Tribunale di Cosenza, Sez. Lav., 09 luglio 2024 - Malattia dell'infermiere professionale. Sostanze nocive rilasciate dalle stampanti e radiazioni ionizzanti. Mancanza di DPI
- Agenti chimici
- Agenti fisici (Rumore, Vibrazioni ecc.)
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Informazione, Formazione, Addestramento
- Malattie Professionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI COSENZA
Sezione Lavoro
Il Giudice del Lavoro, Dott. Alessandro Vaccarella, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 3040/2022 R.G.
TRA
C.C., con Avv.ti Fabio Fullone e Giovanni Carlo Tenuta
ricorrente
E
AZIENDA OSPEDALIERA DI COSENZA, in persona del legale rappresentante
pro tempore, con Avv. Vincenzo Annibale Larocca
resistente
FattoDiritto
Con ricorso del 26.5.2022 ritualmente notificato la parte ricorrente conveniva in giudizio l’Azienda Ospedaliera di Cosenza e, premesso di aver lavorato alle sue dipendenze dal febbraio 2005 ad aprile 2021 con la qualifica di infermiere professionale (segnatamente presso la U.O. di Rogliano, la U.O. di neurochirurgia, la U.O. di urologia, la U.O. di oculistica, il Centro Trasfusionale), esponeva: di aver movimentato con l’ausilio delle braccia e della forza fisica carichi superiori a 30 kg, compresi i pazienti non autosufficienti; di aver utilizzato candeggina, detersivi solidi e liquidi; di aver stazionato per diverse ore nei locali destinati alle incombenze della accettazione dei pazienti dove si fumava; di aver trasportato con un lettino mobile i pazienti, effettuato le attività manuali di sanificazione e di disinfettazione del locale e dei ferri chirurgici utilizzando il gas denominato ossido di etilene e vari prodotti chimici, nonchè preparato i vetrini per gli esami istologici e conservato i campioni prelevati nella formalina; che spesso doveva rimanere nella sala ove erano eseguiti gli esami TAC o RX; che nell’arco di una giornata, stazionava dalle 1 alle 2 ore, nei locali del gabinetto radiologico, compreso quello destinato alle incombenze della accettazione dei pazienti, intriso del fumo delle sigarette consumate dallo esso ricorrente, dai pazienti e dagli operatori sanitari; che quotidianamente aveva provveduto a stampare e fotocopiare documenti, nonché a sostituire il toner delle stampanti e delle fotocopiatrici; che negli anni 2013 e 2014 erano state diagnosticate due pancreatiti e nel 2015 l’artrite reumatoide e la sindrome di Sjingren; che nel mese di luglio 2018 la Commissione medica dell’INPS aveva accertato la sussistenza delle patologie “Artrite reumatoide con sindrome Sjingren dal 2015, pneumopatia cronica con bronchiectasia basale, asma bronchiale – umore lievemente deflesso”; che, successivamente, era stato diagnosticata “Congiuntivite cronica in un quadro di occhio secco severo – Sindrome ansiosa depressiva al grado medio-grave – restrizione polmonare, accelerazione dell’interstiziopatia centrale e periferica con ispessimento”; che il 29.9.2020 ed il 22.2.2021, l’ASP di Cosenza aveva refertato la “Depressione ansiosa di grado grave, con disturbo ossessivo”.
Tutto ciò premesso, deduceva che la patogenesi delle predette malattie, ovvero le cause o le concause che ne avevano determinato l’insorgenza, erano da rinvenire nell’ambiente di lavoro nocivo, insalubre, inidoneo, caratterizzato da un elevato tasso di inquinamento indoor, nell’omessa predisposizione del piano di sicurezza e nell’omesso aggiornamento di quelli adottati, nell’omessa formazione professionale ed informazione del lavoratore sui rischi generali connessi alla mansione svolta e su quelli specifici riguardanti l’utilizzazione delle stampanti, degli antiblastici e delle radiazioni ionizzanti, nella omessa fornitura di D.P.I. e nella inidoneità di quelli utilizzati, nella omessa installazione di aspiratori o altri impianti idonei per arieggiare i locali, al rischio stress-lavoro correlato.
