Cassazione Penale, Sez. 4, 13 giugno 2024, n. 23661 - Caduta dalla copertura in eternit di un capannone industriale. Nei lavori in quota il datore di lavoro deve preferire le misure di sicurezza collettive rispetto a quelle individuali



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Patrizia - Presidente

Dott. FERRANTI Donatella - Consigliere

Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere

Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere

Dott. CENCI Daniele - Consigliere - Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA
 


sul ricorso proposto da:

A.A. nato a T il (Omissis)

avverso la sentenza del 03/07/2023 della CORTE APPELLO di TORINO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELE CENCI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr.ssa SABRINA PASSAFIUME, che ha concluso si riporta alla memoria in atti concludendo per l'inammissibilità del ricorso.

udito il Difensore: è presente l'Avvocato SERLENGA ANDREA del foro di TORINO in difesa di A.A. .

Il Difensore illustra i motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.

Fatto


1. La Corte di appello di Torino il 3 luglio 2023, in parziale riforma della sentenza, appellata dall'imputato, con cui il Tribunale di Torino il 17 luglio 2019, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto A.A. responsabile del delitto di omicidio colposo, con violazione della disciplina antinfortunistica, in conseguenza condannandolo, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena stimata di giustizia, condizionalmente sospesa, oltre al risarcimento dei danni, in forma generica, alle parti civili, con assegnazione alle stesse di provvisionale, invece, stimate le circostanze attenuanti prevalenti sull'aggravante, ha rideterminato riducendola, la pena, e ha eliminato le statuizioni civili, attesa la revoca delle costituzioni in ragione dell'avvenuto risarcimento medio tempore del danno; con conferma nel resto.

2. I fatti, in estrema sintesi, come concordemente ricostruiti dai giudici di merito.

Il 7 settembre 2016 è accaduto un incidente mortale all'interno di un cantiere in cui la ditta EC.AM. Sas di A.A. , socio amministratore, stava provvedendo allo smaltimento della copertura in eternit di un capannone industriale, copertura composta da un tetto a due falde, lungo 66 metri, largo 15 metri circa per ogni falda e con altezza al colmo di 7,5 metri. In particolare, il lavoratore dipendente della EC.AM. B.B., mentre camminava sulla copertura precipitava dall'alto per circa 7,5 metri e decedeva per le gravissime lesioni riportate per effetto del trauma cranio - encefalico.

Si è ritenuto responsabile dell'accaduto il datore di lavoro, A.A. , per non avere previsto dispositivi di sicurezza collettivi (ad es. reti anticaduta, sottopalchi), anziché di tipo individuale, poiché le cinture di sicurezza, pur - in effetti - distribuite ai dipendenti, compreso il deceduto, ed agganciate alla linea - vita, con avvolgitori, nel caso di specie non offrivano la sicurezza necessaria, in quanto nel caso concreto non potevano servire per raggiungere il castello di discesa, che distava circa venti metri dal punto in cui l'operaio lavorava, essendo stata parte significativa della copertura, contenente amianto, avvolta da un telo in plastica, su disposizione date direttamente da A.A. , presente sul tetto e vicino alla vittima, essendo imminente la poggia, sicché l'operaio si sganciava e camminava sul tetto ma poi per errore, determinato dalla uniforme verniciatura rossa derivante dallo spruzzamento di un prodotto per l'incapsulamento, vernice che aveva riguardato tutte le superfici e che non consentiva di distinguere le - robuste - parti di soletta pedonabile dai - fragili - lucernai, anziché rimanere sulla zona solida, calpestava un lucernaio non protetto che, per il peso, si rompeva ed il malcapitato cadeva nel vuoto.

Si è ritenuto non avere il datore di lavoro rispettato quanto prescritto dagli artt. 111, commi 1 e 5, e 148 del d. Igs. 9 aprile 2008, n. 81, in riferimento ai lavori in quota, dovendo il datore di lavoro preferire le misure di sicurezza collettive rispetto a quelle individuali.

