Tribunale di Cassino, Sez. Lav., 09 aprile 2024, n. 330 - E' necessario provare la sussistenza di un ambiente di lavoro stressogeno o di condotte datoriali persecutorie assimilabili alle ipotesi del mobbing e dello straining
Nota a cura di Cassano Giuseppe, in Il quotidiano giuridico/altalex, 04.06.2024 "Ambiente di lavoro ostile, quali le ipotesi di responsabilità per il datore?"
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI CASSINO
Il Tribunale di Cassino, in funzione di giudice del lavoro, in persona del giudice dott. Omissis ha pronunciato, all'esito della camera di consiglio, la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n° R.G. Omissis/2021, vertente TRA
Omissis elettivamente domiciliata in Omissis#, 1, presso lo studio dell'avv.to Omissis che la rappresenta e difende in virtù di delega in atti RICORRENTE
E
Omissis S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata presso il domicilio digitale dell'avv. Omissis che la rappresenta e difende in virtù di delega in atti
RESISTENTE
FattoDiritto
Con ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato in cancelleria il Omissis ha esposto: - di aver prestato la propria attività lavorativa in favore della società Omissis s.r.l., presso la sede operativa di Omissis, che opera nel settore della vendita di divani e poltrone contraddistinta dal marchio ”Omissis” dal 14.12.2018 fino al 11.11.2020; - di aver svolto mansioni di addetta alla vendita, ed altre più specificamente descritte nel ricorso, ricoprendo ruolo di responsabile a diretto contatto con l'area manager della società “Omissis”; - che a seguito dell'assunzione in azienda del figlio del titolare della società sig. Omissis il datore di lavoro, nella persona di quest'ultimo, ha cominciato a porre in essere nei suoi confronti condotte lesive della sua dignità professionale e morale; - in particolare, è stata quotidianamente accusata da Omissis di “creare ostilità tra i dipendenti della società, in particolare di “attribuirsi le vendite dei clienti effettuate dagli altri commessi”, ed è stata accusata di “essere una ladra” e di “non essere capace di fare la responsabile” e, in generale, di “non essere capace di svolgere le mansioni di arredatrice e commessa addetta alle vendite”, ed esortata a dimettersi dall'incarico di responsabile; - di essere stata oggetto di parole offensive e diffamanti, per diversi pretesti e con cadenza quotidiana, da parte di Omissis che denigrava pesantemente ogni atti vità lavorativa da lei posta in essere; - tali episodi si sono protratti fino alla chiusura intervenuta per il periodo pandemico nel marzo del 2020, e sono proseguiti telefonicamente e poi anche al rientro, in data Omissis, quando a seguito di una nuova accusa “di aver sottratto vendite ai colleghi” portata con toni offensivi e denigratori e con l'invito alle dimissioni dal ruolo di responsabile, ha accusato un malore, per cui il datore di lavoro ha chiamato l'ambulanza e a seguito del quale le è stata diagnosticata una sindrome vertiginosa con prognosi di giorni sette; - dopo un'assenza per malattia fino al 6.6.2020, è rientrata in servizio ma il Omissis, a seguito di un altro litigio determinato dagli stessi motivi, ha accusato un forte malore a seguito del quale il datore di lavoro non ha chiamato direttamente i soccorsi, lasciandola in un sottoscala in un forte stato di agitazione, ove riuscì poi a chiamare il marito che la portò via dal lavoro; - successivamente a tale episodio, le è stato diagnosticato uno stato ansioso reattivo, e non riusciva più a riprendere l'atti vità lavorativa, sempre in conseguenza del disturbo depressivo reattivo conseguito alle situazioni conflittuali in ambito lavorativo; - durante il periodo di malattia, non le sono stati erogati i premi di produzione, le è stato revocato il ruolo di responsabile e il datore di lavoro non ha riscontrato le diverse missive inoltrate per il riconoscimento di diverse spettanze retributive, nonché la richiesta di fruire delle ore di permessi e ferie maturati inoltrata il Omissis; - con lettera del 11.11.2020, il datore di lavoro le ha intimato il licenziamento per il superamento del periodo di comporto, impugnato stragiudizialmente con missiva del 7.1.2021.
