Tribunale di Bari, Sez. 1 Pen., 22 giugno 2022 - Responsabilità degli enti ex d. lgs. 231/2001: ammissibile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova


 




IL GIUDICE MONOCRATICO DEL TRIBUNALE DI BARI
Prima Sezione Penale
Dott. Antonio Donato Coscia

all'esito dell'udienza del 16.6.2022, ha emesso la seguente

ORDINANZA
 


Con decreto emesso il 4.12.2017, il Pubblico Ministero ha citato a giudizio, oltre alle persone fisiche _____________ e alla società _________  S.R.L., pure la società ________ S.R.L.UNIPERSONALE, con sede legale ad _____________ perché quest'ultima risponda dell'illecito amministrativo dipendente da reato previsto dall'art. 25 septies del D.Lgs. n. 231/2001.
Non è stato possibile celebrare l'udienza del 7.9.2018, a causa delle note vicende di edilizia giudiziaria che hanno interessato la sede del Tribunale di Bari in quel periodo.
All'udienza del 5.6.2019 la persona offesa ______________ s'è costituita parte civile nei soli confronti dell'imputata _______________; il Giudice ha risolto le questioni preliminari sollevate da alcuni difensori e il difensore dell'imputata ________ ha preannunciato la volontà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Su richiesta della parte civile, con apposito decreto, si è poi ordinata la citazione del responsabile civile per il fatto degli imputati.
All'udienza del 13.11.2019, si è rinviato il processo per la maturazione dei termini di legge.
Non è stato possibile celebrare l'udienza del 15.3.2020, in ragione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19.
All'udienza del 14.10.2020, il processo è stato nuovamente rinviato, in ragione di irregolarità della notificazione dell'ordine di citazione del responsabile civile.
All'udienza del 13. l.2021, si è dato atto di un mutamento della persona fisica del giudice.
Dopodiché, il difensore dell'incolpata _____________ S.R.L. UNIPERSONALE ha manifestato la volontà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Essendo nel frattempo pervenuto il programma di trattamento riferito all'imputata M., si è disposto lo stralcio dal procedimento della posizione di quest'ultima.

All'udienza del 6.10.2021, si è dato atto della cancellazione dal registro delle imprese dell'incolpata __________ S.R.L.
Il processo è stato poi rinviato a causa di un legittimo impedimento del difensore dell'incolpata ________ S.R.L. UNIPERSONALE.
All'udienza del 26.1.2022, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il difensore dell'incolpata _____________ S.R.L. UNIPERSONALE, munito di procura speciale, ha formalizzato la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova e il Giudice ha disposto lo stralcio dal procedimento della posizione dell'incolpata.
All'udienza del 18.5.2022, si è rinviato il processo, non essendo ancora pervenuto il programma di trattamento.
Infine, all'udienza del 15.6.2022, è pervenuto il programma di trattamento elaborato d'intesa con l'ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Puglia e la Basilicata.
Il Pubblico Ministero si è rimesso alle determinazioni del Giudice. Preliminarmente all'esame dell'istanza e dell'allegato programma di trattamento, è opportuno interrogarsi sull'astratta applicabilità dell'istituto della messa alla prova nel procedimento di accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.
A tale riguardo, si osserva che la disciplina dell'istituto, rinvenibile negli artt. 168 bis ss. c.p. e 464 bis ss. c.p.p., individua il soggetto legittimato a formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nell'imputato, senza menzionare in maniera espressa anche/'ente incolpato di un illecito amministrativo dipendente da reato. Inoltre, gli artt. 62 ss. del D.Lgs. n. 231/2001, nel contemplare previsioni specifiche per i procedimenti speciali nei confronti degli enti, non menzionano, tra questi, anche la messa alla prova.
