Tribunale di Cosenza, Sez. Lav., 21 giugno 2024, n. 1305 - Risarcimento agli eredi del lavoratore tabagista vittima di esposizione ad amianto


 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale Ordinario di Cosenza Sezione Lavoro

Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino, ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nella causa iscritta al n. 2967/2021 R.G.
TRA
A.C., T.R., F.R., P.B., S.B. rappresentati e difesi dagli avv.ti Giovanni Carlo TENUTA ed Erika DE BONIS;
Ricorrenti
E
RFI - RETE FERROVIARIA ITALIANA S.p.A., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall’avv. R. SALONIA;
Resistente


OGGETTO: Risarcimento danni iure proprio e iure hereditaris per vittima esposizione amianto.

 

FattoDiritto

 

Con ricorso depositato in data 26/07/2021, i sigg.ri A.C., T.R., F.R., P.B. e S.B. convenivano in giudizio la RFI - RETE FERROVIARIA ITALIANA S.p.A. affinché venisse accertata e dichiarata la responsabilità datoriale, quale successore ex lege dell’ente Azienda Ferrovie dello Stato, per malattia professionale causante o concausante la morte del sig. CA. R., e, per l’effetto, che venisse condannata al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, iure proprio e iure hereditatis, spettanti a ciascun ricorrente, ovvero al risarcimento dei danni iure hereditatis, riconducibili al calvario esistenziale, alla durata della I.T.T. e della I.T.P., al danno biologico terminale ed a quello morale da lucida agonia, patiti dal sig. CA. R. a far data dal 19.12.2011 fino al 4.12.2012, ovvero parametrati alle angosce, alle sofferenze patite nel predetto arco temporale a causa della patologia tumorale, nonché al risarcimento del danno iure proprio. Chiedevano, in concreto, la condanna della R.F.I. al risarcimento dei danni nella misura di € 423.425,00 in favore della sig.ra Annamaria A.C. (di cui € 86.925,00 a titolo di quota parte del danno iure haereditatis ed € 336.55,00 a titolo di danno iure proprio personalizzato); € 386.925,00, in favore della sig.ra T.R. (di cui € 86.925,00 a titolo di quota parte del danno iure hereditatis ed € 300.000,00 a titolo di danno iure proprio personalizzato); € 386.925,00 in favore del sig. F.R. (di cui € 86.925,00 a titolo di quota parte del danno iure hereditatis ed € 300.000,00 a titolo di danno iure proprio personalizzato); € 386.925,00 in favore della sig.ra P. R. deceduta il 21.9.2016 ed alla quale sono succeduti, per rappresentazione, il marito P.B. ed il figlio S.B. (di cui € 86.925,00 a titolo di quota parte del danno iure hereditatis ed € 300.000,00 a titolo di danno iure proprio personalizzato), ovvero la condanna al pagamento della somma maggiore o minore ritenuta equa o di giustizia, con decorrenza dal giorno della diagnosi della malattia fino al soddisfo nonché con maggior danno ex art. 1224, co. 2 c.c., o con interessi moratori o con rivalutazione ed interessi legali nelle misure legalmente predeterminata e con vittoria di spese e competenze del giudizio da distrarsi.
Esponevano in punto di fatto:
- che il sig. CA. R. aveva prestato servizio, quale operaio ferroviario addetto alla manutenzione nell’azienda ferrovie dello Stato (in seguito trasformata in Ferrovia dello Stato S.p.A. a cui succedeva ex lege la R.F.I. S.p.A.) dal 1969 fino al 2002;
- che il sig. CA. R. era deceduto per carcinoma polmonare (causa primaria), per insufficienza respiratoria (causa secondaria) e shock irreversibile (causa ultima);
- che, nell’espletamento delle mansioni lavorative, il sig. CA. R. era stato costantemente esposto all’inalazione di polveri di amianto e di altri cancerogeni residuati da combustioni e fumi di saldatura (quali benzene, IPA, clorulo di vinile, vandio, diossine);
- che, nelle operazioni di rifacimento dei tratti di linea ferroviaria, manutenzione, sostituzione di deviatoi, scambi, maneggio delle resistenze delle scaldiglie e dei deviatoi contenenti amianto, del carico e scarico del pietrisco per la massicciata, della movimentazione delle traversine, era venuto a contatto con sostanze morbigene in assenza di dispositivi di protezione individuale;
- che in data 19.12.2011 gli era stato diagnosticato un “carcinoma squamocellulare polmonare sinistro con interessamento mediastinico”;
- che, in data 4.12.2012, decedeva in conseguenza di tale patologia.
Si costituiva in giudizio la resistente eccependo, in via preliminare, l’incompetenza funzionale del giudice del lavoro atteso che le domande relative al risarcimento del danno iure proprio dovessero essere proposte dinanzi al Tribunale civile con il rito ordinario. Eccepiva, altresì, l’intervenuta prescrizione della pretesa fatta valere. Nel merito, deduceva di aver sempre fornito ai propri dipendenti i dispositivi di protezione individuale (DPI) nonché l’attuazione della sorveglianza sanitaria; allegava, in ogni caso, che il sig. R. aveva svolto attività manutentive di revisione di binari e deviatoi all’aria aperta, senza alcun contatto con l’amianto che, sebbene presente sui rotabili, era tuttavia segregato e confinato, e che, comunque, difettava la prova del nesso causale tra le lavorazioni e la patologia contratta data anche l’abitudine tabagica del de cuius. Concludeva, dunque, per l’insussistenza di alcuna responsabilità contrattuale in ordine alla patologia contratta dal de cuius. Deduceva, inoltre, il difetto di prova dei danni iure hereditatis e iure proprio asseritamente subiti dai ricorrenti per mancanza di allegazione dei fatti costitutivi e per duplicazione di voci ivi contestando espressamente il quantum preteso a titolo di danno iure proprio e iure hereditatis.
