Cassazione Penale, Sez. 5, 02 maggio 2022, n. 17095 - Schiavitù nel mondo del lavoro


 

 

Presidente: SABEONE GERARDO
Relatore: CATENA ROSSELLA Data Udienza: 16/03/2022


 

Fatto




1. La decisione impugnata è stata pronunziata in data 08/04/2019 dalla Corte di Assise di appello di Lecce, che ha riformato la condanna pronunziata dalla Corte di Assise di Lecce nei confronti di AB.S., AD.M., AK.B.B.A., GA.M.Y., JA.S.B.A., JE.S.B., P.L., MA.L., M.T.B.R., P.G., CO.M., AI.AB. e TA.N..
1.1. Gli imputati suddetti, oltre ad altri già assolti in primo grado, erano stati tratti a giudizio per rispondere dei reati di seguito indicati:


TUTTI
A) associazione per delinquere, ai sensi dell'art. 416 cod. pen. - operante a Nardò ed in altre parti del sud Italia - finalizzata al reclutamento di cittadini extracomunitari per la maggior parte tunisini e ghanesi introdotti clandestinamente in Italia oppure presenti irregolarmente sul territorio nazionale, da destinare allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie e di pomodori ed a tal fine mantenuti in condizione di soggezione continuativa; associazione, pertanto, diretta alla commissione di più delitti tra cui quelli di riduzione in schiavitù, favoreggiamento della permanenza illegale sul territorio italiano di cittadini extracomunitari, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, estorsione e violenza privata.
B) reati di cui agli artt. 110, 81, 600, comma 1 e 2, 603-bis, commi 1, 2 e 3 nn. 1) e 3), 629 cod. pen., nonché art. 12 comma 5 del D.L.vo 286/98: perché, in concorso tra loro, riducevano e mantenevano numerosi cittadini extracomunitari, di nazionalità prevalentemente tunisina, ghanese e sudanese, in stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù, costringendoli a prestazioni lavorative nei campi in condizioni di assoluto sfruttamento; una volta reclutati dai caporali, in diretto contatto con le aziende richiedenti manodopera in agricoltura, i lavoratori, suddivisi in squadre, venivano sottoposti a ritmi "sfiancanti" per 10/12 ore al giorno, senza riposo settimanale, nella maggior parte dei casi in nero, percependo compensi di gran lunga inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e comunque, inadeguati ed erano ospitati in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici ed arredi, e costretti a corrispondere prezzi eccessivi e spropositati per la fornitura di alimenti e bevande e per il trasporto sui campi, trattenuti sulla "paga"; sfruttamento attuato mediante:
- approfittamento della vulnerabilità legata alla condizione di cittadini extracomunitari irregolari delle vittime e mossi dal bisogno;
- minaccia di perdere il posto di lavoro in caso di "ribellione" e sottraendo loro i documenti;
JE.S.B, GH.M.Y. e AK.B.B.A.
Dei reati di cui ai capi C), E), F) G), vale a dire una serie di episodi estorsivi a danno di lavoratori extracomunitari, che si erano lamentati delle condizioni lavorative, attuati mediante minaccia di far perdere loro il posto di lavoro se non avessero accettato le condizioni lavorative o di impedire loro di trovare nuovo lavoro o, ancora, di non corrispondere la paga giornaliera o di distruggere i documenti in loro possesso.
il solo JE.S.B.
del reato di cui al capo D), per avere formato un numero indeterminato di permessi di soggiorno falsi.
1.2. La Corte di Assise di Lecce aveva:
- condannato AB.S., AD.M., AK.B.B.A., GA.M.Y., JA.S.B., JE.S.B, P.L., MA.L., M.T.B.R.a, P.G. e TA.N. solo per i reati di cui ai capi A) e B), assorbiti gli altri delitti contestati - ad eccezione del falso sub D) - nel delitto di riduzione in schiavitù.
- condannato AI.AB. e CO.M. per il solo delitto di associazione per delinquere;
- assolto i predetti per la riduzione in schiavitù e MA.C., M.G. e P.S. da tutti i reati loro rispettivamente ascritti per non aver commesso il fatto;
- assolto JE.S.B. dal falso sub D) (come sancito a pag. 96 della motivazione, ancorché la statuizione sia stata omessa nel dispositivo).
1.3. La Corte di Assise di appello ha riformato la sentenza di primo grado, - assolvendo tutti gli imputati dal reato associativo e dalla riduzione in schiavitù, perché il fatto non sussiste, e dal reato ex art. 603-bis cod. pen., già ritenuto assorbito nel delitto di riduzione in schiavitù, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato;
- dichiarando la nullità del decreto che dispone il giudizio per tutti gli imputati eccetto AI.AB. e CO.M., quanto ai reati di cui agli artt. 629 cod. pen. e 12, comma 5, d.lgs. 286 del 1998 di cui al capo B) (anch'essi già ritenuti assorbiti nella riduzione in schiavitù in primo grado) per genericità della contestazione, con trasmissione degli atti al Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Lecce per l'ulteriore corso;
- assolvendo JE.S.B. dal reato di cui al capo D), perché il fatto non sussiste, così ponendo rAB.I.io all'omissione della sentenza di primo grado;
- rideterminando la pena quanto a JE.S.B e AK.B.B.A. in ordine alle estorsioni di cui ai capi C), F) e G) - già ritenuti assorbiti nel delitto di riduzione in schiavitù.

2. Contro la sentenza di cui sopra hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce, le parti civili Regione Puglia, l'associazione Finis Terrae Onlus, la Federazione Provinciale Lavoratori Agro Industria CGIL, la Camera del Lavoro Territoriale CGIL, nonché le parti civili omissis, e, infine, gli imputati AK.B.B.A. e JE.S.B.

3. Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce, depositato in data 23/06/2020, si affida a tre motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
3.1. travisamento della prova per omissione, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., quanto, in particolare, alla pretermissione delle dichiarazioni di AB.I., CU.P.D., I.S., BE.B.M., Gh. M.f e B.L.H.; del contenuto di numerosi servizi di ocp della polizia giudiziaria; del contenuto di intercettazioni tra datori di lavoro e caporali. Il tutto testimonierebbe - sostiene il ricorrente - che le persone offese non avevano una scelta diversa da quella di sottostare alle imposizioni dei caporali, salvo volersi trasferire in altri luoghi, dove li attendevano le stesse condizioni. Inoltre, sarebbero emersi i rapporti diretti tra i "caporali" ed i datori di lavoro italiani. La sentenza impugnata mancherebbe di qualsiasi forma di confronto con quella di prime cure.
3.2. violazione di legge, in riferimento agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., in quanto la Corte di Assise di appello - sostiene la parte pubblica - ha escluso erroneamente dal compendio probatorio valutabile le dichiarazioni di A.A. e B.H.TE., nonostante la loro irreperibilità non fosse prevedibile, in quanto i medesimi avevano ottenuto il permesso di soggiorno ex art. 18 d.lgs. 286 del 1998, erano in carico a due diverse associazioni di volontariato presso cui avevano eletto domicilio - e che avevano efficacemente provveduto al rintraccio di altri testi escussi al dibattimento - ed avevano progetti di lavoro sul territorio nazionale. Ciò sarebbe ulteriormente comprovato dalla circostanza che J.Y. e A.A., al momento della celebrazione del dibattimento, ancorché non rintracciati, avevano una posizione lavorativa ufficiale in Italia. A seguire, il ricorrente riporta le dichiarazioni di A.A., di BE.A.T. e AB.I. attraverso le quali «era possibile individuare, senza necessità di ulteriori approfondimenti, una sèrie di indicatori tipici del reato di "traffico di esseri umani ai fini di lavoro forzato"» (così il ricorso).
3.3. violazione di legge sostanziale, quanto alle singole imputazioni, ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., asserendo che i tre soggetti tunisini avevano intrapreso il viaggio della speranza in Italia, ed erano stati tratti in inganno dalla promessa di un regolare rapporto di lavoro con abuso della loro posizione di vulnerabilità legata alla presenza in un paese straniero e senza conoscerne la lingua, il che li rendeva facile preda dei "caporali" che li avevano dirottati a Nardò e poi a Rosarno, Foggia o Pachino. Aggiunge il ricorso che AB.I. (dovrebbe trattarsi di  AB.I., n.e.) è una vittima vulnerabile, in quanto soggetto trafficato e schiavizzato dal momento del suo ingresso in Italia, e ne ripercorre le dichiarazioni rese in sede dibattimentale. Passa, poi, il ricorso a trascrivere le dichiarazioni di CU.P.D., I.S., BE.B.M., B.L.H. , Gh. M.f e SA.J.P.Y., J.P.Y.. Le dichiarazioni delle persone offese - prosegue il ricorso - sono state corroborate dai servizi di ocp svolti dal Ros, i cui esiti sono dettagliatamente riportati nell'impugnativa. E dalle stesse dichiarazioni rese dagli imputati negli interrogatori, laddove essi hanno confermato l'uso dei mezzi di trasporto individuati nei servizi di osservazione. Il ricorso riporta, poi, la trascrizione delle intercettazioni ritenute di interesse, quanto al coinvolgimento dei datori di lavoro nello sfruttamento dei lavoratori ed alle anomalie che caratterizzavano i rapporti di lavoro, quali elementi di riscontro alle dichiarazioni delle persone offese, che non avevano altra scelta che quella di accettare le condizioni lavorative imposte loro, versando in una condizione di vulnerabilità. Il ruolo di  P.L. è quello di elemento propulsore e la Corte di Assise di appello ha trascurato anche i servizi di osservazione che l'hanno visto in contatto con JE.S.B. e AB.S.. Il ricorso si conclude con un'ampia riflessione sul fenomeno che si ritiene disvelato nel procedimento, rimarcando il ruolo centrale di  P.L. e degli altri protagonisti della vicenda. Significativa, nel senso dell'associazione, sarebbe la circostanza che i vari imprenditori agricoli erano in contatto tra loro per scambiarsi squadre di lavoratori e sfruttare il già esistente stato di soggezione di questi ultimi. La motivazione avversata sarebbe illogica quando aveva cercato riscontri su fatti estranei al processo, quali l'introduzione in Italia dei lavoratori, introduzione per cui vi era stato stralcio e trasmissione per competenza ad altra Autorità Giudiziaria.

4. I ricorsi delle parti civili I.S., CU.P.D. e associazione Finis Terrae, depositati in data 26/06/2020, a firma dell'avv. Maurizio Scardia Squinzano, procuratore speciale - che possono essere sintetizzati unitariamente in quanto sovrapponibili - si compongono di un unico motivo che, nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., lamenta violazione di legge, ai sensi dell'art. 606, lett. b), cod. proc. pen., per errata valutazione delle prove, sia per quanto riguarda la riduzione in schiavitù che l'associazione per delinquere. A quest'ultimo riguardo, i ricorrenti riportano i principi affermati da sentenze di questa Corte a proposito del distinguo tra partecipazione associativa e concorso di persone nel reato e contesta che le prove raccolte circa i contatti tra gli imprenditori agricoli siano - come, invece, sostenuto dalla Corte di Assise di appello - indicative semplicemente di una forma di cooperazione tra imprenditori. Anche quanto alla riduzione in schiavitù, i ricorrenti ricordano gli insegnamenti di questa Corte e contestano l'affermazione della Corte territoriale, secondo cui la sistemazione abitativa disumana non dipendeva dagli imprenditori coinvolti nella vicenda ed era gestita in collaborazione con l'autorità comunale. Nulla di più errato, perché la maggior parte dei lavoratori sfruttati non trovava posto nella masseria Boncuri ed era costretta a vivere in situazioni degradate nelle campagne in gran parte di proprietà di P.L.. La circostanza - rimarcata dalla Corte di Assise di appello - secondo cui i lavoratori erano liberi di andare via, si scontra con la situazione di debolezza e di vulnerabilità delle vittime, che ne comprometteva radicalmente la libertà di scelta. Concludono i ricorrenti affermando la non credibilità delle testimonianze dei testi della difesa, che avevano descritto una situazione del tutto regolare.