D'altro canto, l'art. 34 del D.Lgs. n. 231/2001 prevede l'applicabilità delle norme del codice di procedura penale, se compatibili, al procedimento d'accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, mentre il successivo art. 35, rubricato "estensione della disciplina relativa a/l'imputato", in maniera più specifica stabilisce l'applicabilità all'ente delle "disposizioni processuali relative a/l'im­ putato, in quanto compatibili".
Si tratta, quindi, di stabilire se sulla base di tali disposizioni la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere presentata pure dall'ente incolpato di un illecito amministrativo dipendente da reato.
La questione allo stato risulta esser stata affrontata solo in seno alla giurisprudenza di merito, la quale non è giunta a conclusioni univoche.
Il Tribunale di Milano con ordinanza del 27.3.2017 si è espresso in senso negativo. S'è affermato che l'applicazione all'ente dell'istituto della messa alla prova si ri­ solverebbe in un'applicazione analogica delle disposizioni sopra richiamate di cui occorre verificare l'ammissibilità.
A tale fine, il Tribunale ha richiamato Cass. pen. SS. UU. n. 36272 del 2016, nella parte in cui ha riconosciuto all'istituto della messa alla prova natura giuridica sia processuale, trattandosi di un procedimento speciale, nell'ambito del quale "l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo,,, sia sostanziale, giacché la prestazione del lavoro di pubblica utilità - costituente uno dei contenuti della messa alla prova - è qualificabile come una sanzione penale non detentiva, "che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto" (la natura ibrida, sostanziale e processuale, dell'istituto è stata affermata pure da Corte cast. sent. n. 240 del 2015).
Muovendo da tale presupposto il Tribunale ha ritenuto che l'applicazione dell'istituto della messa alla prova all'ente determinerebbe una violazione dei principi di riserva di legge e di tassatività della legge penale, intesi quali corollari del principio di legalità in senso formale, sancito dall'art. 25, c. 2, Cast., nonché, a livello sovranazionale, dall'art. 7 della CEDU, costituente un parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell'art. 117 Cast.
Infatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il principio di legalità è riferito sia alle previsioni contenenti il precetto penale, sia a quelle recanti la pena.
Ne consegue che, essendo I'istituto della messa alla prova riconducibile al novero delle sanzioni penali, in ragione della sua natura (pure) sostanziale, è preclusa l'applicazione analogica della relativa disciplina, la quale violerebbe anche la riserva di legge, che nella materia delle pene è assoluta.
Ha opinato in senso diverso il Tribunale di Bologna con ordinanza del 10.12.2020, ritenendo non condivisibile la qualificazione della prestazione di lavoro di pubblica utilità alla stregua di sanzione penale, sulla base dell'orientamento giurisprudenziale secondo il quale "il trattamento programmato non è[ ••• ] una sanzione penale, eseguibile coattiva­ mente, ma dà luogo a un'attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, il quale liberamente può farla cessare con l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso 11 (Corte cost. sent. n. 91 del 2018).
Secondo questa tesi, insomma, la natura sostanziale dell'istituto deriverebbe solo dalla configurazione di una causa di estinzione del reato in ipotesi di esito positivo della messa alla prova.
Nondimeno, secondo il Tribunale di Bologna, l'applicazione analogica è comunque impossibile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il D.Lgs. n. 231/2001, in realtà, è intenzionale, rispecchiando essa la precisa scelta del legislatore di escludere l'ente dall'ambito soggettivo di applicazione dell'istituto.
Questa scelta, secondo il Tribunale, è la conseguenza di un'incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. n. 231/2001, connotate da ratio diverse e tra loro inconciliabili.
In particolare, esaminando i contenuti della messa alla prova previsti dalla legge, il Giudice ha concluso che l'istituto persegua una finalità "non soltanto special-preven­ tiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa", la cui attuazione, sempre se­ condo il Tribunale di Bologna, è inconcepibile in relazione a un ente.
Neppure il Tribunale di Spoleto, con ordinanza del 21.4.2021, ha ritenuto condivisibile la motivazione dell'ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, in base ad argomentazioni in parte diverse rispetto a quelle addotte dal Tribunale di Bologna.
