Categoria: Giurisprudenza amministrativa (CdS, TAR)
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Consiglio di Stato, Sez. 2, 17 ottobre 2022, n. 8798 - Esonero dal servizio notturno del prestatore di assistenza: chi ne ha diritto?


 


Presidente Luttazi – Estensore Manzione

 

Fatto
 


1. Il signor -omissis-, sovrintendente capo della Polizia di Stato in servizio presso la Sezione di Polizia stradale di - omissis -, ha proposto innanzi al T.A.R. per le - omissis - il ricorso n.r.g. - omissis - per l'annullamento dei provvedimenti dirigenziali del 26 settembre 2018 e del 27 novembre 2018 con cui gli veniva negata l'esenzione dal lavoro notturno, richiesta in data 1 marzo 2018 per assistere la propria coniuge, riconosciuta portatrice di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, della l. 5 febbraio 1992, n. 104, nonché per vedersi riconoscere il relativo diritto ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

1.1. Il Tribunale adito ha accolto il ricorso, compensando le spese di giudizio, sull'assunto che nel silenzio della norma non è possibile introdurre surrettiziamente un requisito aggiuntivo (la gravità della situazione di disabilità), «peraltro in una materia, come quella della tutela dei diritti dei disabili coperta da garanzie costituzionali, che non tollera elisioni nell'ambito della tutela garantita dal legislatore se non nell'ambito di quanto esplicitamente tipizzato […]».

2. Avverso tale pronuncia ha interposto appello il Ministero dell'interno, contestando con un unico articolato motivo la ricostruzione della cornice giuridica di riferimento. In altre parole, il combinato disposto della previsione declinata dall'art. 53 del d.lgs. n. 151 del 2001 e del quadro sistematico riveniente dalla disciplina della l. n. 104 del 1992 implica necessariamente la grave situazione della persona che si deve assistere, presupposto fondante la concessione di tutti gli istituti contrattuali finalizzati allo scopo. Ciò ha trovato da tempo conferma nella circolare n. 90 del 23 maggio 2007 dell'INPS e nella risoluzione datata 6 febbraio 2009 con la quale il Ministero del lavoro ha fornito risposta all'interpello n. 4/2009 di Confindustria avente ad oggetto proprio l'esatta accezione da attribuire alla dicitura «a proprio carico» utilizzata nel Testo unico del 2001 con riferimento al rapporto tra lavoratore e disabile. Nel silenzio del Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che non ha invece inteso esprimersi in merito, benché formalmente richiesto, tale sarebbe la lettura delle norme unanimemente in uso tra le forze di polizia, come documentato dalla circolare del 3 gennaio 2011 del Comando Generale della Guardia di finanza e dalle Linee guida dello Stato Maggiore della Difesa, edizione 2017, in materia di pari opportunità, tutela della famiglia e della genitorialità.

3. Si è costituito in giudizio il signor - omissis -, depositando anche successive memorie. Nel ribadire la legittimità della lettura della normativa data dal primo giudice, egli ha in particolare argomentato per dequotare il contenuto sia della circolare INPS n. 90 del 2007, che della risoluzione ministeriale del 2009. D'altro canto, il contrasto interpretativo esistente finanche all'interno della medesima Amministrazione di appartenenza dell'appellato, troverebbe conferma nella valutazione positiva da parte del Compartimento della Polizia stradale del Lazio di istanze di esonero egualmente non suffragate dal riferimento alla gravità della condizione del disabile da assistere. Ha infine richiamato la giurisprudenza, da ultimo anche del Consiglio di Stato, confermativa dell'orientamento espresso nella pronuncia oggi impugnata (T.A.R. per la Campania, sez. VI, 1 febbraio 2019, n. 540, riferita a personale militare, per il quale trovava applicazione ratione temporis l'identica disposizione contenuta nell'art. 17 del d.P.R. 16 aprile 2009, n. 52, recante il recepimento del provvedimento di concertazione per le Forze armate, integrativo del decreto del Presidente della Repubblica 11 settembre 2007, n. 171, relativo al quadriennio normativo 2006-2009 e al biennio economico 2006-2007; T.A.R. per la Campania, sez. VI, 10 dicembre 2021, n. 7962, avverso la quale è pendente appello; Cons. Stato, sez. IV, ordinanza cautelare 13 novembre 2020, n. 6596, ove si afferma che «la normativa, art. 53 del d. lgs. 26 marzo 2001 n.151 e art. 17 del D.P.R. 2009 n.52, non prevede che per avere l'esonero dai turni notturni il disabile che si assiste debba essere anche un disabile in condizione di gravità ai sensi dell'art. 3 comma 3 della l. 5 febbraio 1992 n.104»).

