parte della cultura civile e della educazione civica di ciascuno.
Nella cultura dei datori di lavoro manca oggi anche l’attenzione ai temi della qualità del lavoro che incidono concretamente anche sul tema della sicurezza. La cultura del “luogo di lavoro sicuro” è orientata certamente a far diminuire il numero di infortuni e di malattie professionali ma non solo; essa si propone anche di determinare quel “benessere” che, secondo la definizione dell’OMS, è il contenuto irrinunziabile del concetto di salute. Dunque alle imprese serve non solo più legalità ma anche più professionalità e cultura della sicurezza. Certo non è con le esortazioni che si riuscirà a determinare un diverso comportamento dei datori di lavoro nella organizzazione del lavoro dei loro dipendenti. Occorrono misure che incoraggino il rispetto delle norme vigenti e che convincano i datori di lavoro che fare sicurezza e farsi carico della salute dei lavoratori è un investimento conveniente.
Occorre dunque prima di tutto introdurre e sviluppare misure premiali per le aziende che intraprendano il percorso virtuoso di conformarsi alle leggi sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori. Misure che non si riducano a quelle dei modesti sconti sui premi assicurativi, ma che incidano fortemente sui bilanci delle aziende ad esempio esonerandole dal pagamento del premio. Una misura di questo genere non sarebbe onerosa per la collettività soprattutto se confrontata ai costi umani e sociali che il fenomeno infortunistico provoca.

Contemporaneamente, peraltro, occorre provvedere a scoraggiare comportamenti criminosi. Oggi il sistema sanzionatorio vigente in Italia in materia di sicurezza del lavoro si è dimostrato del tutto inefficace: le pene sono sostanzialmente irrisorie ma soprattutto vengono applicate, in quei rari casi in cui si arriva ad una sentenza di condanna, a troppi anni di distanza dagli episodi che hanno provocato il processo penale.
Qualche rimedio il legislatore ha apportato prima con la legge di delega n. 123/07 e poi con il Testo Unico n. 81/2008, laddove ha previsto la responsabilità amministrativa degli enti in caso di condanna per infortunio sul lavoro o malattia professionale. Le misure atipiche che sono state introdotte (sospensione o interdizione dalla professione per chi ha funzione di direzione o di rappresentanza degli enti, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, sospensione delle concessioni, revoca dei finanziamenti, ecc.) mostrano un maggior grado di deterrenza di quanto non abbiano le sanzioni penali tipiche e vi è da sperare che l’applicazione che se ne farà in sede processuale rafforzi questo carattere.
Occorre pertanto insistere su questa strada introducendo sanzioni atipiche anche per quanto riguarda i soggetti persone fisiche che rivestano funzioni apicali all’interno delle aziende quando siano ritenuti responsabili personalmente dell’infortunio o della malattia professionale. Soprattutto va incoraggiata l’applicazione delle misure cautelari, della sospensione o interdizione dall’ufficio, anche prima della condanna penale, quanto vi siano decisivi elementi che fanno ritenere esistenti gravi violazioni delle norme di legge.
Abbiamo già detto che, insieme all’incoraggiamento dei comportamenti virtuosi, occorre scoraggiare i comportamenti di chi crede di poter impunemente violare le norme.
Da un lato dunque occorre accelerare i procedimenti penali in materia di infortunio e malattia professionale sfuggendo ai termini di prescrizione dei reati che sono certamente troppo brevi per le lesioni colpose gravi e gravissime, data la lentezza dei procedimenti penali ordinari nel nostro Paese. D’altro lato occorre impedire non solo che i reati finiscano estinti per prescrizione, ma anche che i processi si concludano con pene irrisorie e senza il dibattimento pubblico. Non va dimenticato infatti che il procedimento penale è l’unica occasione non solo per accertare le responsabilità di chi ha provocato l’infortunio o la malattia professionale, ma è anche l’unica occasione per rendere giustizia alle vittime dei reati e ai loro familiari. Nel nostro ordinamento processuale si sono introdotte molte garanzie per gli imputati e quasi nessuna per le parti offese.
Occorre dunque che in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali sia precluso il ricorso ai riti abbreviati (cosiddetto “patteggiamento” e rito abbreviato) quando l’imputato non abbia integralmente risarcito il danno provocato alle parti offese.