In particolare, si è osservato che l'applicazione analogica dell'istituto della messa alla prova non contrasta col principio di tassatività della legge penale, poiché è in bonam partem, "attribuendo ulteriori chances difensive all'ente-imputato, che, tramite la volontaria sottoposizione a un programma trattamentale, ben potrebbe sottrarsi al giudizio ordinario e quindi alla eventuale applicazione di sanzioni anche fortemente afflittive ".
Cionondimeno, pure il Tribunale di Spoleto ha ritenuto impossibile l'applicazione analogica all'ente della disciplina della messa alla prova, adducendo delle ragioni ulteriori e in parte diverse rispetto a quelle illustrate nell'ordinanza emessa dal Tribunale di Bologna.
Si è affermato, in primis, che l'operazione analogica sarebbe ostacolata da incertezze operative", nella misura in cui "rimarrebbe imprecisato l'ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti, non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità, a differenza di quanto previsto per gli imputati persone fisiche, a cui l'art. 168 bis c.p. accorda il beneficio della messa alla duplice condizione che non ne abbiano già usufruito in precedenza e che si proceda per reati puniti con pena pecuniaria ovvero detentiva non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione".
Infatti, "Ogni possibile alternativa - consentire la messa alla prova per tutti gli illeciti dipendenti da reato sull'assunto che le sanzioni interdittive sono comunque meno gravi di quelle detentive; oppure consentirla solo per quegli illeciti dipendenti da reati per i quali anche le persone fisiche possono accedere alla probation [... ]; oppure ancora consentirla solo per gli illeciti puniti con la sanzione pecuniaria e/o interdittiva non superiore ad anni quattro, muovendo dalla premessa che le sanzioni detentive per le persone fisiche sarebbero equipollenti alle sanzioni interdittive per gli enti - si tradurrebbe in una indebita forma di creazione del diritto, potere che per ovvie ragioni esula da quelli istituzionalmente attribuiti a un organo giurisdizionale. ".
Il Tribunale di Spoleto ha poi aderito alla tesi dell'intenzionalità della lacuna normativa affermata dal Tribunale di Bologna, precisando che la scelta legislativa di escludere l'ente dall'ambito di applicazione soggettivo della disciplina della messa alla prova è desumibile, da un lato, dal principio di autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella dell'autore del reato presupposto enunciato dall'art 8 del D.Lgs. n. 231/2001 e, dall'altro, dalla mancata menzione della messa alla prova nelle previsioni specifiche per i procedimenti speciali nei confronti degli enti contenute negli artt. 62 ss. del D.Lgs. n. 231/2001.
Inoltre, sempre secondo il Tribunale di Spoleto, l'operazione analogica determinerebbe una sostanziale elusione dell'art. 17 del D.Lgs. n.231/2001.
Infatti, tale norma già prende in considerazione le attività che costituiscono l'oggetto della messa alla prova, riconducendovi, però, un effetto giuridico diverso dall'estinzione dell'illecito, consistente nell'applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite. A quest'ultima conclusione, secondo il Tribunale di Spoleto, conduce "un argomento storico-comparatistico, dovendosi considerare che "la disciplina della responsabilità c.d amministrativa delle persone giuridiche è stata mutuata dagli ordinamenti nordamericani, nei quali però le condotte riparative e ripristinatorie post delictum sono poste alla base dei deferred prosecution agreement ovvero dei non prosecution agreement, vale a dire accordi con il rappresentante dell'accusa per rinunciare all'esercizio dell'azione penale, con la conseguenza che "la tesi secondo cui nell'impianto normativo del D. Lgs. 231/01 andrebbe innestato anche in via esegetica, in virtù di esigenze di coordinamento e di complessiva armonia del sistema - l'istituto della messa alla prova intro­ dotto solo successivamente con legge n. 67/2014, finisce per tradire la filosofia che ha ispirato la disciplina italiana della responsabilità da reato degli enti, posto che il legislatore del 2001 ha evidentemente voluto prendere le distanze dal modello diffuso nei sistemi d'oltreoceano, consapevolmente prevedendo nel caso di condotte riparative e/o ripristinatorie successive al compimento dell'illecito una attenuazione del trattamento sanzionatorio, ma non un'esclusione di responsabilità.
