Cassazione Civile, Sez. Lav., 06 maggio 2024, n. 12126 - Obbligo del datore di lavoro di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I.


"In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale - D.P.I. - non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I."



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO ADRIANA - Presidente -

Dott. PAGETTA ANTONELLA - Consigliere -

Dott. PANARIELLO FRANCESCOPAOLO - Consigliere -

Dott. AMENDOLA FABRIZIO - Consigliere -

Dott. DI PAOLA LUIGI - Rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
 


sul ricorso 16083-2020 proposto da:

A.A., in qualità di esercente la potestà sulla minore B.B. e in proprio unitamente a C.C., D.D. quali eredi di E.E.; F.F., G.G., H.H., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VERCELLI 19, presso lo studio 4 dell'avvocato GENNARO ZICCARDI, che li rappresenta e 2 difende unitamente all'avvocato VINCENZO REALE;

- ricorrenti -

contro

ISCOT ITALIA Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati LUCA CRISTIANO GUELFO, ROBERTO DE GUGLIELMI, MASSIMO SIBONA;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 823/2019 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 26/11/2019 R.G.N. 202/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/03/2024 dal Consigliere Dott. LUIGI DI PAOLA.

 

FattoDiritto


con la sentenza impugnata, in riforma della pronunzia del Tribunale di Torino, sono state respinte le domande proposte da E.E., F.F., G.G. e H.H. nei confronti della "Iscot Italia Spa", volte alla declaratoria di condanna della società al pagamento - a titolo risarcitorio - dell'equivalente del costo affrontato, dell'attività e del tempo impiegato per il lavaggio delle divise, in quanto "dispositivi di protezione individuale" (da ora anche "DPI"), fornite dalla società per lo svolgimento dell'attività lavorativa;

a sostegno della decisione, il giudice del gravame, richiamata la disposizione di cui all'art. 74, comma 2, del D.Lgs. n. 81 del 2008 (ove è previsto che "Non costituiscono DPI ... gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore"), ha escluso, in fatto ("secondo semplici nozioni tecnico-scientifiche derivanti dal notorio, come peraltro emerge anche da qualche elaborato peritale utilizzato nei precedenti di questa sezione"), che gli indumenti "ordinari" forniti ai lavoratori addetti alla pulizia dei treni fossero, nel caso di specie, riconducibili ai predetti "DPI", in quanto privi della "potenzialità di costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore", anche perché "eventuali limitati effetti sgraditi derivanti dall'utilizzo di prodotti chimici nelle operazioni di pulizia (es. irritazioni agli occhi), possono essere evitati mediante l'utilizzo di dispositivi di protezione quali guanti e occhiali e non con le divise cui si riferisce la pretesa dei lavoratori";

per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso A.A., in qualità di esercente la potestà sulla figlia minore B.B. ed in proprio, unitamente agli altri eredi di E.E., deceduto, C.C. e D.D., nonché F.F. G.G. e H.H., affidato a due motivi;

la "Iscot Italia Spa" (da ora anche "Iscot") ha resistito con controricorso;

il P.G. non ha formulato richieste;

chiamata la causa all'adunanza camerale del 6 marzo 2024, il Collegio ha riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di giorni sessanta (art. 380 bis 1, secondo comma, c.p.c.).

Considerato che:

con il primo motivo, i ricorrenti - denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 434 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. - si dolgono che il giudice del gravame abbia ignorato l'eccezione, dai medesimi sollevata con la memoria ex art. 436 c.p.c., di inammissibilità del ricorso in appello per violazione dell'art. 434 c.p.c.;

evidenziano, in particolare, che la società appellante si era limitata a ribadire quanto già affermato nella memoria difensiva nel giudizio di primo grado, senza aggiungere elementi di fatto o tesi di diritto idonee a condurre ad una diversa valutazione dei fatti di causa, contrapposta a quella del giudicante;

con il secondo motivo - denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 74, comma 1, e 77, comma 4, lett. a), del D.Lgs. n. 81 del 2008, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. - lamentano che il predetto giudice abbia escluso che gli indumenti da lavoro forniti dalla "Iscot" (in particolare, camicie, t-shirt o polo di colore rosso in cotone poliestere, felpe di "pile" di colore grigio o rosso, pantaloni di colore rosso di diverso spessore, giubbottini estivi di cotone, giacconi "parka" in parte imbottiti) potessero essere qualificati come "DPI", omettendo di considerare che la nozione legale di dispositivi di protezione individuale non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possono in concreto costituire una barriera protettiva - sia pure ridotta o limitata - rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore; il che risulta confermato dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 26 aprile 1999, ove è previsto che "Rientrano, ad esempio, tra i dispositivi di protezione individuale (DPI) gli indumenti fluorescenti che segnalano la presenza di lavoratori a rischio di investimento, quelli di protezione contro il caldo o il freddo, gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici".

Ritenuto che:

il primo motivo è inammissibile, poiché, da un lato, il vizio di omessa pronunzia va fatto valere, in linea generale, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (cfr. Cass. 13/10/2022, n. 29952, ove è affermato che "L'omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello - così come l'omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio - risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360, n. 3, c.p.c., o del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c., in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare - o non giustificando adeguatamente - la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo "error in procedendo" -ovverosia della violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c. - la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità - in tal caso giudice anche del fatto processuale - di effettuare l'esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell'atto di appello; pertanto, alla mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro "ex actis" dell'assunta omissione, consegue l'inammissibilità del motivo"); dall'altro, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (cfr., tra le altre, Cass. 6/12/2017, n. 29191, che ha ravvisato il rigetto implicito dell'eccezione di inammissibilità dell'appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame);

il secondo motivo è invece da accogliere, avendo già questa Corte (v. Cass. 22/09/2015, n. 18674), in fattispecie analoga a quella in esame, concernente lavoratrice addetta ad attività di pulizia delle vetture dei treni - consistita nella raccolta di rifiuti, svuotamento di cestini e portacenere, comportante l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia e residui organici -affermato, tra l'altro, che "per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc., la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell'azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo alla funzione";

in linea con tale orientamento è stato puntualizzato - da Cass. 21/06/2019, n. 16749 - che "In tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale - D.P.I. - non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.; ne consegue la configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro inquadrabili nella categoria dei D.P.I.";

al riguardo, è stato, in particolare, evidenziato che l'espressione adoperata dall'art. 40 del D.Lgs. n. 626 del 1994 ("ratione temporis" applicabile, poi sostituito dall'art. 74 del D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne ricalca interamente il testo), il quale "fa riferimento a "qualsiasi attrezzatura" nonché ad "ogni complemento o accessorio" destinati al fine di proteggere il lavoratore "contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la salute durante il lavoro", deve essere intesa nella più ampia latitudine proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute e dell'ampiezza della protezione garantita dall'ordinamento attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c."; con la conseguenza che la previsione normativa secondo cui il datore mantiene in efficienza i "DPI" e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie, va letta quale disposizione introduttiva "di un ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi";

nella richiamata pronunzia n. 16749 del 2019 è stato peraltro ricordato che, con particolare riferimento agli operatori ecologici, addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato l'obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale;

va pertanto ribadito, in conformità alla più volte menzionata Cass. n. 16749 del 2019 (seguita, tra le altre, da Cass. 26/06/2019, n. 17132, da Cass. 27/06/2019, n. 17354 e da Cass. 3/03/2020, n. 5748), che "sulla base del quadro normativo in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni internazionali, incentrato sull'obbligo di prevenzione quale insieme di "disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno" (art. 2, lett. g), D.Lgs. n. 626 del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l'obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell'attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico";

in conclusione, la sentenza impugnata è incorsa nel denunciato vizio di violazione di legge, poiché, nel negare ai sopra descritti indumenti, sulla base di "semplici nozioni tecnico-scientifiche derivanti dal notorio", la caratteristica di "DPI", e nel ravvisare il fattore di rischio esclusivamente nei "limitati effetti sgraditi derivanti dall'utilizzo di prodotti chimici nelle operazioni di pulizia", e non anche in quello derivante dall'"inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia e residui organici" -ha finito con l'interpretare la nozione legale di "DPI" in senso restrittivo, in difformità dai principi, sopra richiamati, costituenti espressione del riconoscimento di piena tutela della salute e della sicurezza del lavoratore;

la sentenza va, pertanto, in relazione al motivo accolto, cassata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, della fattispecie alla luce dei principi su richiamati; alla stessa Corte è poi demandato di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;

va, disposta, infine, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003.

 

P.Q.M.


dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dispone, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6 marzo 2024.

Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2024