La negligenza, imprudenza ed imperizia dell'imputato deriverebbero, oltre che dal mancato impiego di sistemi di sicurezza di tipo collettivo, anche dall'avere consentito una colorazione uniforme delle zone - sicure - calpestagli e di quelle - insicure siccome fragili - non calpestabili, colorazione tale da trarre in inganno l'operaio, che lavorava in quota, dal non avere segnalato la zona pericolosa e dal non avere correttamente vigilato, essendo peraltro in quel momento A.A. compresente sul tetto ed a breve distanza dal lavoratore, sul corretto impiego dei dispositivi individuali di protezione da parte del dipendente. Tali comportamenti avrebbero concorso a causare l'evento luttuoso.

Si è esclusa da parte dei decidenti di merito l'abnormità della condotta della vittima.

3. Ciò posto, ricorre per la cassazione della sentenza, tramite Difensore di fiducia, C.C. , che si affida a tre motivi con i quali lamenta promiscuamente difetto di motivazione e violazione di legge.

3.1. Con il primo motivo censura la erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione in ragione della carente ricostruzione della fattispecie concreta.

La Corte di appello avrebbe trascurato un elemento di prova assolutamente determinante che è confluito nel materiale istruttorio ossia la deposizione del tecnico Spresal (acronimo di Servizio prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro della ASL), L., ed il verbale (allegato al ricorso), con allegate fotografie, dallo stesso redatto il 7 settembre 2016.

Infatti, ad avviso del ricorrente, le immagini fotografiche scattate dal teste qualificato mostrerebbero una situazione di fatto della copertura dell'immobile difforme da quella presa in considerazione dai giudici di merito: infatti sul tetto si vedono tre grosse tavole di legno a copertura di parti del lucernaio. Da tale - si stima, dirimente - rilievo discenderebbe la conseguenza non essere conforme al vero quanto si legge alla p. 9 della sentenza impugnata, ossia che non vi erano né reti né tavole né sottopalchi.

Per contro, l'imputato, ad avviso della Difesa, risulta avere rispettato quanto prescritto dall'art. 148 del d. Igs. n. 81 del 2008 in tema di lavori in quota.

3.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole di mancanza di motivazione ovvero di mera apparenza dell'apparato giustificativo in ordine alla dichiarata inidoneità del dispositivo di protezione individuale (imbracatura di sicurezza agganciata alla linea-vita posta sul colmo del tetto) e/o illogicità della motivazione per travisamento della prova, quanto alla dichiarazione del teste L., tecnico Spresal.

Premesso che la Corte di appello ha ritenuto che le circostanze concrete del caso (ossia: 1. presenza stabile di un passante lungo la fune; 2. presenza contingente del nylon steso sul tetto, essendo imminente la pioggia) imponessero al lavoratore di porre in essere la pericolosa manovra di sganciarsi e riagganciarsi alla linea-vita, rimanendo temporaneamente in alto senza sicurezza, si contestano da parte del ricorrente entrambe le circostanze.

Quanto alla presenza stabile di un passante di ancoraggio lungo la fune, poiché si tratterebbe di un'affermazione senza riscontro, mera asserzione priva di motivazione, e comunque manifestamente illogica, non essendo vero che, per effetto della eventuale presenza del passante, i lavoratori fossero costretti a frequenti sganciamenti/riagganciamenti del cordino di sicurezza, invece potendo e dovendo lavorare rimanendo nella stessa zona, "coperta" dal tratto di 20 metri della linea - vita. Né vi sono testimoni che hanno riferito di frequenti sganciamenti dalle linea-vita. E peraltro, rimanendo sempre agganciato, il lavoratore ben poteva raggiungere il castello di sbarco, distante 14 metri.

Non sarebbe conforme al vero nemmeno che la presenza del telo di nylon impedisse di restare agganciati alla fune, poiché da quanto da quanto riferito l'8 maggio 2019 dal teste L. (verbale allegato al ricorso, p. 23, sub n. 5) e dalle immagini fotografiche in atti risulta che i riavvolgitori erano al di fuori della copertura del telo impermeabile.

3.3. Tramite l'ultimo motivo A.A. denuncia mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine al contributo alla causazione dell'evento da parte del lavoratore.

Con tale motivo, da leggersi unitamente a quelli precedenti, si sostiene che il dispositivo di protezione individuale in effetti fornito fosse del tutto sicuro ed idoneo e che, dunque, la condotta del dipendente consistita nello sganciarsi dalla fune di trattenuta sia stata imprevedibile per il datore di lavoro, che era pienamente convinto che il dipendente fosse agganciato (in tal senso dovendo intendersi l'affermazione dell'imputato, riferita a p. 5 della sentenza impugnata, di avere visto l'operaio muoversi con disattenzione), siccome condotta posta in essere dalla vittima in maniera esorbitante ed inutilmente pericolosa.