Il Tribunale di Modena, con ordinanza dell'11.12.2019, s'è invece discostato dalle decisioni illustrate, disponendo la sospensione del procedimento con la messa alla prova di un ente e ritenendo, pertanto, applicabile l'istituto anche alle persone giuridiche.
Con successiva ordinanza del 15.12.2020, tuttavia, ha precisato che "l'ammissibilità dell'ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova [è] subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società, ovvero l'essersi dotata, prima del fatto, di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché "solo in tal caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura "rieducazione" dell'ente, che dimostrerebbe, così, di essere stato diligente e di avere adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche, per quanto valutato non idoneo dal giudice".
Questo Giudice ritiene di aderire alla tesi dell'ammissibilità della messa alla prova dell'ente, per le ragioni e nei termini illustrati di seguito.
Innanzitutto, non merita condivisione l'argomentazione, secondo la quale l'applicazione della disciplina della messa alla prova all'ente determinerebbe una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale.
Infatti, il divieto d'analogia della legge penale opera soltanto quando genera effetti sfavorevoli per l'imputato, in virtù della ratio del principio di legalità- di cui il principio di tassatività costituisce un corollario - volto a garantire la libertà personale del cittadino a fronte di possibili arbitri dei poteri esecutivo e giudiziario.
Ciò non accade nel caso di specie, giacché, come osservato dal Tribunale di Spoleto, la legittimazione dell'ente a presentare richiesta di messa alla prova determinerebbe un ampliamento del ventaglio di procedimenti speciali nella sua disponibilità, consentendogli una migliore definizione della strategia processuale.
Più precisamente, l'effetto favorevole conseguente all'applicazione dell'istituto si apprezza nella possibilità, rimessa alla libera scelta dell'imputato, di ottenere l'estinzione del reato senza espiazione di una pena detentiva o pecuniaria in caso di condanna, la quale viene sostituita con lo spontaneo assolvimento di una serie di obblighi (i.e. la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, qualora possibile, il risarcimento del danno cagionato; l'affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può comprendere, per esempio, attività di volontariato di rilievo sociale; la prestazione di lavoro di pubblica utilità). Tale effetto favorevole non viene meno neanche in conseguenza dell'omissione dell'udienza preliminare e del dibattimento e delle relative garanzie (tra cui l'esercizio del contraddittorio e per suo tramite il criterio valutativo della certezza oltre ogni ragionevole dubbio), giacché essa è frutto di una rinuncia dell'imputato, costituzionalmente ammessa.
La circostanza che, nel caso di specie, sia rispettata la ratio garantista del principio di legalità esclude, analogamente, una violazione del principio di riserva di legge, costituente anch'esso corollario del primo, a prescindere dalla risoluzione della questione, dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, sulla qualificazione degli obblighi conseguenti alla messa alla prova in termini di sanzione penale.
Peraltro, va chiarito che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Milano, in realtà il ricorso all'analogia non collide mai, in maniera diretta, col principio di riserva di legge, giacché è pur sempre in una disposizione di legge che si prendono le mosse per la regolamentazione del caso non previsto espressamente, ponendosi, al più, come visto, problemi dal punto di vista della tassatività della legge penale, nel caso di specie insussistenti.
Ciò posto, questo Giudice non ritiene che il difetto di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al D.Lgs. n. 231/2001 sia l'espressione della scelta del legislatore d'escludere gli enti dall'ambito soggettivo d'applicazione dell'istituto.
È opportuno, innanzitutto, soffermarsi sulla ratio di quest'ultimo.
