Cassazione Penale, Sez. 4, 02 luglio 2024, n. 25756 - Volontaria del canile aggredita da un pitbull. Posizione di garanzia 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta da:

Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente

Dott. BELLINI Ugo - Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere

Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere

Dott. DAWAN Daniela - Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A. nato a V il (Omissis)

avverso la sentenza del 22/06/2023 della CORTE APPELLO di TORINO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA DAWAN;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA CERONI che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

 

Fatto


1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia emessa il 29/11/2019 dal Tribunale di Verbania che ha dichiarato A.A. - gestore di fatto del rifugio amatoriale per cani "Amore e coccole a 4 zampe", sito in F, località Piano (Omissis), su terreno di sua proprietà - colpevole del reato di lesioni personali gravi ai danni di B.B., reato aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Le è stato rimproverato di avere omesso di provvedere affinché i volontari operanti presso tale struttura ricevessero un'adeguata formazione e informazione in merito ai prevedibili rischi connessi allo svolgimento quotidiano dei servizi di cura ed accudimento dei cani - in particolare, di quelli rivelatisi maggiormente aggressivi e, dunque, pericolosi per l'integrità fisica dei volontari, come il cane chiamato Fango o Fanko, pitbull maschio; nonché di avere omesso di dotare la struttura degli idonei dispositivi di protezione individuale. Accadeva così che, la mattina del 12/08/2016, mentre era intenta a trasferire il predetto pitbull dalla gabbia al recinto di sgambamento, la B.B. venisse ferocemente aggredita dal cane che le provocava il maciullamento dell'arto superiore sinistro e una ferita profonda all'arto superiore destro.

2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell'imputata che ha articolato i seguenti motivi:

2.1. Violazione dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen. e degli artt. 178, 180, 181 e 183 cod. proc. pen., per avere il Tribunale ammesso (in data 09/10/2019) la prova contraria tardivamente richiesta dal Pubblico ministero, dopo averla peraltro respinta alla precedente udienza (05/07/2019), sull'assunto che fosse tardiva, mentre non consentiva all'imputata di completare la propria produzione documentale alla quale era subordinato il giudizio abbreviato ancora in corso. La difesa sostiene che la Corte territoriale ha sbagliato a ritenere sanata la nullità (ex art. 183 cod. proc. pen.) per non essere stata la relativa eccezione sollevata all'udienza del 09/10/2019, stante che il primo momento processualmente utile per eccepire la violazione dell'art. 438, comma 5. cod. proc. pen era l'atto di appello ex art. 571 codice di rito, nel quale essa è stata sollevata: la nullità non sarebbe pertanto sanata;

2.2. Violazione dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen. e degli artt. 178, 180, 181 e 183 cod proc. pen. per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ove, si ammette, sia pure come "ipotesi secondaria", esservi la sussistenza dell'anzidetta violazione dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen.;

2.3. Mancanza della motivazione nella parte in cui la Corte di appello non ha valutato e deciso sullo specifico motivo di impugnazione inerente alla violazione dell'art. 499, comma 6, cod. proc. pen., in relazione agli artt. 441, comma 6, e 422, comma 3, cod. proc. pen. In realtà, le richieste di autorizzazione alla Asl, menzionate dal Tribunale, non si riferivano al terreno su cui avveniva l'evento bensì ad un diverso terreno precedentemente posseduto, ma che all'epoca dei fatti risultava dismesso. La difesa aveva evidenziato come l'esame dei due testimoni e dell'imputata era stato condotto forzando e condizionando le domande dei testimoni, con domande suggestive e persino nocive, in relazione alla definizione della struttura come rifugio;

2.4. Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 6 del Regolamento Regione Piemonte 11/11/1993, n. 2, e art. 8, comma 2, Legge Regionale del Piemonte del 26/07/1993, n. 34; artt. 2, 3, comma 12-bis, 21 e 299 DLgs. 9 aprile 2008, n. 81. Erra la Corte territoriale nel ritenere che il luogo in cui si è verificato l'evento debba reputarsi un "rifugio" per animali, attesa la presenza di un numero di cani inferiore a cinque, che, in quanto tale non necessitava di alcuna autorizzazione da parte dell'Asl. Ne deriva, pertanto che la fattispecie in esame non rientra nella normativa di cui al D.Lgs. 81/2008, come ha erroneamente ritenuto il Giudice di appello. La persona offesa, peraltro, aveva commesso l'imprudenza di far uscire, di propria iniziativa il pitbull Fanko, che in precedenza aveva già dato dimostrazione di mordacità pericolosa, dalla gabbia in cui la proprietaria l'aveva prudenzialmente rinchiuso, contravvenendo alle prescrizioni che le erano state rivolte. Nessuna posizione di garanzia è stata assunta dall'imputata ai sensi dell'art. 299 D.Lgs. 81/2008, non avendo la stessa ricoperto alcun potere riconducibile a quello di un datore di lavoro o di un dirigente di fatto. Il terreno di proprietà dell'imputata non è inquadrabile nella definizione di "ambiente di lavoro". Non esisteva alcuna organizzazione di lavoro perché erano tutti i volontari insieme a gestire la struttura.