Sosteneva, quindi, che la responsabilità dell’insorgenza di ciascuna o di tutte le patologie contratte era ascrivibile alla condotta colpevole del datore di lavoro per aver tenuto sia una condotta commissiva, avendolo esposto alle sostanze rilasciate delle stampanti nonché alle radiazioni ionizzanti, al fumo passivo ed alle altre sostanze nocive elencate, sia di natura omissiva per non aver adottato tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro e la tecnica, erano idonee per prevedere, prevenire, eliminare o ridurre i rischi.
Agiva quindi in questa sede per ottenere il ristoro del danno patito dall’inadempimento datoriale e concludeva chiedendo “[..] accertare e dichiarare l’inadempimento, ovvero l’inesatto adempimento contrattuale all’obbligo di sicurezza da parte della datoriale A.O. resistente, ovvero che le patologie di cui trattasi e sopra descritte (a prescindere dal loro esatto/inesatto nomen juris o clinico), ovvero accertare che le malattie, denominate nei certificati “Pneumopatia cronica con Bronchiectasia basale, ovvero B.P.C.O., asma bronchiale, depressione grave e artrite reumatoide con sindrome di Sjingren,”, sono riconducibili, a livello causale o concausale, alla colpa datoriale, al lavoro svolto e/o all’ambiente lavorativo nocivo ed insalubre e, quindi, alla violazione, da parte della A.O. di Cosenza, delle disposizioni contenute negli artt.1,32,35,38,41 e 97 Cost., 2087, 1218, 1176 e 2060 cod. civ., nonché delle altre disposizioni antinfortunistiche sopra richiamate, comprese quelle contenute nella c.d. Carta di Nizza; c) condannare, per l’effetto, l’A.O. di Cosenza, al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, ovvero morali, patiti dal ricorrente, compresi quelli per I.T.T., per I.T.P., per il c.d. danno biologico ed esistenziale, nella misura di Euro 224.206,00, ovvero di quell’altra maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia o che sarà accertata in corso di causa, oltre interessi e svalutazione monetaria dal 30.3.2019 fino al soddisfo [..]”.
Si costituiva in giudizio l’Azienda Ospedaliera di Cosenza contestando il ricorso deducendo il difetto di prova relativo al lamentato inadempimento datoriale dell’obbligo di sicurezza nonché al nesso di causalità tra le patologie dedotte e la ascritta condotta omissiva/commissiva di essa resistente e, dopo aver contestato la quantificazione dei danni, concludeva chiedendo “[..] 1) Nel merito, accertare e dichiarare l’assoluto rispetto da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza di tutte le misure necessarie a tutela dell’integrità psicofisica del Sig. C.C., così come prescritto dall’art. 2087 c.c.; 2) Per l’effetto e sempre nel merito, dichiarare inammissibile e/o infondata la domanda di parte ricorrente in ordine dai danni lamentati; ovvero dichiarare non risarcibili i danni lamentati dal Sig. C.C. perché non riconducibili alla responsabilità dell’Azienda resistente e, comunque, non dimostrati; 3) Nella denegata e non concessa ipotesi di accoglimento della domanda avversaria, liquidare a titolo risarcitorio esclusivamente il danno differenziale, ovvero la somma eccedente l’ammontare dell’indennizzo erogato dall’INAIL [..]”.
Istruita a mezzo prova testimoniale e CTU medico legale, la causa veniva rinviata per la decisione all’udienza del 9.7.2024 – sostituita ex art. 127 ter c.p.c. dal deposito di note scritte - e decisa come da dispositivo in calce.
Il ricorso è in parte fondato e deve, pertanto, essere accolto nei limiti e per i motivi di seguito esposti.