5. I ricorsi a firma dell'avv. Viola Messa, · procuratore speciale per conto di Federazione Provinciale Lavoratori Agro Industria CGIL, Camera del Lavoro Territoriale CGIL, SA.J.P.Y. , F.H., Me.Co., Gh. M.f, EL.E.M. e BE.B.M., depositati in data 25/06/2020, sono stati convogliati in un atto unico e si compongono di cinque motivi, preceduti da una dichiarazione con quale ricorrenti prestano piena adesione all'impugnativa del Procuratore generale, riportandosi e facendone propri i contenuti; nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. i motivi possono essere così sintetizzati:
5.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 544 e 546 cod. proc. pen. e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. c) ed e), cod. proc. pen., perché la decisione impugnata si limita ad un'apodittica critica di quella di primo grado e omette l'analisi di tutte le emergenze istruttorie, sottraendosi, così, al dovere argomentativo imposto al Giudice di appello che ribalti la decisione di condanna di primo grado. Non appaia - proseguono i ricorsi generica la censura, dal momento che essa si rivolge all'intera impostazione della Corte territoriale, siccome totalmente scevra da un confronto con le singole emergenze processuali.
5.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen. e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen.: errata sarebbe la decisione della Corte di Assise di appello quando ha censurato la scelta della Corte di prime cure di acquisire i verbali dei soggetti che non era stato possibile escutere in dibattimento. Quanto alle ricerche per la citazione, la Corte di Assise aveva completato quelle già svolte dal pubblico ministero, emettendo, poi, l'ordinanza acquisitiva del 16 marzo 2016. Non corrisponde al vero, dunque, che le ricerche si siano svolte solo sui riscontri forniti dalle visure delle banche dati disponibili e la decisione sarebbe incompleta, perché la Corte distrettuale non aveva indicato quali avrebbero dovuto essere le ricerche necessarie e sufficienti per disporre l'acquisizione ex art. 512 cod. proc. pen. Quanto al riferimento all'art. 512-bis cod. proc. pen., ritenuto errato, la Corte di merito non ha considerato che alcuni stranieri erano stati rimpatriati (W.B.) o avevano dichiarato la propria residenza nei Paesi di origine (A.A. e BE.A.TE.), caratterizzati da instabilità sociale e politica, sicché era quella la norma di riferimento per le acquisizioni disposte. Quanto al discorso della prevedibilità dell'impossibilità di ripetizione dell'escussione, la storia del processo ha smentito le considerazioni della Corte territoriale, giacché moltissimi altri testimoni stranieri sono stati escussi a distanza di anni in dibattimento (ivi compresi B.L.H. e DH.M.). Sarebbe stato sufficiente apprezzare che i testimoni, sebbene irregolari e senza fissa dimora, erano comunque stabilmente residenti in Italia ed erano assistiti da associazioni di volontariato, per ritenerne utilizzabili le dichiarazioni predibattimentali per essere imprevedibile l'impossibilità di ripetizione. Un altro errore in cui è incorsa la Corte di merito è quello di avere ritenuto essenziale il contributo delle dichiarazioni acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., mentre la Corte di prime cure vi aveva attribuito un significato probatorio residuale.
5.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge, quanto all'art. 195 cod. proc. pen., e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., circa il vaglio delle dichiarazioni di G.N. e V.S., soci della cooperativa Finis Terrae. La Corte distrettuale - sostengono i ricorrenti - ha erroneamente individuato l'associazione suddetta come uno dei soggetti istituzionalmente responsabili delle condizioni di grave degrado in cui erano costretti a vivere i braccianti, mancando di considerare che presso la masseria Boncuri (gestita dall'associazione) potevano essere ospitate solo cinquanta persone. Tale assunto del Collegio di appello - mutuato acriticamente dagli appelli degli imputati - sarebbe smentito dalla deposizione del Colonnello V. del Ros, che aveva descritto la zona della Masseria e quella dell'accampamento limitrofo e, ben diversamente, le condizioni di degrado e disumanità che caratterizzavano la bidonville formatasi nella zona ulteriormente circostante, nonché la Masseria Colucce di proprietà di  P.L. e i terreni su cui veniva effettuata la raccolta. Lo stigma di genericità attribuito alla deposizione della teste V.S. sarebbe errato in quanto aveva anch'ella descritto direttamente le condizioni dei braccianti, sia quelle logistiche che quelle personali, constatate personalmente. Di qui l'infondatezza della pretesa genericità delle sue dichiarazioni quanto alle generalità dei braccianti visitati ovvero dei medici dell'ASL che li videro. A conferma che il problema era stato constatato personalmente dal personale dell'associazione Finis Terrae, quest'ultimo mise a disposizione dei lavoratori una distribuzione quotidiana di acqua potabile. La V.S. vide del pari di persona la selezione dei braccianti avvenuta per mano dei caporali, il che smentisce la tesi, pure fatta propria dalla Corte di Assise di appello, secondo la quale i lavoratori componevano spontaneamente le squadre. Sbaglia la Corte di merito quando ritiene che la Corte di Assise abbia utilizzato le dichiarazioni de relato di V.S. e G.N., mentre ciò che fu valorizzato in malam partem in primo grado fu solo quello che i due riferirono come constatato personalmente.
5.4. Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione dell'art.. 416 cod. pen. e mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. Quando la Corte di merito ha escluso la sussistenza dell'associazione per delinquere, ha sottovalutato il dato economico che costituisce il fine ultimo degli imputati ed ha ritenuto che l'esistenza di una cooperativa facesse rientrare il tutto in uno schema lecito. Al contrario, le intercettazioni tutte danno l'idea di come i rapporti tra gli imprenditori e tra questi ultimi ed i "caporali" fossero improntati alla necessità di rappresentare una situazione di regolarità in effetti inesistente e di scambiarsi informazioni per arginare gli effetti dei controlli degli organi preposti sui campi, con il fine comune di ottenere un proprio tornaconto economico e di coltivare l'interesse ad alterare il regolare andamento del mercato a proprio beneficio, ben consapevoli dello sfruttamento dei lavoratori. La sentenza impugnata non spiega come mai l'esistenza di una struttura ufficiale debba escludere quella di un vero e proprio sodalizio, giacché non è infrequente rilevare, nell'esperienza giudiziaria, come l'organizzazione illecita si avvalga di situazioni di apparente legalità. I ricorrenti ricordano, poi, delle testimonianze a discarico che escludono l'esistenza di stabili legami tra la P.G. Group e  P.L.. In ordine al reato di favoreggiamento dell'illecita permanenza nel territorio dello Stato, la sentenza impugnata ha sostenuto che la consapevolezza degli imprenditori dell'esistenza di braccianti agricoli clandestini era fondata su prove poco significative e non era priva di "alcune note di contrasto", senza tuttavia spiegare di cosa si trattasse; a sostegno della propria tesi, l'impugnativa cita la deposizione del teste CA.. Erroneamente la Corte di merito ricollega la sussistenza del reato in parola al numero di casi accertati.
5.5. Il quinto motivo di ricorso deduce errata applicazione dell'art. 600 cod. pen., mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e travisamento della prova, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. A leggere la sentenza impugnata quando argomenta sull'insussistenza della prova della riduzione in schiavitù, sembrerebbe che detto reato sia provato solo dalle dichiarazioni di V.S. e G.N. e dai verbali di dichiarazioni acquisite ex artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., ma così non è. Quanto alle considerazioni svolte per escludere che vi fosse riduzione in schiavitù, la Corte territoriale ha valorizzato la circostanza che gli immigrati giungevano liberamente a Nardò, mentre vari testimoni avevano riferito che erano stati spinti verso la cittadina pugliese solo perché mossi dall'assoluta necessità di lavorare. Quanto alla circostanza che gli immigrati potevano allontanarsi liberamente, la sentenza impugnata omette di considerare la complessiva condizione dei lavoratori ed il trattamento che era loro riservato, fondando sul complesso delle situazioni che li rendevano vulnerabili e che impedivano loro di allontanarsi da Nardò. Circa le condizioni di lavoro, la decisione avversata evoca le dichiarazioni degli ispettori del lavoro, che però non avevano accertato l'effettivo orario di lavoro, né la corrispondenza dei documenti ricevuti con i lavoratori controllati e neanche potevano riferire sulle condizioni generali di lavoro. Quanto ai testimoni a discarico, impropriamente la Corte di Assise di appello li aveva ritenuti pretermessi, in quanto medesimi non avevano mai lavorato con gli extracomunitari e, di conseguenza, non potevano riferire circa le condizioni di lavoro di questi ultimi. La sopravvalutazione in senso contrario all'ipotesi di accusa dello sciopero, poi, non tiene conto che tale iniziativa era legata a fattori contingenti quali la presenza, tra i lavoratori, di Y.S.. La protesta, comunque, aveva avuto un successo decrescente ed alla fine Y.S. era state costretto ad allontanarsi da Nardi) perché minacciato. La Corte territoriale aveva poi ridimensionato la rilevanza della durata della giornata lavorativa, che i braccianti avevano indicate in almeno dodici ore di lavoro, affermando che vi potevano essere delle pause, senza calcolare che gli imprenditori si erano organizzati al massimo per limitare l'avvicendamento dei camion e le condizioni ambientali rendevano la permanenza in loco non assimilabile ad un riposo. Erano state trascurate le intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni dei lavoratori erano state utilizzate in termini ambivalenti, ora vagliate positivamente per riconoscere che vi era caporalato, ora screditate per escludere gli altri reati, trascurando che l’esistenza degli elementi del caporalato — esclusa perche’ il fatto all'epoca non era previsto come reato — andava ricondotta pur sempre alla fattispecie di riduzione in schiavitù. L’assunto secondo cui i documenti di identità erano dati ai caporali su base volontaria ed erano restituiti in tempi ragionevoli, si scontra con il dato, emerso ne|I'istruttoria dibattimentale, che i tempi della restituzione erano soggetti alla discrezionalità del “caporale” e del datore di lavoro e che i lavoratori li sopportavano nella speranza di far parte dei selezionati per lavorare. La tolleranza di comportamenti prevaricatori coincideva con la necessità di sopravvivenza. Quanto alla situazione abitativa, i ricorsi ricordano ancora una volta che la situazione della masseria Boncuri costituiva un microcosmo rispetto ad una generalizzata a diffusa condizione di degrado logistico che non poteva essere ignorata dai datori di lavoro. La sentenza impugnata omette di considerare quanto descritto dal colonnello V. in merito all'accampamento allestito presso la masseria Colucce di L.P. e con riferimento ad altri accampamenti organizzati, dove i lavoratori vivevano senza acqua corrente e senza servizi igienici, descritti da tutti i lavoratori. Dopo aver sminuito la valenza a discarico delle testimonianze DL. e O. e dei lavoratori citati dalla difesa, i ricorrenti evidenziano altro errore della Corte territoriale, laddove aveva affermato che non vi era continuatività nello sfruttamento, a dispetto del fatto che il fattore tempo non é rilevante, ed aveva attribuito rilievo — nel senso della capacità di autodeterminazione dei braccianti allo sciopero del 2011, trascurando che la ribellione era stata propiziata dalla presenta di Y.S. e che essa aveva avuto un successo decrescente, fino all’allontanamento forzato dei suddetto lavoratore da Nardò. I ricorsi, poi, criticano l'enunciato della sentenza impugnata secondo cui la consegna dei documenti era su base volontaria e non costituiva l'ennesima estrinsecazione della condizione servile dei lavoratori.

6. Il ricorso a firma dell'avv. Anna Grazia Maraschio per la parte civile Regione Puglia consta di cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
6.1. Il primo motivo di ricorso deduce mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. e) cod. proc. pen. Il motivo si risolve con una critica di pretermissione di tutte le fonti di prova a carico e di mancanza di una motivazione idonea a sovvertire quella della Corte di primo grado.
6.2. Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 512 e 512- bis cod. proc. pen., ai sensi dell'art. 606, lett. b) cod. proc. pen. La Corte di merito - si legge nell'impugnativa - ha operato ulteriori ricerche oltre quelle svolte dal pubblico ministero e, contrariamente a quanto poi sostenuto dalla Corte distrettuale, ha distinto i verbali di dichiarazioni acquisiti ex art. 512 cod. proc. pen. da quelli acquisiti ex art. 512- bis cod. proc. pen. Quanto alle acquisizioni ai sensi dell'art. 512 codice di rito, la parte ricorrente ritiene che la Corte di Assise di appello abbia errato nel ritenere prevedibile l'impossibilità di ripetizione e volontaria la mancata sottoposizione ad esame dei dichiaranti. Non risponde al vero che i denunzianti non avessero indicato dove erano reperibili ed è contrario agli orientamenti giurisprudenziali ritenere che la mera condizione di clandestino possa essere significativa in tal senso. Nel caso di specie, quasi tutti i cittadini stranieri divenuti irreperibili avevano un regolare permesso di soggiorno. A seguire, i ricorsi passano analiticamente in rassegna le situazioni di tutti gli stranieri le cui dichiarazioni sono state acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., al fine di verificare se, per ciascuno, ricorressero indicatori che lasciassero prevedere una futura irreperibilità. Altri testi, nelle stesse condizioni, sono poi stati regolarmente rintracciati ed escussi in dibattimento. Le dichiarazioni acquisite ex art. 512 cod. proc. pen. sono state valutate unitamente ad altri elementi che ne confermavano l'affidabilità.
6.3. Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto al vaglio della testimonianza di V.S. e G.N.. Secondo le dichiarazioni di quest'ultimo, i lavoratori cui egli si riferiva o erano stati menzionati - e si trattava di testi effettivamente escussi - o erano facilmente identificabili a mezzo dei database dei soggetti che alloggiavano alla masseria; tuttavia, le difese non hanno formulato alcuna richiesta ex art. 195 codice di rito. Analoghe considerazioni il ricorso svolge quanto alle dichiarazioni della V.S., che aveva riferito di avere immortalato i dichiaranti in video. Inoltre, entrambi i testi erano diretti per quanto avevano percepito in prima persona circa la condizione dei lavoratori ed il rapporto con i caporali. Anche i medici che avevano visitato lavoratori, evocati dalla V.S. e da G.N., erano facilmente individuabili.
6.4. Il quarto motivo di ricorso deduce mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e violazione di legge, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto all'assoluzione per il reato di cui all'art. 416 cod. pen. La Corte di merito ha aderito criticamente alle prospettazioni difensive ed ha dichiarato apoditticamente l'insussistenza di elementi a supporto dell'ipotesi associativa. In particolare, la Corte di Assise di appello non ha utilizzato la notevole mole di conversazioni telefoniche intercettate (elencate nell'impugnativa) e i servizi di ocp acquisiti con il consenso delle parti all'udienza del 30 maggio 2013 ed oggetto di testimonianza da parte dei Carabinieri dei ROS. Dalle captazioni si evidenziavano i costanti contatti tra gli imprenditori, lo scambio di informazioni utili ad eludere i controlli effettuati da personale dell'Ispettorato del lavoro, i contatti tra gli imprenditori ed i caporali, ma tali captazioni erano state decontestualizzate.
Sarebbero state pretermesse - prosegue il ricorso - le risultanze dei servizi di osservazione del ROS come illustrate in dibattimento dal Colonnello V., i continui contatti tra gli imprenditori e quelli di questi ultimi con i "caporali". Particolarmente significativo sarebbe il servizio di osservazione del 10 luglio 2009, quando JE.S.B. era stato visto caricare del legname dalla Masseria Colucce, di proprietà di  P.L., per scaricarlo in un uliveto dove, di lì a poco, sarebbe stato realizzato un accampamento.
Tutti questi elementi sarebbero significativi dell'esistenza di un'associazione per delinquere, non smentita dalla ritenuta insussistenza dei reati-fine.
6.5. Il quinto motivo di ricorso lamenta mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione e violazione di legge, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto alla ritenuta insussistenza del reato di riduzione in schiavitù. Critica il ricorso - riportando tratti della sua deposizione- la mancata valorizzazione accusatoria della testimonianza di SA.J.P.Y. che, al contrario, aveva fornito un quadro esaustivo della realtà del posto nel luglio 2011. A seguire il ricorso procede ad un inquadramento normativo e giurisprudenziale dei reati di caporalato e riduzione in schiavitù, per inferirne che la Corte di Assise di appello ha trascurato tutta una serie di indicatori emersi nel dibattimento. Avrebbe, in particolare, errato la Corte territoriale nell'attribuire valenza scagionante alla circostanza che i lavoratori giungevano spontaneamente a Nardò, dal momento che il delitto di riduzione in schiavitù è integrato anche dalla sola condotta di mantenimento in una condizione di soggezione; sbagliato era anche ritenere che essi, a dispetto della difficoltà economiche, di lingua, dell'essere senza documenti e dell'assenza di reali alternative, fossero effettivamente liberi di andarsene. Quanto alla posizione dei "caporali", la decisione avversata è errata nella misura in cui ha trascurato le dichiarazioni da cui si evince che essi praticavano forme di violenza morale e anche fisica; a questo proposito, il ricorso cita le testimonianze di I.S., BE.B.M., AB.I., A.A., SA.J.P.Y. e D.K.. In questo ambito si inserisce anche l'imposizione del servizio di trasporto a pagamento, attuato in condizioni disumane, e della fornitura di cibo e acqua, anch'essa a pagamento. La Corte di merito avrebbe adoperato un'argomentazione sganciata dagli esiti dell'istruttoria quando ha affermato che le modalità di lavoro erano frutto di un'autorganizzazione dei braccianti e che occorreva distinguere la figura del caporale da quella del semplice caposquadra. La Corte distrettuale avrebbe altresì trascurato gli elementi di prova che riconducevano a  P.L. la Masseria Colucce, dove diversi lavoratori vivevano in condizioni degradate.

7. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato JE.S.B - condannato per l'estorsione di cui al capo C) della rubrica - dall'avv. Domenico Nuzzo, in data 25/06/2020, si compone di un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.. Il ricorrente lamenta violazione di legge e mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto alla sussistenza dell'estorsione. L'accusa di estorsione ai danni di A.A. era stata ritenuta insussistente, stante la dichiarata inutilizzabilità delle dichiarazioni della vittima, acquisite ex art. 512 cod. proc. pen., ma il prevenuto era stato condannato per altre estorsioni ai danni di cittadini nordafricani. Vi sarebbe una contraddizione tra la declaratoria di nullità del capo B) dell'imputazione in ordine alle estorsioni e la condanna inflitta all'imputato, fondata comunque sulle dichiarazioni di A.A.. Nessuno degli altri testi escussi ha riferito di minacce del ricorrente, contrariamente a quanto sostiene la Corte territoriale, e il colonnello V. aveva riferito in dibattimento di non avere mai assistito ad atti di violenza. Neanche le dichiarazioni del coimputato MA.C. sarebbero probanti, giacché sconfessate dal contenuto delle intercettazioni (testualmente riportate), che evidenziavano come le condizioni di lavoro e le retribuzioni dipendessero proprio da MA.C. e come JE.S.B. non avesse mai proferito espressioni minacciose o intimidatorie nei confronti degli stranieri, ai quali, al contrario, il ricorrente insisteva per assicurare condizioni migliori ed una situazione lavorativa regolare. Le captazioni evocate dalla Corte di merito come significative in senso colpevolista, al contrario, non deporrebbero per la fondatezza dell'ipotesi accusatoria.

8. Il ricorso a firma dell'avv. Americo Barba per AK.B.B.A. - condannato per le estorsioni sub F) e G) - si compone di due motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
8.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto alla svalutazione dell'allegazione del passaporto e dell'assenza del prevenuto ai controlli, quali indicatori dell'assenza dell'imputato da Nardò nei periodi a cui si riferiscono le contestazioni. I veicoli a lui attribuiti dalla persona offesa non erano stati visti nei servizi di appostamento. Neanche le due telefonate oggetto di trascrizione sarebbero sufficienti a dimostrare la presenza sul territorio italiano di AK.B.B.A. e conterrebbero dichiarazioni eteroaccusatorie che dovevano essere oggetto di un penetrante vaglio probatorio, in caso contrario violandosi l'art. 111, comma 5, Costituzione.
8.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. b) ed e) cod. proc. pen., quanto al capo G). B.L.H. in dibattimento aveva smentito le accuse rivolte all'imputato nella querela e comunque le dichiarazioni della persona offesa vanno sottoposte ad un rigoroso vaglio di attendibilità, che nella specie non era stato svolto.