4. Da ultimo, l'Amministrazione ha prodotto ulteriore memoria in data 25 agosto 2022, corredata dalla richiamata risoluzione del Ministero del lavoro del 6 febbraio 2009, della quale l'appellato ha chiesto lo stralcio con note di udienza dell'8 settembre 2022, rilevandone la tardività.

5. Alla pubblica udienza del 13 settembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

 

Diritto



6. In via preliminare, il Collegio dichiara inammissibile, per tardività, la memoria e la produzione documentale del 25 agosto 2022, pur rilevandone la neutralità rispetto ai fatti di causa. L'avvenuta produzione della risoluzione ministeriale, infatti, nulla aggiunge alla documentazione già in atti, giusta la motivazione (anche) per relationem mediante richiamo alla stessa del provvedimento di diniego in data 26 settembre 2018. Quanto detto a prescindere dal valore, comunque non normativo, dell'interpretazione ivi fornita.

7. Nel merito, l'appello è fondato, per le ragioni che si vanno di seguito ad esporre.

8. L'intera vicenda trae origine dall'esatta interpretazione dell'art. 53 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, recante Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, laddove consente l'esonero dal c.d. servizio notturno, tra gli altri, ai «lavoratori che hanno a carico persone con disabilità ai sensi della legge 104/92». A seconda, infatti, che si sposti il baricentro della norma nella parte in cui rinvia alla legge n. 104 del 1992 sulla generica definizione di disabilità, ovvero sul concetto di avere “a carico” il disabile, possono conseguirne, almeno prima facie, letture di segno diametralmente opposto dell'esatto spettro delle tutele del lavoratore in questo ambito.

9. Va premesso che il ricorso ad articolazioni dell'orario lavorativo che attingono la fascia notturna risponde a comprensibili esigenze di competitività ovvero di efficienza del servizio erogato, in particolare a cura di Amministrazioni preposte alla tutela della sicurezza del territorio, che devono pertanto trovare il giusto contemperamento con quelle contrapposte di tutela della salute del lavoratore, in adeguate politiche e strumenti normativi in grado di combinare i vari interessi in gioco, spesso in contraddizione tra loro. E' innegabile, infatti, che il lavoro articolato in turni, a maggior ragione se notturni, costituisce un'oggettiva condizione di stress per l'organismo, che può avere significative ripercussioni sulle condizioni di benessere del lavoratore.

10. Con l'art. 17 della c.d. “legge comunitaria 1998” (l. 5 febbraio 1998, n. 25) l'Italia si è finalmente adeguata all'indirizzo da tempo espresso dalla Corte di giustizia della Comunità europea sul lavoro notturno delle donne e nel contempo ha posto le premesse per una regolamentazione dello stesso per tutti i lavoratori secondo quanto previsto dalla direttiva del 23 novembre 1993, n. 104 concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro. Con riferimento al primo, il legislatore ha da subito provveduto ad una riscrittura dell'art. 5 della l. n. 903 del 1977, le previsioni del cui comma 2, lett. c), continuano ad essere fatte salve dall'apposita clausola di rinvio costituente l'incipit del comma 3 dell'art. 53 del d.lgs. n. 151 del 2001.

10.1. In ottemperanza a quanto previsto dal secondo comma del medesimo art. 17 sopra richiamato, il Governo ha poi adottato il d.lgs. 26 novembre 1999, n. 532, che alla luce anche dei contenuti della direttiva comunitaria n.93/104/CE, pur attribuendo un ruolo primario alla contrattazione collettiva, fornisce la definizione generale di lavoro e di lavoratore notturno. Ridetta definizione è stata successivamente ripresa dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, di attuazione sia della medesima direttiva n. 93/104/CE, che della n. 2000/34/CE, entrambe concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, come modificato dal d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. In termini generali, è considerato lavoro notturno quello svolto nel corso di un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l'intervallo fra la mezzanotte e le cinque del mattino e lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga, in via non eccezionale, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero ovvero almeno una parte del suo orario di lavoro normale secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di lavoro. In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all'anno, con “riproporzionamento” del limite minimo in caso di lavoro a tempo parziale. Il Collegio ricorda per completezza come proprio la direttiva europea n.93/104/CE, escluda dal proprio novero, in base all'art. 2 della direttiva n. 89/391/CEE, alcune attività specifiche nel pubblico impiego, quali quelle delle forze armate o di polizia o riconducibili a servizi di protezione civile, in quanto le particolarità ad esse intrinseche vi si oppongono in modo imperativo, ferme restando le esigenze di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, in linea con gli obiettivi della direttiva stessa.