Autorevole dottrina l'ha ricondotta alle finalità, da un lato, di deflazionare il carico giudiziario e, dall'altro, di perseguire un reinserimento sociale "anticipato" dell'imputato, nella consapevolezza che il fenomeno, molto frequente in seno al sistema giudiziario italiano, della condanna e dell'applicazione della pena a distanza di tempo dal reato solleva problemi non soltanto sotto il profilo della prevenzione generale dei reati, poiché vanifica qualsiasi effetto intimidatorio o anche solo di orientamento culturale della collettività, ma pure per quanto riguarda la funzione di prevenzione speciale sottesa all'applicazione della pena, se si considera che nel frattempo potrebbe essere venuta meno la pericolosità sociale del reo e la conseguente necessità di una sua rieducazione.
A tali finalità si affianca, poi, quella di perseguire "un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che ancora oggi gravita tolemaicamente intorno alla detenzione muraria,, (Cass. pen. SS. UU. sent. n. 36272 del 2016), introducendovi il paradigma della cd giustizia riparativa.
Proprio considerando che la messa alla prova è uno dei tasselli fondamentali di un più ampio e radicale processo di riforma della giustizia penale, Cass. pen. SS. UU. sent. n. 33216 del 2016 ha chiarito che la relativa disciplina deve essere interpretata in maniera tale da "garantire all'interessato il massimo livello di accessibilità al nuovo istituto". Ciò significa che l'intenzione del legislatore è quella di ottenere la più ampia applicazione possibile dell'istituto; e tale considerazione è fondamentale per la risoluzione della questione in esame, sebbene essa non ricorra nelle ordinanze che si sono espresse a tale riguardo.
Una volta chiarito quest'aspetto, occorre chiedersi quale sia la finalità della disciplina prevista dal D.Lgs. n. 231/2001, atteso che, secondo il Tribunale di Bologna, essa è incompatibile con quella rieducativa che ispira la messa alla prova.
Questo Giudice non condivide quest'ultima affermazione, dal momento che l'introduzione del sistema di responsabilità da reato degli enti previsto dal D.Lgs. n. 231/200 I risponde, in ultima istanza, a una logica di prevenzione del crimine, da perseguire proprio attraverso la rieducazione dell'ente.
A tale riguardo, si osserva che la disciplina complessiva contenuta nel D.Lgs. n. 231/2001 tende a imporre all'ente che svolge un'attività economica l'adozione di modelli organizzativi idonei alla prevenzione del rischio di reati commessi da persone fisiche le­ gate all'ente da un rapporto qualificato che abbiano agito nell'interesse o a vantaggio di quest'ultimo, sul presupposto che esso è responsabile ove la sua organizzazione si riveli inidonea a tale scopo.
Dunque, la ratio di politica criminale che ispira il sistema sanzionatorio del D.Lgs. n. 231/2001 non è la retribuzione fine a se stessa, né la mera prevenzione generale (sicuramente perseguita, pure in termini di orientamento culturale delle politiche imprenditoriali), ma la prevenzione speciale in chiave rieducativa: si vuole indurre l'ente ad adottare comportamenti riparatori dell'offesa che consentano il superamento del conflitto sociale instaurato con l'illecito, nonché idonei, concreti ed efficaci modelli organizzativi che incidendo strutturalmente sulla cultura d'impresa, possano consentirgli di continuare a operare sul mercato nel rispetto della legalità o meglio di rientrarvi con una nuova prospettiva di legalità (ne costituiscono un chiaro esempio le disposizioni di cui agli artt. 6, 12 e 17 del D.Lgs. 231/200 I).
La finalità rieducativa, quindi, lungi dal difettare, semplicemente si declina in maniera peculiare, cioè in termini di compliance, intesa come funzionalizzazione delle procedure interne all'ente all'obiettivo di prevenire la commissione di reati, al fine di evitare il rischio di incorrere in sanzioni.