5. Alcune discutibili proposte

Per superare le innegabili difficoltà in cui si trova la magistratura nell’affrontare il tema della malattia da lavoro è stato ripetutamente proposto di abbandonare il terreno del processo penale per le malattie professionali lasciando che la partita si chiuda con l’intervento dell’ente assicuratore ed eventualmente con il risarcimento in sede civile.
Ancora recentemente l’Amministratore Delegato della società Fincantieri ha proposto che si definissero i casi delle centinaia di morti tra i lavoratori delle costruzioni navali, eliminando il giudizio penale. Ha detto in sostanza: lo Stato pensi a risarcire i danni ai familiari delle vittime e chiudiamo la partita.
A parte il fatto che non si capisce perché debba essere lo Stato e non l’azienda a risarcire i danni, la partita non può essere chiusa rinunziando al processo penale. E non solo perché vige nella nostra Costituzione il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma soprattutto perché uno Stato che si rispetti non può rinunziare a presidiare con la sanzione penale la lesione dei beni fondamentali della vita, dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori.
Si è detto che, se non ci fosse il processo, penale anche i medici sarebbero più inclini a denunziare le malattie e ad inviare i referti di malattia professionale. Temo che sia un’illusione. Oggi i medici non mettono il PM in grado di procedere penalmente per le malattie professionali. Ma anche se non ci fosse il processo penale, i medici si guarderebbero dall’esporre i datori di lavoro al rischio di dover risarcire i danni. Il problema vero è la consapevolezza civile dei medici. Essa non crescerà per nulla con l’abolizione del processo penale per omicidio o lesioni colpose. Anzi, occorre ribadire che in uno Stato di diritto non si può colposamente cagionare la morte o la malattia dei lavoratori attraverso la violazione delle norme di igiene o di sicurezza sul lavoro, senza incorrere nella sanzione penale.

Infine è opportuno rilevare che da tempo da più parti è stata avanzata la proposta di istituire una Procura Nazionale sui reati connessi agli infortuni sul lavoro, a somiglianza di quanto già avviene per la Procura Nazionale Antimafia relativamente ai reati di criminalità organizzata.
Ritengo che la proposta sia priva di fondamento dal momento che la logica che guida l’attività della Procura Nazionale Antimafia è del tutto diversa da quella che sorregge la prevenzione e la repressione dei reati di infortunio sul lavoro e di malattia professionale.
In questa materia non vi è nessuna trama organizzata che tenga insieme i reati così come invece purtroppo accade per i reati di mafia che trovano la loro origine in una rete di interessi e di infiltrazioni tenuta in piedi da un tessuto criminoso caratterizzato da forti interconnessioni tra diversi territori.
Al contrario, i fenomeni colposi che danno luogo ai reati di malattia dal lavoro sono completamente scollegati tra di loro: diverse sono le situazioni da caso a caso, diversi i settori produttivi in cui gli infortuni avvengono, diversi i livelli di organizzazione imprenditoriale. Dunque non si vede come una Procura Nazionale possa avere qualche funzione in ordine a fenomeni che hanno origini diverse, legate fortemente al territorio e alle situazioni economiche. Non si vede soprattutto come una direzione centralizzata e nazionale potrebbe favorire il perseguimento di questi reati la cui competenza, per dettato costituzionale, non può che appartenere al giudice naturale.
è necessario invece sviluppare interventi specularmene contrari. Bisogna intervenire capillarmente sulla specializzazione dei magistrati in ogni angolo del Paese e non crearne di super specializzati al centro. Occorre formare ufficiali di p.g. in ogni punto del territorio nazionale, capaci di intervenire nelle varie situazioni locali in maniera appropriata e competente. Occorre formare dei pubblici ministeri in grado di condurre indagini approfondite e magistrati giudicanti capaci di recepire i risultati delle indagini e di accertare le responsabilità penali dei vari soggetti.
La creazione di una Procura Nazionale non farebbe altro che ritardare questo processo di crescita e non apporterebbe nessun serio beneficio al tempestivo ed efficace perseguimento dei reati.

 

Il Procuratore Generale della Repubblica
presso la Corte di Appello di Firenze
Beniamino Deidda


Allegati:

  1. Linee di indirizzo in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali concordate tra le Procure del distretto Friuli Venezia Giulia e le Aziende per i servizi sanitari;

  2. Delibera C.S.M. del 28 luglio 2009 relativa alla verifica di adeguata trattazione dei reati in materia di sicurezza del lavoro presso gli uffici giudiziari.