Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 maggio 2024, n. 15282 - Disabile assente dal lavoro per malattia: periodo di comporto


 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio - Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere

Dott. PONTERIO Carla - Consigliere

Dott. AMENDOLA Fabrizio - Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sul ricorso 3638-2021 proposto da:

LAZIOCREA Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 128, presso lo studio dell'avvocato STEFANO PIRAS, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIORGIO SCHERINI, GIOVANNI BATTISTA BENVENUTO;

- ricorrente -

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MACEDONIA 68, presso lo studio dell'avvocato MARIO DI MEO, che lo rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 2589/2020 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 20/11/2020 R.G.N. 2421/2020;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/04/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. B.B., che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l'avvocato PAOLO PONTECORVI per delega verbale avvocato STEFANO PIRAS; udito l'avvocato MARIO DI MEO.

 

Fatto


1. La Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato "la nullità del licenziamento intimato a A.A. con lettera del 16.11.2011 e conseguentemente condanna(to) la LazioCrea Spa a reintegrare il predetto nel posto di lavoro e a corrispondere al medesimo le retribuzioni globali di fatto, (...), maturate dal recesso all'effettiva reintegra", oltre accessori e contributi assistenziali e previdenziali.

2. La Corte ha innanzitutto disatteso "l'eccezione sollevata dalla società di inammissibilità del reclamo per tardività". Ha constatato, infatti, che il reclamo era stato indirizzato telematicamente, nel termine breve di trenta giorni previsto dall'art. 1, comma 58, L. n. 92 del 2012, cadente il 28.8.2020, alla cancelleria del Tribunale civile di Roma che aveva comunicato al mittente, il giorno successivo alla scadenza di detto termine, "il rifiuto del deposito"; pertanto, il reclamante aveva provveduto al deposto telematico presso la Corte di Appello il 31.8.2020, dopo un precedente tentativo non andato a buon fine.

Sulla base del precedente rappresentato da Cass. SS. UU. n. 18121 del 2016 - secondo il quale "l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 C.P.C. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii" - per la Corte territoriale "la mancata accettazione da parte della cancelleria del Tribunale del presente gravame, alla luce di tale indirizzo interpretativo, finisce per non avere un supporto giuridico, avendo dovuto condurre il procedimento, così come instaurato, ad una declaratoria di incompetenza da parte del giudice adito, con fissazione del termine per la riassunzione ed evidente salvezza e conservazione degli effetti del gravame tempestivamente proposto"; sicché, ad avviso del Collegio, "la circostanza che il Tribunale abbia rifiutato l'atto (...) non può tradursi in un danno del reclamante"; conseguentemente ha ritenuto tempestiva l'impugnazione proposta o, comunque, ha ravvisato "le condizioni per l'applicazione del disposto dell'art. 153/II comma C.P.C.".

3. Nel merito, la Corte di Appello - in sintesi - ha premesso essere pacifico che "il A.A. è stato assente per malattia, nell'arco del triennio anteriore all'ultimo episodio morboso, per 371 giorni e perciò è stato licenziato in ragione della previsione dell'art. 4 CCNL Federculture, applicato al rapporto di lavoro in esame". Ha ritenuto sussistente nel A.A. "una seria e permanente compromissione delle condizioni fisiche, con evidenti disabilità alle quali sono riconducibili le assenze per malattia in discussione", per cui ha considerato configurabile una discriminazione indiretta nell'applicazione al medesimo dello stesso periodo di comporto previsto per un soggetto non affetto da handicap. La Corte ha considerato, quindi, che la società, ai sensi dell'art. 3, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, "era chiamata, al fine di evitare la discriminazione indiretta, ad adottare misure adeguate, tra le quali ben può essere ricompresa la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all'handicap essendo a conoscenza, tra l'altro, dello status di invalidità accertato in capo al lavoratore". Ha aggiunto: "Non è stato dedotto né tantomeno concretamente dimostrato che la richiesta condotta avrebbe esposto la società ad uno sproporzionato onere finanziario, nei termini e limiti di cui alla direttiva europea per come interpretata dalla giurisprudenza della CGUE. Non sarebbe stato di impedimento al richiesto comportamento l'assenza nei certificati medici pervenuti alla società delle ragioni della malattia, perché nel già descritto contesto quest'ultima avrebbe potuto richiedere informazioni al lavoratore, in ossequio a quel dovere di reciproca collaborazione che connota il rapporto di lavoro, e determinarsi di conseguenza all'esito di un eventuale rifiuto di quest'ultimo".