La causa era istruita la causa a mezzo di prova testimoniale e di ctu medico-legale, ed all’esito, le parti – con note depositate telematicamente in sostituzione dell’udienza ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c. – insistevano nelle conclusioni rese.
Il procedimento, dunque, veniva definito con sentenza.
Occorre precisare come la cognizione per entrambe le azioni proposte (iure proprio e iure hereditaris) ben può essere demandata al giudice del lavoro.
Invero, sebbene la Suprema Corte di Cassazione abbia ripetutamente affermato che “esula dalla competenza per materia del giudice del lavoro e resta devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore la domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non iure hereditario, per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro dei confronti del loro dante causa, bensì iure proprio, quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subito danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c. (Cass. n. 20355/2005; Cass. n. 3650/2006; Cass. n. 907/2018),
purtuttavia - laddove le due domande siano proposte in un solo giudizio - deve trovare applicazione il criterio della connessione previsto dall’art. 40 c.p.c. “a fronte della medesimezza dei fatti storici e delle stesse causae petendi a sostegno delle domande”, con rapporto di giudicato esterno dell’un giudizio rispetto all’altro (cfr. Cass. n. 10578/2018), sicché sono proponibili dinanzi ad un unico giudice, quello del lavoro, chiamato ad occuparsene in base alla sua competenza funzionale.
Del resto, neanche si pone una questione di competenza, laddove - come nel caso in esame - ricorra un riparto di affari all’interno del Tribunale adito, tra le sezioni civili (territorialmente competenti, quale forum commissi delicti, per l’azione risarcitoria iure proprio) e la sezione lavoro. In proposito, anche di recente, la Cassazione, con sentenza n. 2393/2023, ha affermato che “in seguito all'istituzione del giudice unico di primo grado, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni lavoro e le sezioni ordinarie del tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio (Cass. n. 14790/2016, Cass. n. 20494/2009)”.

Ciò premesso in ordine alla competenza del giudice adito, appare necessario, atteso il petitum richiesto, suddividere la trattazione soffermandosi dapprima sull’azione di risarcimento danni proposta iure hereditatis, e, successivamente, su quella proposta iure proprio anche al fine della corretta ricostruzione dei fatti e delle questioni giuridiche sottoposte al vaglio dell’odierno giudicante.
Con riferimento alla domanda giudiziale proposta iure hereditatis, parte resistente eccepisce, in via preliminare, l’intervenuta prescrizione del diritto fatto valere.
In tema di prescrizione del diritto azionato dai ricorrenti iure hereditatis, l’art. 2935 c.c. stabilisce che “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. La Suprema Corte ha precisato che, ove vengano dedotte violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi imposti dall'art. 2087 c.c., “la prescrizione [pacificamente decennale attesa l'azione contrattuale] decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile” (Cass. n. 31919/2022; Cass., n. 1263/2012, Cass, n. 19022/2007), ovvero “fin dal momento in cui l'origine professionale della malattia può ritenersi oggettivamente conoscibile dal danneggiato, indipendentemente dalle effettive valutazioni soggettive dello stesso” (Cass., n. 13284/2010; Cass. n. 19355/2007; Cass., n. 12666/2003).
Orbene – “valutando che la piena conoscibilità da parte del ricorrente della origine professionale della malattia si sia realizzata oggettivamente nel momento in cui questa è stata con certezza diagnosticata” (Cass., n. 13284/2010) - ritiene il giudicante che la data a partire dalla quale il diritto al risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale avrebbe potuto essere fatto valere, debba coincidere con il 24.12.2011, ovvero con la data in cui è stata diagnosticata con certezza la patologia di cui era affetto il sig. R. CA. (sul punto si v. diagnosi medica a firma della dott.ssa S. Tomassetti - all. 5 del fasc. di parte ricorrente), con scadenza del relativo termine prescrizionale decennale in data 23.12.2021.
Ciò premesso, in tema di interruzione della prescrizione,
costituisce pacifico orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte – espresso soprattutto con riferimento al rito speciale del lavoro – quello secondo cui, “in ipotesi di domanda giudiziale proposta con ricorso, l'effetto interruttivo della prescrizione non si produce con il deposito del ricorso giurisdizionale presso la cancelleria del giudice adito, ma solamente con la notificazione dell'atto al convenuto” (ex plurimis, Cass., n. 25757/2009; Cass., n. 14862/2009; Cass., n. 22238/2007; Cass., n. 14439/2004).