Sulla base di tali fatti, la ricorrente ha dunque sostenuto l'illegittimità del licenziamento intimato, in quanto la malattia contratta deve intendersi come riconducibile al datore di lavoro, e in collegamento causale rispetto alle condotte vessatorie compiute da quest'ultimo, e non può essere computata ai fini del decorso del periodo di comporto.
Ha inoltre evidenziato l'illegittimità del licenziamento per intempestività, essendo questo intimato oltre il termine di 90 giorni dalla scadenza del periodo di comporto previsto dal Omissis applicato al rapporto quale soglia per considerare tempestivo il provvedimento espulsivo, ingenerando un incolpevole affidamento della lavoratrice in relazione alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Ha dunque rassegnato le seguenti conclusioni: “1) dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimato in data Omissis e per l'effetto ordinare alla società Omissis s.r.l., corrente in Omissis di reintegrare la ricorrente nel posto di lavoro e condannarla a corrisponderle l'indennità prevista dall'art. 3 comma 2 d.lgs. n. 23/2015 dal licenziamento fino all'effettiva reintegrazione, nella misura massima consentita, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal recesso fino alla reintegrazione; In subordine, condannare la Omissis s.r.l.. a corrispondere al ricorrente l'indennità prevista dall'art. 3 comma 1 d.lgs. n. 23/2015 nella misura massima consentita, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria. 3) Condannare, infine, la resistente al pagamento delle spese e competenze di giudizio da liquidarsi al procuratore antistatario”.
Si è costituita in giudizio la Omissis S.r.l., contestando quanto affermato dalla ricorrente in fatto e in diritto.
In particolare, la resistente ha sostenuto che l'attività lavorativa della ricorrente si è sempre svolta nel massimo rispetto della sua persona e che in nessun caso le sono state rivolte espressioni poco corrette o fatte pressioni, ha precisato che il figlio del titolare è stato assunto in giovane età e non avrebbe mai potuto soppiantare la ricorrente nel ruolo di responsabile, che durante il malore del 18 maggio il datore di lavoro ha prontamente chiamato i soccorsi, e che nell'episodio del 9 giugno la stessa si è volontariamente recata nel sottoscala, e che la dipendente Omissis ha prontamente provveduto ad avvisare il marito della stessa.
Ha poi sottolineato la legittimità del licenziamento essendo pacifico il decorso del periodo di comporto, e l'infondatezza della tesi della ricorrente considerando che i rapporti tra i colleghi sono sempre stati sereni e che il datore di lavoro non ha mai posto in essere le condotte descritte nel ricorso, ed essendo le patologie certificate piuttosto riconducibili ad altre cause.
Ha in seguito sostenuto l'infondatezza dell'eccezione di intempestività del licenziamento, essendo questo stato intimato entro i 90 giorni previsti dal Omissis per la valutazione, da parte del datore di lavoro, dell'effettivo interesse alla prosecuzione del rapporto.
Ha infine precisato l'inapplicabilità della richiesta tutela reale all'azienda resistente, per carenza del requisito dimensionale, impiegando meno di 15 dipendenti.
Ha dunque concluso chiedendo il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto e in diritto.
La causa, a seguito dell'esito negativo del tentativo di conciliazione per il rifiuto della proposta formulata d'ufficio, è stata istruita in via documentale e per testimoni, e ritenuta matura per la decisione è stata rinviata per la discussione autorizzando le parti al deposito di note scritte difensive.
All'udienza odierna, è stata discussa e decisa.
****
La domanda non è fondata e va respinta, per le ragioni di seguito esposte.
La domanda è volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato a Omissis con lettera del 11.11.2020, ai sensi dell'art. 2110 comma 2 c.c. e dell'art. 139 del Omissis applicato al rapporto, per superamento del periodo di comporto.