Si chiede, dunque, l'annullamento della sentenza impugnata.

4. Il Difensore ha chiesto tempestivamente la trattazione orale del ricorso.

 

Diritto


1. Premesso che la prescrizione maturerà non prima del 7 settembre 2031 (fatto del 7 settembre 2016 + 15 anni), il ricorso è infondato e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.

2. Quanto al primo motivo, non risulta essere "determinante" l'eventuale presenza di tre tavole sul tetto, appoggiate per coprire i lucernai, se il lucernaio dal quale la vittima è precipitata era scoperto. Inoltre, il motivo è costruito in fatto, descrivendo una conformazione dei luoghi differente da quella ricostruita dai giudici di merito, ed in parte basato su proposizioni meramente avversative (quale, ad esempio, quella secondo cui l'imputato avrebbe rispettato tutte le cautele necessarie nel caso di lavori in quota).

In ogni caso, anche ove si intendesse riqualificare la censura di cui al primo motivo di impugnazione in denuncia di travisamento, si osserva essersi in presenza di una doppia conforme, ove la Corte territoriale ha valutato le stesse prove già valutate dal Tribunale, senza effettuare integrazioni istruttorie; e, secondo la consolidata interpretazione di legittimità, "Nel caso di cosiddetta "doppia conforme", il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamele travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado" (così, tra le numerose, Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M, Rv. 283777): onde la esclusione del travisamento.

Né è adeguatamente contestata nel ricorso la circostanza fattuale - di estremo rilievo - della verniciatura rossa uniforme della superficie del tetto, in maniera tale da non consentire di distinguere sufficientemente le - robuste -parti pedonabili da quelle - fragili - non pedonabili.

3. In relazione al secondo motivo, alla p. 11 della sentenza impugnata si rinviene sufficiente e non illogica risposta alla questione della necessità o meno di staccarsi/riattaccarsi al cavetto di acciaio: vi si legge infatti che la presenza del moschettone alla metà del cavo di 20 metri, "induceva (...) con tutta evidenza il lavoratore a ritenere "normale" sganciarsi dalla linea vita qualora l'aggancio fosse stato impossibile o difficoltoso, giacché era "automatico" sganciarsi per passare da una sezione all'altra".

Quanto al tema della collocazione dei riavvolgitori, anche qui il ricorso è costruito in fatto, postulando una ricostruzione dei luoghi e della dinamica diversa da quella ritenuta concordemente dai giudici di merito (cfr. p. 11 della sentenza impugnata).

4. In riferimento all'ultimo motivo, si osserva come dalla riscontrata presenza di un ostacolo alla mobilità per scendere dal tetto, anche se non costituente proprio un impedimento assoluto, discende che la condotta concretamente posta in essere dal lavoratore prima della precipitazione non può definirsi abnorme né esorbitante ma rientrante nel fisiologico rischio connesso alle - pericolose - lavorazioni in quota.

Resta così confermata la correttezza dell'impostazione di entrambe le sentenze di merito (p. 8 della sentenza di appello; pp. 10-11 di quella del Tribunale) nell'aderire al principio, cui occorre dare continuità, secondo il quale "In tema di sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota, il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 111, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, è tenuto ad adottare misure di protezione collettiva in via prioritaria rispetto a misure di protezione individuale, in quanto le prime sono atte ad operare anche in caso di omesso utilizzo da parte del lavoratore del dispositivo individuale, con la conseguenza che l'omessa adozione delle seconde non è sufficiente a determinarne la responsabilità per l'infortunio occorso a un lavoratore, ove siano state adottate adeguate misure di protezione collettiva" (Sez. 4, n. 24908 del 25/05/2021, Polini, Rv. 281680-02; cfr. la relativa motivazione, spec. sub punti nn. 2.2 e 2.3 del "considerato in diritto", pp. 8 - 9).

5. Consegue, quindi, la reiezione del ricorso, con condanna del ricorrente, per legge (art. 616 cod. proc. pen.), al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 27 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2024.