Occorre premettere come sia pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale il mancato adempimento del dovere (stabilito in linea generale dall’art. 2087 c.c. e, più nel dettaglio, dal D. Lgs. n. 626/1994 poi trasfuso nel D. Lgs. n. 81/2008) di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori, è fonte di responsabilità contrattuale, configurando un illecito che attiene ad una preesistente obbligazione di origine legale.
La norma di cui all’art. 2087 c.c., come è noto, determina un obbligo di comportamento (rapportato alle possibilità offerte dalla tecnica e dalla esperienza, con riferimento, altresì, alla particolarità del lavoro) che trova la sua fonte nell’art. 32, comma, 1 Cost. (secondo il quale lo Stato assume la tutela della salute dei cittadini “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”) e nell’art. 41, commi 1 e 2 Cost. (laddove, affermandosi il principio di libertà dell’iniziativa privata, si condiziona in concreto tale iniziativa imponendosi che essa si svolga con modalità tali da non pregiudicare la sicurezza e l’incolumità fisica degli addetti).
La natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c. rende poi operante la presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c., che impone al debitore di provare la non imputabilità dell’inadempimento.
In particolare, quanto al riparto degli oneri probatori la domanda di danno proposta dal lavoratore si pone nei termini di cui all’art. 1218 c.c. in relazione all’inadempimento delle obbligazioni.
Più precisamente, secondo le puntuali indicazioni della giurisprudenza di legittimità, “la responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 cod. civ. è di natura contrattuale, per cui ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Pertanto, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro, seppure non debba provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c., è pur sempre onerato della prova del fatto costituente l’inadempimento e del nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno” (tra le altre, Cass. Sez. Lav., 20 maggio 2010, n. 12351; Cass. n. 4970/2017).
Accertata la mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività lavorativa in concreto espletata, va ritenuta la piena responsabilità dello stesso ai sensi dell’art. 2087 c.c., indipendentemente dall’eventuale concorso di colpa del lavoratore infortunato, che non vale a escludere la responsabilità datoriale a meno che il comportamento del lavoratore “non si concreti in una condotta totalmente estranea alla prestazione lavorativa, e, come tale, assolutamente inopinabile e imprevedibile” (tra le tante, Cass. Sez. Lav., 1.10.2003 n. 14645; Cass. Sez. Lav., 27.2.2004 n. 4075; Cass. Sez. Lav., 24.3.2004 n. 5920; Cass., Sez. Lav., 14.2.2005 n. 2930; Cass. Sez. Lav., 8.3.2006 n. 4980, le quali hanno costantemente confermato che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è esclusa solo in caso di dolo o rischio elettivo del lavoratore, ovvero “di rischio generato da un’attività che non abbia rapporti con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa”, così da porsi come causa esclusiva dell’evento).
In tale contesto, dunque, l’eventuale accertamento della colpa del lavoratore non è in sé idonea ad escludere il nesso causale tra il verificarsi del danno e la responsabilità del datore di lavoro, ma ha come unico effetto quello di ridurre in misura proporzionale l’ammontare del risarcimento delle voci di danno non coperte dal sistema di assicurazione obbligatoria ex D. Lgs. n. 38/2000 (in argomento si veda, tra le altre, Cass., Sez. Lav., 19 aprile 2003, n. 6377).
Ciò premesso, parte ricorrente ha, come anticipato, allegato l’inadempimento colpevole del datore di lavoro (sia in termini di condotta commissiva che omissiva) addebitandogli di averlo esposto alle sostanze rilasciate delle stampanti nonché alle radiazioni ionizzanti, al fumo passivo ed alle altre sostanze nocive elencate in ricorso e di non aver adottato tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro e la tecnica, erano idonee per prevedere, prevenire, eliminare o ridurre i fattori di rischio.
Addebita, nello specifico, al datore di lavoro la responsabilità per le patologie insorte e lamentate in ricorso in ragione: dell’ambiente di lavoro nocivo, insalubre, inidoneo, caratterizzato da un elevato tasso di inquinamento indoor; dell’omessa predisposizione del piano di sicurezza e dell’omesso aggiornamento di quelli adottati; dell’omessa formazione professionale ed informazione sui rischi generali connessi alla mansione svolta e su quelli specifici riguardanti l’utilizzazione delle stampanti, degli antiblastici e delle radiazioni ionizzanti; della omessa fornitura di D.P.I. e nella inidoneità di quelli utilizzati; della omessa installazione di aspiratori o altri impianti idonei per arieggiare i locali.