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso LazioCrea Spa con cinque motivi; ha resistito con controricorso l'intimato, che ha anche comunicato memoria. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria in cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Diritto


1. I motivi di impugnazione possono essere indicati secondo la sintesi offerta dalla stessa parte ricorrente.

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia: "Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 287 c.p.c.; 83, co. 7, lett. a), del D.L. n. 18/2020 e 434, co. 2, c.p.c.; 50 c.p.c.; 58, 168, 347, 434 c.p.c. e 36, co. 1 e 2 e 72 disp. att. c.p.c., per avere la Corte d'Appello di Roma erroneamente rigettato l'eccezione preliminare di decadenza, tempestivamente sollevata da LazioCrea Spa, avendo invero violato e/o falsamente applicato le norme di diritto in tema di iscrizione della causa nel ruolo generale e della riassunzione per incompetenza (Motivo ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.)"

1.2. Il secondo motivo denuncia: "Nullità della sentenza o del procedimento con riferimento agli artt. 153, co. 2, 294 e 112 c.p.c., per avere la Corte d'Appello di Roma erroneamente rigettato l'eccezione preliminare di decadenza, tempestivamente sollevata da LazioCrea Spa, invero in assenza dei presupposti per l'operatività dell'istituto della rimessione in termini (Motivo ex art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.)".

1.3. Il terzo motivo denuncia: "Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d'Appello di Roma erroneamente rigettato l'eccezione preliminare di decadenza, tempestivamente sollevata da LazioCrea Spa, avendo invero mancato di considerare circostanze e documenti decisivi per il giudizio, dedotti/allegati dal Sig. A.A. (Motivo ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.)"

1.4. Il quarto motivo denuncia: "Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2110 c.c.; 44 del CCNL Federculture; 1, co. 1, lett. a), della L. n. 68/1999; 3, co. 1, della L. n. 104/1992; 2087 c.c.; 18, 41 e 42 del D.Lgs. n. 81/2008; 2 e 3 del D.Lgs. n. 216/2003; 2, 5 e 7 della Direttiva 2000/78/CE; 288, co. 3, del TFUE (ex art. 249 del TCE), per avere la Corte d'Appello di Roma erroneamente ritenuto discriminatorio, e quindi nullo, il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato da LazioCrea Spa al Sig. A.A., avendo invero violato e/o falsamente applicato la disciplina in tema di periodo di comporto, disabilità e tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, anche con riferimento all'interpretazione e ai correttivi derivanti dai consolidati arresti giurisprudenziali sul punto (Motivo ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.)".

1.5. Il quinto motivo denuncia: "Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d'Appello di Roma erroneamente ritenuto discriminatorio, e quindi nullo, il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato da LazioCrea Spa al Sig. A.A., avendo invero mancato di considerare circostanze e documenti decisivi per il giudizio e ritualmente dedotti/allegati da LazioCrea Spa nelle fasi di merito (Motivo ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.)".

2. I primi tre motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto censurano il capo di sentenza con cui la Corte territoriale ha disatteso l'eccezione di tardività del reclamo. Il Collegio reputa che le censure ivi contenute, in tutte le articolazioni formulate, non possano essere condivise, premessa la radicale inammissibilità del terzo mezzo che deduce il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. per l'omesso esame di un fatto non avente natura sostanziale - e cioè di fatto storico decisivo che ha dato origine alla controversia - bensì meramente processuale (cfr., da ultimo, Cass. SS. UU. n. 5792 del 2024).

2.1. Non è dubbio che alla stregua del principio di diritto sancito da Cass. SS. UU. n. 18121 del 2016 - secondo il quale l'impugnazione proposta davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii - la cancelleria del Tribunale non avrebbe dovuto rifiutare il deposito dell'atto telematico, pregiudicando l'instaurazione di un valido rapporto processuale nel rispetto del termine di decadenza e non sottoponendo la questione al giudice, che avrebbe potuto dichiararsi incompetente, consentendo così la prosecuzione del giudizio.

2.2. Su tale presupposto la Corte territoriale ha riconosciuto esplicitamente - come ricordato nello storico della lite - che concorressero le condizioni per la rimessione in termini, evidentemente ravvisando sia la proposizione in un lasso temporale ragionevolmente contenuto (cfr., tra altre, Cass. n. 32296 del 2023), sia la causa non imputabile determinata dall'incidenza del rifiuto indebito dell'atto, potenzialmente idoneo a ledere in modo irrimediabile il diritto di azione della parte.

