Categoria: Cassazione penale
Visite: 1860

Cassazione Penale, Sez. 4, 07 giugno 2022, n. 21852 - Infortunio durante la pulizia delle vasche della linea di tempra prive di necessaria copertura. Obblighi datoriali: non è scriminante l'esistenza di figure preposte ad altra fascia di rischio


 

 

Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 06/04/2022
 

 

Fatto



1. La Corte d'appello di Torino, in accoglimento dell'appello proposto dal Procuratore generale avverso la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Ivrea, ha dichiarato M.V., nella qualità di datore di lavoro, quale presidente del CdA e amministratore delegato della METER S.p.A., responsabile del reato di lesioni colpose gravi ai danni del lavoratore S.M.A., posto in essere per imprudenza, negligenza e imperizia e in violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (nella specie, artt. 64, comma 1, 63, comma 1, tab. IV, punto 3.0.1 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81).

2. I fatti per cui è processo sono accaduti il 23 dicembre 2014 all'interno di uno stabilimento della METER S.p.A., nel quale si svolgeva la lavorazione di metalli, mentre il lavoratore era intento alla pulizia delle vasche della linea di tempra, in condizioni di fermo impianto. Nell'occorso, l'uomo era salito, come da prassi, su una delle vasche di forma rettangolare, dalla quale era stato già rimosso il c.d. sfangatore e sulla quale era stato previamente posizionato un coperchio in lamiera senza cerniere, per rendere l'area calpestabile. Il lavoratore aveva poggiato il piede sul coperchio in lamiera che si era spostato provocando l'immersione della gamba sinistra dell'uomo dentro la vasca e, quindi, in un bagno di sali alla temperatura di 230 °C.
All'imputato si è contestato di avere utilizzato vasche della linea di tempra prive di idonea copertura e di sistemi tali da impedire che i lavoratori potessero venire a contatto con il liquido in esse contenuto (in quanto provviste di coperture metalliche non vincolate da cerniere e, comunque, prive di sistemi atti a evitare lo spostamento o il ribaltamento dei coperchi).