9. In data 17/01/2022 è stata trasmessa memoria a firma dell'avv.to Francesco Galluccio Mezio nell'interesse di CO.M., con cui si deduce l'inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, in quanto generico - posto che omette di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata - e versato in fatto; quanto al profilo circa la sussistenza o meno dei presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., la difesa analizza le singole posizioni dei soggetti interessati, al fine di dimostrare la corretta valutazione operata dalla Corte di Assise si appello.
La difesa, infine, ripercorre il compendio probatorio vagliato in riferimento al proprio assistito al fine di dimostrare la totale insussistenza della fattispecie associativa al predetto originariamente ascritta, anche alla luce delle inutilizzabilità delle deposizioni dei testi G.N., V.S. e SA.J.P.Y..

10. In data 17/01/2022 è stata trasmessa memoria a firma dell'avv.to Valerio Spigarelli nell'interesse di P.L., integrata con documentazione trasmessa in data 18/01/2022, con cui si deduce l'inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, in quanto generico - posto che omette di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata - e versato in fatto; quanto al profilo circa la sussistenza o meno dei presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., la difesa analizza le singole posizioni dei soggetti interessati, al fine di dimostrare la corretta valutazione operata dalla Corte di Assise si appello.
La difesa, infine, ripercorre il compendio probatorio vagliato in riferimento al proprio assistito al fine di dimostrare la totale insussistenza delle fattispecie al predetto originariamente ascritte, di cui ai capi A) e B), anche alla luce delle inutilizzabilità delle deposizioni dei testi G.N. e V.S..

11. In data 17/01/2022 è stata trasmessa memoria a firma dell'avv.to Francesco Galluccio Mezio nell'interesse di P.G., con cui si deduce l'inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, in quanto generico - posto che omette di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata - e versato in fatto; quanto al profilo circa la sussistenza o meno dei presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., la difesa analizza le singole posizioni dei soggetti interessati, al fine di dimostrare la corretta valutazione operata dalla Corte di Assise si appello.
La difesa, infine, ripercorre il compendio probatorio vagliato in riferimento al proprio assistito al fine di dimostrare la totale insussistenza delle fattispecie al predetto originariamente ascritte, di cui ai capi A) e B), anche alla luce delle inutilizzabilità delle deposizioni dei testi G.N., V.S. e SA.J.P.Y..

12. In data 26/01/2022 è stata trasmessa memoria a firma dell'avv.to Gabriella Cetroni Ciraolo, nell'interesse di JA.S.B.A. e di AI.AB., con cui si illustrano le ragioni per le quali il ricorso del Procuratore generale va ritenuto del tutto infondato.



 

Diritto





1. Va ricordato che all'udienza del 01/02/2022, in via preliminare, è stata disposta la separazione della posizione del ricorrente P.L., difeso dall'avv. Valerio Spigarelli, impossibilitato a presenziare all'udienza, come da istanza di differimento depositata in cancelleria, con rinvio all'udienza del 16/03/2022.

A detta udienza, previa riunione della posizione del ricorrente P.L. al procedimento principale, si procedeva nuovamente alla relazione e, quindi, alla discussione con riferimento alla posizione del predetto ricorrente.

2. I ricorsi per cassazione del Procuratore generale e delle parti civili sono fondati e vanno, pertanto, accolti.
La presente motivazione, da un punto di vista metodologico, seguirà l'individuazione delle fondamentali tematiche processuali rispetto alle quali la sentenza impugnata risulta affetta da censure, procedendo, infine, ad individuare le lacune motivazionali della pronuncia anche in riferimento all'impostazione dalla stessa seguita per quanto concerne le fattispecie di reato esaminate. In tal senso le argomentazioni di seguito illustrate prendono in esame, congiuntamente, le comuni doglianze poste a fondamento dei ricorsi della parte pubblica e delle parti civili.

2.1. Un primo aspetto, che emerge evidente dall'analisi dell'impianto motivazionale della sentenza impugnata, consiste nella connotazione, apparentemente ampia ed articolata, della progressione illustrativa con cui si demolisce il percorso interpretativo seguito dal primo giudice. Tale incedere argomentativo si dipana, essenzialmente, attraverso nutriti richiami alla giurisprudenza di legittimità, nonché attraverso lo svolgimento di una critica serrata alla ricostruzione del primo giudice.
In tale contesto, tuttavia, le dichiarazioni dei testi vengono raramente e sinteticamente citate a sostegno della ricostruzione privilegiata dalla Corte territoriale, e, nei casi in cui ciò si verifica, essenzialmente in contrapposizione alle dichiarazioni di segno opposto, fornite dai testi della difesa, non rinvenendosi, nella motivazione in esame, alcuna analisi accurata delle deposizioni testimoniali nel loro complesso, soprattutto in riferimento a quei testi che hanno riferito sull'esito di complesse ed articolate attività di indagine.
A prescindere da quanto si dirà in seguito circa le ulteriori carenze della sentenza impugnata, in riferimento all'applicazione degli artt. 512, 512-bis, 195 cod. proc. pen., ciò che, quindi, risulta evidente e rilevante sotto un primo e determinante aspetto metodologico, è la mancata rispondenza dello sviluppo logico-argomentativo della sentenza impugnata all'obbligo della motivazione rafforzata.
Occorre, pertanto, per quanto di specifico rilievo, prendere la mosse dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 14800 del 21/12/2017, dep. 03/04/2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 272430 che ha ribadito come "il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte."
L'approdo di questa Corte nella sua più autorevole composizione appare estremamente rilevante, nel caso in esame, nella misura in cui viene sottolineato come il ruolo della vittima del reato all'interno del processo penale abbia "progressivamente assunto una dimensione operativa ed una rilevanza prima sconosciute, specie per effetto delle indicazioni provenienti dalla legislazione europea, quanto alla previsione di una serie di prerogative ed efficaci strumenti di tutela.". In tal senso è stata ricordata la direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 - che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, con l'obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri dell'Unione in relazione alle modalità di esercizio dei diritti delle vittime lungo tutto l'arco del procedimento penale - recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212.
Il legislatore europeo, quindi, non ha delineato un obbligo generico di escussione della vittima, operante anche in difetto di una specifica istanza, ma ha introdotto l'obbligo di assicurare che la stessa sia ascoltata ove ne faccia richiesta, affidando alla discrezionalità delle autorità giudiziarie nazionali la valutazione circa la necessità di procedere ad una nuova audizione.
Nel nostro ordinamento, in particolare, sussiste la disposizione di cui all'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., che consente al giudice d'appello di attivare i poteri officiasi disponendo una nuova audizione, ove lo ritenga "assolutamente necessario" in relazione al caso concreto.
Peraltro, è stato ricordato come nella medesima direzione di tutela s'inscrivono anche altri strumenti di recente introdotti dal legislatore, al fine di recepire le indicazioni dettate da numerose fonti normative euro-unitarie o internazionali di protezione delle vittime di reato, tra cui, in particolare per quanto qui rileva, il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, attuativo della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione-quadro 2002/629/GAI, nonché il decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9, attuativo della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 sull'ordine di protezione europeo.

Tali strumenti legislativi non si traducono nella previsione di alcun obbligo normativo di rinnovazione della escussione del dichiarante, ma sospingono "l'interprete verso una maggiore e più attenta considerazione delle esigenze di tutela e degli interessi di cui si fanno portatrici le persone offese all'interno del processo penale."; in tal senso va inquadrata anche la modifica normativa operata dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 sul testo dell'art. 603 cod. proc. pen., che conferma come il giudice di secondo grado possa riformare in senso assolutorio la decisione impugnata senza procedere ad una nuova assunzione delle dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio di condanna concluso in primo grado, purché dia in motivazione una puntuale e adeguata giustificazione delle difformi conclusioni cui è pervenuto.
Nel medesimo solco risulta orientata anche la giurisprudenza successiva, che ha ribadito come, in relazione al giudizio di appello, la motivazione rafforzata, richiesta nel caso di riforma della sentenza assolutoria o di condanna di primo grado, consista nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, attraverso un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanzia le o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore. Inoltre, è stato sottolineato come l'obbligo di motivazione rafforzata prescinda dalla rinnovazione dell'istruttoria, prevista dall'art.603, comma 3-bis, cod. proc. pen., in quanto trova fondamento nella necessità di dare una spiegazione diversa rispetto a quella cui era pervenuta la sentenza di primo grado (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056).
Non vi è dubbio, infine, che la violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata da parte del giudice di appello, che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado sulla base di un percorso ricostruttivo alternativo privo di giustificazione e non adeguatamente confutativo delle difformi conclusioni assunte, così travisando dati fattuali, configura un profilo di violazione di legge (Sez. 5, n. 32736 del 25/05/2021, Ferri Antonietta c. Maragos Giorgio, Rv. 281769).
La sentenza impugnata, quindi, appare prima facie carente nella misura in cui, come già in precedenza osservato, ha invertito la progressione logica del percorso motivazionale, giungendo ad una illustrazione delle conclusioni raggiunte ancor prima di estrinsecare in maniera approfondita la valutazione del materiale probatorio e le ragioni del diverso approccio ermeneutico rispetto al primo giudice, limitandosi, in concreto, ad apodittiche affermazioni di dissenso rispetto alle valutazioni formulate in primo grado, basandosi essenzialmente sulla contrapposizione tra testimoniali di segno opposto, di cui è stata tralasciata ogni effettiva valutazione critica.
Nel caso in esame, inoltre, bisogna considerare come il pubblico ministero e le parti civili ricorrenti abbiano sottolineato che, nel corso dell'istruttoria dibattimentale svolta in primo grado, le parti avessero concordato circa l'acquisizione delle denunce sporte da AB.I.  in data 20/10/2009, all'esito dell'esame dello stesso reso all'udienza del 14/11/2013; analogamente, C.P.D. e I.S. erano stati escussi all'udienza del 10/10/2013 e, sull'accordo delle parti, erano stati acquisiti i verbali delle dichiarazioni da loro rese nella fase delle indagini preliminari; anche le denunce di BE.B.M., Gh. M.f, B.L.H. risultano acquisite su accordo delle parti.
In riferimento a tali fonti di prova la sentenza impugnata manca di una esaustiva analisi valutativa, il che si traduce in un vulnus motivazionale irrimediabile proprio sotto l'aspetto della necessità di una motivazione rafforzata, ancor più cogente in relazione allo status di persone offese dei predetti soggetti.
La sentenza di primo grado, inoltre, aveva dato rilievo alle risultanze delle indagini, svolte attraverso servizi di osservazione, anche documentati attraverso riprese, ed intercettazioni telefoniche, del cui contenuto la sentenza impugnata non dà alcun conto esaustivo, neanche nella misura in cui ciò sarebbe stato necessario ai fini della qualificazione giuridica delle fattispecie; quest'ultima, infatti, non può prescindere dal riferimento alle specifiche circostanze fattuali emerse all'esito delle indagini ed oggetto delle prove testimoniali e documentali acquisite in dibattimento.
Ciò che emerge, quindi, in riferimento allo standard giustificativo in ipotesi di ribaltamento della pronuncia di primo grado, è la carenza da cui risulta affetta la motivazione della sentenza impugnata, alla luce delle descritte linee ermeneutiche tracciate da questa Corte.
Come già detto, la decisione di riforma della sentenza di primo grado deve confutare specificamente, salvo incorrere in vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione di condanna, sia sotto l'aspetto della critica valutativa del materiale probatorio, sia tenuto conto del rilievo attribuito alle esigenze di tutela e degli interessi di cui si fanno portatrici le persone offese all'interno del processo penale.
Nell'ordito motivazionale della sentenza impugnata, quindi, manca qualsiasi appagante considerazione ed estrinsecazione delle ragioni poste a fondamento delle scelte ermeneutiche operate, in riferimento ad elementi di prova diversamente valutati ed alla maggiore concludenza attribuita ad elementi di prova diversi da quelli posti a fondamento della sentenza di condanna.

Il mancato rispetto del principio della necessaria ostensione di un percorso argomentativo dissenziente, dotato di adeguata e maggiore persuasività, costituisce, quindi, una prima ragione di annullamento della sentenza impugnata, in quanto, per le ragioni illustrate, il deficit motivazionale denunciato emerge come connotato da entità tale, rispetto all'obbligo di motivazione rafforzata, da rendere il percorso giustificativo sostanzialmente apparente, in quanto irrimediabilmente fuorviato e non adeguatamente confutativo della statuizione riformata.

2.2. Altro aspetto nevralgico da considerare è quello della testimonianza indiretta.
La sentenza di primo grado ha dato ampio risalto alle deposizioni di V.S. e G.N., rispettivamente presidente e dirigente dell'associazione Finis Terrae Onlus che, nell'ambito di un progetto gestito dal comune di Nardò, si occupava della masseria Boncuri, una tendopoli destinata ad alloggiare parte dei lavoratori, oltre che occuparsi dell'assistenza agli stessi.
Entrambi i testi avevano riferito delle condizioni abbastanza dignitose in cui vivevano i lavoratori ospitati all'interno della masseria Boncuri, che era arrivata ad alloggiare fino a duecento lavoratori, ed avevano, altresì, descritto le condizioni in cui, al contrario, viveva la maggioranza dei lavoratori, in una sorta di baraccopoli che era sorta in un uliveto posto dall'altro lato della strada, in condizioni di totale degrado, all'aperto o sotto ripari di fortuna, privi di servizi igienici; nelle stesse condizioni si trovavano i lavoratori dislocati nella ex segheria e nei casolari abbandonati in prossimità della masseria Boncuri, tanto è vero che entrambi i testi riferivano che molti lavoratori, pur alloggiando altrove, si recavano all'interno della masseria per utilizzare i servizi igienici, specificando che in tali condizioni di degrado erano arrivati a vivere fino a cinquecento lavoratori.
I predetti testi avevano descritto come, nel 2010, un gruppo di lavoratori avesse chiesto ai volontari dell'associazione di chiamare la Polizia in quanto, non avendo avuto accesso all'acqua potabile durante le ore di lavoro, molti di loro presentavano segni di disidratazione, tanto è vero che il teste G.N. aveva personalmente segnalato il fatto alla Prefettura; la teste V.S., a sua volta, ricordava le condizioni di disidratazione in cui i lavoratori tornavano dopo l'orario lavorativo, rammentando che, insieme ai volontari dell'associazione, ella aveva personalmente distribuito l'acqua al mattino presto, prima che iniziasse il turno di lavoro, descrivendo, altresì, l'intervento dei medici della ASL, con cui l'associazione aveva interloquito, così come aveva anche chiesto l'intervento delle autorità comunali.