La società ricorrente eccepisce che la difesa del reclamante non avrebbe proposto l'istanza ex art. 153, comma 2, c.p.c., ma la rilevazione e l'interpretazione del contenuto delle domande, così come di una istanza di rimessione in termini, è attività riservata al Giudice di merito ed è insindacabile in questa sede se non nei ridotti limiti segnati dalla giurisprudenza di questa Corte (per tutte v. Cass. n. 11103 del 2020), nel caso sottoposto all'attenzione del Collegio non adeguatamente prospettati.

3. Il quarto motivo, che sottopone al Collegio la questione del licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto, non può trovare accoglimento. 3.1. Esso è infondato nella parte in cui lamenta che la Corte territoriale avrebbe "erroneamente sussunto la condizione di invalidità del lavoratore nel concetto di disabilità elaborato dalla normativa europea", sostenendo che, sebbene per il A.A. l'INPS avesse accertato una invalidità civile al 40%, ciò non avrebbe comunque "comportato una condizione impeditiva allo svolgimento dell'attività lavorativa".

3.1.1. Occorre rammentare che questa Corte, riguardo l'ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell'art. 3, Comma 3 bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, che ne costituisce attuazione, ha ritenuto, con indirizzo uniforme, che il fattore soggettivo dell'handicap non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), peraltro letto in conformità con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall'Italia con la legge n. 18 del 2009 e approvata dall'Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006.

Secondo la Corte di Giustizia "la nozione di "handicap" di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata" (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HKDanmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42).

Per quanto riguarda la nozione del carattere "duraturo" della limitazione, "tra gli indizi che consentono di considerare "duratura" una limitazione figura in particolare la circostanza che, all'epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell'interessato non presentava una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, (...), il fatto che tale menomazione poteva protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona", mediante una valutazione essenzialmente di fatto compiuta dal giudice, basata "sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali" (CGUE, sentenza, 1.12.2016, DAOUIDI, cause riunite C-395/2015, punti 54-57, di recente richiamata da Cass. n. 10568 del 2024).

3.1.2. Nella specie la Corte romana, ben consapevole di tali principi, sulla scorta della documentazione in atti e del giudizio di invalidità civile formulato dall'INPS, ha accertato che le disabilità di cui è affetto il lavoratore, "per la loro natura e entità, involgendo sia il sistema cardio-respiratorio sia i movimenti dell'arto inferiore destro, costituiscono all'evidenza una menomazione fisica tale da poter ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (tant'è che il A.A. è stato anche esonerato dal lavoro notturno), così potendo essere ricomprese (...) nella già richiamata definizione di handicap".

Si tratta di un accertamento che involge apprezzamenti di merito, non suscettibile di sindacato innanzi a questa Corte di legittimità.

3.2. Le residue censure contenute nel quarto motivo sono infondate alla stregua delle considerazioni che seguono.

3.2.1. La sentenza impugnata è innanzitutto conforme a principi di recente affermati da questa Corte (Cass. n. 9095 del 2023; conf. Cass. n. 35747 del 2023).

In particolare, nei precedenti citati, è stato precisato, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia ivi richiamata, che il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell'assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata.

In una ottica di bilanciamento tra l'interesse protetto del lavoratore disabile con la legittima finalità di politica occupazionale, la contrattazione collettiva, per sfuggire al rischio di trattamenti discriminatori, dovrebbe prendere in specifica considerazione la posizione di svantaggio del disabile e non è sufficiente una disciplina negoziale che valorizzi unicamente il profilo oggettivo della astratta gravità della patologia: deve, infatti, essere considerato anche e soprattutto l'aspetto soggettivo della disabilità in relazione alla quale adottare gli accomodamenti ragionevoli prescritti dalla Dir. 2000/78/CE e dall'art. 3 comma 3-bis D.Lgs. n. 216/2003.

Ciò perché anche la patologia non grave, ma in nesso causale diretto e immediato con la disabilità, implica per il lavoratore disabile la particolare protezione riconosciuta dalla normativa internazionale, euro-unitaria e statale più volte richiamata nelle pronunce di questa Corte qui condivise. Le disposizioni contrattuali collettive invocate da parte ricorrente nel caso di specie non risultano idonee ad escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap, non prevedendo una differenziata soglia di tollerabilità per i lavoratori disabili rispetto a quella prevista per coloro che tali non sono.