Va rimarcato che l'affermazione della finalità rieducativa non comporta necessariamente l'adesione alla tesi della natura penale della responsabilità degli enti.
Questo Giudice non ignora che uno dei principali argomenti a sostegno della op­ posta tesi della natura amministrativa della responsabilità degli enti è precisamente la sua affermata incompatibilità con i principi di personalità, di colpevolezza e di rieducazione sanciti dall'art. 27 Cost.
Questi profili di incostituzionalità, nondimeno, sono stati esclusi da Cass. pen. SS. UU. sent. n. 38343 del 2014, la quale ha chiarito che "il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole.
Colgono nel segno, del resto, le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.
Parimenti non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo; e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l'ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell'apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento.
Di conseguenza, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di Bologna, non si ravvisa nessuna incompatibilità tra la ratio della messa alla prova e quella della responsabilità degli enti, le quali, al contrario, appaiono perfettamente convergenti.
Il carattere intenzionale della lacuna conseguente al mancato coordinamento tra le discipline della messa alla prova e della responsabilità degli enti non può essere ravvisato neanche nel principio di autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella dell'autore del reato presupposto di cui all'art. 8 del D.Lgs. n. 231/2008, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di Spoleto. ·
Tale norma stabilisce che ai fini della responsabilità dell'ente è sufficiente la commissione di un reato da parte di una persona fisica a certe condizioni, essendo irrilevante che quest'ultima non venga identificata o che benefici di una causa di non imputabilità o di non punibilità in senso stretto, con la sola eccezione della causa di estinzione del reato dell'amnistia.
La norma, quindi, nello stabilire l'autonomia tra le conseguenze degli illeciti della persona fisica e dell'ente, non impedisce assolutamente a quest'ultimo di accedere al procedimento speciale della messa alla prova, il cui esito positivo non estingue certo il reato presupposto, ma il derivante illecito amministrativo.
Neppure, nello stesso senso, appare significativa la circostanza che le previsioni specifiche per i procedimenti speciali nei confronti degli enti stabilite dagli artt. 62 ss. del D.Lgs. n. 231/2001 non menzionino la messa alla prova
Infatti, essa può essere interpretata nel senso tanto della volontà del legislatore di disporre l'integrale applicazione della disciplina della messa alla prova, tanto più verosimilmente di una mera svista legislativa.
A parere di questo Giudice, poi, l'ammissibilità per l'ente della messa alla prova non determinerebbe l'elusione dell'art. 17 del D.Lgs. n. 231/2001, atteso che, a differenza di quanto affermato dal Tribunale di Spoleto, l'ambito di applicazione della norma citata non coincide affatto con quello della messa alla prova.
Infatti, l'art. 17 stabilisce un trattamento sanzionatorio più mite nell'ipotesi in cui, prima della dichiarazione d'apertura del dibattimento, l'ente realizzi le condotte riparatorie ivi elencate. Ma la messa alla prova ha un oggetto ben più ampio, contemplando pure l'affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può comprendere attività di volontariato di rilievo sociale, nonché la prestazione di lavoro di pubblica utilità. Ed è coerente, quindi, che laddove l'ente assolva tali obblighi ulteriori, ottenga un beneficio maggiore rispetto a quello della mitigazione del trattamento sanzionatorio, qual è, appunto, l'estinzione dell'illecito.
Non coglie nel segno nemmeno il riferimento comparatistico agli ordinamenti giuridici nordamericani, nell'ambito dei quali, storicamente, è stato elaborato l'istituto della responsabilità degli enti.
Infatti, la circostanza che, in quegli ordinamenti, si ammetta la conclusione di accordi, in forza dei quali la pubblica accusa rinuncia ad esercitare o a proseguire l'azione penale, in cambio della realizzazione di condotte riparative e ripristinatorie post delictum, depone a favore della tesi dell'ammissibilità della messa alla prova dell'ente, poiché essa consentirebbe di conseguire risultati analoghi anche nel nostro ordinamento, compatibilmente con il principio di obbligatorietà dell'azione penale sancito dall'art. 112 Cost.