L'orientamento in questione, peraltro, non può ritenersi in alcun modo contraddetto, ma è anzi confermato dalle pronunzie (come ad es. Cass. n. 20859/2012; Cass., n. 10212/2007) che applicano il principio opposto (per cui il deposito del ricorso è sufficiente a determinare l'effettivo interruttivo) con riguardo alla prescrizione prevista dall'art. 112 del D.P.R. n. 1124/1965 per l'esercizio dell'azione giudiziaria diretta a conseguire le prestazioni dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali gestita dall'INAIL. Quest'ultima costituisce infatti una regolamentazione del tutto peculiare, non solo in ragione della sua appartenenza allo speciale sistema dell'assicurazione INAIL, ma soprattutto per l'intervento di una espressa pronunzia di illegittimità costituzionale (Corte cost. n. 129/1986) emessa peraltro sulla base di presupposti ordinamentali diversi (che configuravano l'istituto de quo come una sorta di decadenza – cui non era, pertanto, applicabile l'art. 2943 c.c. - insuscettibile di atti interruttivi diversi dall'azione giudiziaria). La pronunzia del giudice costituzionale è stata infatti ritenuta non superabile dal successivo mutamento dei presupposti legislativi circa la natura della prescrizione "de qua" come prescrizione in senso tecnico (e non più come decadenza). Né può invocarsi la pronunzia delle Sezioni Unite della Suprema Corte secondo cui “la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall'atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l'atto perviene all'indirizzo del destinatario” (Cass., SS.UU. n. 24822/2015).
Invero, anche a prescindere dalla dubbia possibilità di estendere il suddetto “principio di scissione degli effetti” alla fase intercorrente tra il deposito del ricorso giurisdizionale e la sua notifica, certo è che nella fattispecie concreta in esame non ci troviamo di fronte ad una ipotesi in cui il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale.
Pertanto, in applicazione del principio generale desumibile dall’art. 2943 c.c. per il quale “la prescrizione è interrotta solo nel momento in cui l'atto interruttivo viene a conoscenza del destinatario” (Cass., n. 4034/2017), si ritiene che la notifica del ricorso introduttivo del presente giudizio - pacificamente avvenuta in data 16.12.2021 - sia atto idoneo a produrre l’effetto di interrompere la prescrizione dell’invocato diritto azionato iure hereditatis.

Di talché, l’eccezione di intervenuta prescrizione del diritto iure hereditatis sollevata dalla società resistente, dev’essere rigettata atteso che fra la data del 24.12.2011 (dies a quo del termine prescrizionale) e la data del 16.12.2021 (data di notifica del ricorso avente efficacia interruttiva della prescrizione) è intercorso un periodo di tempo inferiore al periodo di tempo decennale per la prescrizione del diritto invocato).
Ciò premesso in punto di eccezioni preliminari, nel merito, costituisce acquisizione ormai consolidata la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018; Cass. n. 13956/2012; Cass. n. 20142/2010; Cass n. 2491/2008).
L’ampiezza dell’obbligo di sicurezza delineato dall’art. 2087 c.c. che si inserisce nella struttura del rapporto obbligatorio tra lavoratore e datore di lavoro e la necessità di una sua declinazione in relazione alle possibili situazioni di rischio per il lavoratore, comporta che la previsione in esame si qualifichi non solo come fonte di doveri di astensione ma anche di obblighi positivi in quanto il datore di lavoro è tenuto a predisporre un’organizzazione ed un ambiente di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale, di rilievo costituzionale, rappresentato dalla salute.
Per costante giurisprudenza il contenuto dell’obbligo di sicurezza non può mai dilatarsi fino al punto da dare luogo ad una sorta di responsabilità oggettiva per tutti i possibili eventi lesivi verificatisi in connessione con l’espletamento dell’attività di lavoro. Invero, affinché il datore di lavoro sia chiamato a rispondere di tali eventi, si richiede pur sempre che la sua condotta, commissiva o omissiva, sia sorretta da un elemento soggettivo, quanto meno colposo, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. La formulazione dell’art. 2087 c.c. sull’obbligo dell’imprenditore di adottare “le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, come chiarito dalla giurisprudenza della Suprema Corte, non implica, infatti, un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (cfr. Cass. n. 4970/2017; Cass. n. 1312/2014). Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 12347/2016; Cass. n. 11981/2016) non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.
Il contenuto dell’obbligo di protezione ex art. 2087 c.c. - il cui adempimento è necessariamente correlato alle concrete circostanze nelle quali il lavoratore può trovarsi esposto in una situazione di rischio - non si esaurisce nell’adozione di misure cd. nominate ma impone anche l’adozione di misure che seppure non tipizzate siano richieste dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza riferite ad un determinato momento storico.
Corollario di quanto ora detto e della carenza dei caratteri di responsabilità oggettiva è la regola, più volte ribadita in sede giurisdizionale che incombe al lavoratore provare l’esistenza del danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi: l’ambito dell’art. 2087 c.c. riguarda, invero, una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass. n. 1509/2021; Cass. n. 18132/2020; Cass. n. 20366/2019; Cass. n. 24742/2018; Cass. n. 11427/2000; Cass. n. 3234/1999; Cass. n. 7792/1998).
Peraltro, per ciò che concerne gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo che devono essere indicati dal lavoratore, essi sono i concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa; tale allegazione rientra nell’ambito dei fatti che devono essere indicati da colui che agisce deducendo l’inadempimento datoriale (cfr. ex multis, Cass., ord., n. 1269/2022).