3.2.2. Per altro verso viene posta la tematica della conoscenza o conoscibilità da parte del datore di lavoro della condizione di disabilità e della riferibilità delle assenze per malattia a detta condizione; tale questione si pone, rispetto a quello della adozione degli accorgimenti ragionevoli, su di un piano logico, in modo immediatamente antecedente.

La discriminazione indiretta, a norma del D.Lgs. n. 216/2003 e della Direttiva 2000/78/CE, si ha quando una disposizione un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri di fatto sfavoriscono un determinato gruppo di persone.

Ciò che viene in rilievo è, pertanto, l'effetto discriminatorio e non la condotta, come invece avviene per la discriminazione diretta e, quindi, esula ogni problematica sul requisito della colpevolezza quale elemento costitutivo della responsabilità da comportamento discriminatorio.

Sotto questo profilo, al Collegio preme precisare, avendo riguardo ai precedenti già menzionati di questa Corte (Cass. n. 9095/2023; conf. Cass. n. 35747/2023; dai quali può rilevarsi, peraltro, la presenza di elementi di prova circa la conoscenza della situazione di disabilità del dipendente da parte del datore di lavoro), che senza dubbio non è decisivo l'intento discriminatorio, operando la discriminazione obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria dei disabili; tuttavia, non può negarsi che possa assumere rilevanza la conoscenza o la conoscibilità di un fattore discriminatorio, ai fini dell'accertamento della sussistenza di una esimente per il datore di lavoro al fine di rendere praticabili gli accomodamenti ragionevoli.

Va sottolineato, infatti, che, proprio per le discriminazioni indirette, la Direttiva in materia stabilisce una causa di giustificazione specifica nel caso di handicap (art. 2, paragrafo 2, b), ii), e cioè quando il datore di lavoro "sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, misure per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi"; in attuazione, con l'art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, il legislatore nazionale, nel 2013, ha imposto ad ogni datore di lavoro privato e pubblico, di "adottare accomodamenti ragionevoli", salvo che richiedano oneri finanziari sproporzionati.

Il presupposto della conoscenza dello stato di disabilità o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza incide, evidentemente, sulla possibilità che il datore di lavoro possa fornire la prova liberatoria circa la ragionevolezza degli accomodamenti da adottare e, quindi, rappresenta un momento indispensabile nella valutazione della fattispecie.

Con riguardo a tale aspetto, possono enuclearsi due ipotesi in caso di licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto: la prima, in cui il datore di lavoro abbia colpevolmente ignorato la disabilità del dipendente; la seconda, in cui il fattore di protezione, pur non risultando espressamente portato a conoscenza del datore di lavoro, avrebbe potuto essere ritenuto reale secondo un comportamento di questi improntato a diligenza.

Nella prima ipotesi rientrano certamente i casi in cui la disabilità sia conosciuta dal datore di lavoro per essere, per esempio, il lavoratore stato assunto ai sensi della legge n. 68/1999 ovvero perché il lavoratore stesso ha rappresentato, nella comunicazione delle assenze o in qualsiasi altro modo, la propria situazione di disabilità alla parte datoriale.

Nella seconda, invece, vanno compresi i casi in cui, pur in presenza di una formale omessa conoscenza, la stessa non può ritenersi incolpevole perché il datore di lavoro era in grado di averne comunque consapevolezza per non avere, ad esempio, effettuato correttamente la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008 ovvero perché le certificazioni mediche e/o la documentazione inviate erano sintomatiche di un particolare stato di salute costituente uno situazione di handicap come sopra delineata dalla normativa in materia.

In entrambi i contesti, per il datore di lavoro sorge, prima di adottare un provvedimento di licenziamento per superamento del periodo di comporto, un onere di acquisire informazioni - cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore - circa la eventualità che le assenze siano connesse ad uno stato di disabilità e per valutare, quindi, gli elementi utili al fine di individuare eventuali accorgimenti ragionevoli onde evitare il recesso dal rapporto (cfr. Cass. n. 11731 del 2024, par. 7.2).