Infine, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale di Spoleto, non si ritiene preclusivo all'estensione analogica all'ente della disciplina della messa alla prova il fatto che da essa deriverebbero delle "incertezze applicative".
A tale riguardo, va ch1arito che i limiti all'applicazione analogica in bonam partem della legge penale s'individuano, oltre che nella già citata intenzionalità della lacuna normativa, sia nella natura eccezionale della legge da applicare analogicamente, sia, al contrario, in una sua ampiezza, tale da impedire di cogliere la ratio su cui fondare il giudizio di similitudine.
Come visto, nessuna di tali situazioni ricorre nel caso di specie.
Ciò che il Tribunale di Spoleto chiama "incertezze applicative" è in realtà la fisiologica sfera di discrezionalità, nell'ambito della quale si muove il Giudice in sede di applicazione analogica della legge; discrezionalità che, a garanzia della libertà delle scelte di azione del cittadino, la Costituzione limita quando ne possano derivare effetti negativi per quest'ultimo, il che, come visto, non accade nel caso di specie.
Dunque, la scelta tra le opzioni ermeneutiche individuate dal Tribunale di Spoleto in ordine alla puntuale perimetrazione dei requisiti oggettivi di ammissibilità della messa alla prova per gli anti andrà fatta sempre e comunque avendo riguardo alla ratio di tale istituto, che, come accennato, è quella di perseguire il reinserimento sociale "anticipato" degli imputati dei reati di minore gravità.
Dunque, si reputa più rispettoso della ratio della messa alla prova consentirla solo per quegli illeciti dipendenti da reati per i quali anche le persone fisiche possono accedere a tale procedimento speciale.
Un'altra "incertezza applicativa" alla quale occorre dar soluzione attiene alla necessità di dotarsi di un modello organizzativo al fine di accedere alla messa alla prova.
Come visto, secondo il Tribunale di Modena è fondamentale che l'ente si sia dotato di un modello organizzativo anteriormente alla commissione del reato presupposto, valutato inidoneo dal Giudice, giacché, diversamente, sarebbe vanificata la finalità rieducativa dell'istituto.
Questo Giudice, invero, ritiene che la finalità rieducativa dell'ente non sia pregiudicata laddove quest'ultimo si doti del modello prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, quand'anche ciò avvenga dopo la commissione del reato presupposto.
Ciò si desume dall'impianto del D.Lgs. n. 231/2001, il quale persegue finalità di rieducazione non solo ante delictum, ma anche post delictum.
Ne è la dimostrazione il succitato art. 17, il quale, come visto, stabilisce un trattamento sanzionatorio più mite ove, tra le altre cose, "prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado[ ... ] l'ente [abbia] eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi 11
In questo modo, inoltre, si garantisce la più ampia applicazione dell'istituto della messa alla prova, nel rispetto dell'intenzione del legislatore.
Peraltro, il requisito delineato dal Tribunale di Modena non avrebbe comunque un senso nel caso in cui il reato presupposto commesso, per la sua natura, appaia eccentrico rispetto alla specifica attività economica svolta dall'ente e creerebbe pure dei problemi di anticipazione del giudizio, atteso che il Giudice dovrebbe pronunciarsi sull'inidoneità del modello adottato al tempo della commissione del reato presupposto.
In conclusione, può ritenersi l'ammissibilità della messa alla prova dell'ente, nei termini sopra esposti.
Dunque, si ritiene che la richiesta presentata dall'incolpata sia ammissibile, in quanto:
soddisfa i requisiti formali previsti dagli artt. 168 bis e 464 bis c.p.p.;
- sussistono i presupposti oggettivi di applicazione dell'istituto della messa alla prova, giacché il reato presupposto contestato rientra tra quelli indicati dall'art. 168 bis, c. I, c.p.;
- sussistono pure i presupposti soggettivi di applicazione dell'istituto, alla luce di quanto sopra esposto, considerato altresì che all'ente non è già stata concessa la sospensione del procedimento con messa alla prova
Si ritiene, poi, che non si debba pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.