Applicando tali principi al caso di specie emerge che i ricorrenti hanno senz’altro provato l’inadempimento degli obblighi datoriali, mentre parte datoriale non ha fornito alcuna prova liberatoria.
Invero:
- il teste Covello, della cui attendibilità non vi sono ragioni di dubitare, ha dichiarato di aver “lavorato con il sig. CA. R. alle dipendenze della Ferrovia e facevamo parte della stessa squadra dal 1970 al 2000” ivi confermando che il R. – nell’ambito della sua attività di manutentore - “doveva rimuovere e rimescolare manualmente, con il forcone a 9 (nove) denti, il pietrisco della massicciata ferroviaria; doveva svitare i bulloni di congiunzione dei binari; doveva togliere la polvere, le incrostazioni, le sostanze oleose e strofinare la parte interna delle rotaie, le c.d. ganasce ed anche i morsetti ivi installati immediatamente dopo, vi doveva spalmare, con un pennello, una miscela liquida denominata “piombacine”; doveva sbullonare e levare le traverse in legno; doveva tagliare, con il falcetto o le roncole, le erbe ed i cespugli infestanti che crescevano lungo le scarpate ed ai lati della ferrovia; doveva spegnere gli incendi di piccole dimensioni, sviluppatisi in prossimità della linea ferrata; lavorava all’interno di gallerie, sulle massicciate, occupandosi delle traverse che, specie all’interno delle gallerie, risultavano annerite per gli scarichi dei locomotori diesel e vi erano residui oleosi dei locomotori”. Il teste ha ulteriormente precisato che “quando lavoravamo nelle gallerie, al loro interno transitavano i locomotori diesel che rilasciavano forti vapori e fumi; ci occupavamo anche all’interno delle gallerie, della manutenzione dei binari ma non della sostituzione delle centrali elettriche; ribadisco che quando lavoravamo all’interno delle gallerie inalavamo i fumi dei locomotori quando questi vi transitavano. Non ricordo, invece, incendi nelle gallerie; ci capitava di lavorare mentre si effettuavano operazioni di saldatura e smerigliamento e di respirare i fumi prodotti”. Il teste ha confermato che “l’azienda ci ha fatto frequentare corsi di formazione e ci sottoponeva periodicamente a visite mediche, non ci ha fornito mascherine, ma solo i guanti, che erano di buona qualità e non si annerivano all’interno. Preciso che l’azienda ci forniva guanti nuovi quando si usuravano i vecchi”;
- il teste Lento ha confermato che il R. era addetto alla pulizia dei binari e che la sua attività lavorativa si svolgeva nelle medesime modalità descritte dal teste Covello ivi sbullonando e lavando le traverse in legno per sostituirle con delle nuove. Ha confermato che il R. “doveva coadiuvare gli altri operai durante le operazioni di smerigliamento e di saldatura dei binari e che doveva tagliare, con il falcetto o le roncole, le erbe ed i cespugli infestanti che crescevano lungo le scarpate ed ai lati della ferrovia; doveva “diluire in acqua i composti chimici utilizzati per disserbare e disinfettare, riempire, di volta in volta, l’irroratore a spalla, della capienza di circa 16 litri, spruzzarne il contenuto nebulizzato, lungo le facce esterne ed interne dei binari morti e di quelli attivi, rimuovere i rifiuti solidi di ogni genere e specie, compresi i mozziconi di sigarette, le buste, i bicchieri e bottiglie di plastica, disseminati nelle aree esterne ed interne di ciascuna stazione ferroviaria, nonché quelli di varie specie, comprese le polveri e le ceneri disseminate nei capannoni dove erano stati allocati, riparati e puliti i locomotori diesel e le vaporiere”. Con riferimento alle canalette, ha precisato che “quando sono state sostituite le canalette a metà degli anni ’70, le canalette sostituite erano di amianto e non sono state rimosse ma sono rimaste li, per cui quando noi usavamo i vibranti per allineare i binari, spostavamo in aria le polveri di queste canalette. Ovviamente noi non sapevamo nulla del pericolo derivante dall’eternit”. Con riferimento ai dispositivi di protezione individuale ha precisato che “solo negli anni ’80 abbiamo cominciato ad avere i guanti ed i caschi”. Con riferimento al lavoro nelle gallerie, “le pietre della massicciata ferroviaria, le traverse, le pareti del tunnel erano annerite, l’aria era intasata dai fumi prodotti dalla vaporiera e dai locomotori diesel che transitavano anche quando il ricorrente e gli altri colleghi stavano eseguendo i lavori di ordinaria manutenzione dei binari e quelli di rimozione o sostituzione delle canaline deteriorate o lesionate che ricoprivano, per tutta la loro lunghezza, i cavi elettrici; nelle stazioni ferroviarie lo sfridio dei freni e delle ruote dei carri sui binari, emanava nuvole di fumi, scintille e polveri sottili, le quali, per come avveniva per quello fuoriuscite dai tubi di scappamento dei locomotori, venivano dispersi dal vento ed andavano ad imbrattare il viso delle persone e del suddetto lavoratore; durante la fase dello spruzzo con l’irroratore a spalla, parte del liquido nebulizzato del disserbante e del disinfettante che fuoriuscivano dalla lancia, si depositava sui vestiti, sulla pelle, sul capo, sul viso e sulle mani dell’attore e veniva da questi, inalato; nel suolo, a ridosso di ciascuna parete delle gallerie, erano collocate canalette di scolo delle acque composte di vari elementi prefabbricati di colore grigio; periodicamente dovevano provvedere a togliere il materiale di vario genere che si depositava dentro le predette canalette ed a sostituire quelle rotte”.