Ebbene, disposta la prova orale, il teste (di parte ricorrente) F. – già infermiere professionale dell’Azienda convenuta sin dal 1980 e in quiescenza dal 2020 – ha dichiarato di avere lavorato assieme al ricorrente dal 2015 al 2020 presso il centro trasfusionale ed ha riferito che “[..] Ho visto il ricorrente stampare e fotocopiare documenti, l’ho visto sostituire il toner delle stampanti e fotocopiatrici. La sostituzione del toner avveniva senza l’utilizzo di guanti o altri presidi di sicurezza. Capitava spesso che occorresse sostituire il toner, c’erano più macchine fotocopiatrici e noi del reparto lo chiamavamo spesso per provvedere alla sostituzione del toner, oppure per la messa in funzione della macchina [..]” anche precisando che “[..] una fotocopiatrice in particolare, era allocata all’ingresso del centro trasfusionale in un luogo molto piccolo con una piccola finestrella [..]”; la teste (di parte ricorrente) S. – infermiera professionale ancora in servizio presso l’Azienda convenuta – ha dichiarato di aver lavorato con il ricorrente nelle unità operative di neurochirurgia, di oculistica e al centro trasfusionale ed ha confermato che il ricorrente si è occupato dalla movimentazione manuale dei pazienti, della pulizia e disinfettazione dei locali igienici, dell’accompagnamento dei pazienti nella sala dove dovevano eseguirsi esami diagnostici quali tac o RX, ivi stazionando (“[..] non potendo lasciare mai il paziente [..]”) ed ha anche riferito che il C.C. stazionava nei locali del gabinetto radiologico, compreso quello destinato alle incombenze della accettazione dei pazienti, che era intriso del fumo delle sigarette, pure aggiungendo che “[..] il ricorrente si occupava anche delle stampe e fotocopie di documenti e anche della sostituzione dei toner. Ricordo che lui interveniva spesso sia per sostituire i toner e per risolvere i problemi di inceppamento della fotocopiatrice. Era bravo in questo e ci rivolgevamo a lui. Ricordo che nel centro trasfusionale c’era un locale e c’era una grossa macchina fotocopiatrice multifunzione allocata in un locale angusto che noi chiamavamo cripta, tanto era angusta, e dove il ricorrente svolgeva queste operazioni di sostituzione del toner. In questo locale c’era una piccola finestra [..]”; la teste (di parte ricorrente) Lirangi – che ha dichiarato aver svolto un periodo di tirocinio di tre anni presso il centro trasfusionale dell’Azienda convenuta – ha riferito di aver visto il ricorrente trasportare i pazienti non autonomi per fare le visite e gli esami diagnostici ed occuparsi della stampa dei referti; il teste (di parte resistente) - dipendenze dell’A.O. sino al collocamento in quiescenza avvenuto il 31.12.2019 – ha dichiarato di essere stato direttore prevenzione e protezione ambientale ma non ha saputo riferire alcunchè sulle attività di lavoro concretamente disimpegnate dal ricorrente, riferendo che “[..] Per quanto riguarda l’ambiente di lavoro del centro trasfusionale posso riferire che questo è sempre stato oggetto di verifica da parte dei N.A.S. e che all’esisto delle prescrizioni impartite sono state adottate le misure prescritte [..]”.