La parte ricorrente non ha contestato l'effettiva assenza dal lavoro dovuta a malattia per un periodo superiore ai 90 giorni indicato dal contratto collettivo quale limite rilevante ai fini della conservazione del posto di lavoro, ma ha sostenuto, con un primo motivo di censura, l'illegittimità sulla base del necessario scomputo dal periodo di comporto dei periodi di malattia imputabile all'inadempimento del datore di lavoro al proprio obbligo derivante dall'art. 2087 c.c. di assicurare l'integrità fisica e psichica del prestatore di lavoro.
Per quanto attiene a tale profilo, deve condividersi l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 07.04.2011 n. 7946) per cui le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza gravante su di esso (art. 2087 c.c.).
Con riferimento alla portata dell'obbligazione ex art. 2087 c.c., e della natura di norma di chiusura che tale previsione assume, può rinviarsi alla recente giurisprudenza di legittimità, che ha precisato come il dovere del datore di lavoro vada inteso come volto ad evitare la creazione e la permanenza di condizioni di lavoro “stressogene” o costrittive, anche da un punto di vista psichico.
Sul punto, si è ulteriormente precisato che tale dovere non risulta violato solo in presenza di condotte dolose o qualificate (come quelle assimilabili alle figure del mobbing e dello straining), ma che si estende a tutte le ipotesi di comportamenti anche colposi, secondo il paradigma delineato sempre dall'art. 2087 c.c. (si v. Cass. 21.2.2024 n. 4664 e il riferimento ivi contenuto a Cass. 7.2.2023 n. 3692).
Con riferimento alla sussistenza di una violazione del generale obbligo di protezione di cui all'art. 2087 c.c., deve precisarsi che incombe sul lavoratore l'onere di provare la “nocività” dell'ambiente di lavoro, tale da costituire il sostrato materiale per fondare l'allegato inadempimento dell'obbligo di protezione, così come il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza e l'inadempimento del datore di lavoro, mentre a fronte di tale evidenza grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per prevenire lo specifico rischio.
Infatti, l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, per cui ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra questa e il danno subito, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass. n. 26495 del 19/10/2018). Omissis tali precisazioni in merito all'inquadramento giuridico della fattispecie, occorre esaminare le risultanze dell'istruttoria in relazione ai fatti dedotti dalla ricorrente.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha fatto riferimento a specifici fattori di “nocività” dell'ambiente lavorativo connessi allo svolgimento delle proprie mansioni, ma ha allegato la sussistenza di condotte vessatorie poste in essere dal datore di lavoro, contrarie agli obblighi di protezione e comunque idonee ad ingenerare di per sé uno stato d'ansia poi sfociato nella patologia certificata.
Dal compendio istruttorio raccolto, tuttavia, non è emersa la prova delle condotte descritte nel ricorso introduttivo, e non possono dirsi provate né la sussistenza di un ambiente di lavoro stressogeno o costrittivo all'interno del quale avrebbe operato la ricorrente, né la sussistenza di condotte datoriali persecutorie assimilabili alle ipotesi del mobbing e dello straining tali da poter costituire il presupposto della violazione dell'art. 2087 c.c.
In particolare, la parte ricorrente ha affermato di essere stata sottoposta “quotidianamente” e già dal mese di gennaio del 2020 ad accuse da parte del titolare dell'azienda, in particolare quella di “attribuirsi le vendite dei clienti effettuate dagli altri commessi” e di conseguenza di “essere una ladra” e di “non essere capace di fare la responsabile”, e di essere stata destinataria di “parole offensive e diffamanti”.
Tuttavia, dalle dichiarazioni dei testi escussi, non può ritenersi provata la sussistenza di tali quotidiane accuse, né di aggressioni verbali o anche di dissidi frequenti tra il rappresentante della società e la ricorrente.
In primo luogo, deve precisarsi che la stessa presenza di Omissis sul luogo di lavoro non era quotidiana, per come riferito da più testimoni (la teste Omissis e il teste Omissis che riferiscono di una presenza o di qualche giorno per settimana), e già tale circostanza vale a escludere che lo stesso avesse potuto porre in essere condotte vessatorie in modo “quotidiano” o costante, così come invece dedotto dalla parte ricorrente.