Sia la V.S. che il G.N., inoltre, riferivano dettagliatamente quanto appreso dalla viva voce dei lavoratori circa le ulteriori condizioni di lavoro, la corresponsione della paga, i ricatti esercitati e le minacce ricevute in danno dei predetti, i rapporti con i "caporali" e con i datori di lavoro, la protesta organizzata da SA.J.P.Y. contro le condizioni che i lavoratori erano costretti ad accettare per poter lavorare, indicando anche i nomi di alcuni dei "caporali", come riferito dai predetti lavoratori (pagg. 29-35 della sentenza di primo grado).
La Corte di appello ha liquidato le deposizioni dei testi V.S. e G.N. come testimoni de relato, rispetto ai fatti da loro riferiti, e generici, in quanto essi non avevano indicato le fonti di conoscenza diretta; citando giurisprudenza di legittimità relativa all'art. 195, comma 7, cod. proc. pen., quindi, la Corte territoriale ha concluso per l'inutilizzabilità delle dichiarazioni dei predetti testi.
La motivazione sul punto appare, anzitutto, macroscopicamente errata in punto di diritto: questa Corte regolatrice ha già chiarito che il divieto di cui all'art. 195, comma 7, cod. proc. pen., non opera secondo un cieco automatismo, in tutti i casi in cui il teste non sia in grado di fornire elementi idonei ad una univoca ed immediata identificazione della fonte delle informazioni da lui riferite, ma solo quando, per effetto di tale omessa identificazione, non sia possibile discutere, sulla base di dati certi e non seriamente controvertibili, dell'esistenza e dell'attendibilità di tale fonte; l'inutilizzabilità, quindi, non opera per il solo fatto che il teste de relato non fornisca elementi che permettano l'immediata ed univoca identificazione del teste diretto, rilevando, al contrario, l'identificabilità dello stesso (Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, L., Rv. 279259; Sez. 2, n. 13927 del 04/03/2015, Amaddio ed altri, Rv. 264015; Sez. 6, n. 37370 del 14/05/2014, Romeo, Rv. 260251; Sez. 1, n. 32963 del 11/05/2010, Rv. 248235; Sez. 3, n. 35426 del 03/07/2009, Belmonte, Rv. 240758; Sez. 3, n. 8674 del 13/06/1997, Cannavò ed altri, Rv. 209355).
In sostanza, la disposizione di cui al comma 7 dell'art. 195 cod. proc. pen., applicata dalla sentenza impugnata, avrebbe presupposto la sussistenza di un reale dubbio circa l'esistenza della fonte primaria, situazione del tutto diversa da quella in cui la testimonianza indiretta è consentita per impossibilità di esame del teste diretto, derivante da irreperibilità o da impossibilità di identificazione non riferibile a rifiuto o reticenza, situazione prevista all'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. Ciò in quanto si ritiene non sostenibile nel nostro ordinamento un principio che, in contrasto con quello del libero convincimento del giudice, preveda un meccanismo di preclusione di utilizzabilità della testimonianza indiretta, nonostante l'accertata impossibilità di esame del teste diretto, per sua irreperibilità o per impossibilità della sua identificazione, non riferibile a rifiuto o reticenza del teste indiretto.

La Corte di appello, quindi, avrebbe dovuto, anzitutto, porsi il problema della identificabilità dei testi diretti, considerato che, nel caso in esame, non sembra fosse emerso alcun rifiuto, da parte della V.S. e del G.N., a fornire le relative indicazioni.
Sotto altro profilo, va ricordato come la disposizione di cui al comma 7 della norma citata va, comunque, coordinata con i precedenti commi. In tal senso la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare che la parte interessata ha uno specifico onere di richiedere l'esame dei testi di riferimento; ed, infatti, sono utilizzabili, nel giudizio di appello, senza che ciò determini violazione dell'art.195, comma 1, cod. proc. pen., le dichiarazioni de relato, qualora nel giudizio di primo grado la difesa non avesse richiesto l'audizione del teste diretto; non vi è dubbio, infatti, che il mancato assolvimento dell'onere di richiedere l'esame dei testi diretti dimostra, anche implicitamente, la volontà di rinunciare ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame (Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, L., Rv. 279259; Sez. 5, n. 28595 del 07/04/2017, Antonini ed altro, Rv. 270870; Sez. 5, n. 32464 del 26/06/2001, Busatta L., Rv. 21970201).
Da nessun passaggio motivazionale della sentenza impugnata risulta che le difese degli imputati si fossero avvalse della facoltà di esaminare le fonti delle testimonianze indirette. Inoltre, la Corte di merito sembra ignorare del tutto il contenuto normativo dell'art. 195, commi 1, 2, 3, cod. proc. pen. - come risultanti dall'esegesi di legittimità - secondo cui è onere della difesa chiedere l'audizione del testimone di riferimento, anche se ne risulti impossibile o estremamente difficoltosa l'identificazione, dato che proprio il comma 1 dell'art. 195 cod. proc. pen. pone a carico della parte che abbia interesse all'utilizzazione della testimonianza indiretta o, in mancanza, del giudice, ai sensi degli artt. 507 e 603 cod. proc. pen., l'obbligo di compiere ogni accertamento utile all'identificazione del testimone diretto.
Sfugge alla Corte territoriale - per effetto di una lettura affrettata della disposizione, che si traduce in una violazione della legge processuale - che il comma 7 dell'art. 195 cod. proc. pen. prevede due casi di inutilizzabilità: da un lato il rifiuto di indicare le generalità della fonte di riferimento - e non è certamente il caso che occupa - e, dall'altro, il caso di chi non sia in grado di indicare la persona da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame. Tale seconda ipotesi non implica affatto la volontà, diretta o indiretta, della fonte primaria di non consentire la verifica di quella secondaria - in quanto, in tal caso, il legislatore sarebbe incorso in una pleonastica ripetizione di un caso già contemplato dalla disposizione normativa -, essendo, al contrario, funzionale proprio a rendere possibile alle parti l'esercizio del diritto previsto dal primo comma della norma citata. Ne discende, quindi, per quanto già indicato in precedenza, che il testimone indiretto può limitarsi a indicare solo elementi idonei a individuare la sua fonte, pur non essendo in condizione di fornirne le generalità (Sez. 3, n. 8674 del 13/06/1997, Cannavò e altri, Rv. 209355, secondo cui "È insostenibile nel nostro ordinamento un principio che, in contrasto con quello del libero convincimento del giudice, preveda un meccanismo di preclusione di utilizzabilità della testimonianza indiretta, nonostante l'accertata impossibilità di esame del teste diretto, per sua irreperibilità o, a maggior ragione, per impossibilità della sua identificazione, non riferibile a rifiuto o reticenza del teste indiretto. Né può ritenersi che la testimonianza indiretta sarebbe, comunque, inutilizzabile per il divieto contenuto nell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen., qualora il teste indiretto non sia in grado di indicare, al di là del solo nome di battesimo, la persona da cui abbia appreso la notizia dei fatti illeciti, poiché tale 'indicazione' non va, invero, intesa come informazione completa sui dati anagrafici e su/l'indirizzo della persona, dalla quale la notizia proviene, bensì come dato oggettivo, in forza del quale risulti indubitabile la sua reale esistenza quale soggetto costituente. fonte originaria e diretta della notizia."; in senso conforme: Sez. 3, n. 35426 del 03/07/2008, Belmonte, Rv. 240758; Sez. 3, n. 12916 del 02/03/2010, Hoxha, Rv. 246611).
Va, quindi, ribadito che l'inutilizzabilità della dichiarazione de relato deriva dall'inosservanza della disposizione del comma 1 dell'art. 195 cod. proc. pen., allorché il giudice, su richiesta della parte, non abbia disposto l'esame della fonte diretta, ma non anche, in assenza di tale richiesta, dal mancato esercizio, da parte del giudice, del potere d'ufficio conferitogli dall'art. 507 cod. proc. pen. e richiamato dall'art. 195, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 337064 del 12/03/2019, Malcangi Riccardo Vladimiro, Rv. 276696; Sez. 3, n. 6212 del 18/10/2017, dep. 09/02/2018, C., Rv. 272008).
Nell'ottica processuale fondata sull'oralità e sul contraddittorio, infatti, allo scopo di consentire il vaglio di attendibilità del teste di riferimento, non vi è dubbio che al diritto alla prova riconosciuto alle parti corrisponda, in parallelo, il potere del giudice di disporre, anche d'ufficio, l'esame di tali testi, come espressamente previsto dal comma 2 dell'art. 195 cod. proc. pen.; proprio l'integrazione tra il diritto alla prova delle parti ed il potere di integrazione da parte del giudice fa sì che - come previsto dall'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. - qualora il giudice, nonostante la richiesta della parte, non disponga la citazione del teste di riferimento, la testimonianza de relato è inutilizzabile, salvo che l'esame divenga impossibile per morte, infermità o irreperibilità.
Come già detto, quindi, la progressione dibattimentale, nel caso di specie, non ha evidenziato - considerata la motivazione della sentenza impugnata - né la richiesta da parte della difesa di esaminare le fonti dirette citate dai testi de relato, né l'esercizio di un autonomo potere, in tal senso, da parte del giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen.; né la stessa Corte di merito ha attivato tali poteri, ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., come ben avrebbe potuto fare, non essendosi, al contrario, affatto posta il problema della possibilità di ricorrere al meccanismo di integrazione citato, essendosi, invece, limitata ad affermare frettolosamente l'inutilizzabilità delle dichiarazioni dei testi G.N. e V.S..
Tale superficiale applicazione delle disposizioni normative, inoltre, ha anche impedito alla Corte territoriale di considerare che le deposizioni dei predetti testi presentavano una doppia valenza, essendo le stesse solo in parte de relato, laddove, del tutto palesemente, per altri aspetti, le dette dichiarazioni avevano ad oggetto circostanze cadute sotto la diretta percezione dei testi medesimi (basti pensare, ad esempio - come emerge dalla incontestata motivazione del primo giudice - alle condizioni di disidratazione dei lavoratori constatate personalmente dalla V.S. e dal G.N., oltre che alle condizioni di disagio estremo in cui i lavoratori vivevano all'esterno della masseria Boncuri, su cui sia la V.S. che il G.N. hanno riferito circostanze a loro personalmente note; alle telefonate a cui la V.S. stessa aveva assistito circa la contrattazione dei prezzi tra lavoratori ed i "caporali"; alle minacce ricevute dalla V.S. direttamente a causa della sua attività di assistenza ai lavoratori).
In relazione alle circostanze su cui la V.S. ed il G.N. sono evidentemente testi diretti, quindi, l'errore di diritto in cui la Corte di merito è incorsa appare ancor più macroscopico.
Peraltro, come emerge dal contenuto delle deposizioni dei predetti testi, riportato nelle sentenze di merito, sia la V.S. che il G.N. avevano fatto chiaramente riferimento a soggetti a loro noti - sia nella misura in cui avevano riferito di notizie apprese da lavoratori che facevano capo all'associazione di cui i testi stessi erano responsabili, sia in quanto avevano riferito del coinvolgimento, ad esempio, di personale della ASL competente e dell'amministrazione comunale
- , sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare la sussistenza di elementi che, in relazione a ciascuna fonte diretta delle notizie apprese, ne consentisse l'identificabilità in concreto, a prescindere dal fatto che il testimone de relato fosse o meno in grado di fornire elementi che permettessero l'immediata ed univoca identificazione del teste diretto, purché quest'ultimo risultasse quanto meno identificabile.
Solo all'esito di detta verifica, attivata su istanza di parte o di ufficio, ai sensi dell'art. 195, commi 1 e 2, cod. proc. pen., il giudice è tenuto all'applicazione del meccanismo di cui all'art. 195, comma 3, cod. proc. pen.; sicché, escluso il dubbio circa l'esistenza della fonte primaria, la testimonianza indiretta è consentita qualora l'impossibilità di esame del teste diretto derivi da irreperibilità o da impossibilità di identificazione non riferibile a rifiuto o reticenza, oltre che da morte.
Sotto questo aspetto, quindi, la sentenza impugnata va annullata per nuovo esame, dovendo il giudice in sede di rinvio operare, anzitutto, la diversificazione delle dichiarazioni dei testi in base al loro contenuto, al fine di valutarne la componente costituente dichiarazioni dirette come distinta da quelle de relato, sulla scorta della corretta applicazione dei relativi criteri ermeneutici.