Rilevano poi gli accertamenti compiuti dal consulente tecnico d’ufficio, alla cui relazione, in quanto immune da vizi e congruamente motivata, deve farsi integrale rinvio in questa sede.
Il c.t.u., infatti, ha scrupolosamente esaminato tutta la documentazione in atti e anche gli esiti delle deposizioni testimoniali, come richiesto nel quesito peritale ivi precisando come “dall’esame degli atti di causa si evince che, senza D.P.I. (mascherine) il lavoratore, per lungo tempo ha inspirato ed inalato le numerose sostanze cancerogene presenti nell’ambiente di lavoro, le quali hanno come organo bersaglio i polmoni. Nello specifico il sig. CA. R. è venuto a contatto con il serpentino contenente amianto e con la silice cristallina libera, inalando le polveri prodotte dalla movimentazione del pietrisco della massicciata e dei materiali scaricati dai vagoni ferroviari. Durante l’attività di spazzolamento dei binari ha inalato anche la ruggine, il creosoto ed il catrame evaporato dalle traverse di legno. Dalla documentazione agli atti non risulta un adeguato controllo sanitario per come previsto dalla normativa. La malattia [che ha colpito il sig. R.] come tutte le neoplasie polmonari ha avuto un decorso rapido ed irreversibile, la stessa al momento della diagnosi aveva raggiunto il c.d. III° stadio, molto avanzato, che escludeva e sconsigliava qualsiasi tipo di intervento chirurgico data la invasione linfoghiandolari bilateralmente. Il trattamento chemio terapico non ha impedito la progressione del tumore che ha raggiunto il IV° stadio diffondendosi ai vari organi ed apparati”.
Il ctu ha, dunque, concluso che l’inalazione dei fumi di cui
sopra, ha concausalmente determinato la contrazione della patologia polmonare del R. atteso come “pur trattandosi di malattie ad eziologia multifattoriale, la scienza medica degli ultimi anni è concorde nel riconoscere la correlazione del “carcinoma squamocellulare -epidermoidale- scarsamente differenziato” con l’esposizione ripetuta e prolungata a sostanze nocive o agenti inquinanti occupazionali, quali l’asbesto, gli IPA, il nichel, il cromo, l’arsenico inorganico, il ferro, le vernici e il creosoto, facendo risalire l’innesco a 10 – 20 anni dalla manifestazione della neoplasia, eccezion fatta per l’amianto i cui tempi di induzione e latenza arrivano fino a 40 anni”.
In sede di controdeduzioni, il ctu ha ulteriormente precisato che, quanto all’abitudine tabagica del lavoratore, “è disponibile una gamma di possibili modelli per tenere conto del fumo, in ogni caso il cancro del polmone non è soggetto a un semplice compromesso tra l'esposizione all'amianto e il fumo a causa della potente interazione biologica tra le due esposizioni. Tra i non fumatori, il cancro ai polmoni è sufficientemente raro da poter presumere un'associazione con l'amianto se si è verificata l'esposizione. I dati disponibili suggeriscono che l'esposizione all'amianto contribuisce quasi invariabilmente al rischio tra i fumatori nella misura in cui si può presumere un rapporto con il lavoro. Pertanto, i confronti dell'entità del rischio tra fumatori e non fumatori sono irrilevanti”.

Pertanto, all’esito dell’istruttoria è stato provato che il lavoratore, per molti anni, ha operato in un ambiente nocivo, svolgendo le sue prestazioni lavorative inalando sostanze morbigene e pericolose.
Provata la nocività dell’ambiente di lavoro l’azienda non ha fornito la prova liberatoria (art 1218 c.c.), indicando l’impossibilità di adempiere all’obbligo di sicurezza e informativo per causa sé non imputabile.
Il datore di lavoro, infatti, non ha provato di avere adottato alcuna misura di protezione, né gli accorgimenti di prudenza e le cautele che sarebbero state necessarie.
In particolare:
- il teste D.F. non ha offerto elementi utili alla ricostruzione delle mansioni svolte dal ricorrente né ha saputo precisare se (e quando) l’azienda abbia adottato tutte le disposizioni di sicurezza nei confronti dei dipendenti. In particolare, con riferimento ai DPI, il teste ha affermato che “l’azienda ha dato disposizioni, non ricordo da quando, che imponevano al personale di indossare guanti nelle occasioni in cui maneggiavano le traverse in legno impregnato di olio di creosoto”;
- il teste Sabatini ha affermato che “i DPI sono stati regolamentati nel 1994. Precedentemente nulla posso riferire”.
Dall’istruttoria, dunque, è emersa la mancata fornitura, da parte dell’azienda, delle informazioni in merito ai rischi a cui i lavoratori andavano incontro, né dei necessari dispositivi di protezione onde prevenire le potenzialità dannose dell’inspirazione dei residui di combustione.
