Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 giugno 2024, n. 16064 - Natura ingiuriosa del licenziamento. Onere della prova



 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana - Presidente

Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere

Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi - Consigliere

Dott. MICHELINI Gualtiero - Relatore

Dott. BOGHETICH Elena - Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA



sul ricorso 2019-2023 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell'avvocato MARA PARPAGLIONI, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;

- ricorrente -

contro

TELECOM ITALIA Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA, ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO, che la rappresentano e difendono;

- controricorrente –

avverso la sentenza n. 1538/2022 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/07/2022 R.G.N. 1596/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/04/2024 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI.

 

Fatto


1. la Corte d'Appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede di rigetto della domanda proposta da A.A. contro la società Telecom Italia, diretta a ottenere il risarcimento del danno biologico differenziale, del danno morale, del danno esistenziale, del danno professionale conseguenti al licenziamento disciplinare intimatogli con lettera 23.11.2012, già dichiarato illegittimo in altro giudizio con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e riconoscimento di indennità risarcitoria, ritenuto dall'odierno ricorrente infamante e ingiurioso e quindi causativo degli ulteriori danni di cui sopra;

2. la Corte distrettuale osservava, in particolare, che:

- l'infondatezza del licenziamento disciplinare non significa, di per sé, la configurazione di ipotesi di licenziamento ingiurioso, idoneo a giustificare la condanna a un risarcimento ulteriore rispetto all'indennizzo onnicomprensivo previsto dall'art. 18 legge n. 300/1970, nel testo ratione temporis vigente;

- il carattere ingiurioso di un recesso postula un quid pluris rispetto all'infondatezza degli addebiti formulati;

- nel caso di specie, non risultavano modalità del procedimento disciplinare o della comunicazione del recesso lesive della riservatezza o dell'onore del dipendente reintegrato, non essendo stata provata un'indebita divulgazione del recesso ovvero che il datore di lavoro ne avesse dato notizia all'interno o all'esterno dell'azienda, al di là della conoscenza e conoscibilità connaturale a un provvedimento quale quello in discussione;

- non era condivisibile la prospettazione del carattere intrinsecamente ingiurioso del recesso, dovendosi la natura ingiuriosa del licenziamento desumere non tanto dai fatti addebitati (risultati infondati nel corso del giudizio di annullamento del recesso), quanto in base alle circostanze attinenti alle modalità di comunicazione e attuazione del procedimento disciplinare, che devono presentare caratteri antigiuridici propri;

- la denuncia all'autorità giudiziaria non costituisce una fonte autonoma di responsabilità;

3. avverso la predetta sentenza A.A. propone ricorso per cassazione con tre motivi, cui resiste la società con controricorso; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza;

 

Diritto


1. con il primo motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), sostenendo la mancata contestazione da parte della società della natura ingiuriosa del recesso;

2. il motivo è inammissibile;

3. la Corte d'Appello ha confermato integralmente le statuizioni di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., nel senso che, quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisone impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all'art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.; ricorre l'ipotesi di "doppia conforme", con conseguente inammissibilità della censura ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (v. Cass. n. 29715/2018, n. 7724/2022, n. 5934/2023, n. 26934/2023);

4. con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. in combinato disposto con l'art. 115 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), affermando che la società non ha contestato la natura ingiuriosa del licenziamento;

5. il motivo non è fondato;

6. non trova riscontro negli atti la prospettazione di parte ricorrente di una mancata contestazione della società che, invero, si è costituita in giudizio per resistere alla domanda di risarcimento dei danni da licenziamento ingiurioso, negando, appunto, il carattere ingiurioso del recesso con le proprie difese, in tutti i gradi di giudizio compreso il presente;

7. parte ricorrente sovrappone la non (più) contestata illegittimità del licenziamento, questione definita in altro giudizio con il riconoscimento in favore del lavoratore della tutela reintegratoria e risarcitoria di legge, con la diversa questione del risarcimento del danno ulteriore da ingiuriosità del licenziamento stesso, in relazione alla quale la sentenza impugnata ha spiegato, in motivazione (in particolare, parr. 14 ss.), la necessità di prova di un quid pluris rispetto all'infondatezza degli addebiti formulati, da collegare alle modalità di comunicazione o divulgazione del recesso, prova, nelle fasi di merito, ritenuta carente; con tali argomentazioni, per vero, parte ricorrente non si confronta adeguatamente, ferma restando l'inammissibilità di rivalutazione delle prove nella presente fase di legittimità;