3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l'imputato con proprio difensore, formulando cinque motivi.
Con il primo, ha dedotto inosservanza o erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione con riguardo al ribaltamento del giudizio assolutorio di primo grado cui la Corte d'appello è addivenuta senza procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale . La difesa censura il ragionamento esplicativo del giudice del gravame, che assume affidato alla generica affermazione secondo cui la decisione non sarebbe conseguita a una rivalutazione della prova dichiarativa, come invece sarebbe poi avvenuto nella specie avendo quei giudici aderito alla prospettazione accusatoria cristallizzata nella testimonianza SC. (ispettore SPRESAL). In particolare, il deducente rileva che il Tribunale non aveva omesso di considerare il fatto che i coperchi delle vasche fossero privi delle cerniere, ma si era preoccupato di andare oltre tale elemento, per verificare se l'omissione delle cerniere fosse stata condicio sine qua non dell'infortunio, se - in presenza di esse - si sarebbe eliminato, cioè, il rischio concretizzatosi e se l'imputato (datore di lavoro) si trovasse nelle condizioni di poter prevedere ed evitare l'evento. All'esito di tale verifica, il primo giudice aveva ritenuto che l'infortunio era stato conseguenza di una scorretta modalità di esecuzione dell'operazione di pulizia/manutenzione, la cui vigilanza spettava al preposto e non al datore di lavoro, aderendo alla prospettazione offerta dal consulente della difesa, il quale aveva rilevato che il coperchio, ove correttamente posizionato, avrebbe scongiurato l'evento, non potendo sfilarsi da sotto i piedi del lavoratore, né esser spinto via e neppure ribaltarsi improvvisamente, essendo ciò incompatibile con le caratteristiche meccaniche del sistema e con le condizioni di equilibrio, nel rispetto delle leggi della fisica e della meccanica. Peraltro, il tecnico aveva pure precisato che le cerniere (apposte successivamente) non sarebbero state idonee a eliminare il rischio di infortuni, potendo esse favorire il formarsi di incrostazioni e determinare conseguenti difficoltà di chiusura e un aumento delle probabilità di una omessa chiusura o malposizionamento dei coperchi. Nella specie, dunque, secondo il deducente, si sarebbe trattato di una vera e propria rivalutazione delle prove, fondante l'obbligo di rinnovazione secondo i principi di matrice convenzionale, come recepiti anche nell'ordinamento interno, aggiungendosi che la Corte territoriale non avrebbe neppure rispettato l'obbligo di motivazione rafforzata, non avendo fornito una esposizione dettagliata dei passaggi logico-argomentativi seguiti, nè esaminato e confutato le deduzioni difensive.
Con un secondo motivo, la difesa ha dedotto inosservanza o erronea applicazione di altre norme giuridiche, questa con riferimento alle violazioni delle regole antinfortunistiche contestate al datore di lavoro, evidenziando che la sentenza di condanna si reggerebbe su due assunti, entrambi erronei: da un lato, le violazioni non sarebbero inerenti al caso concreto, atteso che l'art. 64 del d.lgs. n. 81 del 2008 sarebbe norma intesa a evitare che i lavoratori possano entrare in contatto con liquidi e sostanze pericolose, il legislatore avendo previsto che, nel caso in cui per esigenze tecniche non possano essere realizzate chiusure a tenuta ermetica, debbano adottarsi altre idonee misure di sicurezza; nel caso di specie, le cautele sarebbero state adottate, essendosi prevista la segregazione e automatizzazione dell'impianto e la dotazione di coperture delle vasche, perfettamente calzanti e solide.
Con un terzo motivo, la difesa deduce analogo vizio e vizio della motivazione quanto alla verifica del nesso causale tra la condotta e l'evento, rilevando che l'originario errore interpretativo ne aveva generati altri. La Corte territoriale, dando per scontato che vi fosse stata la violazione di una norma antinfortunistica, non aveva condotto la verifica della corretta dinamica del sinistro, della condotta effettivamente rimproverabile al datore di lavoro e del nesso causale tra la stessa e l'evento. L'imputato, nella specie, aveva correttamente adempiuto agli obblighi e ai doveri connessi al suo ruolo, predisponendo una precisa organizzazione aziendale interna in materia di sicurezza che prevedeva la presenza di preposti per ciascuna unità produttiva, specifiche procedure lavorative e la formazione dei lavoratori; né egli aveva mai ricevuto da dipendenti e preposti segnalazioni di pericoli o altre criticità nella esecuzione della pulizia delle vasche.
Con un quarto motivo, ha dedotto vizio di manifesta illogicità della motivazione in relazione al diniego dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6, cod. pen., avendo la Corte d'appello erroneamente valutato i tempi dell'avvenuto risarcimento del danno alla persona offesa, occorsi'.'.ìprima dell'apertura del dibattimento.
Con il quinto motivo, infine, la difesa ha dedotto mancanza della motivazione quanto alla scelta della pena alternativamente prevista, non avendo i giudici territoriali indicato le ragioni della scelta di una pena detentiva nei confronti di soggetto incensurato che aveva adempiuto alle prescrizioni impartite dallo SPRESAL già nel corso delle indagini preliminari e risarcito il danno. Del tutto immotivata, poi, è stata la sospensione della pena, neppure richiesta.