12. Il diritto a non essere utilizzati in turni notturni, ovvero la facoltà di chiedere di essere esonerati dagli stessi, è disciplinato in due distinte normative, entrambe a carattere generale, che hanno mantenuto nel tempo la loro autonomia, in ragione della diversità dell'oggetto delle tutele, seppure i contenuti finiscano per sovrapporsi, con comprensibili problemi di coordinamento (cfr. Cass., sez. lavoro, n. 10202 del 28 maggio 2020, ove si individua l'elemento specializzante a favore dell'applicabilità del d.lgs. n. 151 del 2001 nella qualità di genitore del lavoratore richiedente, anche avuto riguardo all'esatta perimetrazione del lasso di tempo da qualificare come “notturno”).

13. Tale sostanziale sovrapposizione di tutele fa sì che sia l'art. 53 del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, recante il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, che l'art. 11 del d.lgs. 8 aprile 2006, relativo più specificamente all'orario di lavoro, individuino le categorie di lavoratori con riferimento ai quali esiste un generalizzato e inderogabile divieto di utilizzo nel lavoro notturno e distintamente quelle con riferimento alle quali non vige il relativo obbligo, sicché è il diretto interessato a poter operare la scelta, autovalutando il proprio personale punto di equilibrio tra i contrapposti interessi tutelati dal legislatore. Nell'ambito della prima categoria rientrano le donne in stato di gravidanza e i minori, nonché le madri fino al compimento di un anno di età del bambino, ferma restando l'autonoma definizione della fascia oraria da considerare “notturna”, che nel primo caso si estende fino alle sei del mattino e nel secondo comprende un periodo di almeno 12 ore consecutive nell'intervallo tra le ore 22 e le 6 o tra le ore 23 e le 7 (v. al riguardo anche il d.lgs. 4 agosto 1999, n. 345). Nell'ambito della seconda, invece, figurano le lavoratrici madri, o, in alternativa, i padri di bambini di età inferiore a tre anni, nonché i genitori adottivi o affidatari di un minore, nei primi 3 anni dall'ingresso dello stesso in famiglia e comunque non oltre il raggiungimento dei 12 anni di età da parte di quest'ultimo e i genitori unici affidatari di minori di anni 12 (in caso di affidamento condiviso tra i due genitori entrambi i genitori possono beneficiare dell'esenzione dal lavoro notturno nei periodi di convivenza con il figlio). Per quanto qui di specifico interesse, vi rientra altresì la categoria –in verità asistematica rispetto alla specifica cornice di tutela della genitorialità – dei «lavoratori che hanno a carico persone con disabilità ai sensi della legge 104/92», dizione mutuata alla lettera dalla previgente di cui all'art. 5, comma 2, lett. c) della l. 9 dicembre 1977, n. 903, sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, che peraltro, come chiarito sopra, continua ad essere richiamato quanto meno nell'art. 53 del d.lgs. n. 151 del 2001, senza che a questo punto se ne ravvisi la pratica utilità. In tal modo la possibilità di non venire adibiti a turni notturni, qualora il lavoratore o la lavoratrice abbia a carico, ovvero debba assistere un soggetto disabile, seppure non contemplata dal diritto comunitario, trasla dalla novella del 1998 alla legislazione del 1977, e poi in quelle del 2001 e del 2006, rimanendo presente in ciascuna di esse con identica formulazione, sostanzialmente reiterativa di quella originaria.

14. Essa si pone, dunque, nella linea di un'apertura alla gestione flessibile dell'orario di lavoro al fine di agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari in prima battuta indicata (in modo invero molto cauto) anche dalla direttiva dell'Unione europea n. 34 del 3 giugno 1996 relativa ai congedi parentali, successivamente, come noto, ripresa con assai maggiore apertura. E tuttavia il d.lgs. 30 giugno 2022, n. 105, che ha dato attuazione alla direttiva 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, meglio conosciuta come direttiva “work life balance”, prevedendo disposizioni per migliorare la conciliazione tra attività lavorativa e vita privata per i genitori e i prestatori di assistenza, anche non genitori, al fine di conseguire la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di genere in ambito lavorativo e familiare, non fa alcun riferimento alla specifica tematica del lavoro notturno, come meglio chiarito nel prosieguo.

14.1. La disciplina da ultimo richiamata costituisce il punto di approdo del progressivo ampliamento degli istituti che tutelano il bene “tempo” da dedicare alla cura e all'educazione dei propri figli, sia consentendo assenze dal servizio, sia valorizzando l'utilizzo di modalità lavorative “agili” (quali il c.d. smart working), divenute di particolare attualità e efficacia in relazione alla pandemia da Covid-19. L'art. 1, lett. d), della direttiva, seppure inapplicabile ratione temporis, fornisce peraltro un'indicazione interpretativa di sicuro interesse laddove declina la dizione di «prestatore di assistenza», identificandolo in colui che fornisce assistenza o sostegno personali a un familiare o a una persona che vive nello stesso nucleo familiare del lavoratore e «necessita di notevole assistenza o sostegno a causa di condizioni di salute gravi», ferma restando la successiva definizione dello stesso da parte di ciascuno Stato membro.

15. Va ora ricordato come ancora oggi la legge organica a tutela dei soggetti diversamente abili è la legge 5 febbraio 1992, n. 104, rubricata «Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», il cui scopo, in estrema sintesi e semplificazione, era - e rimane - quello di rimuovere le cause invalidanti, promuovendo l'autonomia e favorendo la socializzazione e l'integrazione dei soggetti che ne sono portatori. Principali destinatari della normativa sono dunque i disabili lato sensu intesi, ma non mancano riferimenti anche a chi vive con loro. Il presupposto è infatti che l'autonomia e l'integrazione sociale si raggiungono garantendo alla persona handicappata adeguato sostegno, sia sotto forma di servizi esterni, sia attraverso il rafforzamento delle possibilità di aiuto da parte del suo nucleo familiare facilitando -recte, agevolando – le attività di supporto alla stessa da parte di chi ha comunque un legame affettivo con la prima. Da qui le disposizioni sul coinvolgimento dei familiari nei programmi di cura e riabilitazione della persona con handicap, in un percorso integrato di prestazioni sanitarie e sociali (art. 7, comma 1), ovvero la disciplina degli interventi di carattere socio-psicopedagogico, di assistenza sociale e sanitaria a domicilio, di aiuto domestico e di tipo economico (art. 8, comma 1, lett. a).

15.1. Con termine ormai desueto, l'art. 3 della l. n. 104/1992 tenta di definire la persona handicappata come chi «presenta una minorazione fisica, psichica e sensoriale, stabilizzata o progressiva, causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione». In altri termini l'handicap è lo svantaggio che l'individuo subisce in ragione di una disabilità che ne limita la piena realizzazione in quanto tale secondo parametri di “normalità”, pure se non direttamente osservabile dall'esterno. L'accertamento di tale stato, proprio per darne pubblica fede, anche di fronte al datore di lavoro, deve avvenire a cura delle aziende sanitarie locali tramite un'apposita commissione medica, chiamata a diagnosticare sia la patologia, sia lo stato di disabilità che ne consegue, attestandone lo stato di gravità (art. 4). Sussiste una situazione di grave handicap, cui consegue la priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici, quando «la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» (art. 3, comma 3).

16. L'accesso al lavoro del disabile, che deve essere garantito da ogni forma di discriminazione, a sua volta oggetto di copiosa normativa comunitaria UE (v. in primo luogo la Direttiva Quadro del 2000, che vieta ogni forma di discriminazione fondata sull'handicap e impone al datore di lavoro i c.d. “accomodamenti ragionevoli”) e giurisprudenza della Corte di Giustizia, va ricondotto a distinta e autonoma disciplina di settore, ovvero, in particolare, la l. 12 marzo 1999, n. 68 (poi modificata dal d.l. n. 151 del 2015), che ha sostituito e riformato l'analoga disciplina di cui alla l. 2 aprile 1968, n. 482. Proprio con la l. n. 68 del 1999 compare per la prima volta in un contesto giuridico il termine “disabile” a fini lavorativi, stante che fino ad allora il principale testo normativo di riferimento si riferiva al superamento delle barriere architettoniche e alla progettazione accessibile del 1989, introducendo la categoria di «persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale». Secondo i Giudici comunitari, avuto riguardo a ridetta tematica dell'accesso al lavoro, non esistono handicap e disabilità in quanto tali; piuttosto, ogni menomazione/malattia è suscettibile di diventare disabilità a fini discriminatori - con valutazione nel caso concreto - se la stessa nell'interazione con barriere di diversa natura si riveli idonea a ostacolare la piena partecipazione della persona alla vita professionale su una base di uguaglianza con gli altri lavoratori e sia di lunga durata.

17. Nella l. n. 104 del 1992, tra gli strumenti di tutela indiretta, ovvero destinati a supportare il nucleo familiare del disabile, figurano gli istituti contrattuali destinati ad agevolare l'attività di supporto posta in essere da chi all'interno dello stesso se ne faccia concretamente carico. Contrariamente a quanto avvenuto per le tutele dirette ai genitori del minore portatore di handicap, che successivamente all'entrata in vigore della legge n. 104/1992 hanno trovato, come già visto, altre e più specifiche fonti normative nell'ambito della tutela della maternità e paternità, gli istituti finalizzati al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che sia esso stesso in situazione di handicap grave, ovvero che assista un familiare portatore di (grave) disabilità, restano disciplinati dalle disposizioni di cui all'art. 33, legge n. 104 del 1992. La norma, finalizzata al più ampio riconoscimento dei diritti e dell'integrazione sociale delle persone handicappate, proprio in quanto non rivolta direttamente alle stesse, deve a maggior ragione fare i conti con l'interesse dei datori di lavoro e per tale ragione stabilisce precisi limiti ad una fruizione non giustificata di queste tutele. Da qui l'attenzione del testo a due aspetti fondamentali per la ricerca di un corretto punto di equilibrio, che anche la prassi interpretativa e la giurisprudenza hanno sviluppato, che non perda comunque mai di vista i diritti fondamentali della persona con disabilità, ovvero la connotazione dell'handicap e della sua situazione di gravità e le formalità di accertamento di entrambe.

17.1. Essa contempla dunque i c.d. permessi orari giornalieri (comma 1), i permessi mensili (tre giorni), il diritto a vedersi assegnata una sede di lavoro più vicina possibile al domicilio della persona da assistere e il divieto di trasferimento senza il consenso (comma 5), nonché, da ultimo, la priorità nell'accesso al lavoro agile o ad altre forme di lavoro flessibile (comma 6-bis, introdotto dal già ricordato d.lgs. 30 giugno 2022, n. 105).

18. All'interno del d.lgs. n. 151 del 2001, è l'art. 42 ad occuparsi degli istituti di tutela dei lavoratori che si prendono cura del disabile, prevedendo un congedo retribuito laddove essi siano anche genitori dello stesso, minore di anni tre o introdotto da meno di tre anni nella famiglia adottiva, purché minore di anni dodici.

18.1. Il comma 5 della norma estende il beneficio al coniuge, al convivente e all'unito civilmente (categoria inserita in ragione della necessità di adeguamento alla disciplina di cui alla l. 20 maggio 2016, n. 76), nonché ad altre figure di familiari nominativamente indicate, collocate su una scala gerarchica che vede privilegiate proprio le prime. L'apparente asistematicità della previsione, siccome estranea al perimetro delle tutele genitoriali, trova rispondenza nel continuo rimodellamento dell'istituto per adeguarlo alle indicazioni rivenienti dalle numerose pronunce della Corte costituzionale intervenute sul punto. Già con il d. lgs. 18 luglio 2011, n. 119 (di attuazione dell'art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante delega al Governo per il riordino della normativa in materia di congedi, aspettative e permessi), infatti, si è assistito ad una modifica dei tratti distintivi dell'istituto, originariamente «concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave» (per tale ricostruzione, v. sentenza n. 203 del 2013, punto 3.4. del Considerato in diritto), ma poi ricondotto in maniera più estesa ad una più generalizzata esigenza di «cura del disabile nell'ambito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene», così da «tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione» (sentenza n. 1- omissis -, punto 7.2. del Considerato in diritto). Il diritto del disabile di «ricevere assistenza nell'ambito della sua comunità di vita» (sentenza n. 213 del 2016, punto 3.4. del Considerato in diritto), infatti, siccome inscindibilmente connesso con il diritto alla salute e a una integrazione effettiva, «rappresenta il fulcro delle tutele apprestate dal legislatore e finalizzate a rimuovere gli ostacoli suscettibili di impedire il pieno sviluppo della persona umana» (v. ancora Corte cost., n. 232 del 2018) .

18.2. D'altro canto, l'assimilazione delle tutele del “prestatore di assistenza” a quelle genitoriali hanno trovato da ultimo consacrazione proprio nella Direttiva n. 1158/2019, sopra citata, con ciò confermando l'unicità del contenitore laddove venga all'evidenza un'analoga esigenza di cura del figlio, sia o meno esso anche disabile, ovvero del disabile ex se.

18.3. Nel tempo si è poi assistito al progressivo allargamento delle maglie della rigida impostazione iniziale, che ha portato al superamento di requisiti originariamente previsti (si pensi alla necessaria continuità dell'assistenza), all'ampliamento dei soggetti legittimati a fruire degli istituti, nonché, da ultimo, al superamento dell'esclusività del beneficiario (c.d. referente unico). Ciò è avvenuto andando ad incidere sempre sulle corrispondenti norme sia della l. n. 104 del 1992 che del d.lgs. n. 151 del 2001, senza che ci si sia mai preoccupati di un'effettiva armonizzazione, sì da evitare lacune e difetti di coordinamento, finanche a livello terminologico. Emblematico al riguardo proprio il richiamo ancora attuale all'handicap presente nella l. n. 104 del 1992, laddove la relativa dizione terminologica scompare nella legislazione successiva. In nessun caso, tuttavia, è venuto meno il riferimento alla gravità della situazione del familiare assistito, così come accertata dalle competenti commissioni mediche.

19. Il Collegio ritiene che il più volte citato art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 151 del 2001 non possa essere letto in maniera avulsa dal contesto normativo nel quale si inserisce, ovvero nell'ambito del regime delle tutele della genitorialità, all'interno del quale sono state innestate misure per i prestatori di assistenza ad un disabile, anche non genitori. L'infelice formulazione della norma, che nel riprodurre la previsione della legge comunitaria del 1998, come innestata in quella del 1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, non si è data cura di inserirvi l'esplicito richiamo al requisito della gravità, presente invece nell'art. 42 del medesimo Testo unico con riferimento all'istituto del congedo, non può certo risolversi nel generalizzato riconoscimento della fruizione del beneficio in relazione all'assistenza di un invalido purché sia, in assenza peraltro di qualsivoglia disciplina giuridica aggiuntiva (si pensi alla necessità della convivenza, comunque desumibile dal richiamo alla l. n. 104/1992 nel suo complesso, seppure nel caso di specie sussistente, essendo stato l'esonero richiesto per accudire la moglie, riconosciuta portatrice di handicap alcuni anni prima in quanto sottoposta ad intervento chirurgico per asportazione di carcinoma mammario, in attuale terapia ormonale).

20. Né può tacciarsi tale operazione ermeneutica di operare una sorta di indebita addizione interpolativa nel testo della norma in controversia, siccome affermato dal primo giudice, nonché da questo Consiglio di Stato solo in sede cautelare, laddove al contrario la lettura suggerita, oltre che irrazionale sul piano della coerenza di sistema, si paleserebbe, essa sì, indebitamente soppressiva di un'indicazione chiaramente fornita dal legislatore e non suscettibile di ignoranza da parte dell'interprete. Con ciò addivenendo anche alla conclusione – invero paradossale – che ai fini dell'ottenimento di un permesso orario, mensile, di un congedo e perfino della priorità nell'accesso al lavoro agile o ad altre forme di lavoro flessibile il lavoratore richiedente deve motivare avuto riguardo all'assistenza di una persona con disabilità in situazione di gravità, mentre ciò non sarebbe necessario in caso di richiesta di esonero dal servizio notturno.

20.1. La compresenza, con riferimento alla disabilità lato sensu intesa, di diverse dizioni a livello nazionale, comunitario e internazionale (persona non autosufficiente, portatore di handicap, invalido e inabile), astrattamente anche applicabili contemporaneamente al medesimo soggetto, non consente in alcun modo di limitare il richiamo alla l. n. 104 del 1992 alla sola generica definizione di disabile, per l'evidente ragione, peraltro, che tale definizione non vi figura affatto. La distinzione tra queste condizioni era stata anticipata già dall'intervento classificatore dell'OMS del maggio del 2001 con la International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF,- Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), con lo scopo di integrare il modello clinico di riconoscimento delle condizioni di disabilità con il cosiddetto “modello sociale”, superando l'impostazione della stessa come “malattia” (disease) e distinguendola dalla “menomazione” (impairment), dalla disabilità (disability) e dall' “handicap”.

21. Il processo di convergenza internazionale nel riconoscimento della complessità della condizione delle persone affette da disabilità ha trovato l'ultimo importante traguardo nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, la quale, facendo eco alle considerazioni scientifiche dell'ICF, ha introdotto una definizione di disabilità del tutto nuova rispetto al passato. Le persone con disabilità sono definite cioè come soggetti che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali tali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri individui. Con essa non si è pertanto inteso riconoscere nuovi diritti alle persone con disabilità, ma piuttosto garantire che queste ultime possano godere di tutti quelli che sono riconosciuti agli altri cittadini, confermando in loro favore i principi fondamentali in tema di riconoscimento delle pari opportunità e della non discriminazione. Da ultimo, il termine disabilità viene adoperato dall'ONU e dall'OMS come “categoria” generale che si declina, nella sua componente di condizione di salute individuale, in diverse forme: invalidità/handicap (impairments) legate a parti del corpo o a funzionalità dello stesso; limiti nell'attività individuale determinati da fattori ambientali; restrizioni nella partecipazione e interazione sociale.

21.1. Sul piano normativo nazionale, le differenze intercorrenti tra le categorie sopra riportate – le quali, come detto, non si escludono vicendevolmente - consistono primariamente nei requisiti che conducono al riconoscimento dello status corrispondente; poi, la modalità di accertamento dei requisiti fisici, psichici e sensoriali è parzialmente differente; infine, la platea di benefici e servizi a cui hanno accesso gli individui e le famiglie varia a seconda delle condizioni indicate. Ne consegue che una sovrapposizione in termini giuridici della nozione di disabile a quella di persona con handicap anche lieve di cui all'art. 3, comma 1, della l. n. 104 del 1992, costituisce una inammissibile semplificazione del complesso quadro delle tutele accordabili solo alle condizioni indicate dal legislatore.

22. Ritiene dunque il Collegio che il regime dell'esonero dal servizio notturno del prestatore di assistenza, proprio in quanto replicato sia in sede di declinazione delle tutele genitoriali, sia in sede di disciplina dell'organizzazione dell'attività lavorativa, può essere fatto rientrare tra gli strumenti di tutela indiretta del disabile, al pari degli altri istituti più specificamente mirati allo scopo. Alla luce pertanto delle scelte del legislatore nazionale, neppure imposte in questo ambito da quello comunitario, esso pure va ricondotto al complesso delle tutele della sua salute psico-fisica quale diritto fondamentale dell'individuo di cui all'art. 32 Cost., riconosciuto e garantito anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). Pur in assenza nel testo della Costituzione del termine “disabilità” o similare, infatti, i soggetti che ne sono affetti ricevono da tali norme, e in egual misura dai principi di cui agli artt. 3, 31 e 38, una doverosa tutela indiretta, che non è in alcun modo “elisa”, come affermato dal primo giudice, sol perché si addiviene ad una perimetrazione della stessa che ricava la nozione del “carico” dall'entità della necessità di assistenza del beneficiario della cura. Il rilievo costituzionale complessivo dell'interesse protetto giustifica, dunque, l'obbligo a carico del datore di lavoro di assecondare la richiesta del proprio dipendente, ma solo laddove sia funzionale a ridetta necessità di assistenza, siccome declinata inequivocabilmente dalla l. n. 104 del 1992. Esso cioè non può essere inteso in senso assoluto, come pretenderebbe l'appellato, prevaricando comunque, a prescindere dalla consistenza del potenziale pregiudizio e finanche in assenza dello stesso, qualsivoglia altro interesse di eguale rilievo costituzionale. Le esigenze di buon andamento della P.A. quale datore di lavoro, nel caso di specie concretizzantesi nella effettività del presidio del territorio cui gli organi di polizia sono preposti, che può essere garantita esclusivamente mediante un'articolazione oraria estesa a tutto l'arco della giornata, infatti, non può ritenersi sempre soccombente rispetto ad un'accezione di tutela del disabile a così ampio spettro da prescindere dalle sue effettive esigenze di ausilio e supporto. In prospettiva futura, peraltro, a fronte del prevedibile aumento della necessità di assistenza e, di conseguenza, del concomitante aumento della prevalenza di infermità connesse all'età da correlare all'invecchiamento della popolazione, se è auspicabile un ampliamento della pletora dei soggetti coinvolgibili, egualmente necessitata si palesa proprio l'esigenza di accertare l'effettività della necessità di tutela (v. al riguardo il Considerando n. 27 della più volte richiamata direttiva (UE) 2019/1158, che conclude con l'indicazione che «Gli Stati membri possono richiedere un certificato medico preventivo che attesti la necessità di notevole assistenza o sostegno per condizioni di salute gravi»).

22.1. La specifica ratio dell'istituto, dunque, che si risolve comunque in un'assenza se non dal lavoro in genere, da taluni servizi, peraltro intrinseci all'attività di vigilanza nei vari settori di spettanza delle singole forze di polizia, al pari del permesso, orario o giornaliero, e del congedo, va posta necessariamente in correlazione diretta con l'esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l'assistenza al disabile, dovendosi escludere che alla fruizione dell'esonero possa connettersi una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza prestata al disabile. In conseguenza, ove il nesso causale tra esenzione dai turni notturni ed assistenza al disabile manchi del tutto, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione. Il che accade ogniqualvolta l'entità dell'handicap non sia tale da rendere il portatore sostanzialmente non autosufficiente.

23. Va infine ricordato che anche la più recente legislazione in materia di assistenza ai disabili, che ha riconosciuto e delineato normativamente la figura del caregiver (art. 1, commi 254-256 della legge n. 205 del 2017, legge di bilancio 2018), ovvero colui/colei che, a titolo gratuito, si prende cura in modo significativo e continuativo di un congiunto, presuppone la non autosufficienza di quest'ultimo a causa di una grave disabilità, individuata mediante rinvio ancora una volta all'art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992.

24. Alla luce di quanto sopra detto, la dicitura «a proprio carico» riferita al soggetto disabile per l'assistenza al quale si chieda l'esonero dai turni notturni utilizzata nell'art. 53 del d.lgs. n. 151 del 2001, non può non essere intesa nell'accezione etimologica, prima ancora che giuridica, di “necessitante di cura e assistenza” al punto tale da essere, appunto, “a carico” di chi gliela presta. Il che corrisponde all'assetto della materia riveniente dalla disciplina degli istituti di tutela indiretta del portatore di handicap declinati nella l. n. 104 del 1992, cui la norma fa espressamente rinvio, non senza aver richiamato l'analoga previsione di cui all'art. 5 della l. n. 903 del 1977, in maniera ormai pleonastica, se non addirittura ipertrofica. Circoscrivere ridetto richiamo alla l. n. 104 del 1992 alla mera e generica definizione di persona handicappata contenuta nel solo comma 1 dell'art. 3, non solo contrasta con l'intero quadro normativo, anche eurounitario, per come sopra ricostruito, ma stride con la formulazione letterale della disposizione stessa.

24.1. Esiste dunque un punto di riferimento univoco per l'individuazione del «soggetto disabile a carico ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104», ovvero il contenuto della legge quadro medesima, e per essa il richiamo a quelle disposizioni che attengono alla tutela indiretta del disabile, mediante la facilitazione nella fruizione del “tempo di lavoro” a vantaggio degli stessi, contenute nell'art. 33 e poi via via riprodotte in altri testi di legge, senza mai alterarne la struttura portante, caso mai estesa ad altri istituti di tutela.

24.2. La c.d. “vivenza a carico”, cioè, che in alcun modo può essere assorbita nel concetto di fiscalmente a carico, come pretenderebbe parte appellata, va interpretata, in coerenza con la legge, dando rilievo non al fatto che il lavoratore, o la lavoratrice, siano tenuti al mantenimento del disabile, ma al fatto che essi abbiano compiti di assistenza nei suoi confronti ai sensi della l. n. 104 del 1992. Il che accade esclusivamente nel caso di gravità della relativa situazione cha ha legittimato o comunque legittimerebbe, la richiesta di fruizione anche delle ulteriori misure agevolative ivi previste.

25. Che tale sia la lettura della norma già datane, in verità in maniera assai più assertiva, dall'INPS nella propria circolare n. 90 del 23 maggio 2007, ripresa dal Ministero del lavoro in sede di risposta all'interpello n. 4 del 2009 di Confindustria, espressamente richiamata nel provvedimento di diniego del 26 settembre 2018 impugnato, poco incide sulla legittimità dei provvedimenti impugnati, derivando essa dalla loro rispondenza alla sottesa cornice normativa, non dall'evocato avallo, privo peraltro di qualsivoglia portata normativa.

26. Per tutto quanto sopra detto, il Collegio ritiene di accogliere l'appello e per l'effetto, in riforma della sentenza n. 199 del 2019 del T.A.R. per le - omissis -, respinge il ricorso di primo grado n.r.g. 58 del 2019.

26.1 La novità e peculiarità della materia trattata giustificano la compensazione delle spese di giudizio.

 

P.Q.M.



Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado n.r.g. 58 del 2019.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell'appellato.