2.3. Il terzo profilo processuale rilevante riguarda l'operatività degli artt.512 e 512-bis cod. proc. pen.
La sentenza di primo grado, alle pagg. 35 e segg., ha ricordato come fosse stata disposta l'acquisizione delle sommarie informazioni testimoniali rese nella fase delle indagini preliminari da A.A., BE.A.T., J.Y., D.K., J.A., D. Ma. e V. B., all'esito delle nuove ricerche effettuate nel corso del giudizio di primo grado - essendo state ritenute non appaganti quelle disposte dal pubblico ministero - sia in Italia che all'estero, a mezzo Polizia giudiziaria ed Interpol, disponendo, quindi, l'acquisizione dei relativi verbali ai sensi degli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., stante la perdurante irreperibilità dei testi, ritenendo la stessa sopravvenuta nel corso delle indagini preliminari ed inizialmente non prevedibile, dato che si trattava di stranieri muniti di regolare permesso di soggiorno.
La Corte di merito, invece, dopo aver sottolineato come le due disposizioni di cui agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen. operino su piani diversi, ha rilevato che proprio le condizioni del caso manifestavano, alla luce della giurisprudenza di legittimità, la ragionevole prevedibilità - con valutazione ex ante - dell'allontanamento dei soggetti dai domicili dichiarati, il che avrebbe dovuto indurre a disporre l'incidente probatorio. In particolare, la sentenza impugnata ha evidenziato come i dichiaranti non avessero affatto uno stabi le collegamento con il territorio italiano, ove erano giunti dalla Tunisia, vivessero in condizioni precarie, con problemi di conoscenza della lingua, senza stabile attività lavorativa, come dimostrato anche dal fatto che alcuni di essi risultavano domiciliati presso la masseria Boncuri, ossia presso un centro di permanenza temporaneo, in quanto muniti di un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari. Proseguendo nell'analisi delle singole posizioni individuali, la sentenza impugnata ha ricordato che D.M., in particolare, pur essendo presente in Italia da un periodo più lungo, non aveva fornito alcun indirizzo specifico, essendosi spostato in vari luoghi in cerca di lavoro; BE.A.T. e A.A. erano giunti in Italia con un visto temporaneo per motivi di lavoro, della durata di nove mesi, il che era già dimostrativo di una mancanza di radicamento in Italia, avendo essi dichiarato il loro domicilio presso una cooperativa sociale senza alcuna indicazione della stabilità di tale sistemazione; quanto al W.B., questi era detenuto in esecuzione pena al momento in cui era stato escusso, per cui era evidente che, trattandosi di clandestino, sarebbe stato espulso una volta scontata la pena; A.A. e BE.A.T. avevano entrambi dichiarato la loro residenza in Tunisia, non essendo sufficiente la loro domiciliazione presso un centro di aiuto sociale in Bari, così come la domiciliazione di altri dichiaranti presso la masseria Boncuri non appariva sufficiente a rendere imprevedibile il loro allontanamento. Infine, le ricerche disposte si erano estrinsecate in maniera esclusivamente cartolare, sulla base delle risultanze delle banche dati delle forze di polizia, senza attendere l'esito delle citazioni inviate attraverso le sedi competenti per l'inoltro alle autorità tunisine.
Sulla base di tali argomentazioni la Corte territoriale ha affermato l'insussistenza dei presupposti legittimanti l'acquisizione dei verbali di sommarie informazioni testimoniali ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen., nonché ai sensi dell'art. 512-bis cod. proc. pen., norma peraltro impropriamente richiamata, con conseguente inutilizzabilità delle medesime dichiarazioni. Sul punto, in particolare, la Corte territoriale ha affermato che l'art. 512-bis cod. proc. pen. si applica solo alle dichiarazioni rese da persona residente all'estero, mentre in maniera contraddittoria il primo giudice aveva ritenuto non prevedibile l'allontanamento dei dichiaranti in quanto stabilmente residenti in Italia, pur applicando l'art. 512-bis cod proc. pen.
Tanto premesso, va osservato che sicuramente condivisibile appare la critica mossa dalla Corte di merito circa il richiamo effettuato dal primo giudice, in maniera indistinta, alle disposizioni di cui agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., richiamo avulso da qualsiasi approfondimento concettuale della diversa operatività delle dette norme, superficialmente affiancate nella loro sfera di operatività. Tuttavia, neanche condivisibili appaiono le conclusioni cui è prevenuta la Corte territoriale che, a sua volta, è giunta a risultati del tutto eterogenei ed inconciliabili rispetto ai canoni emerneutici individuati in sede di legittimità.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire - con indirizzo dal quale il Collegio non intende discostarsi - che "In tema di acquisizione di verbali di dichiarazioni rese, in fase di indagini preliminari, da persona residente a/l'estero, la disciplina di cui a/l'art. 512-bis cod. proc. pen. non è applicabile alle dichiarazioni dei cittadini stranieri che abbiano avuto dimora in Italia per un periodo di tempo comunque apprezzabile, risiedendovi anche solo di fatto, riguardando coloro che, al momento del rilascio, si siano trovati solo transitoriamente sul territorio italiano." (Sez. 5, n. 4945 del 20/01/2021, T., Rv. 280669; conformi: Sez. 3, n. 2470 del 01/12/1999, dep. 29702/2000, Massi I., Rv 215530; Sez. 3, n. 12374 del 11/02/2013, Tiani ed altro, Rv. 255389).
Come rilevato, infatti, dall'indicato indirizzo esegetico, la disposizione richiamata non impiega il termine "residenza" nel suo significato tecnico giuridico, come nozione contrapposta o comunque differenziata rispetto a quella della dimora, ma si riferisce esclusivamente a quei cittadini stranieri che sono di fatto stabilmente e normalmente residenti e dimoranti all'estero, e che soltanto occasionalmente e per un periodo breve e transitorio si siano trovati ad essere presenti in Italia. La disposizione, pertanto, non è applicabile a quei cittadini stranieri che abbiano conservato la residenza all'estero ma che di fatto abbiano avuto o abbiano dimora in Italia per un periodo di tempo comunque apprezzabile e non si siano, invece, limitati ad una breve permanenza sul territorio italiano.
Ciò anche al fine di assegnare alla norma - che costituisce una rilevante eccezione al principio dell'oralità e del contradditorio probatorio nel dibattimento - una portata che la renda il più possibile conforme a principi costituzionali di cui all'art. 111 Costituzione.
In particolare, sul tema, va ricordato l'approfondimento della tematica operato da Sez. 5, n. 13522 del 18/01/2017, S., Rv. 269398, secondo cui "In tema di acquisizione di verbali di dichiarazioni rese, nel corso delle indagini, da persona residente all'estero, l'art. 512 bis cod. proc. pen. trova applicazione esclusivamente nel caso in cui le dichiarazioni della cui lettura si tratta siano state rese da soggetto effettivamente residente in quel momento a/l'estero, dovendo invece trovare applicazione la disciplina di cui all'art. 512 cod. proc. pen. qualora tale soggetto fosse, al momento della deposizione, anche di fatto residente in Italia."; la pronuncia ha esaurientemente ricordato come, su piani del tutto diversi, l'art. 512-bis cod. proc. pen. trova applicazione purché il soggetto fosse effettivamente residente all'estero al momento in cui aveva reso le dichiarazioni della cui lettura si tratta, mentre la disposizione di cui all'art. 512 cod. proc. pen., comprensiva anche del requisito della imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione, si applica se il soggetto al momento della deposizione era anche di fatto residente in Italia.
Nel caso di specie, quindi, come evidenziato proprio dalla descrizione della vicenda posta a base delle sentenze di merito, i cittadini stranieri, alla luce delle loro condizioni personali, oltre che delle modalità e circostanze del raggiungimento del territorio italiano, non possono sicuramente ritenersi soggetti che abbiano avuto una limitata e transitoria permanenza sul territorio nazionale, dove erano giunti nella speranza di conquistare migliori condizioni di vita oltre che per sfuggire a deleterie situazioni nei rispettivi paesi di origine, dovendosi ritenere, quindi, soggetti di fatto residenti in Italia. Pertanto, nei loro confronti non è applicabile la sfera di operatività dell'art. 512-bis cod. proc. pen., seppure per ragioni diverse da quelle indicate dalla sentenza impugnata, che ha operato un generico e non approfondito richiamo al concetto di residenza all'estero.
Ne discende che, nel quadro processuale di riferimento, la norma applicabile è quella di cui all'art. 512 cod. proc. pen., in relazione alla quale, quanto alla individuazione della legittima lettura delle sommarie informazioni testimoniali rese nella fase delle indagini preliminari, appare necessario richiamare i criteri individuati dal massimo consesso nomofilattico di questa Corte con la sentenza n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio ed altro, Rv. 225470, secondo cui "Ai fini della legittimità della lettura di atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dal difensore di una parte privata o dal giudice nel corso dell'udienza preliminare, a norma dell'art. 512 cod. proc. pen., l'irreperibilità sopravvenuta del soggetto che abbia reso dichiarazioni predibattimentali - alla quale non può attribuirsi presuntivamente il significato della volontaria scelta di sottrarsi all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore - integra, se accertata con rigore, un'ipotesi di oggettiva impossibilità di formazione della prova in contraddittorio e di conseguente irripetibilità dell'atto dovuta a fatti o circostanze imprevedibili."
Sulla scia dei criteri forniti dalle Sezioni Unite, l'approdo di questa Corte regolatrice, in riferimento alla peculiare situazione di cittadini extracomunitari, anche privi di permesso di soggiorno, condotti presso una struttura di accoglienza, ha ritenuto, in più di una pronuncia, che fosse ragionevole ipotizzare che gli stessi vi permanessero sino al momento dell'incidente probatorio richiesto dal pubblico ministero (Sez. 1, n. 3135 del 14/12/2021, dep. 27/01/2022, Shishlov Oleksey, Rv. 282492; in senso conforme: Sez. 6, n. 21312 del 5/4/2018, Singh, Rv. 2734651; Sez. 2, n. 49007 del 16/9/2014, lussi, Rv. 261427).
Come illustrato da tali sentenze, premesso che la mera condizione di cittadino extracomunitario privo del permesso di soggiorno non è sufficiente, di per sé, a rendere prevedibile il suo allontanamento dal territorio nazionale e l'assenza dal dibattimento (Sez. 3, n. 38342 del 25/06/2013, Umani, Rv. 256433 Sez. 1, n. 16210 del 23/03/2006, Pittella, Rv. 234215; Sez. 3, n. 40957 del 3/10/2005, Benkhalek ed altro, Rv. 232367), ai fini della lettura di dichiarazioni predibattimentali, l'imprevedibilità della impossibilità di ripetizione dell'atto va valutata con criterio ex ante, avuto riguardo non a mere possibilità o evenienze astratte e ipotetiche, ma sulla base di conoscenze concrete, di cui la parte interessata poteva disporre fino alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto chiedere l'incidente probatorio.
Alla luce di tali criteri interpretativi, la motivazione della Corte territoriale appare del tutto illogica e contraddittoria, nella misura in cui ha confuso le condizioni di precarietà derivanti dallo status di migrante (scarsa conoscenza della lingua italiana, assenza di stabilità lavorativa e di vita) con la prevedibilità dell'allontanamento, atteso che trattasi di concetti processualmente non assimilabili.
La stessa sentenza impugnata ha specificamente considerato come alcuni dei dichiaranti fossero muniti di un visto temporaneo per motivi di lavoro ed altri di un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari e, comunque, avessero dichiarato domicilio presso le strutture di accoglienza, elementi che avrebbero dovuto far ritenere evidente la mancanza di radicamento con il territorio italiano; al contrario, dall'istruttoria dibattimentale, per come emerge dalla motivazione delle sentenze di merito, risulta che altri testi escussi in dibattimento, le cui condizioni erano del tutto analoghe a quelli dei sette dichiaranti delle cui sommarie informazioni si discute, erano stati, invece, reperiti sul territorio nazionale.
In particolare, come risulta dalle pagg. 40 e segg. della sentenza di primo grado, i testi CU.P.D., P. D., I.S., AB.I., BE.B.M., B.L.H., G.M., F.H., Me. F., pur avendo descritto le medesime modalità di approdo in Italia e le medesime condizioni personali e lavorative di coloro resisi in seguito irreperibili, erano stati reperiti sul territorio nazionale ed avevano deposto in dibattimento nel 2014, a distanza di circa tre anni dai fatti, a dimostrazione che la peculiarità delle comuni condizioni di vita dei predetti soggetti - fossero essi testi ovvero soggetti escussi a sommarie informazioni testimoniali - non può essere elevata a categoria processualmente rilevante sulla base di una acritica applicazione del concetto di prevedibilità della impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen.
Peraltro, quanto ai denuncianti J.Y. e A.A., il pubblico ministero, nel ricorso per cassazione, ha sottolineato come entrambi risultavano presenti anche nelle banche dati dell'INPS per il 2011 ed il 2012, il primo per aver svolto lavoro subordinato in Italia, con residenza nel comune di Ginosa e munito di permesso di soggiorno, il secondo censito dapprima come lavoratore dipendente e, quindi, come titolare di partita IVA per il commercio al dettaglio ambulante.
Trattasi di circostanze che - sebbene documentate agli atti del dibattimento non sono state in alcun modo valutate dalla Corte territoriale, che ha proceduto ad una sommaria delibazione di situazioni individuali che, invece, avrebbero dovuto essere singolarmente considerate nella loro specificità.
Sempre nell'ottica di una (omessa) approfondita verifica delle situazioni individuali, la Corte di merito ha fatto riferimento alla circostanza che alcuni dei dichiaranti avessero ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza affatto considerare le peculiarità di tale provvedimento. Trattasi, infatti, di un titolo di soggiorno previsto da una norma di portata generale, l'art. 5, comma 6, d.lgs. 286/1998, come successivamente modificato, posta a chiusura del sistema che disciplina l'ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio italiano; la disposizione prevede che il Questore debba comunque rilasciarlo in presenza di "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano".
Tale un permesso di soggiorno, quindi, viene rilasciato in funzione del rispetto dei diritti fondamentali della persona ed in adempimento degli obblighi gravanti sullo Stato, in base ai principi di cui agli artt. 2, 3, 10 della Costituzione e delle altre disposizioni internazionali che proteggono diritti e libertà fondamentali universali della persona, escludendo la possibilità di bilanciare tale diritto al soggiorno con altri interessi confliggenti, pur meritevoli di tutela, comprese le esigenze di sicurezza dello Stato e di controllo dei flussi migratori (tra le altre, Corte costituzionale, sentenza n. 202 del 2013).
La norma, peraltro, esclude ogni discrezionalità decisoria, posto che l'amministrazione ha "so/o il potere di accertare la sussistenza dei requisiti obiettivi per la concessione della protezione umanitaria, nell'esercizio di un potere vincolato o al massimo di mera discrezionalità tecnica" (Sez. U civili, n.19393 del 09/09/2009, Rv. 609272); le stesse Sezioni Unite civili, di recente, hanno rilevato come "In base alla normativa del testo unico sull'immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d'integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana, fermo restando che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia; qualora poi si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d'origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un 'vulnus' al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno." (Sez. U, n. 24413 del 09/09/2021, Rv. 662446).
Tali sommari cenni alla disciplina dell'istituto, anche alla luce delle pronunce di legittimità sul punto, rendono del tutto evidente come il permesso di soggiorno per motivi umanitari non implichi affatto, di per sé, una situazione che possa far ritenere prevedibile un successivo allontanamento del richiedente dal territorio italiano, come ritenuto dalla sentenza impugnata; al contrario, la stessa ratio dell'istituto, in astratto ragionando, dovrebbe indurre a conclusioni opposte: privilegiando l'esigenza del soggetto richiedente a sottrarsi a situazioni di grave pericolo nel paese di origine, l'istituto, anche a prescindere dall'attualità del radicamento in territorio italiano del richiedente, implica quanto meno una ragionevole possibilità in tal senso.
Da tale inquadramento dell'istituto ne discende che, in ogni caso, la valutazione da parte della Corte di merito avrebbe dovuto tenere in debito conto le specificità dei casi in esame, con particolare riferimento alla plausibilità e prevedibilità di un possibile radicamento in Italia del richiedente; tali situazioni, al contrario, non risultano affatto prese in considerazione, né esplicitate, sulla base di un inappagante ragionamento massimalista e sostanzialmente omissivo.
Considerazioni analoghe vanno fatte in riferimento a quei dichiaranti che risultavano muniti di un permesso di soggiorno per ragioni lavorative, posto che il rilascio di tale titolo presuppone l'esistenza di un rapporto lavorativo che, in considerazione anche delle ragioni che avevano spinto i soggetti titolari a recarsi in Italia, non appare idoneo ad integrare, in astratto, una prevedibile causa di impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni in riferimento al momento di assunzione delle stesse, ovvero a quello in cui avrebbe potuto essere svolto l'incidente probatorio.
Né, infine, appare logica la motivazione della Corte nella misura in cui ha sottolineato che i dichiaranti avevano indicato come domicilio la sede di associazioni di assistenza, il che avrebbe indicato una situazione oggettiva di precarietà; anzitutto, si confonde il concetto di temporanea operatività del centro sito presso la masseria Boncuri - in quanto legato al periodo stagionale di raccolta - e l'asserita temporaneità anche dell'assistenza prestata, da altre associazioni di volontariato, con la prevedibilità di un futuro allontanamento del cittadino extracomunitario che usufruisce di dette associazioni, senza considerare nemmeno come tale situazione appaia, di per sé, del tutto neutra, posto che - come detto e come risulta dalla motivazione delle stesse sentenze di merito - in situazioni identiche altri cittadini extracomunitari erano stati regolarmente reperiti ed escussi come testi in dibattimento, peraltro a distanza di un considerevole arco temporale dai fatti contestati, non risultando che essi avessero, nel frattempo, stabilito la loro residenza in Italia.
Persino per W.B. - che era clandestino e detenuto al momento in cui era stato assunto a sommarie informazioni testimoniali - la motivazione appare incongrua: se, infatti, è ragionevole ritenere che questi sarebbe stato espulso al momento della espiazione della pena, la Corte di merito avrebbe dovuto verificare e specificare se tale espiazione fosse o meno prossima rispetto alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto essere chiesto l'incidente probatorio.
Riassumendo, quindi, l'analisi sin qui condotta è finalizzata a sottolineare come la mera condizione di cittadino extracomunitario non possa essere considerata apoditticamente ed astrattamente quale indice di prevedibile irreperibilità - come già più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte
regolatrice - , né la motivazione in tal senso può basarsi su circostanze che fisiologicamente connotano tale specifico status (quali la precarietà della condizione lavorativa, la mancanza di residenza in Italia, la domiciliazione presso associazioni di volontariato), posto che nozioni di comune esperienza dimostrano, al contrario, la presenza in Italia di numerosi cittadini extracomunitari radicati sul territorio, pur a fronte di condizioni precarie di sostentamento.
Proprio il rifuggire da ogni preclusione concettuale avrebbe reso necessario, da parte della Corte territoriale, valutare le posizioni dei singoli dichiaranti, peraltro basando tale verifica su concrete emergenze, riferibili a ciascuno di essi, prescindendo da ogni categorizzazione e generalizzazione ed ancorando tale ricognizione all'analisi delle predette circostanze, contestualizzate alla scadenza del termine entro il quale avrebbe potuto essere chiesto l'incidente probatorio.
Anche sotto tale aspetto, quindi, la sentenza impugnata va annullata; fatto salvo l'esito della verifica stessa, il giudice di rinvio dovrà attenersi ai principi di diritto sin qui illustrati nella disamina applicativa concreta dell'art. 512 cod. proc. pen. e, qualora se ne rilevassero i corretti presupposti applicativi, dell'art. 512- bis cod. proc. pen.

3. Esaurita la trattazione dei profili processuali, occorre procedere all'esame dei motivi di ricorso che più specificamente aggrediscono il vizio di motivazione della sentenza in relazione alle fattispecie di reato di cui agli artt. 416 cod. pen. e 600 cod. pen. (capi A e B dell'imputazione).
Considerata la delicatezza e la rilevanza della vicenda, occorre partire dalla considerazione del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù.