Con riferimento alla sussistenza di specifici episodi di accuse mosse nei confronti della ricorrente direttamente dal datore di lavoro, con toni accesi, ne riferisce direttamente soltanto la teste Omissis la quale tuttavia risulta legata da un rapporto di amicizia con la ricorrente e dunque non particolarmente attendibile, per quanto attiene esclusivamente al periodo dalla fine di dicembre del 2019 alla fine di febbraio del 2020.
In particolare, la Omissis ha riferito di una discussione udita tra la ricorrente e Omissis ove questo la accusava di registrare falsamente come proprie alcune vendite (“Mi è capitato di assistere a una discussione tra la ricorrente e il sig. Omissis in cui mi pareva che lui la accusasse di circostanze secondo me non vere; la scena è accaduta di fronte alla mia postazione, credo di pomeriggio, e non sono sicura del fatto che fossero presenti ad assistervi altri soggetti, anche se altri dipendenti erano in servizio nel negozio. In particolare, l'accusa che ho percepito era legata ad un “furto di vendite”, nel senso che Omissis riteneva che la Omissis avesse registrato falsamente delle vendite eseguite dal proprio figlio - da poco assunto - come proprie, al fine di trarne vantaggio per i meccanismi premiali vigenti in azienda.”).
Tale testimone ha riferito poi di aver assistito a discussioni simili altre volte, “almeno tre o quattro” nei mesi di gennaio e febbraio.
Sul punto, deve rilevarsi che la stessa teste non ha reso una descrizione circostanziata delle accuse che sarebbero state mosse alla ricorrente (utilizzando il condizionale: “mi pareva”), né risulta sicura della frequenza degli episodi (non ne ricorda il numero, riferisce “non saprei dire quante” [..] “almeno tre o quattro volte”, né i giorni in cui sarebbero accaduti) né ancora delle circostanze e dei luoghi in cui sarebbero avvenute quelle successive alla prima del dicembre del 2019 (“non saprei dire se anche nelle discussioni successive alla prima fossero presenti altri soggetti ad assistere, presumo di sì considerando il luogo in cui si tenevano, ma non saprei essere specifica in relazione ai nomi delle persone presenti”).
Da ultimo, va rilevato che la parte resistente ha allegato il contratto di lavoro della teste Omissis con decorrenza da gennaio del 2020, e su cui la ricorrente non ha dedotto alcunchè in sede di discussione, che costituisce ulteriore elemento che riduce l'attendibilità della testimone, che riferisce di episodi avvenuti nel dicembre del 2019, quando essa non risultava regolarmente assunta.
Dal tenore di tali sole dichiarazioni e considerato il ridotto grado di attendibilità soggettiva della teste nonché la genericità con cui la stessa ha raccontato degli episodi, non può dunque dirsi provata la stessa sussistenza degli episodi descritti, e comunque risulta da escludere chiaramente che questi avvenissero con cadenza quotidiana o frequente.