Si ritiene, inoltre, che, sulla base dei parametri previsti dall'art. 133 c.p., il programma di trattamento, come integrato e modificato dal giudice con il consenso dell'imputato, risulta idoneo, pure nell'ottica della prevenzione della commissione di ulteriori illeciti in futuro e della tutela della persona offesa dal reato, in quanto contempla le seguenti prescrizioni:
- mantenere contatti frequenti con l'U.E.P.E. secondo le modalità stabilite dal funzionario incaricato, fornendo tutte le informazioni sulle attività indicate in questo programma;
- domiciliare all'indirizzo sopra indicato comunicare all'U.E.P.E. ogni modifica di sede legale, che dovrà essere adatta ad assicurare le esigenze di tutela della persona offesa del reato;
- svolgere il Lavoro di Pubblica Utilità presso __________ onlus con il compito di lavori di manutenzione ordinaria su impianti elettrici e televisivi dal lunedì al venerdì a seconda delle esigenze, nonché a chiamata dell'associazione;
attività di volontariato consistente nella donazione di€ 5.000,00 a favore della Protezione Civile.
Risulta agli atti che la società ha già liquidato integralmente il risarcimento del danno a favore della persona offesa, come risulta dalla documentazione prodotta.
Risulta altresì che la società si è prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di un modello organizzativo che si reputa idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Si ritiene congrua la durata di sei mesi per la messa alla prova.
 


P.Q.M.

 


visti gli artt. 168 bis ss. c.p., 464 bis ss. c.p. e 141 bis ss. disp. att. c.p.p.; dispone, per una durata di sei mesi, la sospensione del procedimento con la messa alla prova dell'ente, da eseguirsi secondo le modalità e con l'osservanza delle prescrizioni stabilite nel programma di trattamento, come integrato e modificato con il consenso delle parti, al quale si rinvia e che si allega, unitamente al verbale di udienza, al provvedimento, in quanto parti integranti;
fissa il termine di sei mesi entro il quale devono essere adempiuti dall'ente le prescrizioni e gli obblighi attinenti alle condotte riparatorie o risarcitorie imposte dal programma di trattamento, precisandosi che, a norma dell'art. 464 quinquies, c. 1, c.p.p., questo termine può essere prorogato, su istanza dell'ente, per non più di una volta e solo per gravi motivi;
avvisa l'ente che costituiranno elementi giustificativi della revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova le segnalazioni di:
- grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, o di rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità o di volontariato;
- commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo illecito della medesima indole rispetto a quello per cui si procede;
dispone che la presente istanza venga trasmessa all'UEPE che ha elaborato il programma di trattamento, per la presa in carico dell'ente;
dispone che l'UEPE, ai sensi dell'art. 141 ter disp. att. c.p.p., provveda a informare questa autorità giudiziaria- con relazioni periodiche da redigere e da trasmettere al massimo ogni tre mesi - sull'andamento del trattamento, nonché a inviare, alla scadenza del periodo di prova, la relazione conclusiva sul decorso e sull'esito della prova, da trasmettere alla cancelleria di questa autorità giudiziaria almeno un mese prima dell'udienza sotto indicata, per la valutazione, con facoltà per le parti di prenderne visione e di estrarne copia;
fissa, per la valutazione della relazione conclusiva che sarà trasmessa dall'UEPE, l'udienza del 18.1.2023, riservandosi in questa sede l'indicazione di un'altra udienza, alla prima antecedente, ove se ne rendesse necessaria la celebrazione, anche sulla base delle informazioni trasmesse dall'UEPE nel frattempo;
manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza;

Bari, il 22.6.2022