In conclusione, all’esito dell’istruttoria è emerso che il sig. R. è deceduto nell’espletamento del proprio lavoro alle dipendenze della RFI, essendo stato esposto in maniera continuativa all’inalazione di sostanze cancerogene senza che il datore di lavoro avesse al riguardo adottato alcuna idonea cautela per evitarlo. Ciò, dunque, implica l’obbligo per la società datoriale di risarcire il danno.
Venendo alla liquidazione del danno, i ricorrenti invocano nei confronti del datore di lavoro, innanzitutto, pro quota, il risarcimento del danno iure hereditatis, sub specie di danno non patrimoniale biologico-terminale.
Il primo pregiudizio di cui i ricorrenti chiedono ristoro, nella qualità di eredi del sig. CA. R., si identifica nella lesione dell’integrità psico-fisica del dante causa verificatosi nell’intervallo di tempo compreso tra l’insorgenza della malattia, il cui esordio clinico risale al 24.12.2011 ed il decesso, verificatosi il 4.12.2012.
Infatti, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra l’evento lesivo e la morte causato dalle stesso è configurabile un danno biologico subito dal danneggiato, da liquidarsi in relazione alla effettiva menomazione della integrità psicofisica da lui patita per il periodo di tempo indicato e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis (cfr. Cass. 9470/1997; Cass. 1131/1999; Cass. 24/2002; Cass. 3728/2002).
Ritiene, il giudicante di dover integralmente condividere i principi espressi dalla Suprema Corte in ordine ai criteri da adottare per la liquidazione del cd. danno biologico terminale, ossia del danno alla salute temporaneo sofferto dal de cuius nell’apprezzabile intervallo di tempo intercorso tra l’evento lesivo e il decesso che trovi in tale evento la sua causa.
Sul punto, la Suprema Corte ha precisato come, “anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l'intera durata della vita media.
Se la morte è stata causata dalle lesioni, l'unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall'inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente.
Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell'integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un'invalidità permanente. Per l'esattezza l'invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l'individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.
Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medico-legale di "invalidità permanente" presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l'organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.
Si intende, pertanto, come nell'ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medico-legale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell'individuo.
Ne consegue che, quando la morte è causata dalle lesioni, dopo un apprezzabile lasso di tempo, il danneggiato acquisisce (e quindi trasferisce agli eredi) soltanto il diritto al risarcimento del danno biologico da inabilità temporanea e per il tempo di permanenza in vita.
Ovviamente, la quantificazione del danno biologico da inabilità temporanea assoluta subito dal de cuius nell'apprezzabile intervallo di tempo tra la lesione del bene salute e la morte conseguente a tali lesioni, va operata tenendo presenti le caratteristiche peculiari di questo pregiudizio, costituite dal fatto che si tratta di un danno alla salute che, se pure è temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità.
Di tanto il giudice di merito dovrà necessariamente tener conto, sia se applica il criterio di liquidazione equitativa, cosiddetto "puro", sia se applica i criteri di liquidazione tabellare o a punto, poiché, come questa Corte ha più volte ribadito, la legittimità dell'utilizzazione di detti ultimi sistemi liquidatori, essendo fondata sempre sul potere di liquidazione equitativa del giudice, passa necessariamente attraverso la cosiddetta "personalizzazione" degli stessi, costituita dall'adeguamento al caso concreto. La peculiarità del "danno biologico terminale" è che esso è di tale entità ed intensità da condurre a morte un soggetto in un limitato, sia pure apprezzabile, lasso di tempo” (Cass. 18305/2003; Cass. 18163/07; Cass. 16592/2019).
Applicando i principi anzidetti al caso di specie, deve ritenersi che, in conformità alle indicazioni fornite dal CTU, sussista un danno biologico da invalidità temporanea parziale, nella misura del 50% decorrente dal 30.10.2011 al 17.1.2012 (78 giorni), nonché un’invalidità temporanea
assoluta decorrente dal 18.1.2012 al 4.12.2012 (295 giorni) e che, ai fini della liquidazione del danno in parola, possa essere adottato quale iniziale parametro di riferimento il valore monetario individuato dalle Tabelle per la liquidazione del danno biologico adottate dal Tribunale di Milano in quanto comunemente in uso presso il Tribunale di Cosenza, sez. lavoro attualizzate al 2024.
Le Tabelle milanesi prevedono per ogni giorno di inabilità temporanea assoluta, l’importo di € 115,00 e per ogni giorno di inabilità temporanea parziale al 50%, l’importo di € 57,50 (€ 115,00 al 50%).
Tali valori devono, tuttavia, come appena chiarito, essere adeguati nel caso di specie in ragione della peculiarità della patologia, causa della lesione alla salute del de cuius, connotata da una prognosi che sin dal suo esordio clinico è stata infausta, con conseguente impatto psicologico fortemente negativo, dalla necessità di ripetuti cicli di chemioterapia, notoriamente implicanti rilevanti e negativi effetti collaterali per la qualità della vita.
Ritiene equo il giudicante - tenuto conto del progredire della malattia, nonostante i cicli di chemioterapia, che rendeva pressoché certa la prognosi infausta e, quindi, del progressivo intensificarsi delle sofferenze psichiche provate dal R. e delle limitazioni allo svolgimento delle attività quotidiane e relazionali - di adeguare tali valori giornalieri anzidetti (di € 115,00 ed € 57,50) quintuplicandoli.