3.1. La sentenza di primo grado, all'esito della valutazione del compendio probatorio, ha ravvisato la sussistenza di "un preordinato, organizzato, sistematico, massivo sfruttamento della forza lavoro costituita dai lavoratori stranieri, di prevalente provenienza africana, utilizzati nelle campagne di Nardò e .. dintorni, da parte dei datori di lavoro per tramite di altri stranieri immigrati,
talvolta connazionali degli stessi lavoratori, ai quali si attaglia perfettamente la definizione di 'caporali"'.
Considerato come, nel caso in esame, non fosse applicabile il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen., in quanto i fatti in esame risultano commessi dal 2008 fino all'agosto 2011, mentre il reato da ultimo indicato risulta entrato in vigore a seguito del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 e, comunque, la fattispecie di illecita intermediazione deve ritenersi assorbita in quella di cui all'art. 600 cod. pen., il primo giudice aveva ricordato come nella campagne di Nardò fosse necessario rivolgersi ai "caporali" per trovare lavoro; che i predetti fossero facilmente rintracciabili presso determinati luoghi e si occupassero della predisposizione delle squadre di lavoro, facendosi consegnare i documenti dai lavoratori, al fine di predisporre i contratti, in caso di lavoratori muniti di permesso di soggiorno e, comunque, trattenendo i documenti che venivano restituiti a distanza a volte anche di mesi; i caporali, inoltre, si occupavano di prelevare i lavoratori, ivi inclusi clandestini, portandoli, dietro pagamento, sui luoghi di lavoro, gestendone e controllandone l'attività lavorativa e fornendo loro, sempre dietro compenso, un panino e, in alcuni casi ma non sempre, l'acqua da bere.
La sentenza di primo grado ha ricordato come le condizioni dei lavoratori facevano sì che essi si trovassero essenzialmente in balìa dei caporali, talvolta loro connazionali, ai quali veniva attribuito un improprio ruolo sociale, considerato che questi ultimi rappresentavano l'unico tramite con la possibilità di ottenere lavoro.
Il primo giudice, in particolare, ha sottolineato come fosse prassi diffusa il trattenimento per lungo tempo dei documenti dei lavoratori, ivi incluso il permesso di soggiorno di quelli che ne erano muniti, questi ultimi documenti utilizzati anche per crearne falsi per i lavoratori clandestini; tale modalità di gestione dei documenti rendeva impossibile, per i lavoratori, potersi spostare, essendo gli stessi, in sostanza, in balìa dei "caporali", posto che ad ogni controllo da parte delle forze dell'ordine gli immigrati correvano il rischio di essere rimpatriati; tale situazione costringeva, inoltre, i lavoratori ad accettare orari di lavoro impossibili, con salari fortemente decurtati, in alcuni casi addirittura senza alcuna retribuzione; quanto agli orari di lavoro, è stato sottolineato come gli stessi si aggirassero tra un minimo di dieci ed un massimo anche di sedici ore lavorative al giorno, in condizioni climatiche proibitive, senza riparo dal sole, con scarse pause ed alcuna possibilità di ristoro; tutto ciò aveva spesso determinato gravi condizioni di disidratazione e problemi di salute, anche per la totale assenza di misure di igiene e prevenzione sui luoghi di lavoro e per la resistenza persino ad accompagnare in ospedale i lavoratori che ne avevano bisogno, peraltro sempre dietro pagamento.
Inoltre, è stato evidenziato come i lavoratori non potessero neanche protestare in quanto, qualora ciò avvenisse, venivano minacciati di non essere pagati e di essere esclusi dal lavoro; i salari corrisposti, in ogni caso, e nonostante le prestazioni usuranti, erano estremamente bassi ed altresì erosi dal pagamento obbligatorio per i trasporti ed il vitto.
Quanto alle condizioni di vita di centinaia di lavoratori, la sentenza di primo grado ha evidenziato come i predetti fossero costretti a vivere in condizioni "oggettivamente subumane, se non disumane", addirittura più degradate di quelle riscontrabili nelle bidonville africane, alloggiando i medesimi - con eccezione di coloro che riuscivano ad accedere presso la masseria Boncuri - in casolari di campagna o in una segheria dismessa, o addirittura sotto gli alberi, senza servizi igienici e senza acqua corrente, utilizzando buche scavate nel terreno o, quando possibile, i servizi igienici della masseria Boncuri, e conservando in taniche l'acqua da bere prelevata presso le fontane comunali.
Tutto ciò, considerate anche le drammatiche vicende di immigrazione dei lavoratori, determinava una condizione psicologica di soggezione continuativa che andava, comunque, ad innestarsi su una pregressa situazione di estrema vulnerabilità.
3.2. La motivazione della sentenza impugnata, alle pagg. 63 - 82 ha escluso la sussistenza della fattispecie di cui all'art. 600 cod. pen. sviluppando un ragionamento che, partendo da ampia citazione della giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato come nella situazione verificatasi a Nardò erano stati coinvolti imprenditori e "caporali" in un contesto di sfruttamento della manodopera, senza, tuttavia, giungere a forme così pregnanti di coartazione, men che meno riferibili alla diretta volontà degli imprenditori. In tale situazione, al più, avrebbe potuto risultare rilevante l'art. 603-bis cod. proc. pen., tuttavia non applicabile nell'attuale formulazione, come introdotta da fonte normativa successiva ai fatti in esame, come già evidenziato dal primo giudice.
La sentenza impugnata, quindi, ha affermato che l'errore in cui è incorsa la pronuncia di primo grado consiste nell'aver incluso nella riduzione in schiavitù la violazione delle norme sulla intermediazione, considerando provata una presunta incapacità dei lavoratori di sottrarsi alle condizioni di sfruttamento. Al contrario - ha proseguito la Corte di merito - i lavoratori giungevano spontaneamente a Nardò, provenendo da altre parti d'Italia, in quanto era noto che in estate era possibile lavorare nella raccolta delle angurie e dei pomodori, e potevano liberamente allontanarsi dalla detta località, una volta cessata la raccolta stagionale, salvo farvi ritorno l'anno successivo, dopo essersi liberamente mossi in Italia. Quanto al ruolo dei "caporali", la sentenza impugnata ha rilevato l'insussistenza di violenze fisiche sistematiche da parte degli stessi, posto che erano, tra l'altro, i lavoratori ad organizzarsi direttamente in squadre, avendo il primo giudice anche confuso il ruolo di "caporale" con quello di caposquadra, come nel caso di A.AB.. Né sarebbero state provate le condizioni di sfruttamento illecito della manodopera, avendo gli ispettori del lavoro verificato solo situazioni di irregolarità, risultando generiche le dichiarazioni della V.S. e del G.N. sulle condizioni di disidratazione dei lavoratori e neanche provato compiutamente l'orario di lavoro superiore alle dieci ore giornaliere, anche alla luce delle dichiarazioni dei testi della difesa e dei mancati rilievi da parte degli ispettori del lavoro; l'obbligo imposto ai lavoratori di farsi trasportare dai caporali e di acquistare i generi di prima necessità, decurtando il costo dalla paga, è stato ritenuto parimenti non adeguata mente provato, anche in relazione al dolo degli imprenditori, che non risulta neanche sapessero tali circostanze; né sarebbero stati acquisiti riscontri sufficienti alla condotta di sottrazione dei documenti da parte dei "caporali", posto che la consegna dei documenti avveniva su base volontaria per la predisposizione dei contratti di lavoro, con la loro restituzione dopo qualche giorno, senza alcuna forma di ricatto o coartazione in funzione del reclutamento.
Quanto alle condizioni di vita dei lavoratori, la sentenza impugnata, pur avendo rilevato la corretta descrizione del degrado in cui vivevano i lavoratori accampati nelle campagne adiacenti la masseria Boncuri, ha ritenuto non riferibile agli imputati tali condizioni, "peraltro stratificate nel tempo e già ben note alle istituzioni pubbliche ed alle associazioni che avevano la responsabilità di garantire condizioni di vita accettabili e di monitorare la situazione per intervenire al bisogno"; in sostanza, dette condizioni non erano ascrivibili direttamente o indirettamente né ai "caporali" né agli imprenditori, che non avevano costretto i lavoratori ad accettarle.
3.3. Va premesso, quanto all'inquadramento della riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, che in epoca moderna la categoria concettuale dei diritti di una persona su un'altra è del tutto improponibile, posto che sia la schiavitù che la servitù della gleba sono ormai un retaggio storico del passato. Ciò nondimeno, sussistono forme di asservimento, realizzate su base contrattuale, ossia in base ad un accordo in cui volontariamente una parte - economicamente e/o socialmente in condizione di notevole debolezza - si assoggetta al potere dell'altra, mettendo a disposizione la propria forza lavoro.