3. Con requisitoria scritta, il Procuratore generale ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

 

Diritto


1. Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

2. I primi due motivi, tra loro strettamente connessi, sono privi di pregio. Già la sentenza di primo grado ha ricordato come, in sede di giudizio abbreviato, siano stati escussi i testimoni a cui la difesa lo aveva subordinato, B.B. e C.C. Investita della questione, la Corte territoriale ha respinto l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado osservando che, a fronte delle prove orali introdotte dalla difesa, a sostegno della tesi dell'assenza di qualsiasi potere direttivo in capo all'imputata e/o di qualsiasi incarico affidato alla persona offesa in relazione alla cura del cane Fanko, legittimamente il Pubblico ministero aveva richiesto di produrre, a prova contraria, i messaggi intercorsi tra l'imputata e la persona offesa poche ore prima dell'aggressione; e che la richiesta difensiva avanzata, a quel punto, di produrre "ulteriori messaggi" non trovava fondamento nella prima, generica, richiesta di prova a discarico formulata al momento della richiesta di rito alternativo, ma era occasionata dalla produzione della pubblica accusa e quindi dall'esercizio del diritto alla controprova della parte pubblica. Nessuna revoca (implicita), dunque, di richieste cui era stata subordinata la richiesta del rito abbreviato, ma corretta applicazione dei principi che presiedono alla ragione d'essere del giudizio abbreviato, le cui esigenze deflattive, come correttamente rammenta la sentenza di appello, controbilanciate dalla riduzione della pena, risultano incompatibili con l'acquisizione reiterata e in momenti differenti di una pluralità di fonti di prova e, nel caso di specie, "con un'ulteriore integrazione probatoria non specificamente richiesta al momento della richiesta di rito alternativo già condizionato allo svolgimento di attività istruttoria corposa, trattandosi della escussione di due testimoni". Alcuna violazione dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen. è pertanto prospettabile. Né, sul punto, la sentenza presenta contraddittorietà o illogicità (la quale, giova ricordare, assume rilievo solo qualora "manifesta"), laddove ha correttamente osservato che, in ogni caso, la nullità, derivante dalla decisione del primo Giudice di non procedere all'assunzione della prova documentale richiesta al momento dell'ammissione del rito abbreviato condizionato, è di ordine generale e, in quanto tale, deve ritenersi sanata ove la fase dell'assunzione delle prove venga chiusa senza che la difesa nulla abbia eccepito al riguardo (Sez. 2, n. 50194 del 26/10/2018, Pedrotti Paolo, Rv. 274718).

Il tema della configurabilità della struttura come "rifugio" per animali, posto nei motivi terzo e quarto, è privo di significatività rispetto al caso di specie, in cui a venire in rilievo non sono le autorizzazioni sanitarie della AsI, ma l'inosservanza di norme prevenzionistiche in ragione della quale si è verificato l'infortunio ai danni di B.B.. Il tema investe la questione della posizione di garanzia rivestita dall'imputata. Al riguardo, la Corte territoriale ha confermato la sussistenza, in capo alla A.A., del potere organizzativo, osservando come la piattaforma probatoria appaia convergente nell'indicare che l'imputata, proprietaria del fondo, decideva personalmente quali animali potessero essere custoditi nella struttura, reclutava o ammetteva i collaboratori volontari, addetti alla pulizia delle gabbie e al movimento dei cani, fornendo loro le chiavi per accedere alla struttura e ricevendone un resoconto delle attività svolte. La sentenza impugnata evidenzia come anche i volontari testimoni della difesa, B.B. e C.C., pur tentando di ridimensionare la centralità dell'imputata nelle attività del rifugio, le riconoscevano un ruolo verticistico, peraltro in un gruppo informale e non rigidamente inquadrato. Osserva congruamente la Corte che, qualora ciascun volontario si fosse limitato ad occuparsi del proprio animale, ospitato nel terreno dell'imputata , "per costei non sarebbe stato neppure necessario ribadire in più occasioni ai volontari di non avvicinarsi al cane Fanko", manifestandosi invece proprio nella gestione di quest'ultimo il ruolo direttivo dell'imputata, anello di collegamento tra la gestione dei cani da parte dei volontari e il mantenimento dei contatti con i proprietari presenti e futuri dei cani.

La questione posta nel ricorso rispetto alla posizione di garanzia rivestita dall'imputata è infondata. Proprio in ragione del ruolo dirigenziale svolto rispetto alle attività della struttura, l'imputata ha assunto una posizione di garanzia nei confronti di chi presti, anche occasionalmente e su base volontaria, il proprio lavoro al suo interno, rispondendo pertanto delle eventuali lesioni personali cagionate dall'omessa adozione delle misure necessarie a prevenire gli infortuni sul lavoro (cfr. Sez. 4, n. 7730 del 16/01/2008, Musso, Rv. 238756). L'approntamento di misure di sicurezza e quindi il rispetto delle norme antinfortunistiche esula, invero, dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, essendo stata riconosciuta la tutela anche in fattispecie di lavoro prestato per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi "di lavoro". E ciò conformemente alla definizione del datore di lavoro, come il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa (o dell'unità produttiva), in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (cfr. art. 2, lett. b, D.Lgs. 81/2008). Al riguardo, la Corte di appello ha correttamente osservato che qualora, come nel caso di specie, si versi nell'ambito di un'organizzazione, il datore di lavoro è tenuto a formare i collaboratori volontari sullo svolgimento in sicurezza delle attività operative, provvedendo altresì ad individuare ed eliminare, per quanto possibile, o comunque ridurre i rischi inerenti all'attività svolta, nonché a fornire ai predetti volontari dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali sono chiamati ad operare e ad adottare le misure di prevenzione e di emergenza in relazione alle rispettive attività. Ha rilevato poi come, nella vicenda che occupa, non sia stato assolto alcun obbligo di formazione e informazione e come fossero assenti dispositivi di protezione individuale o di sicurezza, soprattutto in riferimento ai cani più pericolosi.

3. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 5 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2024.