 

Diritto




1. Il ricorso va accolto limitatamente alla attenuante di cui all'art. 62 n. 6, cod. pen. e rigettato nel resto.

2. La Corte territoriale ha dato atto che il Tribunale aveva ricostruito il fatto, in termini pacifici, sulla scorta dei contributi dichiarativi e documentali acquisiti e delle valutazioni del tecnico della difesa, dalle quali aveva inferito l'esistenza di una spiegazione alternativa plausibile dell'infortunio, secondo cui il lavoratore sarebbe scivolato perché il coperchio era stato mal posizionato. Pertanto, muovendo da tale presupposto, aveva ritenuto che l'accaduto non fosse addebitabile a colposa inosservanza di precetti antinfortunistici da parte del datore di lavoro, esso inerendo piuttosto alle modalità esecutive dello specifico tipo di lavorazione, di pertinenza di altre figure di garanti (nella specie, il preposto, il quale non aveva mai denunciato anomalie nella esecuzione di quella lavorazione).
Nel recepire le argomentazioni svolte dal Procuratore generale appellante, la Corte territoriale ha ritenuto, intanto, non necessario procedere alla rinnovazione dell'istruzione, atteso che le censure non inerivano alla valutazione delle prove dichiarative, ma ad un erroneo giudizio del Tribunale che non aveva tenuto conto di un aspetto dirimente, ossia la rilevata e pacifica violazione della normativa antinfortunistica da parte del datore di lavoro che aveva omesso di dotare le vasche di idonea copertura e di sistemi atti a interdire il contatto tra i lavoratori e il liquido in esse contenuto.
Data per accertata e non contestata la circostanza che il contatto tra l'arto del lavoratore e il liquido ustionante era avvenuto a causa di un ribaltamento del coperchio della vasca, la Corte ha precisato come fosse rimasto definitivamente accertato che esso era sfornito di cerniere di chiusura, di qui la prescrizione da parte dell'organo di vigilanza.
Ne è derivata l'affermazione della penale responsabilità del datore di lavoro, al quale incombeva l'onere di provvedere alla messa in sicurezza dell'impianto nei termini di cui sopra, una volta accertata l'omessa, doverosa adozione proprio del presidio di sicurezza, la cui presenza avrebbe certamente impedito il verificarsi dell'infortunio. Di qui anche la irrilevanza della prospettazione difensiva, secondo cui il ribaltamento del coperchi sarebbe stato conseguenza di un errato posizionamento da parte della persona offesa o di altro lavoratore: l'apposizione delle cerniere di ancoraggio delle coperture delle vasche (che, invece, erano solo appoggiate e non incastrate nella loro sede), in uno con la prescrizione di provvedere ad assicurarle prima di salire sui coperchi, infatti, avrebbero reso stabile e sicura la superficie di lavoro e scongiurato il prevedibile pericolo di ribaltamento anche in caso di impreciso posizionamento da parte degli addetti.
In punto trattamento sanzionatorio, poi, quel giudice ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche in termini di prevalenza, negando però l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6, cod. pen., poiché ha ritenuto che il risarcimento del danno, avvenuto il 27/6/2016 e accettato dal lavoratore, che aveva rinunciato a costituirsi parte civile, era seguito all'apertura del dibattimento avvenuta all'udienza del 21/7/2016, determinando la pena con riguardo alla gravità del fatto, in relazione alle gravissime lesioni riportate dalla persona offesa.