Tali conclusioni risultano poi avvalorate da quanto riferito dagli altri testi escussi, che hanno riferito di un ambiente di lavoro privo di particolari conflitti e - pur lavorando a contatto con la ricorrente - non hanno mai assistito a diverbi tra questa e Omissis
La teste Omissis infatti, pur espressamente indicata dalla ricorrente come soggetto che avrebbe assistito a una discussione tra la ricorrente e Omissis in data Omissis, ha affermato al contrario di non aver assistito ad alcuna discussione né il 18 maggio (“Non ricordo in quella data di eventuali discussioni tra la ricorrente e il titolare”) né il 9 giugno, pur essendo in entrambe le giornate insieme alla ricorrente; Omissis riferisce in generale di non aver mai assistito a discussioni tra Omissis e la Omissis né di averne sentito parlare da altri dipendenti (“Omissis dire di non aver mai assistito a discussioni animate tra la ricorrente e il titolare Omissis neanche nel periodo antecedente alla chiusura per la pandemia; non ne sono stata messa a conoscenza”) Il teste Omissis in senso analogo, non ha riferito di discussioni o diverbi tra Omissis e Omissis nella giornata del 18 maggio, precedenti al malore accusato dalla ricorrente, pur avendo lavorato con la ricorrente per tutta la mattina, e inoltre descrive un ambiente lavorativo senza particolari conflitti (“Io ero presente in tale giornata, ho lavorato la mattina insieme alla ricorrente. Non ricordo di aver assistito a liti o discussioni tra la ricorrente e il titolare dell'attività. Non ricordo di discussioni o liti tra la ricorrente e il titolare neanche in passato. […] non ricordo di relazioni conflittuali tra la ricorrente e il titolare, l'ambiente di lavoro era piuttosto sereno anche nella gestione della turnazione.”) In merito a tale episodio, il teste Omissis cliente del negozio, riferisce di aver udito una discussione, e di aver visto la ricorrente agitata, ma non è in grado di riferire né l'oggetto della discussione (pur ricordando la parola “ladra”) né l'effettivo interlocutore. (“Ho sentito che la ricorrente e un uomo discutevano accesamente, ho sentito parole come “ladra”; ero già cliente del negozio; in quella occasione, sono stato servito dalla ricorrente. Sono stato servito dopo aver sentito urlare. Non ho visto l'ambulanza. Mentre salivo le scale per andare a vedere un divano al piano superiore, ho visto che la ricorrente era un po' agitata. Mi sono preoccupato e l'ho riaccompagnata giù. Omissis anche un altro ragazzo. Non so chi fosse.”) Tali dichiarazioni non risultano però particolarmente specifiche né attendibili, considerando la natura occasionale della visita del testimone e la sua mancata conoscenza dell'ambiente lavorativo, così come del tempo trascorso tra l'episodio e le dichiarazioni, né idonee a delineare con sufficiente specificità l'identità del datore di lavoro, così come il tono della discussione, tanto da qualificarla idonea a costituire condotta di natura persecutoria.
A ciò si aggiunga che tali dichiarazioni risultano contrastanti con quelle rese da altri soggetti interni all'ambiente di lavoro - ma non più dipendenti all'epoca della testimonianza, e dunque da ritenere particolarmente attendibili - che pure hanno trascorso più tempo con la ricorrente nella medesima giornata.
La teste Omissis ha reso poi dichiarazioni di tipo valutativo in merito ad un ambiente “nocivo”, non particolarmente circostanziate e comunque riferite a periodi antecedenti ai fatti dedotti in causa, avendo lavorato nel negozio fino a giugno del 2018 (“Omissis stata collega della ricorrente con lo stesso datore di lavoro. Non lavoro più lì perché avevo un contratto a termine.
Comunque, non mi trovavo bene lì, l'ambiente era nocivo. Omissis continue discussioni. Il datore e la moglie erano in altra sede ma erano abituati ad alzare la voce e comandare. Comunque, ho lavorato lì da novembre 2017 a giugno 2018”), mentre nello specifico non ha assistito ad alcun episodio successivo e che potesse riguardare la ricorrente, senza dunque che le sue dichiarazioni possano ritenersi in alcun modo rilevanti.
In relazione ai fatti del 18 maggio e del 9 giugno, riferisce di esserne a conoscenza sulla base di quanto riferito da un collega di nome Omissis da identificarsi probabilmente con Omissis il quale sentito direttamente come testimone non ha riferito di alcuna lite tra il titolare e la parte ricorrente, e in generale di alcun “abbandono” occorso alla stessa in occasione dei malori accusati nelle due date.
Dal complesso delle dichiarazioni raccolte, così come dalle circostanze allegate, non possono neanche trarsi elementi in senso presuntivo che possano avvalorare la dedotta esistenza di una condotta persecutoria nei confronti della ricorrente o di atti lesivi della sua dignità professionale e morale adottati al fine di allontanarla dalla compagine lavorativa.
In aggiunta, appare debole e non provato neanche per presunzioni il movente che asseritamente avrebbe animato le condotte datoriali - estromettere la ricorrente in favore del figlio del proprietario della società - in particolare in considerazione della giovane età di quest'ultimo, come rilevato dalla resistente, e viceversa della più risalente esperienza della ricorrente.
In conclusione, non risulta provata la sussistenza di condotte effettivamente lesive della dignità professionale della ricorrente direttamente poste in essere dal datore di lavoro, né è emersa la sussistenza di un ambiente di lavoro caratterizzato da elementi costrittivi o logoranti, per cui lo stesso non appare idoneo a configurare un rischio per lo sviluppo di patologie della sfera psichica.
In conclusione, alcuna prova risulta raggiunta in merito alla sussistenza di una condotta persecutoria o lesiva della dignità professionale perpetrata ai danni della ricorrente, né di un ambiente di lavoro ostile o costrittivo, tale da costituire la base per l'insorgenza di patologie della sfera psichica imputabili al datore di lavoro.
Del resto, lo stesso collegamento causale tra l'attività e le patologie sofferte risulta quantomeno dubbio, considerato che le patologie certificate (sindrome vertiginosa il 18 maggio, stato ansioso il 10 giugno e in seguito stato depressivo reattivo certificato dal 8 luglio) sono di chiara natura “multifattoriale”, e il decorso delle stesse (che si sarebbe manifestato solo a seguito di una lunga astensione dal lavoro e immediatamente al rientro, e che peraltro avrebbe avuto uno sviluppo diagnostico di diversi mesi) risulta non direttamente collegato ad eventuali episodi accaduti sul luogo di lavoro (di cui come si è già chiarito non v'è alcuna prova).
Risulta altresì poco attendibile la certificazione in atti del 8.7.2020, che ricollega “verosimilmente” lo stato depressivo a vicende lavorative, non motivata e intervenuta a distanza di un mese dall'ultimo periodo di servizio e di diverso tempo dall'ultimo periodo in cui la ricorrente ha prestato servizio in via continuativa (fino all'inizio di marzo del 2020).
Alla luce di tali elementi, non è emersa prova dell'inadempimento del datore di lavoro a cui può essere riconnesso lo stato di malattia, mentre è emersa la sussistenza di un ambiente privo di condizionamenti psicologici o di profili di criticità, e dunque le assenze per malattia della ricorrente possono legittimamente essere computate ai fini del recesso per superamento del periodo di comporto non essendo imputabili al datore di lavoro.
Per quanto attiene poi al secondo motivo di impugnativa del licenziamento, relativo all'intempestività del licenziamento, sul punto è suffciente richiamare la disposizione del contratto collettivo applicato pacificamente al rapporto (cfr. all.ti fasc. resistente) che all'art. 139 prevede, per le aziende con meno di 15 dipendenti, l'espressa possibilità di esercitare il diritto di recesso entro 90 giorni dallo scadere del periodo di comporto ( “nelle Aziende con meno di 15 dipendenti, il licenziamento per superamento del periodo di comporto contrattuale potrà avvenire, a parità di condizioni, entro un arco temporale di 90 Omissis giorni dal verificarsi dell'evento.”) Dunque, considerando che il periodo di comporto è venuto a scadere in data Omissis, e che il licenziamento è stato intimato con missiva del 11.11.2020, meno di 90 giorni dopo, il termine indicato nelle previsioni contrattuali collettive non risulta spirato, e dunque alcuna aspettativa può dirsi sorta in capo al lavoratore del mancato esercizio del diritto di recesso, né alcuna condotta contraria a buona fede può imputarsi al datore di lavoro, avendo questi agito nei termini definiti in sede di contratto collettivo. Omissis del licenziamento deve essere di conseguenza integralmente respinta nel merito, per infondatezza di entrambi i vizi dedotti.
Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri di cui al DM 55/2014 come modificato dal DM 147/2022, in considerazione del valore della controversia (indeterminabile di bassa complessità), ridotte in relazione alla qualità delle parti, seguono la soccombenza e sono poste a carico della parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale di Cassino, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando: - rigetta il ricorso; - Omissis al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della Omissis S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, che si liquidano in complessivi € 5.388,00 oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e Omissis