Cosi ripercorsa l’istruttoria orale, se parte ricorrente ha adeguatamente provato l’esposizione ai rischi derivanti dalla movimentazione dei pazienti, dall’attività di pulizia/disinfezione dei locali igienici, dall’esposizione al fumo, dall’esposizione agli agenti chimici generati dall’utilizzo di stampanti/fotocopiatrici, parte convenuta – di converso - pur essendo onerata, ai sensi dell’art. 2087 c.c., della prova in ordine al corretto adempimento del c.d. debito di sicurezza, ossia di aver adottato tutte le cautele e gli accorgimenti idonei ad evitare la produzione del danno, nulla ha provato al riguardo (né, per la verità, ha chiesto di provare), limitandosi a negare il fondamento della intrapresa azione risarcitoria.
Rimane, in particolare, indimostrato che l’Azienda convenuta abbia intrapreso ogni utile iniziativa volta ad assicurare la salubrità dell’ambiente di lavoro, che abbia predisposizione un adeguato piano di sicurezza e/o abbia aggiornato quelli esistenti, che abbia svolto nei confronti del ricorrente una adeguata formazione/informazione sui rischi generali connessi alla mansione svolta e su quelli specifici riguardanti l’utilizzazione delle stampanti, che abbia provveduto alla fornitura di adeguati DPI (ad esempio per l’attività di sostituzione dei toner delle stampanti), che abbia provveduto alla installazione di aspiratori o altri impianti idonei per arieggiare i locali.
L’onere della prova ex art. 2087 c.c. posto a carico del datore di lavoro non è stato, dunque, assolto.
Disposta consulenza medico legale l’ausiliario (Dott. Cantaro L. – vedi elaborato depositato il 28.5.2024) ha accertato che il ricorrente è affetto da “Artrite reumatoide complicata da S. di Sjogren con interessamento polmonare (restrizione), Mielopatia cervicale da uncoartrosi osteofitaria, Discopatia lombare trattata chirurgicamente, Pneumopatia cronica con bronchiectasie, Depressione ansiosa grave”.
Quanto alla sussistenza del nesso di causalità/concausalità tra la genesi di tali patologie e le mansioni svolte il CTU ha affermato che “[….] L’Artrite reumatoide – la cui epoca di diagnosi può essere fatta risalire al 2015 - è una malattia infiammatoria cronica sistemica che colpisce elettivamente le articolazioni sinoviali [..]. Nonostante i numerosi studi e diverse ipotesi etiopatogenetiche in conclusione la causa dell’artrite reumatoide resta tutt’ora sconosciuta. La Sindrome di Sjogren – anch’essa diagnosticata nel 2015 - è una malattia infiammatoria cronica causata dall’infiltrazione linfocitaria delle ghiandole esocrine [..] anche per la Sindrome di Sjogren la causa è sconosciuta. Si tratta in entrambi i casi (Artrite Reumatoide e Sindrome di Sjogren) di malattie ad eziologia sconosciuta la cui la genesi più accreditata è quella multifattoriale riscontrabile nella popolazione generale non esposta per cause locali o generali ed allo stato attuale non è vi è nessuna evidenza scientifica della sussistenza di nesso di causalità o concausalità con fattori ambientali lavorativi ed in particolare con le mansioni svolte dal ricorrente, ossia quelle di infermiere professionale, né per quanto concerne la gravosità dell’attività svolta né per quanto concerne l’esposizione a fattori nell’ambiente di lavoro del periziato [..] per quanto concerne il fumo di sigarette – qualora vi fosse – ma mai dimostarata - qualche correlazione con la genesi dell’Artrite Reumatoide nello specifico trattandosi di un soggetto fumatore il fumo passivo ambientale avrebbe certamente avuto un ruolo irrilevante rispetto a quello attivo […]”.