Applicando tali criteri, si perviene ad una somma complessiva di € 192.050,00 (pari a 295 giorni x € 115,00 x 5 oltre 78 giorni x € 57,50 x 5).
Tale somma, da ripartirsi tra i coeredi, in ragione delle rispettive quote ereditarie, è destinata a risarcire l’intero danno non patrimoniale subito dal de cuius, essendo stata la relativa liquidazione eseguita tenendo conto, da un lato, del carattere unitario del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., dall’altro delle necessità di un integrale risarcimento di tale danno, tenendo conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel caso di specie, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione, secondo i principi affermati dalla più recente giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass., SS.UU. 26972/2008, Cass. 24864/2010, Cass. 11950/2013, Cass. 21716/2013, Cass. 17577/2019).
Trattandosi di importo liquidato all’attualità, sullo stesso spettano interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della presente pronuncia al soddisfo.
Non può, invece, essere accolta la pretesa risarcitoria avanzata dai ricorrenti, volta ad ottenere, sempre iure hereditario, anche il risarcimento del danno patrimoniale, atteso che manca al riguardo qualsiasi allegazione in fatto e qualsiasi argomentazione in diritto in ordine all’an ed il quantum di tale pregiudizio. Non emerge invero dalle allegazioni del ricorso alcun danno emergenza, quando al danno da lucro cessante e cioè al “danno futuro” deve qui farsi applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 1443/2003; Cass. 17677/2009; Cass. 11353/2010) secondo cui la liquidazione equitativa del lucro cessante, ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale. Occorre pertanto che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa e che si traducano, in termini di lucro cessante o in perdita di chances, in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece - anche semplicemente in considerazione dell’id quod plerumque accidit - connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità. Allegazione e prova mancante nel caso in esame.
Come accennato in narrativa, gli attori hanno agito (anche) iure proprio, chiedendo il risarcimento del danno da essi subito per la perdita del rapporto parentale.
È noto che il danno da perdita del rapporto parentale spetta “iure proprio” ai congiunti per la lesione della relazione parentale che li legava al defunto. Esso è risarcibile se sia provata l'effettività e la consistenza di tale relazione, ma non anche e necessariamente il rapporto di convivenza, non assurgendo quest'ultimo a connotato minimo di relativa esistenza (cfr. Cass. n. 21837/2019). Infatti, il rapporto parentale riconducibile all'articolo 29 Cost. non attiene alla c.d. famiglia nucleare, ben potendo il danneggiato non convivente “provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto” (Cass. n. 21230/2016; Cass. n. 29332/2017).
La Suprema Corte ha poi condivisibilmente affermato (Cass. n. 28989/2019) che il giudice è tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussistano uno o entrambi i profili di cui si compone l'unitario danno non patrimoniale subito dal prossimo congiunto e, cioè, l’interiore sofferenza morale soggettiva e quella rifessa sul piano dinamico-relazionale, nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi (anche se al di fuori di una configurazione formale), la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l'età delle parti ed ogni altra circostanza del caso (v. anche Cass. n. 14655/2017).
Tale danno va liquidato in via equitativa (ed anche per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto: Cass. n. 7748/2020). Tuttavia, diversamente da quanto statuito per il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica, è stato affermato recentemente (Cass. n. 29495/2019) che le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano non costituiscano concretizzazione paritaria dell'equità su tutto il territorio nazionale; tuttavia, qualora il giudice scelga di applicare quei parametri tabellari, che, com'è noto, offrono, a forbice tra un minimo e un massimo, una quantificazione del danno subito dai congiunti per lesione o perdita del rapporto parentale, tenendo conto altresì del tipo di legame familiare su cui il rapporto si fonda: l'eventuale personalizzazione del risarcimento non può discostarsi dalla misura minima ivi prevista, a meno che non vi siano circostanze eccezionali di cui dare adeguatamente conto.
Va poi chiarito (cfr. Cass. n. 25351/2015) che costituisce indebita duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale - non altrimenti specificato - e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del soggetto che l'ha subita, altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ma unitariamente ristorato.
Per come anticipato, la natura extracontrattuale della responsabilità azionata in giudizio incide sul computo del termine prescrizionale del relativo diritto al risarcimento di tali danni.
Ed infatti, ai sensi dell'art. 2947 co. 1 c.c., “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato”.
Al co. 3 del medesimo articolo è stabilito altresì che “in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile […]”.
Gli elementi probatori acquisiti in giudizio (ed in particolare le emergenze peritali, che il Tribunale condivide, in quanto adeguatamente motivate dal punto di vista tecnico e logico) permettono di accertare, seppur nei limiti di una valutazione incidentale del reato penale da parte del giudice civile, l'esistenza di una condotta colposa della società resistente che, con la mancata predisposizione dei dispositivi di sicurezza nei confronti del sig. R. CA., ha concorso alla causazione dell'evento morte dello stesso, cosicché la relativa condotta deve considerarsi penalmente rilevante ai sensi dell'art. 589 c.p.