La stessa formulazione dell'art. 600 cod. pen. - nel testo rimodulato dal legislatore con la legge 11 agosto 2003 n. 228, recante misure contro la tratta di persone - descrive in maniera più analitica, senza peraltro mai ricorrere al termine "schiavitù", conservato solo nella rubrica dell'articolo, due autonome fattispecie alternative, le quali, ampliando in maniera esplicita l'ambito di applicazione dell'incriminazione, abbracciano tanto le residuali situazioni di schiavitù di diritto, che quelle di schiavitù di fatto ovvero di assoggettamento materiale di una persona ad un'altra (in questo senso: Sez. 5, n. 30988 del 17/06/2015, Valletta Emanuele, n.m.; Sez. 3, n. 24269 del 27 maggio 2010, K., Rv. 247704).
Nell'individuazione e nella perimetrazione concettuale della tematica rilievo determinate riveste la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in riferimento all'art. 4 della Convenzione EDU. Tale norma, in realtà, pur sancendo il divieto di schiavitù, servitù e di lavoro forzato o obbligatorio, non fornisce alcuna definizione di tali concetti, il che ha fatto sì che la Corte sovranazionale mutuasse le relative definizioni dalle convenzioni internazionali e dal diritto dell'Unione Europea; peraltro, ciò ha favorito un'interpretazione evolutiva del dato letterale, tale da rendere l'art. 4 della Convenzione uno strumento essenziale per apprestare protezione alle vittime, sempre crescenti, delle varie forme di sfruttamento del lavoro che, spesso, si legano al fenomeno della tratta di esseri umani.
In particolare la Corte di Strasburgo, tenendo conto delle Convenzioni internazionali in materia, ha ritenuto che il concetto di "schiavitù" concerna lo "status o la condizione di una persona su cui sono esercitati i poteri connessi al diritto di proprietà", mentre il concetto di "servitù" debba essere inteso come "obbligo di fornire i propri servizi che è imposto dall'uso della coercizione" e che corrisponda ad una forma "aggravata" di lavoro forzato o obbligatorio.
Per quanto attiene a tale ultima forma di sfruttamento, considerata dall'art. 4 CEDU - ossia quella di "lavoro forzato o obbligatorio" -, la Corte ha utilizzato come punto di partenza la definizione fornita dall'International Labour Organisation, che lo intende come « ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione e per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente», per poi estendere sempre di più l'ambito applicativo della norma attraverso le varie pronunce sul tema, da un lato ricomprendendo nell'alveo dell'art. 4 anche la tratta di esseri umani, dall'altro considerando anche situazioni riconducibili al più ampio fenomeno dello sfruttamento lavorativo, di cui il lavoro forzato rappresenta solo la manifestazione più estrema.
Sotto il primo profilo, la Corte europea non ha mancato, infatti, di rilevare la stretta correlazione tra le forme di sfruttamento che l'art. 4 mira a prevenire ed il fenomeno della tratta di esseri umani. A tale proposito, con la nota sentenza Rantsev c. Cipro e Russia del 2010 - attinente ad un caso di tratta ai fini di sfruttamento sessuale - per la prima volta è stata sancita l'applicazione dell'art. 4 CEDU anche in presenza di tratta, sebbene la norma non la menzioni esplicitamente. In tale occasione i giudici di Strasburgo hanno sottolineato che, nel valutare la portata del detto articolo, si dovrebbe tenere presente che la Convenzione è uno "strumento vivente" che dovrebbe essere interpretato alla luce delle evoluzioni storico-sociali: in tale prospettiva, la tratta si ritiene in contrasto con lo spirito e lo scopo dell'art. 4 CEDU.
Inoltre, gli standard sempre più elevati richiesti nell'area della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali impongono inevitabilmente una maggiore fermezza nel valutare le violazioni dei valori fondamentali delle società democratiche. La Corte ha, quindi, enunciato in quella sede una serie di obblighi positivi in capo agli Stati membri in materia di prevenzione, contrasto e repressione dei fenomeni di tratta, nonché di tutela delle vittime, direttamente discendenti dall'applicazione dell'art. 4 della Convenzione. Tale linea interpretativa ha trovato poi conferma in successive pronunce, in cui si ribadisce la stretta connessione tra le varie forme di sfruttamento della persona ed il fenomeno della tratta.
Sotto il secondo profilo, è utile menzionare, tra le più recenti pronunce, il caso Chowdury c. Grecia, riguardante un caso di sfruttamento lavorativo di immigrati senza permesso di soggiorno, in cui la Corte ha evidenziato come possa ravvisarsi una violazione dell'art. 4 CEDU, sub specie di divieto di lavoro forzato o obbligatorio, anche laddove vi sia una situazione di sfruttamento lavorativo che non abbia carattere di permanenza; ma, soprattutto, la Corte ha evidenziato come il requisito della volontarietà della prestazione lavorativa debba considerarsi mancante in re ipsa in tutte le situazioni in cui un datore di lavoro abusa del suo potere o trae profitto da una condizione di vulnerabilità dei lavoratori, indipendentemente da un eventuale iniziale consenso da parte della vittima.
La Corte EDU ha considerato, quindi, come il consenso dei ricorrenti a essere impiegati alle condizioni rilevate nel caso di specie non potesse, di per sé, escludere lo sfruttamento lavorativo e che la situazione di irregolarità in cui essi si trovavano, oltre ad essere privi di risorse e sottoposti al costante rischio di essere arrestati e rinviati nel paese di origine, poneva gli stessi in una situazione di oggettiva vulnerabilità di cui i datori di lavoro avevano approfittato. Pur avendo introdotto un quadro normativo volto a contrastare efficacemente la tratta di essere umani, e nonostante fossero a conoscenza della grave situazione presente nelle campagne, anche tenuto conto delle denunce internazionali, le autorità greche - nel caso sottoposto al vaglio della Corte di Strasburgo - non avevano adottato misure preventive volte a evitare tale sfruttamento; inoltre, né le denunce dei ricorrenti erano state adeguatamente approfondite, come dimostra l'esclusione della situazione di sfruttamento lavorativo sulla base di una definizione restrittiva di tratta, né i datori di lavoro erano stati perseguiti adeguatamente, con la conseguente violazione, da parte della Grecia, degli obblighi positivi imposti dall'art. 4, par. 2, CEDU.
Tale pronuncia rappresenta, senza dubbio, un primo tentativo della Corte EDU di ricomprendere sotto la nozione di lavoro forzato anche quelle situazioni riconducibili più ampiamente al fenomeno dello sfruttamento lavorativo, in cui il consenso del lavoratore alla prestazione illecita risulta viziato dal contesto particolarmente disagiato in cui il lavoratore è inserito, tale da non lasciare alle vittime una reale possibilità di scelta. In particolare, si conferma la tendenza verso l'applicazione delle garanzie di cui all'art. 4 non solo in presenza di fenomeni in cui è del tutto assente la volontà della vittima, ma anche laddove il consenso, quantomeno iniziale, alla prestazione derivi dalla situazione di vulnerabilità in cui versa la vittima stessa, nell'ottica di garantire massima protezione a soggetti deboli o vulnerabili.
La Corte EDU sembra, dunque, intenzionata a dare autonomo rilievo a fenomeni di sfruttamento, anche laddove non implichino un totale annullamento della volontà del soggetto coinvolto, ed a prescindere dalla correlazione con la tratta di esseri umani.
In tale prospettiva, la pronuncia citata assume rilevanza anche nel contesto italiano, con particolare riferimento, per quanto di rilevanza nel presente procedimento, in relazione alla configurazione della fattispecie di cui all'art. 600 cod. pen.
La riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, come detto, costituisce un reato a fattispecie plurima, che può essere intergrato sia dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del proprietario, sia da quella di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa.
In particolare, " la previsione di cui all'art. 600 cod. pen. configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all'accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento. Si tratta dunque di condotte alternativamente previste dalla norma incriminatrice: la relazione uti dominus con una persona, da un lato, l'assoggettamento della vittima, costretta alle prestazioni indicate dalla norma, dall'altro." (Sez. 5, n. 10426 del 09/01/2015, O., Rv. 262632).
Pacificamente, ai fini della configurabilità del requisito dello stato di soggezione della persona offesa, rilevante per l'integrazione del reato, non è necessaria la totale privazione della libertà personale della medesima, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione (Sez. 5, n. 15662 del 17/02/2020, U., Rv. 279156; Sez. 5, n. 49594 del 14/10/2014, Enache, Rv. 261345; Sez. 5, n. 2775 del 18/11/2010, dep. 26/01/2011, Sali, Rv. 249257).
Alla stregua della disposizione di cui al comma secondo dell'art. 600 cod. pen. - secondo il quale "La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona" - questa Corte regolatrice ha in numerose pronunce ravvisato la detta fattispecie delittuosa - sub specie di realizzazione di condizione analoga alla schiavitù - nel caso di soggetti reclutati per lo svolgimento di attività lavorative (Sez. 5, n. 40045 del 24/09/2010, Murylo ed altri, Rv. 248898, in cui gli imputati avevano ridotto in soggezione persone provenienti da paesi dell'est, privandole dei passaporti, collocandoli in luoghi isolati privi di relazioni esterne, corrispondendo retribuzioni nettamente inferiori alle promesse e imponendo loro contestuali sacrifici di esigenze primarie, alloggi fatiscenti, assenza di servizi igienici, privazioni alimentari, impossibilità di spostarsi sul territorio essendovi veicoli preordinati solo a condurli nei campi e, quindi, rendendoli incapaci di sottrarsi allo sfruttamento, corredato se del caso da violenze e minacce).
Va ricordato, quanto all'approfittamento di una "situazione di vulnerabilità", che la specificazione inerente la vulnerabilità è stata inserita nel tessuto normativo in attuazione della direttiva 2011/36/UE, con il d.lgs. 4 marzo 2014 n. 24, il che ha comportato un ampliamento sul piano descrittivo del contenuto della norma, la quale, quindi, oltre ad involgere condizioni di totale negazione della libertà e della dignità umana, prevede - e prevedeva anche nella formulazione antecedente al citato d. lgs. (in tal senso parla di "modifica che in realtà non sembra aver ampliato l'ambito applicativo della norma incriminatrice, soprattutto se per l'appunto messa in relazione con la nozione contenuta nella direttiva, ma specificato contenuti sostanzia/mente già ricavabili dal dato normativo previgente': Sez. 5, n. 30988 del 17/06/2015, cit.) - situazioni che involgono una significativa compromissione della capacità di autodeterminarsi della persona, senza tuttavia annullarla del tutto.
Peraltro è stato chiarito come "In tema di riduzione in schiavitù o in servitù, la situazione di necessità della vittima costituisce il presupposto della condotta approfittatrice de/l'agente e, pertanto, tale nozione non può essere posta a paragone con lo stato di necessità di cui all'art. 54 cod. pen., ma va piuttosto posta in relazione alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggravata (art. 644, comma quinto, n. 3 cod. pen.) o allo stato di bisogno utilizzato nell'istituto della rescissione del contratto (art. 1418 cod. civ.). La situazione di necessità va, quindi, intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale: in altri termini, coincide con la definizione di 'posizione di vulnerabilità' indicata nella decisione quadro dell'Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, alla quale la legge 11 agosto 2003, n. 228 ha voluto dare attuazione." (Sez. 3, n. 2841 del 26/10/2006, dep. 25/01/2007, Djordjevic ed altri, Rv. 236022; conforme: Sez. 3, n. 21630 del 06/05/2010, E. ed altro, Rv. 247641).
Ciò che emerge in maniera chiara dall'analisi della giurisprudenza di legittimità è che il delitto in esame - con particolare riferimento alla seconda ipotesi, di riduzione o mantenimento in servitù - è connotato da una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale, sicché la riduzione o il mantenimento di uno stato di soggezione continuativa, con costrizione allo svolgimento di determinate prestazioni fisiche, deve essere funzionale allo sfruttamento dei soggetti passivi, ed essere accompagnata da una sostanziale imitazione della libertà di scelta del soggetto, sia in relazione all'accettazione delle dette condizioni che alla scelta di sottrarvisi, una volta realizzate le implicazioni della condizione medesima (Sez. 5, n. 25408 del 05/11/2013, dep. 13/06/2014, Mazzotti, Rv. 260230; Sez. 5, n. 8370 del
27/09/2013, dep. 21/02/2014, P.G. in proc. Puiu, Rv. 259039; Sez. 5, n. 44385 del 24/09/2013, I., Rv. 257564; Sez. 5, n. 13532 del 10/02/2011, Facchineri, Rv. 249970, che ha escluso la sussistenza della fattispecie in un caso in cui le gravose condizioni lavorative erano state liberamente accettate; Sez. 5, n. 2775 del 18/11/2010 dep. 26/01/2011, Sali, Rv. 249257).
Pertanto, lo stato di soggezione continuativa, richiesto dall'art. 600 cod. pen., deve essere rapportato all'intensità del vulnus arrecato all'altrui libertà di autodeterminazione, che non può essere escluso qualora si verifichi una qualche limitata autonomia della vittima, tale da non intaccare il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.
3.4. Alla luce dei principi della giurisprudenza sovranazionale e di legittimità sin qui considerati, va rilevato come la sentenza impugnata ne abbia fatto corretta applicazione solo da un punto di vista formale, disattendendo del tutto il diritto vivente sulla complessa e delicata tematica in esame, per come risulta da un'attenta lettura delle pronunce pur citate in motivazione. In realtà, la Corte territoriale sembra non aver metabolizzato la citata evoluzione giurisprudenziale, il cui orizzonte applicativo più importante trascende la dimensione della segregazione e della reificazione dell'essere umano, tanto che ad apparire forse obsoleta è proprio la rubrica dell'art. 600.
La descrizione del fatto svolta nella sentenza di primo grado, invero, fa emergere la sussistenza di tutti gli elementi integrativi della fattispecie di "servitù sostanziale", rispetto alla quale la Corte territoriale - per le argomentazioni in precedenza esposte - non ha compiutamente espresso le ragioni della loro inidoneità nella prospettiva della configurazione della fattispecie contestata ed accertata in primo grado.
Anzitutto, la sentenza sconta, sul punto, la fisiologica pretermissione di molte fonti di prova, erroneamente ritenute non utilizzabili sulla base delle considerazioni esposte in relazione ai precedenti motivi di ricorso. Già tale aspetto sarebbe sufficiente ad imporre un annullamento con rinvio della pronuncia in esame.
Essa, tuttavia, sconta anche un'erronea impostazione di fondo sulla fattispecie esaminata, che ne elude i tratti costitutivi, traducendosi in una parcellizzata visualizzazione di aspetti della vicenda che - anche al di là della valutazione delle singole fonti di prova, aspetto che esula dal perimetro del presente giudizio - finisce per essere connotata da una sintesi apparente e, comunque, superficiale sul piano dell'inquadramento del titolo di reato e da una cifra motivazionale inappagante, in considerazione della complessità del caso e, in ultima analisi, fortemente lacunosa, con tratti di evidente apparenza.
Del tutto assente dall'orizzonte valutativo della Corte di merito risulta la verifica concreta delle condizioni, delle modalità e delle ragioni di arrivo in Italia dei lavoratori, alla stregua delle quali avrebbero dovuto essere inquadrati i singoli indici fattuali che hanno condotto la sentenza a ritenere esclusa la fattispecie di cui all'art. 600 cod. pen.
L'evoluzione ermeneutica in precedenza descritta, infatti, non consente una ricognizione del fatto che prescinda dal necessario collegamento tra la considerazione di vulnerabilità del lavoratore - se ritenuta sussistente - ed i singoli comportamenti adottati dallo stesso. In tal senso, ad esempio, non appare affatto appagante l'aver ritenuto che i lavoratori fossero giunti spontaneamente a Nardò da altre parti d'Italia, perché era noto che in estate vi si procedeva alla raccolta dei pomodori e delle angurie, e che gli stessi si muovevano sul territorio italiano liberamente, in un'ottica di lavoro stagionale - come asserito dalla Corte - in quanto in tal modo, con sconcertante superficialità o irrimediabile ingenuità, la sentenza impugnata dimentica del tutto di considerare le peculiari situazioni di quei lavoratori, le ragioni per le quali erano approdati in Italia dai loro paesi di origine e le condizioni concrete che ad essi erano state offerte nell'ambito del mercato del lavoro, rispetto alla tipologia del lavoratore stagionale di nazionalità italiana, privo dello specifico vissuto di coloro che erano impiegati in quello che la stessa sentenza impugnata definisce "sistema Nardò".
In tal modo la Corte di merito ha, in sostanza, depauperato l'analisi della fattispecie dal necessario vaglio della condizione di vulnerabilità dei lavoratori, riducendola ad una approssimativa e miope indicazione della libertà di locomozione degli stessi sul territorio nazionale, senza considerare neanche quali reali alternative i lavoratori avessero e di quali tutele disponessero.
Altro profilo densamente inappagante, sotto l'angolazione strettamente giuridica della ricostruzione della fattispecie, è costituito dall'aver ritenuto che i lavoratori avessero liberamente scelto le degradanti condizioni di vita nelle campagne limitrofe alla masseria Boncuri, condizioni non imposte né dai "caporali" né dagli imprenditori, né dagli stesse predisposte. Tale conclusione - che costituisce un paradigmatico caso di miopia giudiziaria - prescinde del tutto dalla doverosa considerazione della lettera della disposizione normativa di riferimento, che espressamente indica nell'approfittamento di una situazione di vulnerabilità la condotta penalmente riprovevole.
La stessa Corte territoriale, infatti, a pag. 77, ha considerato che costituiva un dato acquisito e di comune conoscenza quello concernente le condizioni di vita assolutamente degradate dei lavoratori, tanto è vero che ciò aveva determinato il coinvolgimento, da tempo, delle associazioni di volontariato e delle autorità amministrative, evidentemente con risultati non appaganti. Tale situazione, quindi, doveva - secondo logica - essere ben nota anche agli imputati, né la Corte territoriale lo nega; ne consegue che la sentenza impugnata avrebbe dovuto prendere in considerazione il dato sotto l'aspetto dell'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, ponendosi il problema del vantaggio che tutti i soggetti attivi della vicenda, dai "caporali" agli imprenditori, avevano tratto da una situazione di stratificato degrado ambientale, .ben nota anche alle istituzioni, che, verosimilmente, poco o nulla avevano fatto per porvi rimedio.
L'approfittarsi dello stato di bisogno altrui non richiede, infatti, né giuridicamente né ontologicamente, che la condizione deteriore sia riconducibile alla volontà del soggetto agente, ben potendo, nel caso di specie, essere eterodeterminata; altro è, infatti, creare una situazione deteriore, rispetto al valersene in modo da conseguirne un profitto, un vantaggio o un'utilità o, comunque, giovarsene. La sentenza, quindi, avrebbe dovuto considerare in tale ottica di più ampio respiro la condotta degli imputati., valutando, doverosamente, anche gli obblighi che gravano sui datori di lavoro nei confronti dei dipendenti, essendo, senza alcun dubbio, i primi, titolari di una posizione di garanzia che trova il proprio precipitato normativo nelle disposizioni di settore sulla tutela delle condizioni di lavoro e, prima ancora, nei vicoli di solidarietà e di rispetto dei diritti fondamentali della persona, come sanciti dalla Costituzione, in particolare agli artt. 35, 36, 41 in tema di attività lavorativa.
Il che involge la necessità di una accurato approfondimento da parte del giudice del rinvio, scevro da ogni approccio ingenuamente riduttivo, rispetto alla complessità del fenomeno, sul tema della condotta ascritta agli imputati, da valutarsi nel suo complesso, ivi inclusa la componente omissiva che il concetto di "approfittamento di una situazione di vulnerabilità" indiscutibilmente involge.
L'aspetto, quindi, sul quale la motivazione della sentenza impugnata risulta afflitta da illogicità, derivante da criteri di inferenza fasulli, è l'approccio parcellizzato circa la ricostruzione delle condizioni di vita e di lavoro delle persone offese, alla stregua delle quali considerare la sussistenza della compromissione circa le loro capacità di autodeterminazione. Tale valutazione, come visto, va operata a prescindere da una totale compromissione delle libertà fondamentali dei lavoratori, approfondendo in maniera adeguata l'approfittamento della condizione di soggezione continuativa in cui le persone offese versavano. Approfittamento che va messo in corrispondenza con la situazione individuale dei lavoratori, che, a causa di una sostanziale compromissione di opzioni alternative, ne inibiva la libertà di scelta, posto che la libertà di autodeterminazione è del tutto compatibile con limitate manifestazioni di autonomia delle vittime.
3.5. Va, infine, ricordato che la sentenza impugnata, a pag. 79, ha ritenuto che il primo giudice, in realtà, avesse descritto, quanto alla condotta ascritta agli imputati, la fattispecie di intermediazione illecita nel lavoro, di cui all'art. 603-bis cod. pen., non applicabile alle vicende in esame ratione temporis, affermando, inoltre, "che il reato di riduzione in schiavitù richiede qualcosa in più della mera stipulazione di un rapporto di lavoro frutto di illecita intermediazione e caratterizzato dalla sostanziale iniquità delle condizioni di lavoro pattuite."
Tale conclusione, cui è pervenuta la Corte territoriale, appare, in linea di principio, condivisibile, pur rendendosi necessario qualche chiarimento.
Già per la clausola di riserva contenuta nell'incipit della norma appare evidente come il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro si applichi in via residuale, qualora la condotta non sia inquadrabile in casi di maggiore gravità; tuttavia, gli stessi approdi ermeneutici, in riferimento a tale fattispecie di reato, sembrano rendere ancor più evanescente la differenza tra la tipicità delle condotte individuate dalle disposizioni di cui agli artt. 600 e 603-bis cod. pen., posto che "La mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis cod. pen. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio." ( Sez . 4, n. 49781 del 09/10/2019, Kuts Olena, Rv. 277424).
L'evidente difficoltà con la quale l'interprete deve interagire, in relazione alle predette strutture normative, dipende anche dalle modalità di introduzione nel nostro ordinamento penale della fattispecie di cui all'art. 603-bis cod. pen., in quanto non appare agevole individuare le ragioni di necessità e urgenza che hanno spinto il legislatore, con il d.l. 13 agosto 2011, n. 138, a inserire nel codice penale il citato delitto, se non la necessità di colmare la lacuna tra le forme di schiavitù contrattualizzata, ascrivibili alle più gravi ipotesi di riduzione in servitù e tratta degli esseri umani, e le forme di intermediazione illecita previste dalla legge Biagi come illeciti contravvenzionali; questi ultimi, peraltro, sono stati sostanzialmente espunti dall'ordinamento, in quanto dapprima il "Jobs Act" (con l'art. 55, comma 1, lett. d, d.lgs n. 81/2015) ha abrogato espressamente l'art. 28 d.lgs n. 276/2003, limitando le reazioni sanzionatorie alle fattispecie di somministrazione irregolare e somministrazione abusiva, quindi il d.lgs n. 8/2016 ha trasformato in illeciti amministrativi i reati di somministrazione abusiva e di utilizzazione illecita, fatto salvo soltanto il caso dell'impiego di minorenni.
La materia, in realtà, avrebbe richiesto maggiori approfondimenti, posto che il decreto legge in questione era funzionale alle "ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo" e che, come dimostrato dalla successiva evoluzione della disposizione di cui all'art. 603-bis cod. pen., la norma ha subito ulteriori modifiche per effetto della legge 29 ottobre 2016, n. 199, il che, tuttavia, non ha sortito alcun effetto risolutivo circa la parziale sovrapposizione delle due disposizioni normative e la loro non agevole convivenza. Il legislatore, in altri termini, avrebbe potuto (e dovuto) fornire indicazioni più significative, funzionali alla individuazione dei diversi fenomeni: anzitutto quelli più gravi di vero e proprio schiavismo, quindi le forme di schiavitù contrattualizzata, e, infine, tutte le tipologie di lavoro che, pur legali, risultano comunque lesive di diritti fondamentali dei lavoratori e che, quindi, potrebbero, tra l'altro, essere in contrasto con la direttiva 2019/1152/UE, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e volta ad assicurare diritti minimi ai lavoratori nell'UE (basti pensare a fenomeni come quelli dei così detti "riders").
Pur non essendo questa la sede per affrontare approfonditamente la differenza tra le due fattispecie di reato, va comunque sottolineato come la tipologia degli indici individuati dal legislatore in relazione all'art. 603-bis cod. pen. - ovvero la remunerazione, il tempo di lavoro, le condizioni di salute e di sicurezza sul lavoro, i metodi di sorveglianza e le situazioni alloggiative - è la stessa che già la giurisprudenza ha enucleato, in molti casi, rispetto alla fattispecie di riduzione in servitù di cui all'art. 600 cod. pen., il che rende estremamente difficile distinguere le due fattispecie.
L'approfittamento dello stato di bisogno, anzitutto, non pare connotare in modo significativo l'ipotesi di sfruttamento lavorativo, tale da essere discretivo rispetto alle fattispecie di riduzione in servitù, posto che si tratta solo di una diversa sfumatura lessicale rispetto all'approfittamento dello stato di necessità e delle condizioni di vulnerabilità di cui all'art. 600 cod. pen.
Tali considerazioni, tuttavia, consentono di sottolineare come, alla luce del consolidato orientamento di legittimità in precedenza descritto, ai fini della configurazione del delitto di cui all'art. 600 cod. pen., le condizioni di sfruttamento che possono derivare dalla violazione di norme poste a tutela del lavoratore devono essere accompagnate dalla dimostrazione circa la compromissione della capacità di autodeterminarsi del soggetto passivo (a sua volta da non confondere con la totale privazione della libertà personale, non richiesta per l'integrazione del reato), in tal senso potendosi individuare il criterio discretivo rispetto alla fattispecie di cui all'art. 603-bis cod. pen.
In altri termini, quindi, ciò che appare rilevante è che le condizioni lavorative - quali quelle descritte in sentenza -, in realtà, costituiscono elementi esemplificativi delle modalità di sfruttamento, che devono caratterizzare il fatto tipico, ma non lo esauriscono, dato che l'ulteriore verifica circa la possibilità di configurare un'impresa "schiavistica" - che va operata in concreto - concerne, come detto, la prova circa la compromissione della capacità di autodeterminarsi del soggetto passivo a causa della verificata assenza di alternative esistenziali validamente percorribili; il che risulta del tutto compatibile con l'accettazione volontaria, da parte della vittima, di condizioni di lavoro particolarmente sfavorevoli.
Su tale aspetto la sentenza impugnata non solo è del tutto silente, ma non sembra aver affatto colto - come emerge dagli snodi motivazionali in precedenza sintetizzati - la cifra qualificante della fattispecie in esame.
Non a caso, la riflessione dottrinale sul delitto di cui all'art. 600 cod. pen. ha evidenziato come il bene giuridico tutelato dalla norma sia la dignità umana che, proprio in riferimento alle prestazioni lavorative, trova un esplicito richiamo nell'art. 36 Costituzione, che ancora il diritto alla retribuzione alla garanzia di un'esistenza libera e dignitosa.
Sotto tale aspetto, infatti, è stato osservato che il valore della dignità umana - inteso come principio secondo il quale la "persona" è al centro del sistema, con particolare riferimento alla materia penale - non coincide con uno o più specifici diritti, ma è il presupposto per it riconoscimento e l'esercizio dei singoli diritti di libertà, e, quindi, qualifica tutti i diritti inviolabili della persona. Il concetto di dignità, quindi, nel contesto del diritto penale, rappresenta una connotazione della stessa idea di "persona", intesa come individuo libero, eguale, capace di pensare e decidere, il che rappresenta un fine ed un valore in sé, bene posto dal legislatore a fondamento dei delitti contro la persona. In tale ottica assumono rilievo l'autonomia della persona e la sua libertà di consapevole autodeterminazione, che rappresentano il contenuto essenziale del diritto inviolabile di ogni individuo di essere "padrone di se stesso", nel senso sia di non essere assoggettato ad alcun potere, sia di non divenire mezzo o strumento per il raggiungimento di altri fini.
La fattispecie di riduzione in servitù, seconda ipotesi configurata nell'art. 600 cod. pen., che riguarda il caso in esame - e risulta più articolata della riduzione in schiavitù, oltre che sicuramente più attuale, concernendo quelle forme di assoggettamento di fatto diverse dalla disposizione in modo pieno ed esclusivo dell'altrui persona - costituisce senza alcun dubbio un'ipotesi paradigmatica di negazione del valore intrinseco della persona umana e della trasformazione di questa in un mezzo per raggiungere scopi diversi; non a caso, all'idea di dignità la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea dedica un intero capo, in cui contempla espressamente la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato, accanto al diritto alla vita (art. 2), all'integrità della persona (art. 3) e alla proibizione di trattamenti inumani e degradanti (art. 4).
Peraltro, non va dimenticato, come sottolineato dalla dottrina tradizionale, che il riferimento ai poteri connessi con il diritto di proprietà alluda ad uno sfruttamento economico della vittima, sicché la condotta sembra implicare anche una lesione del patrimonio; in tal senso, infatti, può affermarsi che è proprio questa la cifra che distingue la riduzione in schiavitù dai delitti contro la libertà personale e, segnatamente, il sequestro di persona ed il sequestro di persona a scopo di estorsione. Mentre nella riduzione in schiavitù ed in servitù la privazione della libertà personale viene posta in essere per utilizzare, sfruttare la vittima, ossia per ottenerne un vantaggio economicamente valutabile, ciò non si verifica nelle altre due fattispecie di reato richiamate, posto che nel sequestro di persona a scopo di estorsione, che pure si caratterizza per la privazione della libertà personale della vittima allo scopo di trarne un profitto economico, manca l'aspetto di reificazione della vittima e la privazione di ogni sua capacità di asserzione come singolo individuo, nel senso che lo sfruttamento economico non avviene attraverso l'utilizzo della stessa, che costituisce solo il mezzo per attuare la violenza o minaccia tipica dell'estorsione e, così, costringere al pagamento del prezzo della liberazione.
La complessità della condotta e del contenuto offensivo, che non è limitato ad una semplice privazione della libertà personale, ma investe la dignità umana, come autonomo bene giuridico oggetto di tutela da parte della norma penale, rende, quindi, la condotta prevista dall'art. 600 cod. pen. talmente grave da rappresentare una negazione delle stesse basi culturali del nostro ordinamento giuridico, fondato sulla "persona", concepita come essere libero ed eguale.
Sicché può ritenersi che il limite discretivo tra(k fattispecie di cui agli artt. 600 e 603-bis cod. pen. sia costituito proprio dalla mancanza di alternative esistenziali, richiamata dalla giurisprudenza come contenuto della situazione di vulnerabilità richiesta dalla prima delle norme citate, laddove la condotta di cui all'art. 603-bis cod. pen. configura un'area nella quale la condotta del datore di lavoro non determini una compressione altrettanto rilevante della libertà di autodeterminazione del lavoratore, ma che, allo stesso tempo, non possa neppure essere liquidata come una violazione meramente formale della normativa giuslavoristica. Ciò accade ogni volta in cui la condotta sia tale da incidere, almeno potenzialmente, su beni afferenti la persona del lavoratore, in tutte le ipotesi in cui il datore di lavoro dia priorità al proprio vantaggio economico rispetto alla tutela di beni individuali essenziali, così determinando una strumentalizzazione della persona, in cui si verifica un sacrificio dei diritti fondamentali di questa per ragioni meramente economiche.