8. non sussiste, pertanto, la denunciata violazione di legge, che ricorre in caso di erronea sussunzione del fatto nella fattispecie normativa, mentre la censura risulta diretta contro la valutazione di merito circa la mancata prova di specifiche modalità a base della lamentata ingiuriosità del recesso;

9. d'altra parte, il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., riguarda solo i fatti cd. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese (Cass. n. 17966/2016); l'onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti e non le prove assunte, la cui valutazione opera in un momento successivo alla definizione dei fatti controversi ed è rimessa all'apprezzamento del giudice (Cass. n. 3126/2019);

10. non è integrata la violazione dell'art. 2697 c.c., in quanto deducibile per cassazione ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia onerata, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece, come in questo caso, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107/2013, n. 13395/2018, n. 18092/2020); così come non è ravvisabile violazione dell'art. 115 c.p.c., per cui occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli; come detto, la censura in esame esprime una contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale, riservata al giudice di merito e pertanto, qualora congruamente argomentata come nel caso in esame, insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 29404/2017, n. 1229/2019, S.U. n. 34476/2019, S.U. 20867/2020, n. 5987/2021, n. 6774/2022, n. 36349/2023);

11. con il terzo motivo, parte ricorrente per cassazione denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2059 c.c. con riferimento agli artt. 594 e 595 c.p. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.); sostiene che i giudici di appello avrebbero dovuto verificare se la fattispecie concreta poteva essere sussunta nelle fattispecie astratte di ingiuria e diffamazione piuttosto che nella (esclusa) calunnia;

12. il motivo non è centrato rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha fondato le proprie argomentazioni non sull'accertamento incidentale della configurabilità di eventuali reati, ma sulla mancata prova di circostanze ulteriori rispetto all'illegittimità del recesso necessarie per configurare la prospettata, e ritenuta non provata, ingiuriosità dello stesso;

13. la sentenza gravata è conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il carattere ingiurioso del licenziamento, che, in quanto lesivo della dignità del lavoratore, legittima un autonomo risarcimento del danno, non si identifica con la sua illegittimità, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso (Cass. n. 23686/2015; cfr. anche Cass. n. 6548/2024); la sentenza di merito ha espressamente richiamato il precedente di legittimità (Cass n. 5760/2019), con il quale è stato precisato che il licenziamento ingiurioso o vessatorio, lesivo della dignità e dell'onore del lavoratore, che dà luogo al risarcimento del danno, ricorre soltanto in presenza di particolari forme o modalità offensive o di eventuali forme ingiustificate e lesive di pubblicità date al provvedimento, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio (Cass. n. 5885/2014, n. 21279/2010, n. 6845/2010, n. 15469/2008);

14. la Corte d'appello, partendo dalle esposte premesse, ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte: al fine di valutare la dedotta natura ingiuriosa del licenziamento, ha esaminato le circostanze attinenti alle modalità di comunicazione ed attuazione del procedimento disciplinare, concludendo che la condotta del datore di lavoro non aveva travalicato gli usuali canoni comportamentali tipici della fase di estinzione del rapporto di lavoro;

15. rispetto a tale accertamento in fatto, risulta irrilevante la prospettata diversa possibile qualificazione in termini di possibile ingiuria o diffamazione; la Corte di merito, in risposta a specifica argomentazione difensiva, ha sottolineato, in linea con Cass. n. 11271/2020, che colui che invochi il risarcimento del danno per avere subito una denuncia calunniosa ha l'onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo, poiché la presentazione della denuncia di un reato costituisce adempimento del dovere, rispondente ad un interesse pubblico, di segnalare fatti illeciti, che rischierebbe di essere frustrato dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce semplicemente inesatte o rivelatesi infondate; ma, tanto premesso e confermato in questa sede, va ribadito che la motivazione della sentenza gravata è fondata sul difetto di prova nel merito, ai fini di configurare un licenziamento ingiurioso, del ridetto quid pluris rispetto all'infondatezza degli addebiti formulati, da collegare alle modalità di comunicazione o divulgazione del recesso;

16. la motivazione contestata resiste alle censure di parte ricorrente sul punto, perché adeguatamente e congruamente argomentata quanto all'esame degli elementi di fatto in relazione alle norme di legge applicate, rimanendo estranea al perimetro del giudizio l'eventuale corretta qualificazione penalistica di comportamenti prospettati come illeciti in astratto e comunque giudicati non provati in concreto;

17. in ragione della soccombenza, parte ricorrente deve essere condannata al rimborso in favore della controparte delle spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo;

18. il rigetto dell'impugnazione determina il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;

 

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.500 per compensi, Euro 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 4 aprile 2024.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2024.