Solo a titolo esemplificativo può ipotizzarsi un allungamento del periodo di comporto ex art. 2110, comma 2, c.c. o l'espunzione dal comporto di periodi di malattia connessi allo stato di disabilità ovvero altre misure da scegliere in relazione alla particolarità della fattispecie: accomodamenti, peraltro, le cui problematiche sono state oggetto di rinvio pregiudiziale alla CGUE da parte del Tribunale di Ravenna con ordinanza adottata il 4.1.2024.

L'onere di acquisire informazioni per il datore di lavoro e la cooperazione del lavoratore, invece, trovano conforto nell'art. 2 della Convenzione ONU secondo cui è una forma di discriminazione "il rifiuto di accomodamento ragionevole", e può rifiutarsi solo ciò che risulta oggetto di una richiesta, di una istanza.

Anche nel Commento generale n. 6, adottato nel 2018, dal Comitato per i diritti delle persone con disabilità (ONU), si afferma che: "è connaturato alla nozione di accomodamento ragionevole che l'obbligato entri in dialogo con l'individuo con disabilità". Il Comitato definisce "l'obbligo di fornire soluzioni ragionevoli un dovere reattivo individualizzato che viene attivato nel momento in cui viene fatta la richiesta di accomodamento".

Appare pure significativo che, nelle conclusioni rese dall'Avvocato Generale nella causa innanzi alla Corte di Giustizia C 270/16 Ruiz Conejero contro Ferroser Servicios Auxiliares SA e Ministerio Fiscal (CGUE sentenza 18 Gennaio 2018), si affermi che il datore di lavoro "è tenuto a prendere provvedimenti appropriati per prevedere soluzioni ragionevoli ai sensi dell'articolo 5 della menzionata direttiva (...) qualora un lavoratore sia affetto da una disabilità e il suo datore di lavoro sia o dovrebbe ragionevolmente essere a conoscenza di tale disabilità".

Del pari significativo è che l'art. 17 del decreto legislativo n. 62 del 3 maggio 2024, di attuazione della legge delega n. 227/21 - non applicabile alla fattispecie ma che riforma l'intera materia della disabilità - nell'introdurre l'art. 5-bis alla legge n. 104 del 1992, stabilisce che, "La persona con disabilità (...) ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, (tra gli altri) ai soggetti privati l'adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta" e partecipando "al procedimento dell'individuazione dell'accomodamento ragionevole".

L'interlocuzione ed il confronto tra le parti, che si pongono su di un piano logico quale presupposto per adottare gli accomodamenti ragionevoli, rappresentano, pertanto, una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento del lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, proprio "al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva" e, "per verificare l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dal comma 3-bis", "occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto"; ciò perché "... esso si caratterizza non (solo) in negativo, per il divieto di comportamenti" discriminatori, "quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volto alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa" al disabile.

Quindi il datore è chiamato a provare, (...), di aver compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata, che scongiuri il licenziamento avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto (Cass. n. 6497 del 2021).

Alla stregua delle considerazioni che precedono è, dunque, corretto l'assunto della Corte territoriale che, una volta ritenuto che la società era "a conoscenza (...) dello status di invalidità accertato in capo al lavoratore" e che non si era attivata per "richiedere informazioni al lavoratore", ha considerato discriminatoria e non giustificata la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli e l'applicazione al lavoratore disabile dello stesso periodo di comporto previsto per i lavoratori non disabili.

4. Il quinto motivo è inammissibile.

Viene evocato il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti posti dalle Sezioni unite civili con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, lamentando la "obliterazione" da parte dei giudici d'appello di molteplici "circostanze e documenti", piuttosto che l'omesso esame di un "fatto" storico avente il valore realmente decisivo nel senso individuato da questa Corte, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (v. pure Cass. SS. UU. n. 3670 del 2015 e n. 14477 del 2015).

Si è così sancita l'inammissibilità di censure che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o il difetto di valutazione da parte dei giudici d'appello, ma in realtà sollecitando un esame o una valutazione nuova da parte della Cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito ovvero chiamando "fatto decisivo", indebitamente trascurato, il vario insieme dei materiali di causa (tra le altre: Cass. n. 21439 del 2015).

5. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con condanna alle spese della parte soccombente liquidate come da dispositivo, da distrarsi in favore dell'Avv. Mario Di Meo che si è dichiarato antistatario.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

Va, disposta, da ultimo, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003 della parte A.A. .

Ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi A.A. .
 


P.Q.M.
 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%, da distrarsi.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell'11 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2024.