Prosegue il CTU affermando che “[..] La mielopatia cervicale da uncoartrosi osteofitaria – diagnosticata nel marzo 2019 - e la discopatia lombare trattata chirurgicamente nel 2012 ad eziologia multifattoriale sono riscontrabili anche in questo caso nella popolazione generale “non esposta” per cause locali o cause generali [..]. Nell’attività lavorativa esercitata dal periziato - ossia quella di infermiere professionale in cui la movimentazione manuale dei pazienti non autosufficienti che dovevano essere sollevati dalla barella o dalla carrozzella, l’aiuto dei pazienti all’igiene personale, l’adagio dei pazienti sul lettino che ha rappresentato una e non certamente quella più usuale e frequente delle sue mansioni – non si sono venute a creare tutte quelle condizioni e modalità (condizioni ergonomiche sfavorevoli nelle azioni di sollevare, spostare, portare carichi – posizione instabile del corpo – caratteristiche dell’ambiente di lavoro: spazio insufficiente, piano di lavoro ineguale o con dislivelli, temperatura, umidità inadeguate, oltre alla durata di esposizione al rischio: continuità e ripetitività nel corso del singolo turno lavorativo e nel corso della vita lavorativa) con le quali il lavoro notoriamente può rendersi responsabile di malattia professionale; pertanto in base alle suddette considerazioni nel caso in esame non è possibile ammettere la genesi lavorativa causale o concausale della patologia vertebrale denunciata [..]”.
L’ausiliare ha quindi rilevato che “[..] La patologia broncopolmonare (Pneumopatia cronica con bronchiectasie, interstiziopatia, asma bronchiale) di cui soffre il Sig. C.C. già dal 2015 [..] anche se aspecifica e nosologicamente non ben definita [..] è possibile nel caso concreto in base ai criteri valutativi richiamati nella premessa (caratteristiche quantitative, qualitative, modali, cronologiche, ambientali del lavoro svolto) ammettere che gli atti e gli effetti conseguenziali connessi alle mansioni svolte ([..] stazionamento in sala raggi durante l’effettuazione delle radiografie ai pazienti, [..] prodotti per la pulizia, [..] effettuazione di fotocopie di documenti, sostituzione del toner delle stampanti) abbiano comportato una elevata nocività per l’apparato respiratorio, ossia l’esposizione ai fattori di rischio propri degli ambienti di lavoro confinati e chiusi dei reparti ospedalieri – con i tipici sistemi di condizionamento dell’area e possibili malfunzionamenti dei sistemi di ventilazione - ed il prolungato contatto giornaliero in tanti anni di lavoro con inquinanti di vario tipo chimico-fisico-biologico e in diverse forme (polveri, liquidi, vapori acquei, aerosol) sia stata tale da avere avuto un ruolo concausale efficiente nel determinismo della malattia broncopolmonare [..]”.
Aggiunge ancora il CTU “[..] Per quanto concerne la patologia psichiatrica – diagnosticata nel mese di marzo 2019 [..] viene certificata dall’U.O.C. di Psichiatria come una “Sindrome ansioso-depressiva di grado grave con ideologia ossessiva” senza alcun riferimento - neanche da parte dello specialista psichiatra che l’aveva in cura – all’attività lavorativa svolta; solo nel primo certificato del marzo del 2019 viene genericamente indicata come reattiva senza ulteriori precisazioni per cui in base alla classica criteriologia medico legale sul nesso di causalità la malattia psichiatrica non si ritiene riconducibile a fattori lavorativi, ossia non si ritiene che le mansioni svolte dal periziando abbiano avuto un ruolo causale o concausale nella sua genesi [..]”.
Ha, quindi, concluso il CTU affermando che “[..] Esclusa la sussistenza del nesso di causalità delle malattie osteoarticolari e della patologia psichiatrica con le mansioni svolte dal ricorrente ed accertata la natura professionale della patologia broncopolmonare (Pneumopatia cronica con bronchiectasie, interstiziopatia, asma bronchiale) sofferta dal periziato [..] La malattia broncopolmonare concausalmente correlata alle mansioni svolte determina nel Sig. C.C. un grado di menomazione della sua integrità psico-fisica (Danno Biologico Permanente) valutabile nella misura del 10% (diecipercento) sia in base ai Baremes propri della Responsabilità Civile (Guida Orientativa per la valutazione del danno biologico permanante della Società Italiana di Medicina Legale) e sia in riferimento al danno risarcibile dall’INAIL (Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n° 38) [..]” precisando che “[..] Tale menomazione con la relativa percentuale di danno decorre dal 25/11/2015 [..]”.
L’ausiliare ha adeguatamente preso posizione – confutandole argomentatamente – sulle osservazioni critiche alla relazione formulate da entrambe le parti, ribadendo le conclusioni raggiunte sicchè – ritenuta la consulenza priva di vizi logici ed esaustiva – non si ravvisa alcuna necessità di chiamare il CTU a chiarimenti per come richiesto da parte ricorrente.
Ciò detto, occorre precisare che qui viene in considerazione il c.d. danno differenziale, e quindi il pregiudizio patito dal ricorrente non integralmente ristorato (o ristorabile) dalla copertura assicurativa INAIL.
Tale danno, com’è noto, è quello che rientra nel tipo già considerato dall'assicurazione obbligatoria, ma che, in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze dei valori monetari rispetto al danno civilistico, primariamente sia per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL in confronto al diritto comune (dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale), sia per il diverso valore del punto di inabilità.
E il calcolo del danno differenziale va effettuato indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell'applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, v. Cass. n. 20807/2016).
Occorre valutare, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, e da esso detrarre quanto indennizzabile dall'INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (Cass. n. 20807/2016 cit.).
Tale operazione di scomputo va effettuata ex officio ed anche se l'INAIL non abbia in concreto provveduto all'indennizzo, deponendo per tale soluzione il tenore dell'art. 10 D.P.R. 1124/65.
Applicando, allora, i suddetti principi al caso di specie, premesso che è irrilevante la mancanza di specifiche allegazioni e di una specifica domanda volta ad ottenere il danno c.d. differenziale (cfr. Cass. n. 9166/2017), si osserva che, in applicazione delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano (sull’applicabilità delle citate tabelle cfr. Cass. Civ. Sez. III 30 giugno 2011, n. 14402, nonché Cass. Sez. Lav., 2 agosto 2011, n. 16866; Cass. n. 20895/2015; Cass. n. 11754/2018), avuto riguardo all’età del ricorrente all’epoca di verificazione del danno (anni 54) e tenuto conto della percentuale di invalidità permanente del 10% accertata in questa sede, il quantum risarcibile, a titolo di danno non patrimoniale, ammonta ad € 19.201,00 (non potendosi accordare alcuna maggiorazione del danno in termini di “personalizzazione” non essendo state dedotte e provate circostanze tali da giustificare tale maggiorazione).
Considerato che l’indennizzo INAIL liquidabile ex art. 13 D. Lgs. n. 38/2000 - avuto riguardo all’età del ricorrente ed alla percentuale di invalidità del 10% - è pari ad € 12.415,91 ne consegue che al ricorrente compete a titolo di danno differenziale (costituito, appunto, dalla differenza tra quanto previsto nelle tabelle qui applicate e la somma che ristorabile dall’INAIL a titolo di indennizzo) l’importo di € 6.785,09 (€ 19.201,00 - € 12.415,91).
Poiché detta somma è determinata alla data odierna, ai fini del calcolo degli interessi, trattandosi di debito di valore, la stessa va devalutata e riportata al valore che aveva alla data dell’insorgenza della menomazione (25.11.2015) e, in applicazione dei principi espressi dalle S.U. della Cassazione (sentenza n. 1712/1995), sulla somma devalutata vanno applicati gli interessi sugli importi anno per anno, via via rivalutati.
Le spese di lite e di consulenza tecnica seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
accoglie parzialmente il ricorso e, per l’effetto, condanna l’Azienda Ospedaliera di Cosenza al pagamento in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno differenziale, della somma di € 6.785,09 oltre interessi legali e rivalutazione nei termini indicati in parte motiva; condanna l’Azienda Ospedaliera di Cosenza al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi € 2.600,00 oltre IVA, CPA e rimborso forfettario come per legge, da distrarsi; pone a carico dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza le spese di consulenza tecnica alla cui liquidazione provvede con separato decreto.
Così deciso in Cosenza, 9 luglio 2024
Il Giudice del Lavoro Dott. Alessandro VACCARELLA