4. Parimenti appare viziata la motivazione della sentenza impugnata in riferimento alla fattispecie associativa di cui al capo A) dell'imputazione.
La Corte di merito ha ravvisato una motivazione tautologica da parte del primo giudice, attraverso il mero richiamo alla disposizione di cui all'art. 416 cod.
,. pen., rilevando come fosse, pertanto, necessario integrare la motivazione stessa. In tal senso, quindi, ha ritenuto insussistente una struttura organizzata con base operativa in Nardò, ma operante sia in Italia che all'estero, che si sarebbe occupata di reclutare cittadini extracomunitari nelle zone del Maghreb e dell'Africa, introdurli clandestinamente nel territorio nazionale per istradarli al lavoro forzato nei campi di Nardò, avvalendosi di falsi documenti di soggiorno e di una rete di collaboratori, ossia i "caporali".
Di tale organizzazione transanazionale, secondo la Corte di merito, non vi è alcuna prova, come non vi è prova di una base operativa in Sicilia per smistare i lavoratori fatti arrivare dalle predette zone africane; al contrario, sarebbe emersa una dimensione di cooperazione degli imprenditori, tra loro, del tutto lecita, e con i "caporali", che non può trascendere nell'ipotesi associativa, nonostante il ravvisato consolidamento dei rapporti sul territorio.
In tal senso, quindi, la Corte territoriale ha richiamato il compendio intercettivo, che darebbe conto di alcuni livelli di criticità nei momenti di reclutamento della manodopera, della sperequazione tra domanda ed offerta di lavoro, oltre che di trattamenti non congrui dei lavoratori, sia sotto l'aspetto retributivo che dell'orario di lavoro; tutto ciò, nondimeno, non assurge ad un livello di associazione penalmente rilevante, pur nella illegittimità delle forme di reclutamento, legate ad esigenze contingenti degli imprenditori.
Tale motivazione si pone in insanabile contrasto con la stessa formulazione del capo di imputazione, la semplice lettura del quale consente di verificare che nessun profilo o connotazione di transnazionalità fosse stata ipotizzata in relazione all'associazione di cui al capo A), essendo stata contestata un'associazione con sede in Nardò e - solo per alcuni associati - attiva anche in Rosarno, destinata al reclutamento di cittadini irregolari sul territorio italiano; non vi è alcun cenno, quindi, al fenomeno della tratta di lavoratori extracomunitari da zone del continente africano, né di alcuna base operativa in Sicilia, individuandosi, al contrario, una connotazione essenzialmente locale del fenomeno associativo descritto. In tal senso, quindi, la motivazione appare del tutto eccentrica ed incongrua rispetto alla delineazione accusatoria e, pertanto, assolutamente contraddittoria.
Parimenti insoddisfacente in termini di logica argomentativa e di congruenza ricostruttiva risulta, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata nella misura in cui, da un lato, fa riferimento ad un fenomeno di stabilità di contatti tra imprenditori locali e "caporali", i cui contenuti risultano certamente non leciti quanto alle modalità di reclutamento ed alle condizioni di trattamento dei lavoratori e, dall'altro, inquadra tali rapporti in situazioni contingenti, peraltro non specificate.
Non spetta, ovviamente, al giudice di legittimità ricostruire la vicenda nelle sue connotazioni di inquadramento storico e fattuale, ma sicuramente la descrizione della stessa da parte della Corte territoriale, in funzione della valutazione di insussistenza della prospettata fattispecie associativa, appare del tutto inappagante, anche in riferimento alle fonti di prova valutate, del tutto genericamente ed approssimativamente richiamate; il percorso argomentativo, inoltre, risulta intrinsecamente contraddittorio, in riferimento alle modalità illecite richiamate, ed, infine, evidentemente basato su di un travisamento della perimetrazione accusatoria, quanto alla descrizione delle caratteristiche dell'associazione.
In tal senso, quindi, in sede di rinvio, ferma restando la libera valutazione delle prove su tale aspetto, l'operazione ermeneutica da parte del giudice - evidentemente ricostruttiva del complessivo impianto probatorio, considerata l'approssimazione e lacunosità della sentenza di primo grado sul punto - non potrà, comunque, travalicare la formulazione dell'accusa nel suo contenuto descrittivo, dovendo, in ogni caso, verificare, in maniera congrua, in quali termini i pur ravvisati profili di chiara illiceità nel reclutamento dei lavoratori fossero o meno riconducibili ad una dimensione organizzata, a fronte di ricorrenti contatti tra imprenditori e "caporali" e di modalità ricorrenti negli stessi reclutamenti e nella gestione del lavoratori, come descritto in più snodi motivazionali della stessa sentenza impugnata.

5. Il ricorso di JE.S.B è fondato.
L'imputato, assolto dalle altre imputazione, è stato condannato per estorsione continuata ai danni di A.A. ed altri lavoratori (capo C). Tale condotta era stata ritenuta dal primo giudice assorbita nel delitto di cui all'art. 600 cod. pen., mentre la Corte di merito ha ritenuto la sussistenza della stessa all'esito della pronuncia assolutoria dal reato di cui al capo B).
Premesso che nessuna impugnazione risulta formulata dalla parte pubblica circa tale valutazione operata dal primo giudice, occorre osservare che l'annullamento della sentenza impugnata, con riferimento alle condotte qualificate ai sensi degli artt. 416 e 600 cod. pen., di cui ai capi A) e B), non può che travolgere anche la condanna per le ulteriori fattispecie estorsive, i cui rapporti con la fattispecie di cui all'art. 600 cod. pen. dovranno essere valutate all'esito del giudizio di rinvio.
Non vi è dubbio, infatti, che l'annullamento della sentenza impugnata, quanto al delitto di riduzione in servitù, non possa che travolgere anche l'effetto che da detta pronuncia era derivato, ossia la "riespansione" delle condotte originariamente ritenute assorbite nella condotta di cui al capo B).
A prescindere dalle conclusioni cui perverrà il giudice di rinvio, deve, tuttavia, sottolinearsi come, in ogni caso, le doglianze difensive appaiano del tutto fondate, posto che la motivazione della sentenza impugnata risulta assolutamente generica e priva di spessore argomentativo, attraverso la contraddittoria affermazione della inutilizzabilità delle dichiarazioni di A.A. (sulla quale valgono le argomentazioni illustrate al punto 2.3 della presente trattazione) da un lato, e, dall'altro, del richiamo alle "numerose, ulteriori prove utilizzate dal primo giudice". Tale rinvio, infatti, risulta del tutto vago ed inconferente, atteso che la dichiarazione di MA.C. - per come riportata in sentenza - non appare avere alcuna attinenza con la condotta estorsiva, così come nessuna attinenza risultano avere le captazioni richiamate per relationem ed illustrate alle pagg. 95 e 96 della sentenza di primo grado.
6. Ad analoghe conclusioni si deve pervenire in riferimento al ricorso presentato da AK.B.B.A..
Anche in tal caso il ricorrente, assolto dalle altre imputazione, è stato condannato per due estorsione continuate, la prima ai danni di AB.I. (capo F), e la seconda ai danni di altri lavoratori, indicati al capo G). Anche dette condotte erano state ritenute dal primo giudice assorbita nel delitto di cui all'art. 600 cod. pen., mentre la Corte di merito ha ritenuto la loro sussistenza all'esito della pronuncia assolutoria dal reato di cui al capo B).
Benché il ricorso appaia essenzialmente versato in fatto, anche in tal caso occorre considerare che l'annullamento della sentenza impugnata, quanto al delitto di riduzione in servitù, non può che travolgere anche l'effetto che da detta pronuncia era derivato, ossia la "riespansione" delle condotte originariamente ritenute assorbite nella condotta di cui al qipo B).

Dall'annullamento con rinvio della sentenza impugnata discende che la liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio non possa che essere rinviata anch'essa, all'esito della decisione del giudice di rinvio, ai sensi dell'art. 627 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 15806 del 19/03/2019, Valle Fabio c. Gatti Bernardo, Rv. 276627; Sez. 5, n. 25469 del 23/04/2014, P.C. in proc. Greco, Rv. 262561).

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata con rinvio per il giudizio ad altra sezione della Corte di Assise si Appello di Lecce. Spese di rappresentanza e giudizio delle parti civili al definitivo.
Così deciso in Roma, il 16/03/2022.