Ne consegue che nella fattispecie in esame, potendosi ipotizzare il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro ex art. 589, co. 2 c.p. - nel contesto di una valutazione incidenter tantum eseguita con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile (cfr. SS.UU. n. 27337/2008) - il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno applicabile è quello di cui all’art. 157, co. 6, c.p., cioè dodici anni.
Applicando i sopradetti principi al caso di specie, tenuto conto che l'evento-morte si è verificato in data 4.12.2012, che il termine prescrizionale è di dodici anni e la decorrenza coincide con il decesso del congiunto, accertato altresì che il primo atto interruttivo è ascrivibile all’instaurazione del presente giudizio (con ricorso notificato in data 16.12.2021), deve rigettarsi l’eccezione di prescrizione sollevata dalla società resistente.
Ciò premesso, atteso l’impianto motivazionale sostanzialmente replicabile in sede di responsabilità extracontrattuale ed accertata la responsabilità colposa della società resistente nella causazione dell’evento morte del sig. CA. R., nel caso di specie, il danno iure proprio - tenuto conto dell’intensità dei rispettivi vincoli di parentela e di ogni ulteriore circostanza, quale la consistenza del nucleo familiare, le abitudini di vita, la situazione di convivenza
– può essere liquidato equitativamente assumendo come parametro i valori previsti dalle tabelle di Milano del 2024, generalmente applicate nel distretto giudiziario e vigenti al momento della liquidazione, le quali appunto a tali elemento hanno riguardo.
In base a tali tabelle, il valore di punto è pari ad € 3.911,00 ed è previsto un valore base di 18 punti per il coniuge, aumentabile di ulteriori 16 in base all’età della vittima;
16 punti per convivenza tra congiunto e vittima; ulteriori 9 punti in base al numero di familiari nel nucleo primario (a prescindere dalla convivenza) e, infine, 15 punti per qualità/intensità della relazione (avendo come parametro il valore medio). Per un totale, quindi, di 59 punti per complessivi € 289.414,00, così dovendo essere quantificato il danno non patrimoniale spettante alla sig.ra A.C. Anna Maria.
Per quanto riguarda le figlie T. e P. R., il valore di punto è pari ad € 3.911,00 ed è previsto un valore base di 22 punti per i figli, aumentabile di ulteriori 16 in base all’età della vittima; ulteriori 9 punti in base al numero di familiari nel nucleo primario (a prescindere dalla convivenza) e, infine, 15 punti per qualità/intensità della relazione (avendo come parametro il valore medio), per un totale di 47 punti e per complessivi € 242.482,00 a titolo di danno non patrimoniale spettante a ciascuna figlia (e pertanto, alla sig.ra T.R. ed ai sigg.ri P.B. e S.B., quali eredi mortis causa della sig.ra P. R.).
Infine, per quanto riguarda il figlio F.R. il valore di punto è pari ad € 3.911,00 ed è previsto un valore base di 22 punti per il figlio, aumentabile di ulteriori 16 in base all’età della vittima; 16 punti per convivenza tra congiunto e vittima (circostanza allegata e non espressamente contestata da parte resistente); ulteriori 9 punti in base al numero di familiari nel nucleo primario (a prescindere dalla convivenza) e, infine, 15 punti per qualità/intensità della relazione (avendo come parametro il valore medio). Per un totale, quindi, di 63 punti per complessivi € 305.058,00, così dovendo essere quantificato il danno non patrimoniale spettante al sig. F.R..
Pertanto, la società resistente dev’essere condannata a pagare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale rivendicato iure proprio, la somma di € 289.414,00 in favore della sig.ra A.C.; € 242.482,00 in favore della sig.ra T.R. e P. R. (e, per lei, i successori mortis causa sigg.ri P.B. e S.B. in parti uguali), nonché la somma di € 305.058,00 in favore di F.R. oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data della presente pronuncia.
Le spese di lite, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Le spese di c.t.u., liquidate come da separato decreto, sono a carico di parte convenuta.
 

PQM
 

Accoglie il ricorso per quanto di ragione, e, per l’effetto, accerta la sussistenza del nesso causale fra l’attività lavorativa e la patologia che ha determinato il decesso del sig. CA. R. e la responsabilità del datore di lavoro.
Condanna la società resistente al pagamento, in favore dei ricorrenti quali eredi pro quota, dell’importo complessivo di € 192.050,00 a titolo di danni non patrimoniali subiti dal de cuius Ca. R., oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Condanna la società resistente al pagamento a titolo di danno non patrimoniale iure proprio dell’importo di € 289.414,00 in favore della sig.ra A.C., di € 242.482,00 in favore della sig.ra T.R., di € 121.241,00 in favore del sig. P.B. e di € 121.241,00 in favore del sig. S.B. (quali eredi mortis causa della sig.ra P. R.), nonché di € 305.058,00 in favore di F.R. oltre interesse e rivalutazione monetaria. Rigetta per il resto il ricorso.
Condanna la società resistente al pagamento dei compensi professionali in favore di parte ricorrente che liquida in complessivi € 15.985,00, oltre rimborso forfettario, IVA e CPA come per legge da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari.
Pone definitivamente a carico della società resistente le spese di CTU, liquidate come da separato decreto.
Così deciso in Cosenza, 21/06/2024
Il giudice Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino