Cassazione Civile, Sez. Lav., 28 novembre 2022, n. 34976 - Mobbing. La richiesta di prestazioni che eccedano la portata naturalmente faticosa della prestazione costituisce inadempimento agli obblighi datoriali di cui all’art. 2087 c.c.


 

 

Presidente: TRIA LUCIA
Relatore: BELLE' ROBERTO Data pubblicazione: 28/11/2022

 

Rilevato che

1.
la Corte d’Appello di Napoli ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva ritenuto fondata la domanda di risarcimento del danno per mobbing proposta da D.C., dipendente di livello D5 dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Napoli (di seguito, IACP);
1.1
la Corte territoriale muoveva dalla premessa che, avendo il Tribunale pronunciato con riferimento al periodo dal novembre 2002 al luglio 2004, in assenza di appello incidentale della lavoratrice si dovesse ritenere maturato, per il periodo precedente, un giudicato interno;
da ciò la Corte territoriale traeva la conseguenza che la domanda nei confronti dell’INAIL potesse trovare inquadramento soltanto nell’ambito del regime di cui al d.lgs. n. 38/2000 ma riteneva al contempo che, data la pluralità di prestazioni (indennizzo o rendita) conseguenti all’applicazione di tale disciplina, la mera insistenza sul ristoro dei danni subiti anche nei confronti dell’ente di previdenza fosse inidonea a consentire una pronuncia nel merito per quanto riguardava il sistema assicurativo pubblico;
quanto alle domande nei riguardi del datore di lavoro, la Corte d’Appello riteneva di disaminare anche il periodo coperto dal giudicato interno da essa ravvisato al fine di meglio chiarire le dinamiche del rapporto lavorativo ed in proposito riteneva che non fosse emersa «alcuna univoca prova» circa l’insostenibilità dei carichi di lavoro lamentata dalla D.C. e, valorizzando alcuni elementi (svolgimento del lavoro su “settimana corta”, assenza di lamentele da parte della dipendente che era subentrata alla ricorrente nel medesimo servizio; assenza di menzione del sovraccarico nelle ultime domande di trasferimento avanzate dalla D.C.; suddivisione del lavoro in “gruppi”) riteneva non emergesse dagli atti alcuna prova di una intenzionale volontà lesiva da parte dell’ente;
1.2
la Corte aggiungeva poi che fosse comprensibile, ma non esorbitasse da aspetti fisiologici della gestione dei rapporti lavorativi, il fatto che alla fine del 2000 in occasione della riunione del collegio sindacale dell’ente si fossero fatti elogi ad un collega della D.C., operante nel suo medesimo settore e non a lei, così come non decisivo era un periodo di attribuzioni lavorative di differenti attività, essendosi trattato di episodio della durata di pochi giorni e culminato comunque con il ristabilimento in tempi brevissimi di compiti propri del profilo professionale della ricorrente;
ancora non vessatoria era ritenuta dalla Corte territoriale l’apertura nei riguardi della D.C. di un procedimento disciplinare, per il mancato salvataggio di alcuni dati informativi, in quanto il procedimento era stato poi archiviato senza pratiche conseguenze, così come veniva ritenuta non «campata in aria ed esorbitante dai limiti della ragionevolezza» la pretesa della Dirigente degli Affari Generali, nel marzo 2004, di avere accesso all’intero protocollo informatico cui era preposta la D.C., cui era seguita una analitica ed esplicita motivazione della sottrazione alla ricorrente di tale responsabilità, con mantenimento della sola produzione e conservazione del protocollo;
aggiungeva ancora la Corte territoriale che il periodo di “freddezza” di rapporti seguito a quest’ultimo episodio era durato per un tempo limitato ed era stato accompagnato da assenze dal lavoro della D.C. per vari motivi: la Corte rilevava altresì la mancanza di pregiudizi nelle schede di valutazione della dipendente, avendo ella riportato sia valutazioni alte (per il particolare disagio e rilevanza degli incarichi), medie (prestazione generale) e bassa soltanto con riferimento a professionalità e disponibilità, valutazione spiegabile in ragione della non particolarmente intensa presenza in servizio, pur giustificata dalla malattia;
sulla base di tutto ciò la Corte escludeva che anche in questa ultima fase del rapporto di lavoro fossero emersi comportamenti persecutori o vessatori o comunque contrastanti con gli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., da parte dell’ente e nei riguardi della ricorrente;
1.3
la Corte di merito riteneva infine comunque insussistente il nesso causale tra la dedotta malattia psichica e l’attività lavorativa svolta, rimarcando come il Tribunale avesse superato gli esiti – sfavorevoli alla D.C. – della c.t.u. svolta in primo grado, sulla base di un documento ASL neppure sottoposto al contraddittorio;
2.
D.C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi, cui hanno opposto difese lo IACP e l’INAIL, ciascuna con proprio controricorso;
la D.C. e lo IACP hanno depositato memoria;

 

Considerato che
 

1.
il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 434, 342 e 346 c.p.c. e contesta il mancato accoglimento dell’eccezione preliminare di inammissibilità dell’appello, per inadeguatezza della formulazione dell’atto di gravame;
analogamente, il secondo motivo denuncia la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 2909 c.c. e 100 c.p.c., sostenendo il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nella parte in cui essa aveva accertato il comportamento datoriale omissivo rispetto all’adozione delle cautele necessarie ai sensi dell’art. 2087 c.c., per mancanza di specifica impugnazione sul punto;
secondo questa S.C. «gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata» (Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199);
su tale premessa, basta fare riferimento al riepilogo del contenuto dell’appello operato dalla sentenza qui impugnata per rendere evidente la ricorrenza dei presupposti minimi utili all’introduzione del gravame;
si fa infatti riferimento all’erronea valutazione delle risultanze istruttorie (con critiche desumibili anche dal controricorso, nella parte in cui esso riporta il contenuto dell’appello), l’assenza di comportamento persecutorio e comunque tale da essere «sussumibile nella violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c.», oltre all’assenza di danno in collegamento causale con le condizioni lavorative della D.C.;
questi ultimi profili escludono a propria volta che si possa ritenere non impugnata la sentenza di primo grado sotto il profilo appunto dell’inidoneità delle condizioni di lavoro;
di qui il rigetto dei primi due motivi di ricorso;
2.
il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., dell’art. 2909 c.c., 13 d. lgs. n. 38/2000 e degli artt. 1 e 10 d.p.r. n. 1124/1965 (art. 360 n. 3 c.p.c.) ed esso si articola in una duplice e convergente prospettazione finalizzata a censurare sia l’assunto della Corte territoriale in ordine alla formazione di un giudicato interno, sia l’assunto relativo ad una inidonea formulazione della domanda giudiziale nei confronti dell’INAIL;
il quarto motivo assume la violazione e falsa applicazione dei principi di diritto in tema di giudizi di mobbing e dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., lamentando essenzialmente l’esame atomistico dei diversi episodi denunciati in causa;
il quinto motivo è formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ed assume l’omesso esame dei fatti avvenuti fino all’anno 2002 e riguardanti la denuncia del sovraccarico di lavoro, con particolare riferimento al contenuto della risposta alla richiesta di trasferimento del 7.10.1999, censurando poi anche le valutazioni svolte dalla Corte territoriale sui fatti successivi al 2002;
il sesto motivo assume ancora l’omesso esame di fatti decisivi con riferimento alle vicende successive ed in particolare al sopravvenire di una c.t.u. nel giudizio di impugnazione del (parimenti sopravvenuto) licenziamento della D.C., con la quale si riteneva sussistere il nesso causale tra i fatti avvenuti nell’ambiente di lavoro e la patologia psichica insorta, adducendosi poi gli analoghi i riscontri derivanti dalla certificazione ASL già valorizzata dal Tribunale e corroborando il tutto attraverso il richiamo alla propria perizia di parte;
profili questi ultimi che sono poi alla base anche del settimo motivo, di taglio procedurale, in cui si lamenta il non essersi disposta nuova c.t.u. o un confronto con l’ausiliario al fine di sottoporre al medesimo quanto risultante dalla certificazione ASL; l’ottavo motivo adduce infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c. per contraddittorietà, perplessità od obiettiva non comprensibilità della motivazione;
3.
i suddetti motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione logica, sono fondati, nei termini in cui si va a dire;
4.
l’assunto della Corte territoriale in ordine al determinarsi di un giudicato interno per il periodo anteriore al novembre 2002 non è corretto;
è pacifico che, nonostante la denuncia dei fatti lesivi facesse risalire gli stessi ad epoca anteriore, il Tribunale abbia esaminato soltanto il periodo successivo;
è tuttavia evidente che, a fronte della deduzione di un complessivo comportamento quale fondamento di un diritto risarcitorio, non si possa ritenere che il giudicato si formi su una sola porzione fattuale, in quanto il giudicato ha per oggetto diritti e non fatti;
pertanto, a introdurre in appello il tema riguardante i fatti anteriori al novembre 2002 era del tutto sufficiente l’insistenza su di essi da parte dell’allora appellata;
è poi vero che la Corte d’Appello, pur ritenendo il giudicato interno, ha esaminato anche vari fatti anteriori al novembre 2002 «al fine di meglio chiarire le dinamiche», muovendo peraltro sulla base di un assunto in ordine al fatto che «dagli atti non emerge alcuna univoca prova circa la insostenibilità» del carico di lavoro, da cui si desume che l’onere probatorio veniva integralmente addossato sul lavoratore;
tuttavia, ritiene il collegio che, a fronte dell’errore procedurale, la causa vada rimessa al giudice del rinvio per un completo e diretto esame delle vicende lavorative anteriori al 2002, non limitato ad una delucidazione rispetto ai fatti successivi e con applicazione corretta degli assetti probatori, tenuto conto che in tema di c.d. “superlavoro”, deve ritenersi che l’allegazione compiuta e precisa dello svolgimento della prestazione secondo le modalità nocive onera il datore di comprovare il regolare adempimento all’obbligo di garantire la sicurezza del lavoro, di cui all’art. 2087 c.c., secondo i principi generali in tema di responsabilità contrattuale (Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533; ma v. anche, per il principio, Cass. 6 marzo 2006, n. 4766);
5.
d’altra parte, con riferimento al nesso causale denegato dalla Corte territoriale, coglie nel segno la censura, di cui all’ottavo motivo, in ordine all’assenza di una reale motivazione al riguardo una volta che si legga quella censura nella logica di cui ai precedenti sesto e settimo motivo;
il Tribunale, a fronte di una c.t.u. sfavorevole sul punto alla lavoratrice, aveva infatti accolto la domanda, valorizzando la certificazione ASL con cui si attestava il nesso di causalità tra la situazione lavorativa e la patologia insorta;
la Corte d’Appello, dopo avere richiamato gli esiti della c.t.u., rispetto a tale certificazione ASL ha censurato il primo giudice per non avere «stimolato alcun contraddittorio con il qualificato ed esperto ausiliare già nominato … anche al fine di verificare … con il predetto la effettiva portata ed in ogni caso la rilevanza degli elementi presi in considerazione nella predetta certificazione»;
a ciò nulla è aggiunto e quindi la Corte d’Appello ha finito per limitarsi ad una critica procedurale, senza poi esaminare, pur essendo giudice del fatto, proprio quel documento e così intercettando un difetto motivazionale palese, perché in definitiva non si percepisce su quale base logica sia stato completamento pretermesso l’esame di un documento di provenienza pubblica che si era espresso proprio sull’oggetto del contendere, con difettosità ancor più significativa ove si tenga conto che, al di là delle critiche del perito di parte alla c.t.u. svolta in questa causa, era agli atti anche la c.t.u. svolta in altro giudizio ed in cui si concludeva in senso favorevole rispetto al predetto nesso causale;
6.
l’accoglimento delle censure riguardanti la questione sugli anni anteriori al 2002 comporta in sé la caducazione dell’impianto motivazionale impostato dalla Corte territoriale rispetto alla posizione INAIL e fondato infine sull’assunto che, se quella rilevante era una pretesa successiva al 2002, si sarebbe dovuto precisare nella domanda il tipo di petitum rivendicato;
al di là di ciò è peraltro evidente che la domanda di «ristoro», se riguardata nei confronti dell’ente assicuratore, non poteva che fare riferimento alle prestazioni pecuniarie tipicamente rivenienti, nell’uno o nell’altro regime della copertura INAIL;
d’altra parte, la questione della copertura INAIL, come rileva la stessa ricorrente nella propria memoria finale, non può che essere comunque rilevante nella presente causa, in quanto, verso il datore di lavoro, il danno rivendicabile è solo quello differenziale (o complementare), sicché quanto erogabile a tale titolo rileva a prescindere dalla formulazione e dagli esiti della domanda verso il predetto ente, in quanto il corrispondente importo va inevitabilmente detratto, secondo le opportune modalità di calcolo (Cass. 2 aprile 2019, n. 9112), dal quantum risarcitorio complessivamente in ipotesi calcolato a fini civilistici (Cass. 14 giugno 2022, n. 19182; Cass. 19 giugno 2020, n. 12041; Cass. 31 maggio 2017, n. 13819);
7.
vanno tuttavia svolte ulteriori precisazioni;
7.1.
secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C. si può ritenere che:
- è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 c.c. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 c.c. per il caso di dolo;
- è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164);
- al di là di denominazioni destinate ad avere più che altro valenza sociologica, è poi illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.;
- è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);
- si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1509) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972) e questa S.C. ha del resto già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e, prima Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.p.r. n. 1124/1965 e d. lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 c.c ed è evidente che, se il datore di lavoro abbia tenuto un comportamento consono al contesto, per escludere il danno dovrebbe in realtà vietarsi l'attività, il che non può essere se non quando la legge lo stabilisca (v. anche Cass. 1509/2021, cit.);
7.2
tutto ciò, in relazione al caso di specie, al di là della valutazione sul mobbing, comunque rimessa al giudice del rinvio in ragione della più ampia platea fattuale ad esso sottoposta, permette alcune precisazioni, nel solco di cui a Cass. 3291/2016, cit.;
è vero infatti che, rispetto a vari episodi (mancato elogio; assenza di esiti della contestazione disciplinare; forte contrapposizione dialettica con la dirigente), la Corte territoriale ha espresso una valutazione di non eccedenza dai margini fisiologici della gestione dei rapporti lavorativi;
tuttavia, alla radice della causa e della cassazione che si va a disporre vi è la valutazione di un aspetto, il c.d. superlavoro, che certamente intercetta, almeno in astratto, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, rilevanti ai sensi dell’art. 2087 c.c. (v., l’originaria Cass. 14 febbraio 1997, n. 8267 ed altre successive; v. anche, in ambito di eccessi nella richiesta prestazionale medica, Cass. 5 agosto 2020, n. 16711);
muovendo da ciò, è allora evidente che anche tutti i successivi episodi, qualora si dovesse accertare che la scaturigine della malattia della ricorrente si colloca in quella originaria dinamica impropria del superlavoro, necessariamente dovrebbero ricevere a propria volta una nuova valutazione, non potendosi ritenere la stessa cosa che comportamenti in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità;
il che in qualche modo intercetta la denuncia - contenuta nel ricorso per cassazione - di una necessaria valutazione complessiva dell’accaduto, da ritenere ineludibile, sulla base di quanto sopra detto, al fine di valutare la complessiva legittimità o meno, ai sensi dell’art. 2087 c.c., dei comportamenti datoriali rispetto all’obbligo di evitare lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente stressogeno;
7.3
in definitiva, la richiesta di prestazioni che eccedano, sotto il profilo fisiopsichico, la portata naturalmente faticosa ed usurante della prestazione, secondo le modalità proprie di ciascun ambito lavorativo, costituisce inadempimento agli obblighi datoriali di cui all’art. 2087 c.c. e fonte di danno risarcibile, rispetto al quale possono avere altresì rilievo, nel delineare la gravità concreta dell’accaduto, anche comportamenti isolatamente non illegittimi, ma assunti nel medesimo contesto lavorativo e tali, se valutati nella loro portata stressogena ed in connessione con i primi, da contribuire a determinare il complessivo indebito danno alla sfera personale del lavoratore;
8.
il giudizio di cassazione va quindi definito con il rigetto dei primi due motivi e l’accoglimento, nei sensi di cui sopra, dei motivi dal terzo all’ottavo, rimettendosi al giudice del rinvio una nuova valutazione dell’intera platea dei fatti denunciati dalla ricorrente, così come sul nesso causale, secondo i principi e nella logica di quanto sopra detto;

 

P.Q.M.
 


La Corte accoglie, nei sensi di cui in motivazione, i motivi dal terzo all’ottavo, rigettati i primi due, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso nella Adunanza camerale del 3 novembre 2022