3. Va, innanzitutto, esaminata la preliminare questione posta con il primo motivo, avuto riguardo alla valutazione del compendio probatorio di natura dichiarativa e alle conseguenze della mancata riassunzione delle testimonianze da parte del giudice d'appello che addivenga a un ribaltamento del verdetto assolutorio di primo grado.
L'art. 1 comma 58, della legge 23 giugno 2017, n. 103, in vigore dal 3 agosto 2017, ha inserito all'art. 603 del codice di rito il comma 3-bis, in base al quale, nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale.
Il principio recepito dalla norma costituisce il precipitato di un percorso già avviato dalla giurisprudenza di legittimità - all'indomani della sentenza della Corte E.D.U. 5/7/2011 nel caso Dan e/ Moldavia - secondo cui, in caso di reformatio in peius da parte del giudice d'appello, questi ha l'obbligo di rinnovare l'istruttoria e di escutere nuovamente i dichiaranti, qualora valuti diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado (ex multis, sez. 5 n. 29827 del 13/3/2015, Rv. 265139; sez. 6, n. 44084 del 23/9/2014, Rv. 260623; sez. 3 n. 11658 del 24/2/2015, Rv. 262985). Il principio era stato dapprima interpretato in maniera non assoluta, essendosi di volta in volta ravvisati alcuni contemperamenti e la questione, a fronte di talune divergenti interpretazioni delle sezioni semplici di questa Corte, ha costituito oggetto di una complessiva rivisitazione e puntualizzazione da parte delle Sezioni Unite (cfr. sent. n. 27620 del 2016, Dasgupta), chiamate nello specifico a risolvere il profilo della rilevabilità d'ufficio - in sede di giudizio di cassazione - della violazione dell'art. 6 CEDU per avere il giudice d'appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado affermando la responsabilità penale dell'imputato esclusivamente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di testimoni senza procedere a nuova escussione degli stessi.
In quella sede, il Supremo Collegio ha ribadito tale necessità affermando che deve ritenersi affetta da vizio di motivazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
Tale orientamento è stato anche successivamente ribadito (cfr. Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269787), allorquando il Supremo Collegio ha evidenziato la stretta correlazione tra il dovere di motivazione rafforzata da parte del giudice della impugnazione, in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado, il canone "al di là di ogni ragionevole dubbio", il dovere di rinnovazione della istruzione dibattimentale e i limiti alla reformatio in peius, in particolare osservando che, la regola "oltre ogni ragionevole dubbio" « pretende ... ... percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standards conclusivi di alta probabilità logica, dovendosi riconoscere che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova». In altri termini, secondo le Sezioni Unite Patalano, l'assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado travalica ogni pretesa di simmetria tra il primo e il secondo grado di giudizio, implicando l'esistenza di una base probatoria che induce «quantomeno il dubbio sulla effettiva valenza delle prove dichiarative ».
Tuttavia, la Corte ha avvertito che tali principi valgono - sia per il giudizio ordinario che per quello abbreviato - solo nei casi in cui di differente "valutazione" del significato della prova dichiarativa si possa effettivamente parlare: non perciò quando il documento che tale prova riporta risulti semplicemente "travisato", quando, cioè, emerga che la lettura della prova sia affetta da errore "revocatorio", per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) e, perciò, non può sorgere alcuna esigenza di rivalutazione di tale contenuto attraverso una nuova audizione del dichiarante.
I principi sopra richiamati sono stati, peraltro, più di recente ulteriormente calibrati (Sez. U, n.14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430): la presunzione d'innocenza e il ragionevole dubbio, si è affermato, impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione al diverso epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l'assoluzione, differenza che ha evidenti riflessi anche sul piano della estensione dell'obbligo di motivazione. Esso, infatti, si atteggia in modo diverso a seconda che si verta nell'una o nell'altra ipotesi: in caso di sovvertimento di una sentenza assolutoria, al giudice d'appello si impone l'obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio; per il ribaltamento di una condanna, invece, egli può limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla scorta di un'operazione di tipo essenzialmente demolitivo (pur avendo cura di precisare che, in tal caso, deve trattarsi di ricostruzioni alternative non solo astrattamente ipotizzabili, ma la cui plausibilità risulti ancorata alle evidenze processuali).

4. Di tali principi la Corte territoriale ha fatto buon governo nel caso all'esame e il primo motivo deve ritenersi infondato.
Infatti, evidentemente edotto della configurabilità di un problema di rinnovazione istruttoria, alla luce del consolidato orientamento di legittimità sopra richiamato e, soprattutto, della introdotta modifica legislativa, quel giudice ha ritenuto che la valutazione delle prove dichiarative operata nella sentenza appellata fosse sostanzialmente sovrapponibile a quella esitata nel verdetto di condanna e che il divergente epilogo fosse conseguenza della mera correzione di un errar in iudicando nel quale sarebbe incorso il primo giudice.
La difesa assume che la Corte d'appello avrebbe rivalutato la prova dichiarativa (nella specie il riferito del teste S.PRE.SAL. e del consulente della difesa) per addivenire a una conclusione allineata con l'ipotesi accusatoria, affermando che il Tribunale non aveva omesso di valutare la circostanza che i coperchi delle vasche non era dotati di cerniere, ma che essa era stata considerata irrilevante.
Su tale ultimo aspetto, le conclusioni dei due giudici divergono: il primo, infatti, ha operato la verifica controfattuale sulla base della ricostruzione offerta dal consulente della difesa, secondo il quale il ribaltamento del coperchio sarebbe stato conseguenza di un suo errato posizionamento da parte del lavoratore o di altri addetti. Cosicché, alcun rimedio poteva muoversi al datore di lavoro, riguardando tale aspetto della sicurezza le modalità esecutive della lavorazione, alle quali altre figure di garanti erano preposte.
La Corte d'appello, invece, ha preso le mosse dal tenore dell'addebito specificamente mosso e da quanto accertato in maniera non contestata nel giudizio (vale a dire che i coperchi non erano assicurabili alle vasche mediante cerniere o altri dispositivi di sicurezza), per rilevare che l'accidentale ribaltamento della copertura, anche ove ricollegabile alla negligenza del lavoratore, costituiva proprio la concretizzazione del rischio che la norma violata era intesa a scongiurare, quello cioè del contatto - anche accidentale - tra il corpo del lavoratore e il liquido pericoloso. Nessuna violazione del protocollo probatorio come sopra descritto è, dunque, riscontrabile nella specie: contrariamente agli assunti difensivi, la Corte d'appello non ha valutato diversamente le risultanze dichiarative, rimaste fissate nei termini di cui alla sentenza appellata, ma - proprio muovendo dall'assunto difensivo (secondo cui il coperchio sarebbe stato malamente apposto dal lavoratore) - ha osservato che la predisposizione del presidio di sicurezza, espressamente indicato dalla legge, avrebbe scongiurato lo scivolamento del coperchio, a prescindere dall'erronea esecuzione della manovra da parte dell'addetto, cosicché il contatto che ne era derivato aveva costituito esattamente l'evento che la norma cautelare era intesa a evitare.
In ciò ha, dunque, correttamente ravvisato l'errore in diritto del primo giudice che, muovendo dall'assunto che il coperchio fosse stato malamente posizionato, ha ritenuto che nessuna violazione potesse attribuirsi al datore di lavoro, al quale non compete il controllo sulla fase esecutiva delle lavorazioni. Nel far ciò, tuttavia, ha del tutto omesso un confronto con l'addebito specificamente contestato, quello cioè di non aver previsto che le coperture delle vasche fossero dotate di presidi che ne garantissero la inamovibilità nel momento cui dovevano essere utilizzate quali superficie di lavoro dagli addetti alla pulizia/manutenzione.
Né la denunciata violazione di legge è rinvenibile con riferimento alla consulenza tecnica di parte, rispetto alla quale non emerge alcuna differente valutazione delle conclusioni del tecnico, a nulla rilevando, invece, le difformi conclusioni in punto di corretto inquadramento della fattispecie, costituendo questo compito precipuo del giudice al quale spetta, in definitiva, anche alla luce del parere espresso dal tecnico, di stabilire se il presidio fosse o meno adeguato a prevenire il rischio specificamente considerato. In via risolutiva, nel caso di specie, non si può - già sul piano logico - evocare una difformità nella valutazione delle prove da parte dei giudici dei due gradi merito: il primo, infatti, si è affidato a una ricostruzione dell'infortunio che non cambiava i termini della questione devoluta, vale a dire se l'evento dannoso fosse stato conseguenza dell'assenza del presidio di sicurezza non predisposto.
Del tutto generica è poi la doglianza con la quale si è prospettata violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata, avuto riguardo alla natura dell'errore rilevato e alla non contestata ricostruzione dei fatti (anche ove recepita quella prospettata dal consulente della difesa).

5. Il secondo e il terzo motivo sono manifestamente infondati.
Con specifico riguardo alla individuazione della regola cautelare la cui violazione fonda l'addebito colposo e alla sua portata prevenzionale ai fini della verifica della concretizzazione, nel prodursi dell'evento concreto, del rischio che la stessa è intesa a prevenire, deve ribadirsi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte di legittimità, che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire, sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (ex multis, sez. 4, n.32216 del 20/6/2018, Capobianco, Rv. 273568; n. 24462 del 6/5/2015, Ruocco, Rv. 264128; n. 5404 del 8/1/2015, Corso, Rv. 262033; n. 43645 del 11/10/2011, Putzu, Rv. 251930).
La verifica operata dalla Corte territoriale è coerente con tali principi.
La disamina della doglianza non può che muovere dalla lettura della norma che fissa la regola cautelare violata. L'art. 64, comma 1, lett. a) del d. lgs. n. 81/2008 espressamente prevede che« Il datore di lavoro provvede affinché: a) i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'art. 63, commi 1, 2 e 3»; a sua volta, la norma richiamata prevede al primo comma che «I luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV». Al punto 3.9.1. dell'allegato richiamato, con riferimento alle "vasche, canalizzazioni, tubazioni, serbatoi, recipienti e silos", è espressamente stabilito che i serbatoi e le vasche contenenti liquidi o materie tossiche, corrosive o altrimenti pericolose, compresa l'acqua a temperatura ustionante, devono essere provvisti di chiusure che per i liquidi e materie tossiche devono essere a tenuta ermetica e per gli altri liquidi e materie dannose essere tali da impedire che i lavoratori possano venire a contatto con il contenuto (3.9.1.1.); e di tubazioni di scarico di troppo pieno per impedire il rigurgito o traboccamento (3.9.1.2.). Infine, al punto 3.9.2., si precisa che, qualora per esigenze tecniche le disposizioni di cui al punto 3.9.1.1. non siano attuabili, devono adottarsi altre idonee misure di sicurezza.
La difesa assume che tali norme non riguarderebbero il caso di specie, atteso che la disposizione sopra riportata avrebbe lo scopo di evitare che i lavoratori possano entrare in contatto con liquidi e sostanze pericolosi e richiama il punto 3.9.2. per affermare che le chiusure a tenuta ermetica possono essere sostituite da altre idonee, qualora per esigenze tecniche non siano attuabili le disposizioni di al punto 3.9.1.1.
Da ciò inferisce altresì che, nella specie, le cautele erano state adottate (indicando però misure che riguardano la segregazione delle vasche e non la assicurazione delle coperture alle stesse) e che i coperchi costituirebbero i presidi di sicurezza da adottare per la non attuabilità delle cerniere . Trattasi di un assunto del tutto scollegato dalle evidenze probatorie e soprattutto ancora una volta inficiato dall'errore che ha riguardato la stessa sentenza appellata: nella specie, la sola apposizione della copertura non è stato considerato presidio adeguato a scongiurare i rischi contemplati dalle norme cautelari.
Anche le argomentazioni difensive che attengono all'elemento soggettivo dell'addebito colposo non colgono nel segno, esse muovendo, ancora una volta, dall'errato presupposto che, nella specie, la norma cautelare violata inerisse alla fase della esecuzione della lavorazione di pulizia/manutenzione. Al M.V., tuttavia, non è stato contestato, come sembra affermarsi in ricorso, di non aver vigilato sulle fasi esecutive della lavorazione, bensì di non aver predisposto uno specifico presidio di sicurezza (cerniere o altro strumento che garantisse la inamovibilità della copertura dei serbatoi durante l'utilizzo di essa come piano di calpestio), del quale le vasche e le relative coperture erano certamente prive, non già perché non utilizzate dai lavoratori addette, ma proprio perché inesistenti.
Inutile, dunque, invocare il principio di colpevolezza e evidenziarne la violazione da parte del giudice del gravame: esso certamente impone, nella materia in esame, anche la verifica in concreto della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mira a prevenire (sez. 4, n.32216 del 20/6/2018, Capobianco, Rv. 273568, cit.). La colpa, infatti, in base alla formula legale contenuta nell'art. 43 cod. pen., presenta un tratto di carattere eminentemente oggettivo e normativo, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare che esprime la funzione di orientare il comportamento dei consociati e l'esigenza di un livello minimo e irrinunciabile di cautele; ma anche un tratto di natura più squisitamente soggettiva, che serve a segnare il confine con l'imputazione dolosa e indica la capacità soggettiva dell'agente di osservare la regola cautelare, ossia la concreta possibilità di pretendere l'osservanza della regola stessa: in poche parole, l'esigibilità del comportamento dovuto. Si tratta di un aspetto che può essere collocato nell'ambito della colpevolezza, poiché esprime il rimprovero personale rivolto all'agente, il tentativo cioè di rendere personalizzato il rimprovero dell'agente attraverso l'introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga conto non solo dell'oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche della concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali (in motivazione, Sez. U, n. 38343 del 2014 Espenhahn, richiamata anche in sez. 4 n. 12175 del 2017, Bordogna e in sez. 4 n. 22022 del 2018 Tupini).
Nel caso all'esame, la Corte d'appello ha ben evidenziato che la mancata predisposizione del presidio non consentiva di scongiurare proprio il rischio che, da un errato posizionamento del coperchio, potesse derivare il contatto del corpo dell'addetto con il liquido.
Trattasi di adempimento che rientra negli obblighi datoriali, rispetto al quale non è scriminante la esistenza di eventuali figure di garanti preposti ad altra fascia di rischio (quale, nella specie, sarebbe stato quello che, in via del tutto congetturale, la difesa ha indicato per dimostrare l'inadeguatezza del presidio mancante, vale a dire il fatto che la cerniera poteva essere ignorata dal lavoratore).

7. Il quarto motivo è, invece, fondato.
Questa Corte di legittimità e questa stessa sezione hanno più volte precisato che l'adempimento che dà luogo alla circostanza attenuante dell'integrale risarcimento del danno deve intervenire prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (sez. 4, n. 1528 del 17/12/2009, dep. 2010, Iacchelli, Rv. 246303; sez. 3, n. 18937 del 19/1/2016, 5., Rv. 266579, in cui in motivazione si è precisato che l'attenuante presuppone una dimostrazione di spontaneo ravvedimento, non condizionata dall'andamento del dibattimento; sez. 3n. 17864 del 23/1/2014, C., Rv. 261498).
Nel caso di specie, oltre a ravvisarvi la segnalata incongruenza contenuta nella sentenza impugnata (in cui si dà atto che la persona offesa il 27/6/2016 aveva rinunciato alla costituzione di pare civile avendo sottoscritto quietanza, senza data, ma che essa doveva ritenersi tardiva rispetto a una apertura del dibattimento avvenuta all'udienza del 21/7/2016), deve rilevarsi che la circostanza dell'avvenuto satisfattivo risarcimento si ricava dalla quietanza datata e sottoscritta dall'interessato, cosicchè deve ritenersi che la risposta della Corte d'appello sul punto sia del tuta incongrua, oltre che palesemente contraddittoria, non avendo la stessa spiegato perché gli elementi ricavabili dalla documentazione preesistente depositata all'udienza del 21 luglio 2016 non fossero sufficienti ai fini del riconoscimento dell'elemento circostanziale di che trattasi.

8. Dall'accoglimento del quarto motivo di ricorso deriva l'assorbimento del quinto, inerente al trattamento sanzionatorio che dovrà essere rivalutato alla luce del rinnovato giudizio sul punto che precede, da operarsi alla stregua dei principi sopra richiamati. Il ricorso va, invece, rigettato nel resto.

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla statuizione relativa all'attenuante di cui all'art. 62 n. 6, c.p., con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Rigetta il ricorso nel resto.
Deciso il 6 aprile 2022