Cassazione Penale, Sez. 4, 25 luglio 2024, n. 30615 - Eternit
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta da:
Dott. DOVERE Salvatore - Presidente
Dott. VIGNALE Lucia - Relatore
Dott. ARENA Maria Teresa - Consigliere
Dott. DAWAN Daniela - Consigliere
Dott. CIRESE Marina - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
A.A. nata a C. il (Omissis),
B.B. nata a C. il (Omissis),
C.C. nata a C. il (Omissis),
D.D. nato a C. il (Omissis).
E.E. nato a C. il (Omissis), e
F.F. nato a H. (S.) il (Omissis), nel procedimento a carico di:
F.F. nato a H. (S.) il (Omissis),
inoltre:
ANMIL
USR-CISL PIEMONTE
CGIL PIEMONTE
ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI AMIANTO DI CASALE MONFERRATO
CGIL NAZIONALE
ALLCA-CUB
ONA APS CON SEDE IN ROMA
ASSOCIAZIONE ITALIANA ESPOSTI AMIANTO
MEDICINA DEMOCRATICA MOVIMENTO DI LOTTA PER LA SALUTE ONLUS
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI REGIONE PIEMONTE
UIL PIEMONTE
avverso la sentenza del 16/02/2023 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore SABRINA PASSAFIUME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso di F.F. e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di A.A., B.B., C.C., D.D. e E.E.;
uditi i difensori presenti:
avvocato LAURA MARA, del foro di BUSTO ARSIZIO, in difesa della parte civile MEDICINA DEMOCRATICA MOVIMENTO DI LOTTA PER LA SALUTE ONLUS che ha chiesto il rigetto del ricorso dell'imputato e la conferma della sentenza impugnata, come da conclusioni e nota spese depositate in udienza.
L'avvocato LAURA MARA, del foro di BUSTO ARSIZIO, è presente altresì in qualità di sostituto processuale: dell'avvocato SIMONE VALLESE del foro di TORINO, difensore della parte civile ALLCA-CUB; dell'avvocato SERGIO BONETTO, del foro di TORINO, difensore della parte civile A.I.E.A ASSOCIAZIONE ITALIANA ESPOSTI AMIANTO; dell'avvocato MASSIMO DI CELMO, del foro di NAPOLI, difensore della parte civile CGIL NAZIONALE. L'avvocato MARA, riportandosi alle conclusioni e note spesa depositate in udienza, ha chiesto la conferma della sentenza impugnata e la liquidazione delle spese.
Avvocato RICCARDO BRIGAZZI, del foro di ROMA, quale sostituto processuale dell'avvocato ANDREA MARIO VINCENZO FERRERÒ MERLINO, del foro di TORINO, difensore della parte civile O.N.A. A.P.S. L'avv. BRIGAZZI, riportandosi alle conclusioni e nota spese depositate in udienza, ha chiesto la conferma della sentenza impugnata e la liquidazione delle spese.
Avvocato ALESSANDRA GUARINI, del foro di BIELLA, per la parte civile ANMIL, ha chiesto il rigetto del ricorso presentato dalla difesa dell'imputato come da conclusioni depositate precisando di aver già inviato via PEC la relativa nota spese.
Avvocato LAURA D'AMICO , del foro di TORINO, difensore delle parti civili CGIL PIEMONTE e ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME DI AMIANTO DI CASALE MONFERRATO, che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata e ha depositato conclusioni e nota spese.
Avvocato RICCARDO BRIGAZZI del foro di Roma, in qualità di sostituto processuale dell'avvocato EZIO BONANNI, stesso foro, difensore dei ricorrenti A.A., B.B., C.C., D.D. e E.E. che ha chiesto l'accoglimento dei ricorsi e ha depositato conclusioni e nota spese.
Avvocato ASTOLFO DI AMATO, del foro di ROMA, e avvocato GUIDO CARLO ALLEVA, del foro di ROMA, difensori di fiducia del ricorrente F.F., i quali hanno insistito nella richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea e, comunque, per l'accoglimento del ricorso con annullamento della sentenza impugnata.
Fatto
1. Con sentenza del 16 febbraio 2023, la Corte di appello di Torino ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 23 maggio 2019 dal Tribunale di Torino nei confronti di F.F., imputato del reato di cui all'art. 589, commi 1, 2 e 4, 61 n. 3 cod. pen., in danno di G.G., dipendente dello stabilimento di lavorazione dell'amianto ex SACA di C. e di H.H., che abitava nelle adiacenze di quello stabilimento. Con la sentenza del 16 febbraio 2023 la Corte di appello ha assolto F.F. dall'accusa di aver causato la morte di H.H. L'affermazione della penale responsabilità è stata confermata, invece, con riferimento alla morte di G.G.
2. Secondo l'ipotesi accusatoria, essendo stato al vertice del gruppo svizzero Eternit, F.F. fu "effettivo responsabile della gestione" delle società italiane che a quel gruppo facevano capo e quindi, per quanto qui rileva, della "Eternit Spa" e della "Industria Eternit Casale Monferrato Spa" esercenti lo stabilimento di lavorazione dell'amianto ex SACA di C. Il capo di imputazione sulla base del quale F.F. è stato tratto a giudizio lo indica come effettivo responsabile della gestione dello stabilimento dal mese di giugno del 1976 al 4 giugno 1986 data nella quale fu dichiarato il fallimento della "Eternit s.p.a" e della "Industria Eternit C. Spa". Va detto, però, che lo stabilimento di C. risulta aver cessato la propria attività alla fine del 1982 e, pertanto, la contestazione deve intendersi riferita al periodo compreso tra il 1976 e il 1982.
2.1. Con la sentenza del 16 febbraio 2023 la Corte di appello ha assolto F.F. dall'accusa di aver causato la morte di H.H., avvenuta il 5 luglio 2012 a causa di un mesotelioma pleurico. L'affermazione della penale responsabilità è stata confermata, invece, con riferimento alla morte di G.G., intervenuta il 7 dicembre 2008 per asbestosi. G.G. ha lavorato nello stabilimento di C. dal 1955 al 1982 e i giudici di merito hanno ritenuto provata l'esposizione professionale ad amianto per tutto questo periodo; hanno sottolineato che l'asbestosi è una patologia dose-dipendente la cui gravità si incrementa con l'incremento dell'esposizione e, per questo, hanno ritenuto sussistente il nesso causale tra l'attività lavorativa svolta nel periodo compreso tra il 1976 e il 1982 e la morte. Hanno ritenuto inoltre che, tra il 1976 e il 1982, F.F. sia stato l'effettivo responsabile della gestione del rischio amianto, non solo nello stabilimento di C., ma, più in generale, in tutti gli stabilimenti Eternit presenti sul territorio italiano. Secondo i giudici di merito questo specifico rischio era gestito da uria struttura di tipo piramidale, predisposta proprio dall'imputato, che si occupava del problema, delle iniziative da adottare per risolverlo e curava anche la strategia comunicativa del gruppo, volta a rassicurare i dipendenti e la popolazione sulla idoneità delle iniziative avviate. A carico di F.F. sono stati individuati profili di colpa consistiti: nell'aver proseguito l'attività produttiva in assenza di conversioni o risanamenti strutturali così risparmiando sulle spese che sarebbero state necessarie per la doverosa radicale revisione degli impianti e delle procedure di lavoro; nel non aver adottato una politica aziendale idonea a tutelare i lavoratori dai rischi derivanti dall'esposizione ad amianto; nell'aver promosso un'opera di disinformazione finalizzata a tranquillizzare i lavoratori coinvolti diffondendo notizie infondate riguardo all'efficacia degli interventi adottati. Secondo i giudici di merito, "solo il più alto livello della direzione" avrebbe potuto provvedere a finanziare il costosissimo risanamento radicale degli impianti o deciderne la chiusura e le risorse economiche destinate allo stabilimento produttivo di C. furono del tutto insufficienti rispetto alle necessità.
2.2. La Corte di appello ha respinto la richiesta di estromissione delle associazioni costituitesi parti civili in giudizio e ha confermato la condanna dell'imputato al risarcimento dei danni in favore di queste associazioni, ma ha ridotto ad Euro 7.500 la provvisionale liquidata in favore di ciascuna di esse. Ha accolto, invece, la richiesta di estromissione di C.C. D.D., B.B., E.E. e A.A. (eredi di G.G.) ed ha perciò eliminato le statuizioni civili in loro favore contenute nella sentenza di primo grado.
La Corte di appello riferisce: che gli eredi di G.G. si erano costituiti parti civili nel processo a carico di I.I., J.J. e K.K., imputati del reato di cui all'art. 589, commi 2 e 3 cod. pen. in danno, tra gli altri, del loro congiunto; che in quel processo era stata citata quale responsabile civile la "Becon AG"; che, in data 15 aprile 2014, gli eredi G.G. giunsero ad un accordo transattivo con la "Becon AG"; che, con l'accettazione di questo accordo, C.C., D.D., B.B., E.E. e A.A. dichiararono di rinunciare "ad ogni diritto e/o azione" per i fatti oggetto delle imputazioni formulate in quel processo, non soltanto nei confronti delle persone che in quel processo erano imputate e della "Becon AG", ma "anche con riferimento ad eventuali futuri procedimenti, quale che (fosse) l'imputazione". Riportando il contenuto del documento sottoscritto dagli eredi di G.G. la Corte di appello ha sottolineato che l'accordo transattivo prevedeva la rinuncia "ad ogni diritto e/o azione" nei confronti di tutte le società che "facciano o abbiano fatto parte del Gruppo Eternit Svizzero", di tutte le società che siano state direttamente o indirettamente controllate da queste società e dei "rispettivi amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto". Secondo la Corte di appello, in ragione della formulazione letterale, quell'accordo si riferiva anche a F.F., che è imputato quale "effettivo responsabile" della gestione dello stabilimento di C. Pertanto, sottoscrivendolo, gli eredi G.G. hanno rinunciato ad avanzare pretese e a promuovere azioni nei confronti dell'odierno imputato. A differenza del giudice di primo grado, la Corte di appello ha ritenuto irrilevante che la transazione fosse intervenuta in un diverso procedimento a carico di persone diverse da F.F. e fosse riferita ai fatti oggetto di imputazione in quel procedimento. Neppure è stato ritenuto rilevante che F.F. non fosse tra i contraenti dell'accordo transattivo giacché egli, quale condebitore, ha manifestato la volontà di avvalersene. Irrilevante è stata ritenuta, infine, l'entità della somma liquidata, trattandosi di una transazione "generale" che non può intendersi riferita solo a una parte del danno subito da ciascun erede per la morte del proprio congiunto.
3. La sentenza della Corte di appello è stata impugnata dall'imputato e dagli eredi di G.G., parti civili estromesse.
4. Il ricorso proposto dagli eredi di G.G. consta di tre motivi con i quali i ricorrenti si dolgono dell'estromissione e chiedono l'annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la condanna di F.F. al risarcimento dei danni in loro favore.
4.1. Col primo motivo, i ricorrenti lamentano vizi di motivazione e violazione di legge.
La difesa osserva:
- che, con la sentenza impugnata, la Corte di appello ha ritenuto F.F. responsabile di aver causato, per colpa, la morte di G.G. e dunque ha ritenuto sussistente il diritto dei ricorrenti a vedersi risarcito il danno conseguente al fatto di reato;
- che la scrittura privata del 15 aprile 2014, sulla base della quale l'estromissione è stata disposta, è stata sottoscritta nell'ambito di un diverso procedimento che vedeva accusati della morte di G.G. soggetti diversi (I.I., J.J. e K.K.) cui erano ascritte azioni od omissioni diverse rispetto a quelle delle quali F.F. è stato ritenuto responsabile, sicché quella scrittura non può essere riferita anche alla posizione dell'odierno imputato e all'imputazione formulata nei suoi confronti;
- che tale atto non ha contenuto transattivo e nessuna transazione può essere intervenuta tra gli eredi di G.G. e F.F., perché questi non era parte nel procedimento nel quale la scrittura privata è stata sottoscritta e non è intervenuto a sottoscriverla personalmente o tramite un procuratore speciale.
Secondo la difesa, la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la scrittura privata in esame possa riguardare anche la persona di F.F. sulla base del contenuto letterale dell'art. 4, nel quale si fa generico riferimento ad "amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto". Nell'interpretare il contenuto della scrittura in parola però - sostengono i ricorrenti - non si può ignorare che essa fu predisposta nell'ambito di un diverso procedimento nel quale F.F. non era neppure indagato e nella stessa il suo nome non è mai menzionato come non lo è nessuno dei nomi degli amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto cui, secondo la Corte di appello, la scrittura farebbe riferimento. Le clausole contenute nell'art. 4 sarebbero, dunque, mere "clausole di stile" e non potrebbero essere lette e interpretate se non con riferimento al procedimento nel quale l'atto fu sottoscritto. Uria diversa lettura - si sostiene -sarebbe lesiva dei principi di lealtà, correttezza e buona fede che presiedono alla disciplina del contratto e alla sua interpretazione.
La difesa rileva: che, alla data del 15 aprile 2014, non era in corso tra gli eredi G.G. e l'odierno imputato alcuna controversia che potesse essere chiusa con una transazione; che la scrittura privata in parola è stata sottoscritta quando l'azione penale nei confronti di F.F. non era ancora stata esercitata; che, in quell'atto, egli non è stato identificato come condebitore. Sottolinea che non può essere interpretata come transazione omnicomprensiva una scrittura privata nella quale "Becon AG" ha corrisposto ai cinque eredi Ci G.G. un importo totale di 105.000 Euro che comprende anche le spese legali: una somma del tutto insufficiente a coprire i danni patiti e tale da determinare una palese sproporzione tra le reciproche concessioni che dovrebbero caratterizzare un atto transattivo. Non rileva in contrario la circostanza - cui fa riferimento la Corte di appello - che il 15 aprile 2014 F.F. fosse già indagato, atteso che nella scrittura privata in parola non si fa riferimento al procedimento aperto a suo carico e ciò dimostra che questa scrittura non si riferiva all'indagato F.F. e non può essere così interpretata se non rendendo palese la mala fede del contraente.
4.2. Col secondo motivo, la difesa sviluppa argomenti già esposti col primo e lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte di appello ritenuto che F.F. fosse condebitore solidale rispetto agli imputati del diverso processo, senza tenere conto che la transazione si riferiva solo ai fatti oggetto di quel procedimento, ben diversi da quelli dei quali F.F. è attualmente imputato.
4.3. Col terzo motivo, la difesa approfondisce le questioni sollevate col primo motivo con particolare riguardo al mancato esame da parte della Corte di appello delle deduzioni difensive relative all'entità dei danni patiti dai ricorrenti.
5. Il ricorso proposto nell'interesse di F.F. è suddiviso in XVII parti e consta di 236 pagine sicché i motivi possono essere qui illustrati solo in estrema sintesi e nei limiti strettamente necessari alla decisione, come previsto, peraltro, dall'art. 173, comma 1, D.Lgs. 28 luglio 1989 n. 271.
5.1. Col primo motivo, i difensori dell'imputato deducono la nullità della sentenza di primo grado per carenza assoluta della motivazione, che sarebbe frutto di un massiccio uso della tecnica del copia incolla e sarebbe stata ripresa in larga parte dalle motivazioni della sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino in data 13 febbraio 2012 nel c.d. processo "Eternit 1" nel quale erano state ascritte a F.F. violazioni degli arti: 434 e 437, commi 1 e 2, cod. pen. La difesa si duole che la Corte di appello abbia escluso la sussistenza di tale nullità, pur tempestivamente dedotta nell'atto di gravame. Sostiene che la motivazione della sentenza di primo grado è mancante perché costituita, in larga parte, dalla pedissequa riproduzione della motivazione di un'altra sentenza.
Nel chiedere una nuova valutazione in ordine alla sussistenza della dedotta nullità, la difesa reitera la richiesta, già formulata, di sollevare questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 13, comma 2, 24, comma 2, e 11, comma 6, della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 125, comma 3, e 604 cod. proc. pen. nella parte in cui, a fronte di una motivazione in primo grado mancante, non impone al giudice d'appello la restituzione degli atti al giudice di primo grado.
3.2. Col secondo motivo, la difesa deduce violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. e vizi di motivazione per non essere stata ritenuta operante la preclusione processuale conseguente al definitivo proscioglimento di F.F., per intervenuta prescrizione, dalle accuse formulate nei suoi confronti nell'ambito del procedimento c.d. "Eternit 1" che lo vedeva imputato di violazione degli artt. 434 e 437, commi 1 e 2, cod. pen.
La difesa ricorda che, nel corso del presente procedimento, il Giudice dell'udienza preliminare sollevò questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. all'esito della quale questa norma fu dichiarata costituzionalmente illegittima "nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale" (Corte cost. sentenza n. 200 del 2016). Con questa sentenza - osserva la difesa - la Corte costituzionale ha fornito indicazioni operative ai giudici incaricati di valutare l'identità tra i fatti storici oggetto di una pronuncia definitiva e quelli posti alla base di una nuova imputazione e ha affermato che tale valutazione deve essere compiuta con un approccio storico-naturalistico, ponendo a raffronto "il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all'esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione". Secondo la Corte costituzionale, il giudice deve compiere questo giudizio di comparazione facendo riferimento alla triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, e "può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un'unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell'integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. Ove invece tale giudizio abbia riguardato anche quella persona occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell'imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze". Secondo i difensori del ricorrente i giudici di merito non si sono attenuti a questi principi. In particolare, la Corte di appello, si è limitata a sostenere che i recti contestati nel primo procedimento sono caratterizzati da "una tipologia di evento assolutamente estranea alla vicenda trattata nel presente giudizio" perché riferita ad un insieme di malattie asbesto-correlate e non alla specifica malattia che condusse a morte G.G.. La difesa sostiene che, così argomentando, la sentenza impugnata avrebbe trascurato il contenuto dell'imputazione di cui all'art. 437, comma 2, cod. pen. dalla quale F.F. è stato prosciolto per prescrizione e, in particolare, la circostanza che, in quel procedimento, tra gli eventi determinati dal reato di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, era indicata anche l'asbestosi contratta da G.G.
La difesa osserva che il Tribunale di Torino, con sentenza del 13 febbraio 2012: affermò la penale responsabilità di F.F. per la violazione dell'art. 437, comma 2, cod. pen. considerata non come aggravante, ma quale autonomo titolo di reato, e ritenne consumate tante violazioni dell'art. 437, comma 2, cod. pen. quanti erano i lavoratori affetti da patologie asbesto-correlate; dichiarò il reato estinto per prescrizione in tutti i casi in cui dalla contestata omissione erano derivate patologie insorte prima del 13 agosto 1999;
affermò la responsabilità di F.F. relativamente alle patologie insorte in epoca successiva a quella data.
Secondo la difesa, così operando, il Tribunale di Torino ritenne accertato il nesso causale tra l'omissione delle cautele in materia di infortuni sul lavoro e l'insorgenza delle malattie indicate nel capo di imputazione (ivi compresa l'asbestosi contratta da G.G.) e, infatti, riconobbe ai lavoratori costituitisi parti civili e ai loro eredi il risarcimento del danno derivante dalle malattie insorte dopo il 13 agosto 1999. La difesa sostiene che la sentenza della Corte di appello di Torino del 3 giugno 2013 (che riformò la sentenza del Tribunale di Torino sopra citata dichiarando la prescrizione del reato di cui all'art. 437 cod. pen.), non mise in discussione i presupposti fattuali sui quali la condanna di primo grado era fondata, ma si limitò ad affermare che gli eventi lesivi (e, tra questi, la malattia contratta da G.G.) costituivano circostanza aggravante del reato di cui all'art. 437, comma 1, cod. pen., sicché il termine di prescrizione doveva essere calcolato a decorrere dalla data di cessazione della consumazione del reato avvenuta con la dismissione delle attività produttive.
La difesa dell'imputato rileva che la sentenza della Corte di appello di Torino del 3 giugno 2013 ha statuito definitivamente sull'imputazione di cui all'art. 437 cod. pen. perché il ricorso proposto da F.F., volto ad ottenere l'assoluzione nel merito, è stato dichiarato inammissibile e sostiene che il giudicato intervenuto riguardo a questo reato copre tutti gli elementi fattuali rilevanti nel presente giudizio perché riguarda sia la condotte (omissione di cautele atte a prevenire malattie e infortuni), sia l'evento (malattia contratta da G.G. e conseguente decesso), sia il nesso di causalità tra la prima e il secondo. La definitività di tale accertamento - si sostiene - non può essere più messa in discussione sotto nessun profilo, neppure quello relativo alla completezza e adeguatezza con cui lo stesso è stato eseguito, Non rileva in contrario, che la sentenza definitiva abbia dichiarato estinto il reato, perché tale dichiarazione non osta all'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen. Neppure rileva la circostanza che, nel primo procedimento, fosse stato contestato a F.F. di aver causato la malattia di G.G. e non la sua morte, trattandosi di eventi di diversa gravità, ma di una condotta rivolta verso la medesima vittima.
4.3. Col terzo motivo, che è da ritenersi subordinato al mancato accoglimento del secondo, la difesa chiede di sollevare questione pregiudiziale di fronte alla Corte UE proponendo il seguente quesito: "se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali e l'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen vadano interpretati, anche alla luce delle sentenze della Corte... che hanno già fatto applicazione di dette norme, nel senso che ostano all'applicazione, in un caso come quello di specie, di una norma di uno stato membro, quale l'art. 649 cod. proc. pen., nella misura in cui tale ultima disposizione condiziona, secondo l'interpretazione dei giudici nazionali, l'applicazione del principio del ne bis in idem all'esistenza del medesimo fatto oggetto di accertamento nei due giudizi, identificato attraverso la triade "condotta, nesso di causalità ed evento" invece che come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, senza che l'evento abbia specifica rilevanza".
Secondo la difesa, l'obbligo di sollevare la questione pregiudiziale discende dal fatto che - come la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto nella sentenza n. 200 del 2016 - quando interpreta la nozione di medesimo fatto, la giurisprudenza europea è univoca nel far riferimento al rilievo storico naturalistico dello stesso, ma non lo è per quanto riguarda la possibilità di includere in questo concetto anche l'oggetto fisico della condotta e quindi l'evento in senso naturalistico.
I difensori sottolineano che, ai sensi dell'art. 267 del T.F.U.E., se una giurisdizione superiore, contro le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, è incerta sulla portata di una norma dell'Unione europea o anche solo di una sentenza interpretativa della Corte di Giustizia, non ha il potere di dare autonoma soluzione al dubbio, essendo la Corte di giustizia l'unica abilitata a chiarire la portata del diritto dell'Unione. Secondo la difesa, perché una norma nazionale rientri nell'attuazione del diritto dell'Unione, non è necessario che essa sia stata emanata per dare attuazione a quel diritto, ma è sufficiente che la norma da applicare debba essere utilizzata in un procedimento riguardante materie nelle quali lo Stato è tenuto al rispetto del diritto dell'Unione e tale è la materia della salute pubblica, come lo è il tema dell'utilizzo dell'amianto, che è stato oggetto di numerose direttive da parte dell'Unione europea. Pertanto, il dubbio sulla interpretazione dell'art. 649 cod. proc. pen. e sulla possibilità di ricondurre nel concetto di medesimo fatto anche l'evento in senso naturalistico ha rilevanza per il diritto dell'Unione e richiede che la Corte di giustizia fornisca chiarimenti sul contenuto del principio del "ne bis in idem" come sancito dall'art. 50 della Carta di Nizza e dell'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen. Sotto diverso profilo, la difesa osserva che il divieto di doppio giudizio opera a livello transnazionale anche ai fini dell'operatività del principio di libera circolazione dei cittadini dell'Unione nello spazio europeo e dunque, anche sotto questo profilo, la questione prospettata riguarda una materia nella quale lo Stato è tenuto al rispetto del diritto eurounitario.
4.4. Col quarto motivo, la difesa chiede a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 158, primo comma, e 589 cod. pen. con riferimento agli artt. 24, comma 2, 25, 27 e 111 Cost. e agli artt. 10 e 117 Cost. (laddove richiamano gli artt. 6, 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) "nella parte in cui, facendo decorrere la prescrizione dall'evento e non dalla condotta, consentono la celebrazione di un processo quando le prove sono disperse e inattendibili e perciò è ontologicamente inaffidabile la ricerca della verità materiale" e "nella parte in cui, facendo decorrere la prescrizione dall'evento e non dalla condotta, consentono la celebrazione di un processo a notevole distanza dai fatti, per di più senza affidabilità della ricerca della verità materiale", impedendo così che la pena svolga la necessaria funzione rieducativa e ponendosi in contrasto con le esigenze di tutela della dignità della persona umana.
I difensori sottolineano che buona parte del materiale probatorio è andata smarrita o non può più essere acquisita per la morte di coloro che avrebbero potuto testimoniare, sicché non v'è stata la possibilità di celebrare un "giusto processo", né per quanto riguarda l'esatta ricostruzione degli accadimenti, né per quanto riguarda la possibilità di esercitare efficacemente il diritto di difesa. Rilevano, inoltre, che il lungo tempo decorso dai fatti non si concilia con la funzione rieducativa della pena che viene ad essere in concreto inflitta a una persona diversa da quella che del reato è stata ritenuta responsabile.
Secondo la difesa, i principi del giusto processo trovano riconoscimento anche nell'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Inoltre, il principio della funzione rieducativa della pena è riconosciuto nell'art. 1 di quella Carta perché, come anche la Corte costituzionale ha affermato (sentenza n. 364 del 1988), una pena che non avesse funzione rieducativa sarebbe contraria al principio di tutela della dignità umana.
Alla luce di queste considerazioni, i difensori instano affinchè; sia chiesto, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia dell'Unione europea di "interpretare gli artt. 1 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea per verificare se siano compatibili con tale interpretazione gli artt. 158, primo comma, e 589 cod. pen., nel testo applicabile in ragione del tempo del commesso reato, nella parte in cui consentono che si dia corso al processo dopo decenni dalla condotta" e consentono dunque un processo "ontologicamente inidoneo un affidabile accertamento della verità materiale e lesivo del diritto di difesa e della dignità della persona, non essendo più la pena idonea a svolgere la funzione rieducativa".
4.5. Col quinto motivo, la difesa deduce carenza di motivazione per non essere stata data risposta alle critiche formulate nell'atto di appello riguardo alle affermazioni contenute nella sentenza di primo grado che ha considerato come significative della ingerenza di F.F. nella gestione del rischio amianto alcune circostanze idonee invece a deporre iri senso contrario. La difesa fa riferimento in particolare: agli esiti del convegno tenutosi a (Omissis); tra il 28 e il 30 giugno 1976 nel quale si discusse dei rischi connessi all'uso dell'amianto nel ciclo produttivo; al documento "(Omissis)" consegnato, dopo quel convegno, ai vertici degli stabilimenti nei quali si utilizzava l'amianto; al contenuto della corrispondenza intercorsa tra F.F. e I.I., amministratore delegato di Eternit Italia per un lungo periodo; all'istituzione del SIL (Servizio Sicurezza e Igiene del Lavoro).
Secondo i difensori del ricorrente, la sentenza di primo grado avrebbe irragionevolmente considerato questi dati come significativi della ingerenza di F.F. nelle scelte compiute dai dirigenti delle società del gruppo quanto alla gestione del rischio amianto, ma questi dati provano soltanto che il vertice del gruppo mise in allarme i dirigenti sui rischi alla salute connessi alla lavorazione di questo materiale e sulla necessità di introdurre particolari cautele per ridurre quei rischi. I difensori si dolgono che la sentenza impugnata non abbia fornito risposta alle critiche articolate nell'atto di appello, essendosi limitata a condividere l'interpretazione fornita dal giudice di primo grado del significato e degli scopi del convegno di (Omissis) e del Manuale (Omissis)apoditticamente affermando che "l'imputato tentò di descrivere i propri investimenti per il miglioramento delle condizioni di sicurezza come risolutivi pur sapendo, invece, che si trattava di palliativi". I difensori sottolineano che lo stabilimento di C. e il Servizio di Igiene del lavoro che si occupava della gestione del rischio amianto in tutti gli stabilimenti italiani avevano propri dirigenti e che - come emerso in giudizio - l'istituzione del SIL era idonea a garantire un rigoroso controllo sulla efficacia tecnica dei dispositivi apprestati e delle misure adottate a tutela della salute dei lavoratori.
4.6. Il sesto motivo sviluppa, sotto diverso profilo, le doglianze relative alla motivazione con la quale la sentenza impugnata sostiene che le strategie di politica aziendale relative all'organizzazione tecnica della produzione, alla gestione del rischio da esposizione ad amianto e alla comunicazione all'esterno delle modalità di gestione di quel rischio erano decise a livello centrale e che F.F. si ingerì attivamente nella gestione delle società facenti parte del gruppo. Secondo i difensori, i giudici di merito sarebbero giunti a tali conclusioni travisando le emergenze probatorie e tale vizio, denunciato in sede di gravame, non è stato emendato dalla Corte di appello che, come la sentenza di primo grado, ha qualificato come gestione diretta una semplice attività di direzione e coordinamento, inevitabile nell'ambito di un gruppo cui facevano capo mille società delle quali almeno un centinaio operava nel settore del cemento-amianto.
Secondo la difesa, il rapporto che legava le società italiane al gruppo svizzero era caratterizzato da una larga autonomia e ciò sarebbe emerso con chiarezza dall'istruttoria dibattimentale e dalla documentazione acquisita agli atti su richiesta della difesa se le prove fossero state correttamente interpretate. In particolare, la difesa fa riferimento: alla deposizione di L.L.; al contenuto dei verbali dei Consigli di amministrazione di Eternit Spa; alla deposizione di F.F. ed M.M.; a quella di N.N. (dirigente del SIL). In tesi difensiva, tali emergenze istruttorie sarebbero idonee a comprovare l'ampia autonomia della quale godevano i dirigenti delle società controllate pur nell'ambito della generica attività di direzione e coordinamento svolta dai vertici svizzeri.
4.7. Col settimo motivo, la difesa deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 40, comma 2, cod. pen. in relazione agli artt. 2087, 2497 e 2639 cod. civ. Sostiene, in particolare, che la posizione di garanzia attribuitci a F.F. nell'ambito di un'organizzazione imprenditoriale complessa come quella del gruppo Eternit avrebbe richiesto di distinguere la figura esercente i poteri di direzione e coordinamento (poteri che competevano all'odierno ricorrente) rispetto alla figura di amministratore di fatto (o datore di lavoro di fatto) che gli è stata attribuita.
La difesa sottolinea che i poteri di direzione e coordinamento sono necessariamente svolti con carattere di generalità rispetto al gruppo e alle società che lo compongono, ma non determinano una diretta e immediata ingerenza nella gestione delle singole società controllate. L'impartire direttive -osservano i difensori - è esattamente il compito di chi svolga funzioni di direzione e coordinamento. Pertanto, l'assunzione della qualifica di amministratore di fatto di una società controllata non può desumersi - come sarebbe avvenuto nel caso di specie - dalla circostanza che direttive siano state impartite. Nel ricorso si fa ampio riferimento alla giurisprudenza civile relativa all'applicazione dell'art. 2497 cod. civ., secondo la quale non può escludersi che il soggetto cui sono attribuiti poteri di direzione in quanto amministratore di una holding possa esercitare di fatto i poteri di amministrazione di una società controllata e, tuttavia, perché ciò si verifichi,, è necessaria una ingerenza completa e sistematica da parte del soggetto privo di investitura formale nella società controllata ed è necessario che tale ingerenza si traduca nell'esercizio dei poteri tipici dell'amministratore di diritto. La difesa ricorda, inoltre, che secondo la migliore giurisprudenza penale, per poter attribuire all'amministratore di diritto di una società capogruppo la qualifica di amministratore dì fatto di una o più delle società controllate è necessario che gli amministratori di diritto di queste ultime società siano ridotti a meri esecutori delle sue disposizioni. Solo in questo caso, infatti, la posizione direttiva del gruppo e quella di gestore di fatto delle controllate si sovrappongono. Secondo la difesa, questa situazione non era certamente configurabile nel caso in esame, non si può sostenere dunque che F.F. fosse amministratore di fatto delle società che gestivano lo stabilimento di C.. Neppure si può sostenere che nel caso di specie trovi applicazione l'art. 299 D.Lgs. 81/08 che presuppone un rapporto diretto e non mediato del datore di lavoro di fatto con la situazione di rischio e la possibilità per il datore di lavoro di fatto di gestirlo direttamente; possibilità che, nel caso di specie, non è ravvisabile, atteso che F.F. impartiva istruzioni agli amministratori delle società controllate i quali erano chiamati ad attuarle.
Secondo la difesa, l'impossibilità di attribuire al ricorrente la qualifica di amministratore dì fatto o, comunque, di gestore di fatto dello stabilimento di C. impedisce di applicare lo schema di responsabilità previsto dall'art. 40, comma 2, cod. pen. F.F. potrebbe dunque essere chiamato a rispondere solo per aver causato l'evento con una condotta attiva (eventualmente a titolo di concorso con gli organi della società controllata), ma non per aver omesso di impedirlo non essendo titolare di un obbligo giuridico in tal senso. La difesa si duole che, su questo tema, la sentenza impugnata non abbia preso posizione essendosi limitata ad affermare che, essendo al vertice del gruppo, F.F. avrebbe avuto il potere di chiudere l'attività o finanziare una ristrutturazione radicale degli stabilimenti.
4.8. Con l'ottavo motivo la difesa deduce vizi di motivazione quanto alla ritenuta antidoverosità del comportamento consistito nella decisione di proseguire nella lavorazione dell'amianto pur nella consapevolez2a della nocività del materiale e della impossibilità di trattarlo in modo sicuro.
Osserva in particolare: che la consapevolezza dell'impossibilità di trattare l'amianto in modo tale da garantire la salute dei lavoratori cominciò ad emergere solo in epoca successiva al fallimento delle società italiane e alla conseguente cessazione dell'attività delle stesse; che il divieto di usare amianto fu introdotto in Italia con la legge 27 marzo 1992 n. 257; che solo nel 1997 (col "consensus" di Helisinki) gli scienziati raggiunsero un accordo sulla necessità di bandire l'amianto; che, prima di allora, lo stesso O.O., padre della lotta all'amianto, aveva affermato essere possibile un uso controllato di questo materiale; che, ancora negli anni '70 e '80, autorevoli organismi internazionali avevano riconosciuto la possibilità di un uso sicuro dell'amianto. Muovendo da tali considerazioni, la difesa sostiene che la scelta di non chiudere gli stabilimenti e proseguire nelle attività produttive, alla luce dei dati scientifici disponibili e della legislazione vigente fino al 1986 (quando fu dichiarato il fallimento di Eternit Spa), non può essere considerata contraria a regole cautelari.
Secondo i difensori, la motivazione della sentenza impugnata è carente anche nella parte in cui considera insufficienti le iniziative adottate dal ricorrente per limitare il rischio conseguente all'esposizione a polveri di amianto; iniziative che - ricorda la difesa - furono adottate nella convinzione (solo in seguito rivelatasi erronea) che il contenimento della concentrazione di fibre di amianto negli stabilimenti costituisse presidio sufficiente alla tutela della salute dei lavoratori e che, introducendo diverse modalità di manipolazione del materiale capaci di evitare che l'esposizione a fibre di amianto avvenisse per tempi protratti e ad elevate concentrazioni, l'insorgenza di malattie asbesto correlate e le morti conseguenti avrebbero potuto essere evitate.
La difesa osserva che - come la sentenza impugnata riconosce - l'odierno ricorrente ereditò dalla gestione precedente una situazione catastrofica e sostiene che la politica aziendale adottata dopo che il gruppo svizzero assunse il controllo degli stabilimenti italiani fu conforme alla normativa all'epoca vigente. Alle società italiane, infatti, fu fornita l'assistenza tecnica necessaria per mettere i dipendenti in condizione di lavorare l'amianto senza essere esposti per tempi protratti ad elevate concentrazioni di fibre e quelle società furono fornite anche delle risorse finanziarie occorrenti per procedere agli adeguamenti tecnologici necessari a tal fine.
Quanto alla assistenza tecnica fornita agli stabilimenti italiani, la difesa sottolinea:
- che fu costituito un centro di ricerca diretto dal Prof. P.P., denominato "(Omissis)", presso il quale i dirigenti italiani dovevano svolgere un periodo di formazione e questo centro effettuava ricerche sulla pericolosità delle fibre di amianto coordinando, per questa materia, tutte le industrie Eternit del gruppo;
- che fu istituito il SIL (Servizio sicurezza e igiene del Lavoro) che effettuava le misurazioni interne negli stabilimenti Eternit italiani (compreso lo stabilimento di C.) ed era diretto da N.N., il quale aveva svolto un periodo di addestramento specifico a (Omissis) e inviava al laboratorio esistente in quel centro gli esiti delle misurazioni effettuate;
- che altre realtà industriali operanti in Italia nel medesimo settore non avevano strutture simili ed anzi si rivolgevano al SIL per consulenza.
Quanto alle risorse finanziarie, la difesa osserva: che il flusso di risorse giunto dalla Svizzera all'Italia tra il 1976 e il 1982 fu di circa 85 miliardi di lire, più di 33 miliardi dei quali furono dedicati a investimenti per la sicurezza, e che, come risulta dai documenti redatti dagli organi delle procedure concorsuali, una delle cause del fallimento delle società italiane fu rappresentata dai costi connessi all'adozione di misure di sicurezza che altri concorrenti, operanti sul mercato, non sostenevano.
Secondo la difesa, questi dati sarebbero stati illogicamente sottovalutati dalla Corte di appello ancorché idonei a dimostrare che le misure adottate dal ricorrente avevano ridotto la concentrazione delle fibre di amianto e abbassato il rischio per la salute dei lavoratori.
Sotto diverso profilo, la difesa osserva che il ricorrente non può essere ritenuto responsabile neppure per non aver controllato la corretta esecuzione da parte dei dirigenti del gruppo delle direttive da lui impartite. L'apparato produttivo, infatti, era articolato in distinte unità produttive, ciascuna affidata a soggetti investiti di mansioni dirigenziali, sicché non era esigibile da parte di F.F. un controllo diretto sul concreto funzionamento di ogni stabilimento e, per quanto rileva in questa sede, dello stabilimento di C.
4.9. Col nono motivo, la difesa deduce contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione riguardo alla ricostruzione della situazione esistente nello stabilimento di C. nel periodo riferibile alla gestione del ricorrente. Osserva che, come la sentenza impugnata riconosce, le misurazioni sulla concentrazione di fibre aerodisperse nello stabilimento documentano che negli anni 1976-1982 vi fu una diminuzione della concentrazione di fibre e si duole che si sia giunti all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato ritenendo inattendibili le misurazioni compiute dal SIL e anche quelle compiute da organismi terzi e sostenendo, sulla base di deposizioni testimoniali e di alcune criticità che lo stesso SIL aveva segnalato, che nel periodo riferibile alla gestione del ricorrente vi fu una dispersione di fibre di amianto "in quantità sì inferiori alle concentrazioni del passato, ma comunque non irrisorie".
Secondo la difesa, giungendo a tali conclusioni, la Corte di appello avrebbe omesso di considerare:
- che le segnalazioni del SIL relative alla presenza di punti di lavorazione che richiedevano interventi erano determinate dalla scelta, compiuta dal Servizio, di adottare parametri di riferimento inferiori rispetto ai limiti di esposizione professionale (valori soglia) indicati all'epoca dalla associazione degli igienisti americani ACGIH (American Conference of Governmental Industriai Hygienists) e dai contratti collettivi di lavoro;
- che, pertanto, le segnalazioni provenienti dal SIL dimostrano le particolari cautele adottate dall'azienda nella valutazione e prevenzione del rischio da esposizione ad amianto e non l'inaffidabilità delle analisi compiute da quel servizio e tanto meno dimostrano che nello stabilimento fossero superati i valori soglia all'epoca accreditati come valori di riferimento a fini di tutela della salute dei lavoratori;
- che le criticità riscontrate nel finissaggio delle lastre e dei tubi furono risolte tra il 1979 e il 1980 installando nel reparto canne una sega circolare carenata sulla quale erano collocati aspiratori;
- che, come risulta dai documenti SIL e dia quelli del Servizio per la Tutela Ambiente e Salute interno allo stabilimento (TAS), nel periodo considerato, il finissaggio dei manufatti avveniva su materiale umido e non a secco;
- che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, anche la criticità rappresentata dall'apertura dei sacchi iri realtà era stata superata perché negli anni della gestione svizzera i sacchi di amianto contenevano parallelepipedi pressati e non polveri, erano in polipropilene, erano tagliati sotto cappa aspirante e inseriti in una macchina che li apriva, sicché l'intero ciclo avveniva al chiuso o comunque sotto cappa;
- che le prescrizioni impartite dall'Ispettorato del lavoro alla Eternit, cui si fa riferimento nella sentenza impugnata (pag. 37 della motivazione), riguardavano lo stabilimento di C. e non quello di C. sicché non possono avere rilievo nel presente procedimento.
I difensori sottolineano che molti dei dati ora esposti sono stati accertati con la sentenza definitiva pronunciata dal Tribunale di Torino il 4 novembre 2015 nei confronti dei dirigenti dello stabilimento di C. accusati arche della morte di G.G., (allegato n. 60 al ricorso) ma di questa sentenza, che è stata acquisita agli atti del procedimento, né il Tribunale né la Corte eli appello hanno tenuto conto.
Tanto premesso, la difesa osserva che la sentenza impugnata ha attribuito rilievo a deposizioni testimoniali dalle quali risulta la polverosità dell'ambiente di lavoro nel quale G.G. operò durante tutta la sua vita lavorativa, e tali argomentazioni sono manifestamente illogiche. L'accertata polverosità di un reparto nel quale si lavorava amianto, infatti, non è da sè sola significativa di una esposizione all'inalazione dì fibre nocive: in primo luogo, perché, come riferito nella consulenza Nesi-D.D.D., "sono definite fibre respirabili le particelle con lunghezza superiore a 5 micron e aventi un rapporto lunghezza/diametro almeno 3 a 1. Non v'è limite superiore per la lunghezza, ma il diametro non deve superare 3 micron"; in secondo luogo, e soprattutto, perché l'esposizione professionale ad un agente patogeno è definita come "la concentrazione di un determinato agente, potenzialmente dannoso per la salute, misurata nella zona respiratoria del lavoratore con campionamenti di tipo personale ed espressa con media ponderata in funzione del tempo su un periodo di riferimento di otto ore". In questa prospettiva - sostiene la difesa - è manifestamente illogica qualsiasi argomentazione che faccia generico riferimento alla polverosità di un ambiente definendola come "significativa" o "massiccia" ed è manifestamente illogica ogni affermazione che parli di riduzione della polverosità senza fare riferimento a dati quantitativi. Ciò a maggior ragione se si considera che - come concordemente riferito dai consulenti tecnici della accusa e della difesa - vi è un livello, pari a 25 fibre per centimetro cubo (ff/cc), al di sotto del quale l'esposizione ad amianto non è in grado di determinare effetti di tipo fibrotico.
In altri termini, secondo la difesa del ricorrente, è manifestamente illogico aver ritenuto causalmente rilevante nel decesso di G.G., avvenuto per asbestosi il 7 dicembre 2008, esposizioni a polveri di amianto verificatesi tra il 1976 e il 1982 senza ancorarle a un dato quantitativo e ritenendo che la responsabilità penale avrebbe potuto essere esclusa solo se, in quel periodo, le esposizioni alle fibre di amianto fossero state assenti o ridotte a "valori tali da poterle ritenere innocue per i lavoratori" (pag. 55 della sentenza impugnata).
4.10. Col decimo motivo, strettamente connesso al nono - e sviluppato nei motivi aggiunti del 18 aprile 2024 - la difesa deduce violazione di legge per essere stata affermata la responsabilità dell'imputato pur in presenza di un ragionevole dubbio riguardo alla situazione ambientale presente nello stabilimento di C. tra il 1976 e il 1982 e pur non essendo possibile affermare con certezza che le fibre di amianto presenti nell'ambiente di lavoro siano state, in quel periodo, superiori ai valori soglia individuati all'epoca dall'associazione degli igienisti americani e dai contratti collettivi di lavoro o a quelli, inferiori, cui faceva riferimento il SIL. A questo proposito, la difesa sottolinea che il ragionevole dubbio sull'efficacia causale delle esposizioni asseritamente subite da G.G. nel periodo in esame è stolta esclusa dal Tribunale di Torino con la già citata sentenza del 4 novembre 2015 secondo la quale (pag. 26) "Non si può essere ragionevolmente sicuri, dato il notevole abbattimento delle soglie di inquinamento ambientale dal '73 in poi, che il decorso della... vita (di G.G.) sarebbe stato diverso, ossia più lungo di quanto in concreto fu, se da quel momento si fosse allontanato dalla SACA, alla luce dell'enorme quantitativo di fibre già accumulato in venti anni di grave esposizione".
La difesa deduce analogo vizio di motivazione quanto alla ritenuta inadeguatezza degli investimenti compiuti per tutelare la salute dei lavoratori operanti nello stabilimento di C. La documentazione relativa, infatti, è andata dispersa per fatto non imputabile al ricorrente ed in specie - come illustrato nel motivo aggiunto del 18 aprile 2024 - perché l'intera documentazione contabile era conservata dai curatori fallimentari in locali che furono sommersi dall'acqua durante un'alluvione. La tesi secondo la quale le risorse finanziarie destinate dal gruppo svizzero alla tutela della salute dei lavoratori sarebbero state inadeguate si scontra dunque con l'indisponibilità delle fatture, delle specifiche tecniche e di quant'altro necessario alla ricostruzione di questo dato e tale circostanza non può certo riverberarsi in danno della difesa.
4.11. Con l'undicesimo motivo, la difesa deduce violazione di legge e vizi di motivazione quanto alla ritenta sussistenza del rapporto di causalità tra le omissioni ritenute esistenti e la morte di G.G.
Con questo motivo, che riguarda specificamente il tema della causalità individuale, la difesa sottolinea: che il periodo nel quale F.F. avrebbe rivestito la posizione di garanzia va dal 1976 al 1982 e l'esposizione asseritamente patita da G.G. in tale periodo si colloca a valle di una precedente esposizione durata ben ventuno anni (dal 1955 al 1976) sicché la Corte territoriale avrebbe dovuto spiegare perché, data per dimostrata la condotta doverosa omessa, essa avrebbe determinato un aggravamento della malattia tale da aver fornito un contributo causale determinante nella produzione dell'evento, senza il quale la morte non si sarebbe verificata o si sarebbe verificata in un tempo significativamente posteriore.
Secondo i difensori del ricorrente, la Corte di appello, pur avendo disposto una rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale proprio con riferimento all'incidenza causale dell'esposizione successiva al 1976, non ha fornito su questo punto una motivazione adeguata perché ha ritenuto che il dubbio sull'efficacia eziologica dell'esposizione patita nel periodo di interesse fosse stato superato senza spiegarne le ragioni atteso il persistente contrasto tra le posizioni dei consulenti dell'accusa e quelle dei consulenti della difesa. La Corte di appello ha attribuito rilevanza, ai fini della prova della causalità individuale, alla ritenuta persistente esposizione di G.G. ad amianto anche dopo il 1976 perché ha ritenuto che tutte le esposizioni, aggravando la patologia e indebolendo le condizioni generali del paziente, abbiano avuto rilievo nel determinare la morte. Nel giungere a tali conclusioni - sostiene la difesa - non ha tenuto conto di quanto esposto dal CT del PM dott.ssa Q.Q. la quale ha riferito: in primo luogo, che le fibre di amianto persistono nell'organismo ed è impossibile datarle, sicché non è dato sapere, se non a livello di probabilità, se ad aver determinato la malattia siano state le fibre assunte in un certo periodo o in un altro; in secondo luogo, che la malattia può aggravarsi spontaneamente, anche in assenza di esposizione. La difesa si duole, inoltre, che la Corte di appello abbia ignorato il dato (chiaramente esposto dal consulente della difesa e non contestato dalla dott.ssa Q.Q.) secondo il quale vi è una soglia minima di esposizione stimata in 25 ff/cc (fibre per centimetro cubo) al di sotto della quale non si osserva alcun effetto fibrotico e non abbia spiegato perché, nel periodo di interesse, tale valore soglia sarebbe stato superato.
In sintesi, la difesa sostiene che, nel passare dal piano della causalità generale a quello della causalità individuale, la sentenza impugnata ha reso una motivazione carente limitandosi, nella sostanza, a fare riferimento al fatto che l'asbestosi è patologia dose-dipendente. Sostiene, in particolare, che la Corte di appello non avrebbe spiegato perché l'esposizione ad amianto che si ipotizza essere avvenuta nel periodo in esame avrebbe determinato l'indebolimento delle condizioni generali del paziente e il suo precoce decadimento fisico incidendo così sulla gravità della patologia e sull'epoca del decesso.
4.12. Col dodicesimo motivo, la difesa si duole che F.F. sia stato ritenuto responsabile a titolo di colpa della morte di G.G., quale "effettivo responsabile" della gestione dello stabilimento di C., in assenza di prove documentali o testimoniali atte a dimostrare che egli era a conoscenza delle condizioni di asserita polverosità di quello stabilimento e delle modalità operative di gestione dello stesso. La difesa osserva che gli argomenti utilizzati dalla Corte di appello per sostenere la diretta riferibilità alla persona dell'imputato delle scelte di politica industriale relative alla concreta gestione del rischio amianto avrebbero dovuto essere rapportate allo stabilimento di C., e si duole che, su questo punto, la sentenza impugnata non abbia fornito motivazione adeguata. Più in generale, la difesa osserva che la Corte territoriale ha citato a sostegno della ritenuta sussistenza dell'atteggiamento colposo dell'imputato il c.d. manuale Bellodi destinato a individuare "una strategia difensiva da attuare in ambito processuale e mediatico, sostanzialmente funzionale a deresponsabilizzare il Gruppo svizzero" (pag. 80 della motivazione), ma la prima versione di tale documento risale al novembre 1992 sicché dallo stesso non possono trarsi argomenti in ordine all'atteggiamento psicologico dell'imputato all'epoca dei fatti.
La difesa sottolinea che, nell'individuare le criticità esistenti nello stabilimento di C., la sentenza impugnata fa spesso riferimento alla mancata pulizia o al malfunzionamento di apparecchi di aspirazione oppure al mancato rispetto di modalità operative conformi alle regole di sicurezza e non si vede come possa essere attribuita a F.F., in presenza di soggetti a ciò preposti direttamente operanti nello stabilimento, la mancata risoluzione di problemi dì pulizia o di manutenzione che nessuno risulta avergli segnalato. In definitiva, sostiene la difesa, F.F. è stato ritenuto responsabile del reato ascrittogli per non aver abbandonato "le lavorazioni pericolose a favore di altre modalità produttive o di altri materiali non altrettanto nocivi, seppure più costosi" (pag. 81). Non si è considerato, però, che, all'epoca dei fatti, nessuna norma imponeva l'abbandono dell'amianto essendo invece molte le norme dello Stato italiano che, in quegli anni, prevedevano l'uso di tale sostanza, la quale fu bandita in tutta l'Unione europea in epoca di molto successiva e, in Svizzera, non fu bandita "a far tempo di 1978" come suggestivamente sostenuto dalla Corte di appello (pag. 79 della sentenza impugnata) con una affermazione della quale non è riportata la fonte.
Nel dodicesimo motivo, la difesa affronta anche il tema della aggravante di cui all'art. 61 n. 3 cod. pen. che la Corte di appello ha ritenuto sussistente sostenendo che l'imputato era consapevole delle criticità correlate alla aerodispersione dell'amianto nell'ambiente di lavoro. Osserva in proposito che, per quanto riguarda il presente procedimento e, quindi, la morte di G.G., per ambiente di lavoro deve intendersi lo stabilimento di C. e non risulta che l'imputato si sia mai recato a visitarlo o abbia ricevuto segnalazioni dell'esistenza in quello stabilimento di situazioni allarmanti. Nel ricorso si ricorda inoltre che, come la sentenza riconosce, le analisi eseguite non solo dal SIL, ma da istituti terzi come l'ENPI e l'Istituto di Medicina del lavoro dell'Università di Pavia, documentavano una "massiccia diminuzione delle concentrazioni di fibre negli anni che riguardano l'imputato" (pag. 32) e questi dati erano idonei a tranquillizzare F.F. sull'adeguatezza delle misure adottate e sulla loro corretta attuazione.
4.13. Col tredicesimo motivo, la difesa lamenta omessa motivazione quanto alla ritenuta legittimazione e al riconoscimento della fondatezza della condanna risarcitoria pronunciata in favore delle seguenti parti civili: Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro - A.N.M.I.L,; Associazione Familiari Vittime Amianto - A.F.E.V.A.; Osservatorio Nazionale sull'Amianto O.N.A. ONLUS (attualmente Osservatorio Nazionale sull'Amianto ONA APS); Associazione Italiana Esposti Amianto - A.I.E.A.; Medicina Democratica -Movimento di Lotta per la Salute Onlus.
Osserva la difesa che la Corte territoriale non ha fornito risposta ai rilievi formulati nei motivi di appello, non avendo argomentato sull'esistenza, per ciascuno degli enti sopra indicati, delle condizioni che ne avrebbero legittimato la costituzione in giudizio e in particolare: sul fatto che l'ente sia stato costituito per la promozione e la tutela di un interesse unico ed esclusivo (o almeno largamente prevalente) coincidente col bene giuridico offeso dal reato; che la costituzione sia avvenuta in tempo precedente o al più concomitante con l'inizio delle condotte contestate; che l'ente abbia svolto un'attività concreta e continuativa (ma non una mera attività informativa e di denuncia) nel perseguimento del proprio scopo di tutela; che tale attività sia stata svolta nel territorio ove è stato commesso il fatto contestato; che l'ente disponga di una struttura amministrativa adeguata al perseguimento dell'interesse consacrato nello Statuto e abbia notorietà sul territorio.
4.14. Col quattordicesimo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione per non essere stata accolta la richiesta di esclusione di CGIL Piemonte, nonostante la contestuale costituzione di CGIL Nazionale, e per essere stata di conseguenza confermata la condanna al risarcimento dei danni pronunciata in favore di entrambe le organizzazioni sindacali con riconoscimento di una provvisionale.
Nel respingere questa richiesta la Corte di appello ha così motivato: "l'interesse comune a CGIL Nazionale e CGIL Piemonte della tutela dei lavoratori non è incompatibile con l'esistenza di uno specifico e distinto diritto dell'autonoma articolazione territoriale per la concreta attività da quest'ultima svolta a livello locale e la CGIL Piemonte ha rappresentato di avere svolto attività sindacale con il proprio personale" (pag. 22).
Secondo la difesa, tale motivazione sarebbe manifestamente illogica per aver ritenuto rilevante ai fini dell'ammissibilità della costituzione quanto "rappresentato" dalla CGIL Piemonte in assenza di qualsiasi riscontro documentale volto a dimostrare l'attività in concreto svolta iri relazione allo stabilimento di C. e la lesione subita in conseguenza dei reati contestati all'imputato.
4.15. Col quindicesimo motivo, i difensori ripropongono la questione di legittimità costituzionale dell'art. 74 cod. proc. pen. - in relazione agli artt. 3, 76, 101, 111 Cost. e agli artt. 117 Cost. e 6 CEDU - già sollevata e respinta nei precedenti gradi di giudizio. Sostengono che la costituzione di parte civile di associazioni ed enti esponenziali, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, determina:
- un indebito ampliamento dei confini normativi dell'istituto anche a soggetti i cui interessi non sono lesi in via diretta e immediata dal reato (in contrasto con l'art. 101 Cost.);
- la violazione dei criteri direttivi della legge delega per l'emanazione del codice di procedura penale (in contrasto con l'art. 76 Cost.), atteso che l'art. 2 legge 16 febbraio 1987 n. 81 - principio 39 - prevedeva fossero attribuiti agli enti esponenziali gli stessi poteri spettanti nel processo all'offeso dal reato non costituito parte civile;
- la violazione dei criteri direttivi della citata legge delega quanto al principio di semplificazione del processo penale e al suo razionale svolgimento (in contrasto con l'art. 76 Cost.);
- un indebito e irragionevole appesantimento del processo, incompatibile col principio della ragionevole durata (in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.);
- una lesione del principio di parità d'armi tra le parti per lo squilibrio che crea nel rapporto tra accusa e difesa, ponendo la seconda in situazione di sostanziale svantaggio rispetto alla prima, rappresentata da una molteplicità di soggetti processuali (art. 117 Cost. e art. 6 CEDIJ).
4.16. Col sedicesimo motivo, la difesa deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 539, comma 2, cod. proc, pen. per essere stata liquidata una provvisionale alla parte civile Regione Piemonte in assenza di richiesta della parte stessa.
5. Con memoria del 18 aprile 2024 la difesa dell'imputato ha chiesto che tutti i motivi articolati nel ricorso proposto da A.A., B.B., C.C., D.D. e E.E. siano dichiarati inammissibili o, in subordine, infondati. Di conseguenza ha chiesto il "rigetto di tutte le richieste risarcitone dagli stessi formulate".
La difesa degli eredi G.G. ha replicato con memoria del 29 aprile 2024 insistendo per l'accoglimento dei motivi.
6. All'odierna udienza, disposta la trattazione orale, le parti hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe.
Diritto
1. Per ragioni di logica espositiva devono essere esaminati per primi i motivi che hanno ad oggetto la costituzione delle parti.
Devono pertanto essere esaminati subito i motivi di ricorso proposti nell'interesse di A.A., B.B., C.C., D.D. e E.E., i quali si dolgono che la Corte di appello abbia accolto la richiesta di estromissione formulata dalla difesa dell'imputato eliminando le statuizioni civili pronunciate in loro favore dalla sentenza di primo grado.
2. La sentenza impugnata ha ritenuto che gli eredi di G.G. non potessero stare in giudizio perché - essendosi costituiti parti civili in un procedimento nel quale I.I., J.J. e K.K. erano imputati del reato di cui all'art. 589, commi 2 e 3 cod. pen., in danno, tra gli altri, del loro congiunto - scelsero di accettare una proposta Formulata dalla "Becon AG" (citata come responsabile civile in quel giudizio) che aveva offerto loro una somma a titolo di risarcimento del danno e rimborso delle spese legali in cambio della rinuncia "con riferimento ai fatti cui sì riferiscono le imputazioni e anche con riferimento ad eventuali futuri procedimenti, quale che sia l'imputazione, ad ogni diritto e/o azione", non solo nei confronti di I.I., J.J. e K.K. (imputati in quel procedimento), ma anche "nei confronti di Eternit Spa, Industria Eternit Casale Monferrato Spa e di tutte le società che facciano o abbiano fatto parte del Gruppo Eternit Svizzero, includendo, ma non limitandosi a Becon AG, Anova Holding AG, Amindus Holding AG, Ametex AG, nonché nei confronti di tutte le società che siano o siano state direttamente o indirettamente controllate da queste società predette e nei confronti dei rispettivi amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto" (così testualmente recita l'art. 4 della scrittura privata, che reca la data del 15 aprile 2014 e fu sottoscritta per accettazione dagli odierni ricorrenti).
La richiesta di estromissione, accolta dalla Corte di appello, era stata formulata già in primo grado e il Tribunale l'aveva respinta osservando che, la rinuncia ad ogni "diritto e/o azione" - pur riferita anche a procedimenti futuri aperti nei confronti di amministratori e dirigenti di diritto o di fatto delle società facenti parte del gruppo Eternit svizzero - riguardava soltanto "i fatti cui si riferiscono le imputazioni", quindi solo i fatti dei quali le persone imputate in quel procedimento erano state chiamate a rispondere o i fatti dei quali eventuali altri dirigenti o amministratori avrebbero potuta essere chiamati a rispondere a titolo di concorso con loro, ma non ì fatti ascritti nel presente procedimento a F.F., atteso che egli non è stato chiamato a rispondere della condotta colposa dei dirigenti dello stabilimento di C., "ma di condotte proprie, pur concorrenti a determinare lo stesso evento morte".
La Corte di appello non ha condiviso tale impostazione e ha sottolineato:
- che, come risulta dalla premessa della proposta transattiva (lett. g), lo scopo della stessa era "evitare un contenzioso complesso, di lunga durata e dall'esito incerto" e la proposta fu formulata non soltanto nell'interesse di coloro che erano imputati nel procedimento, ma anche nell'interesse "degli altri soggetti indicati nell'art. 4";
- che, ai sensi dell'art. 2 della transazione, accettando la proposta transattiva, gli eredi di G.G. rinunciarono espressamente "a qualsiasi pretesa risarcitoria e/o di qualunque altra natura nei confronti" di R.R., di J.J., di S.S. e della Becon AG "nonché degli altri soggetti indicati nell'art. 4" e rinunciarono anche "alla costituzione di parte civile nel procedimento penale e in qualsiasi altro procedimento nei confronti dei soggetti di cui all'art. 4", impegnandosi a revocare la costituzione già avvenuta "entro la prima udienza successiva alla sottoscrizione";
- che, ai sensi dell'art. 4, "con l'accettazione della... proposta transattiva", gli eredi di G.G. rinunciarono "ad ogni diritto e/o azione" nei confronti delle persone fisiche e giuridiche sopra indicate "con riferimento ai fatti cui si riferiscono le imputazioni e anche con riferimento ad eventuali futuri procedimenti, quale che sia l'imputazione".
Secondo la Corte territoriale, il riferimento a procedimenti futuri, ad eventuali diverse imputazioni, agli amministratori e dirigenti di diritto e di fatto di qualsiasi società "direttamente o indirettamente controllata" da società che "facciano o abbiano fatto parte del Gruppo Eternit Svizzero", rende evidente che i "fatti cui si riferiscono le imputazioni" sono rappresentati dalla malattia e dal decesso di G.G. quale conseguenza dell'attività lavorativa svolta presso lo stabilimento di C.
La motivazione è congrua, scevra da profili di contraddittorietà o manifesta illogicità. Ed invero, se nella nozione di "fatti cui si riferiscono le imputazioni" dovessero essere comprese solo le condotte ascritte a coloro che erano imputati nel procedimento nel quale l'atto di transazione fu sottoscritto, il riferimento a imputazioni diverse e ad amministratori e dirigenti di diritto o di fatto di altre società facenti parte del Gruppo Eternit Svizzero sarebbe del tutto privo di significato. Trova dunque applicazione l'art. 1367 cod. civ. in base al quale, in caso di dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno. La sentenza impugnata, peraltro, esclude che il contratto abbia contenuto ambiguo. Osserva, infatti, che dal contenuto della scrittura privata emerge chiara la volontà delle parti di giungere ad un accordo transattivo e che - come specificato nell'art. 2.2 - accettando il pagamento delle somme che la Becon AG offrì loro, gli eredi di G.G. rinunciarono "a qualsiasi pretesa risarcitoria" non soltanto nei confronti della stessa Becon AG e di R.R., J.J., S.S., ma anche nei confronti dei soggetti indicati nel successivo art. 4.
2.1. La difesa dei ricorrenti non si confronta con queste argomentazioni e si limita a ribadire che la scrittura privata del 15 aprile 2014 fu sottoscritta nell'ambito di un diverso procedimento, che vedeva accusati della morte di G.G. tre dirigenti dello stabilimento di C., cui erano ascritte azioni od omissioni diverse rispetto a quelle ascritte a F.F.
A questa considerazione se ne aggiungono altre che, tuttavia, non contrastano efficacemente la motivazione della sentenza impugnata.
Si sostiene che la "proposta transattiva" accettata dagli eredi di G.G. non può riferirsi a F.F.: in primo luogo, perché egli non intervenne a sottoscrivere questa proposta personalmente o tramite un procuratore speciale; in secondo luogo, perché l'art. 4 fa generico riferimento ad "amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto" e il nome di F.F. non è mai menzionato, come non lo è nessuno dei nomi degli amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto, sicché il riferimento a tali soggetti altro non è che una "clausola di stile" priva di significato; infine, perché alla data del 15 aprile 2014, non era in corso tra gli eredi G.G. e l'odierno imputato alcuna controversia che potesse essere chiusa con una transazione.
Così argomentando la difesa dei ricorrenti non spiega quale significato dovrebbe essere dato all'art. 4 della scrittura privata, nel quale è inequivoco il riferimento ad "eventuali futuri procedimenti" anche riguardanti imputazioni diverse (testualmente: "quale che sia l'imputazione") e persone fisiche diverse (testualmente: "amministratori e/o dirigenti di diritto e di fatto" delle società "che facciano o abbiano fatto parte del Gruppo Eternit Svizzera" e di "tutte le società che siano state direttamente o indirettamente controllate" dalle società predette). Trascura, inoltre, che - come la sentenza impugnata ha ricordato (pag. 24) - quando la transazione è stata conclusa era già stato iscritto nel registro di notizie di reato il proc. n. 14263/2013 a carico di F.F. e l'azione penale esercitata in quel procedimento ha dato luogo al rinvio a giudizio col quale è iniziato il processo di merito concluso dalla sentenza oggi impugnata. In quel procedimento - osserva la Corte territoriale - G.G. era indicato come persona offesa, sicché non può dirsi che tra gli eredi di G.G. e F.F. non vi fossero controversie pendenti suscettibili di essere concluse con una transazione. Ed invero, ai sensi dell'art. 1965 cod. civ., "la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro" e, con le reciproche concessioni "si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti". L'art. 4 della scrittura privata, inoltre, è espressamente richiamato nelle premesse dell'atto (lett. g) e nell'art. 2, sicché non si comprende come sia possibile sostenere che la statuizione volta ad estendere a terzi gli effetti dell'accordo fosse una mera "clausola di stile".
Tra le concessioni richieste agli eredi di G.G. nella proposta di transazione, infatti, v'era anche quella di rinunciare alla azione nei confronti dì terzi estranei all'accordo transattivo e, accettando la proposta, gli odierni ricorrenti aderirono a questa richiesta. Una richiesta che, nella prospettiva della "Becon AG", non era affatto marginale perché, già nella premessa dell'atto, la società aveva dichiarato di agire, oltre che nel proprio interesse e nell'interesse di R.R., J.J. e S.S., anche nell'interesse "dei soggetti indicati nell'art. 4".
2.2. La difesa dei ricorrenti osserva che, con la scrittura privata di cui si tratta, la "Becon AG" ha corrisposto ai cinque eredi di G.G. un importo complessivo di 105.000 Euro nel quale sono comprese anche le spese legali. Ne desume che v'è una palese sproporzione tra le reciproche concessioni che dovrebbero caratterizzare un atto transattivo. Alla rinuncia ad agire nei confronti di ogni eventuale responsabile della morte di G.G. corrisponde, infatti, il versamento di una somma ben lontana dall'entità del danno patito dai suoi figli in proprio e nella qualità di eredi. Sviluppando queste argomentazioni, e sottolineando l'esistenza di una sproporzione tra le reciproche concessioni intervenute tra le parti, la difesa dei ricorrenti sembra voler sostenere: da un lato, che una interpretazione del contratto secondo buona fede non potrebbe portare alle conclusioni cui è giunta la Corte di appello; dall'altro, che il consenso manifestato dagli eredi di G.G. alla stipula dell'accordo transattivo potrebbe essere viziato (forse per un errore essenziale o perché carpito con dolo).
Il richiamo alla regola interpretativa prevista dall'art. 1366 cod. civ., tuttavia, è generico e non tiene conto del tenore letterale dell'atto, cui la sentenza impugnata, invece, fa esplicito riferimento. I ricorrenti si limitano dunque a sostenere l'esistenza di un dubbio interpretativo senza confrontarsi con le argomentazioni sviluppate dalla Corte di appello per escluderlo e deducono, anche sotto forma di inosservanza o erronea applicazione di legge, un vizio di motivazione che non può ritenersi esistente. A ciò deve aggiungersi - ma è appena il caso di rilevarlo - che al giudice penale si può chiedere dì interpretare il contenuto di un contratto dal quale derivino conseguenze sulla legittimazione all'azione civile, ma non certo di valutare se un contratto utilizzato nel processo penale sia annullabile o suscettibile di risoluzione.
2.3. Per quanto esposto, i motivi con i quali C.C., D.D., B.B., E.E. e A.A., dolendosi della estromissione, hanno chiesto l'annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la condanna di F.F. al risarcimento dei danni in loro favore non superano il vaglio di ammissibilità.
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che i ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di loro, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere di versare la somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
3. Passando all'esame dei motivi di ricorso proposti nell'interesse di F.F., ragioni di logica espositiva, connesse alla necessità di individuare preliminarmente le parti legittimate a stare in giudizio, consigliano di esaminare per primi i motivi tredici, quattordici e quindici.
Con questi motivi, infatti, non è stata contestata solo la condanna di F.F. al risarcimento dei danni nei confronti di alcune associazioni costituite parti civili in giudizio (questione il cui esame non può certo precedere la trattazione dei motivi aventi ad oggetto l'affermazione della responsabilità penale), ma è stata contestata la legittimazione stessa di quegli enti alla costituzione.
Col tredicesimo motivo, la difesa dell'imputato ha sostenuto che i giudici di merito non avrebbero spiegato perché sono state ritenute legittimate alla costituzione alcune associazioni. In specie: l'Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro -A.N.M.I.L.; l'Associazione Familiari Vittime Amianto - A.F.E.V.A.; l'Osservatorio Nazionale sull'Amianto O.N.A. Onlus (attualmente Osservatorio Nazionale sull'Amianto ONA APS); l'Associazione Italiana Esposti Amianto - A.I.E.A.; l'associazione Medicina Democratica -Movimento di Lotta per la Salute Onlus. Col quattordicesimo motivo, la difesa si è lamentata del fatto che i giudici di merito abbiano ritenuto legittimata a stare in giudizio la CGIL Nazionale e la GGIL Piemonte ancorché la CGIL Piemonte avesse solo rappresentato, ma non documentato, di aver svolto con proprio personale concreta attività sindacale nello stabilimento di C. Col quindicesimo motivo, la difesa ha contestato in radice l'interpretazione dell'art. 74 cod. proc. pen. che è stata data dalla giurisprudenza di legittimità e ha sostenuto che, così interpretata, la disposizione in parola sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 76, 101, 111 e anche con l'art. 117 Cost. in relazione all'art.6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
4. La questione di legittimità costituzionale prospettata dai difensori dell'imputato - che ha priorità logica rispetto alle questioni aventi ad oggetto la costituzione delle associazioni sopra indicate - è manifestamente infondata.
La giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che la costituzione di parte civile di un'associazione, anche non riconosciuta, sia ammissibile quando la stessa avanza una pretesa risarcitoria "/'i/re proprio", assumendo dì aver subito per effetto del reato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, consistente nell'offesa all'interesse perseguito dal sodalizio e posto nello statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione, con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità dell'ente (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261110; Sez. 4, n. 27162 del 27/04/2015, Perassi, Rv. 263825; in precedenza: Sez. 4, n. 22558 del 18/01/2010, Ferraro, Rv. 247814). Si ritiene, pertanto, che, in presenza di tali condizioni, la costituzione di parte civile possa essere ammessa, fermo restando che il riconoscimento del diritto al risarcimento è subordinato alla dimostrazione da parte dell'ente, secondo le ordinarie regole civilistiche, della concreta sussistenza di un danno e della sua derivazione dall'illecito contestato: accertamento che riguarda il merito della causa e non la legittimazione alla costituzione (Sez. 2, n. 10215 del 10/12/2018, dep. 2019, Gianlombardo, Rv. 276500; Sez. 4, n. 14768 del 18/02/2016, Spalletti, Rv. 266899; Sez. 2, n. 49038 del 21/10/2014, Colonna, Rv. 261143).
Secondo i difensori dell'imputato, questa Interpretazione dovrebbe essere fatta oggetto di una questione di legittimità costituzionale. Può esserlo, infatti, il "diritto vivente", "ravvisabile negli esiti interpretativi accettati dalla giurisprudenza comune (Corte cost. 24 luglio 2007, n. 321)" e, nel caso di specie, tali esiti interpretativi sarebbero in contrasto con più di un principio costituzionale. Sarebbe stato realizzato, infatti, un indebito ampliamento dei confini normativi dell'istituto anche a soggetti i cui interessi non sono lesi in via diretta e immediata dal reato (in contrasto con l'art. 101 Cost. secondo il quale il giudice è soggetto soltanto alla legge); sarebbero stati violati i criteri direttivi della legge delega per l'emanazione del codice di procedura penale (art. 2 legge 16 febbraio 1987 n. 81 - principio 39), che prevedeva fossero attribuiti agli enti esponenziali gli stessi poteri spettanti nel processo all'offeso dal reato non costituito parte civile e indicava, quale principi direttivo, la semplificazione del processo penale e il suo razionale svolgimento (in contrasto con l'art. 76 Cost.). L'interpretazione seguita, inoltre, comporterebbe un indebito e irragionevole appesantimento del processo, incompatibile col principio della ragionevole durata (in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.), e sarebbe lesivo del principio di parità di armi tra le parti per lo squilibrio che crea nel rapporto tra accusa e difesa, ponendo la seconda in situazione di sostanziale svantaggio rispetto alla prima, rappresentata da una molteplicità di soggetti processuali (art. 117 Cost. e art. 6 CEDU).
4.1. L'ipotizzato contrasto tra l'illustrata interpretazione dell'art. 74 cod. proc. pen. e i principi della legge delega per l'emanazione del codice di procedura penale non può ritenersi sussistente. Ammettendo che possano costituirsi come parti civili in giudizio enti e associazioni che assumono di aver ricevuto un danno da reato per aver fatto di un determinato interesse, leso da quel reato, l'oggetto principale della propria esistenza, la giurisprudenza non ha inciso in alcun modo sul contenuto dell'art. 91 cod. proc. pen. che consente ad enti e associazioni senza scopo di lucro, cui, prima della commissione di un reato, la legge abbia riconosciuto finalità di tutela degli interessi lesi da quel reato, di esercitare "in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa". L'orientamento giurisprudenziale in esame, infatti, si limita ad affermare che gli artt. 91 e ss. cod. proc. pen. non esauriscono la possibilità di tutela che l'ordinamento riconosce agli enti esponenziali. E dunque consentito a un singolo ente esponenziale, che abbia ottenuto il consenso della persona offesa, di intervenire in giudizio per esercitare i diritti e le facoltà attribuiti ad essa, ma restano fermi i principi generali relativi all'esercizio nel processo penale dell'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno sicché enti e associazioni possono costituirsi quali parti civili in giudizio se possono vantare "Pure proprio" un danno da reato perché, avendo concretamente operato, nel contesto cui si riferiscono i fatti oggetto di imputazione a tutela degli interessi lesi da quel reato, hanno visto i propri obiettivi statutari frustrati dal verificarsi dell'evento lesivo.
Ponendosi in questa prospettiva, non si comprende perché la possibilità di costituirsi parte civile, riconosciuta - a determinate condizioni - ad enti e associazioni che abbiano quale scopo statutario la tutela di interessi lesi dal reato per cui si procede, sarebbe lesiva dei principi della legge 16 febbraio 1987 n. 81 ("Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale").
Nell'indicare i principi cui il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi, l'art. 2, comma 1, di questa legge stabiliva: al n. 20), che fosse previsto "l'esercizio, nel processo penale, dell'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno cagionato dal reato"; al n. 39), che fossero attribuiti "agli enti e alle associazioni cui sono riconosciute finalità di tutela degli interessi lesi", gli stessi poteri "spettanti nel processo all'offeso dal reato non costituito parte civile" e fossero previste "particolari forme di intervento di tali enti ed associazioni nel giudizio", ferma restando la "necessità del costante consenso della persona offesa all'esercizio dei suddetti poteri", consenso che non poteva essere "prestato a più di uno degli enti o associazioni di cui sopra". Questi principi hanno trovato attuazione rispettivamente negli artt. 78 e ss. e negli artt. 91 e ss. cod. proc. pen. e dal contenuto della legge delega non può trarsi un criterio direttivo generale volto a limitare la possibilità di enti e associazioni di far valere in giudizio danni da reato patiti "iure proprio". Per converso, la possibilità riconosciuta ad enti e associazioni di far valere tali danni, non incide sull'operatività degli artt. 91 e ss. del codice di rito e non ne altera il significato. A questo proposito è utile sottolineare che, secondo i principi della legge delega, l'intervento in giudizio degli enti e delle associazioni rappresentative doveva essere consentito per l'esercizio delle facoltà e dei poteri "spettanti nel processo all'offeso dal reato non costituito parte civile"; il legislatore delegante, pertanto, intendeva fare riferimento all'offesa a prescindere dall'esistenza di un danno risarcibile.
4.2. Per quanto riguarda la dedotta violazione dell'art. 101 Cost. basta osservare che, nell'argomentare sul punto, i difensori del ricorrente sembrano considerare l'art. 91 cod. proc. pen. come un limite all'operatività delle disposizioni in materia di costituzione di parte civile e, in certo modo, come una norma di interpretazione autentica di queste disposizioni (il ricorso contiene a pag. 216 una esplicita indicazione in tal senso).
Tale ricostruzione è smentita dall'esame della normativa in materia. Dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale, infatti, numerose leggi speciali hanno riconosciuto ad enti collettivi specificamente individuati non la mera possibilità di intervenire in giudizio ai sensi degli artt. 91 e ss., ma la possibilità di costituirsi parti civili in giudizio senza necessità della autorizzazione della persona offesa e, in alcuni casi, anche senza necessità che, nel costituirsi, l'ente faccia valere danni da reato patiti "iure proprio".
A mero titolo esemplificativo:
- la legge 5 febbraio 1992 n. 104, per l'assistenza e l'integrazione sociale dei diritti delle persone handicappate, prevede (all'art. 36, comma 2) che, quando i reati di cui all'articolo 527 del codice penale, i delitti non colposi di cui ai titoli XII e XIII del libro II del codice penale, nonché i reati di cui alla legge 20 febbraio 1958, n. 75, siano commessi in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale, sia possibile "la costituzione di parte civile del difensore civico, nonché dell'associazione alla quale risulti iscritta la persona handicappata o un suo familiare";
- la legge 7 marzo 1996 n. 108, in tema di usura (artt. 10 e 15), prevede che possano costituirsi parte civile nei giudizi per reati di usura le fondazioni e le associazioni riconosciute per la prevenzione di tale fenomeno, iscritte in un apposito elenco predisposto dal Ministro dell'economia;
- il D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 prevede, all'art. 187 undecies, comma 2, che nei procedimenti per i reati previsti dagli articoli 184 e 185 (rispettivamente: "Abuso o comunicazione illecita di informazioni privilegiate. Raccomandazione o induzione di altri alla commissione di abuso di informazioni privilegiate" e "Manipolazione del mercato"), la Consob possa "costituirsi parte civile e richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all'integrità del mercato, una somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque conto dell'offensività del fatto, delle qualità personali del colpevole e dell'entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato";
- l'art. 2, comma 3, legge 29 dicembre 1993 n. 580, stabilisce che le camere di commercio possano "costituirsi parte civile nei giudizi relativi ai delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio".
In sintesi: a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la volontà del legislatore non è affatto univoca nel voler restringere la possibilità di costituzione di parte civile alle sole persone fisiche che abbiano subito un danno da reato ed è anzi ben chiara a livello normativo la distinzione tra persona danneggiata (legittimata a costituirsi parte civile) e persona offesa (legittimata a esercitare le facoltà espressamente previste dal titolo VI, libro primo, parte prima del codice di rito).
4.3. Non ha maggior pregio la dedotta violazione dell'art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU. Non si comprende, infatti, in che modo il principio della parità d'armi tra le parti potrebbe essere condizionato dal numero delle parti presenti, destinato a variare quando un medesimo fatto abbia arrecato danno a una pluralità di soggetti, come varia quando uno stesso fatto di reato è ascrivibile a una pluralità di imputati.
Si deve osservare, infine, che la presenza in giudizio di una pluralità di parti determina inevitabilmente un appesantimento del giudizio e una maggior durata dello stesso, ma questo non comporta una lesione dell'art. 111, comma 2, Cost. e dell'art. 6, par. 1, CEDU in base ai quali la durata del processo deve essere "ragionevole", valutazione che non può dunque prescindere dalla complessità delle vicende oggetto del giudizio e neppure dal numero dei soggetti che ne sono coinvolti.
5. La manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata col quindicesimo motivo consente di procedere all'esame dei motivi tredicesimo e quattordicesimo, con i quali la difesa si duole che i giudici di primo e secondo grado abbiano respinto la richiesta di estromissione delle seguenti associazioni: Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro -A.N.M.I.L.; Associazione Familiari Vittime Amianto - A.F.E.V.A.; Osservatorio Nazionale sull'Amianto O.N.A. ONLUS (attualmente Osservatorio Nazionale sull'Amianto ONA APS); Associazione Italiana Esposti Amianto - A.I.E.A.; Medicina Democratica - Movimento di Lotta per la Salute Onlus; CGIL Piemonte.
5.1. La costituzione in giudizio delle associazioni A.N.M.I.L., A.F.E.V.A., O.N.A. Onlus (attualmente ONA APS); A.I.E.A. e Medicina Democratica è stata ammessa (e la richiesta di estromissione avanzata dalla difesa dell'imputato è stata respinta) osservando che queste associazioni sono da tempo impegnate, sulla base di precise disposizioni statutarie, in attività di tutela nei confronti delle vittime di amianto o in attività di tutela della salute dei lavoratori nell'ambiente di lavoro e hanno documentato di aver concretamente svolto tale attività. La sentenza impugnata sottolinea in proposito (pag. 21), che per ciascuno di questi soggetti "sono stati prodotti lo Statuto ed ampia documentazione volta a dimostrare la concreta attività svolta - a livello nazionale, ma anche in Piemonte - al fine di perseguire lo scopo statutario".
La difesa sostiene che tale motivazione sarebbe carente perché negli atti di costituzione non sarebbe stata documentata una concreta attività storicamente e geograficamente connotata, con la quale le associazioni indicate abbiano attuato i "propri obiettivi di tutela della salute, in connessione alla lavorazione dell'amianto". Si sostiene, dunque, che la documentazione prodotta ai fini del riconoscimento della legittimazione all'esercizio della azione civile nel processo penale sarebbe insufficiente perché i documenti allegati agli atti di costituzione di parte civile sarebbero inidonei a provare un'azione continuativa e un efficace contributo al raggiungimento degli scopi statutari. La difesa non contesta il contenuto delle disposizioni statutarie e neppure l'astratta possibilità che tali finalità statutarie abbiano subito pregiudizio a causa dei fatti per cui si procede. Sostiene, però, che le associazioni indicate non avrebbero documentato adeguatamente la concreta attività svolta per attuare tale obiettivo statutario e il proprio radicamento nel territorio interessato ai fatti di causa.
Si deve allora prendere atto: che, con ordinanza del 15 Febbraio 2018, il giudice di primo grado ha dettagliatamente argomentato sul contenuto della documentazione prodotta ai fini della costituzione di parte civile e sulle ragioni per le quali ciascuna delle associazioni delle quali è stata chiesta l'estromissione risultava aver svolto efficacemente e da tempo, su tutto il territorio nazionale, attività volte alla realizzazione degli scopi statutari; che i giudici di appello hanno ripreso il contenuto di quella ordinanza facendo rinvio ad essa; che nel ricorso ci si limita a sostenere la non condivisibilità di tali conclusioni, ma non si spiega perché i documenti cui l'ordinanza del 15 febbraio 2018 fa riferimento sarebbero insufficienti nel senso indicato.
Nei motivi di appello, cui il ricorso fa rinvio, la difesa dell'imputato aveva sostenuto che, nei casi in esame, l'attività concreta e continuativa nel perseguimento degli scopi di tutela delle associazioni indicate era stata svolta solo in ambito nazionale e non anche nel territorio ove fu commesso il reato. In alcuni casi, poi, era stata contestata l'idoneità della documentazione prodotta a dimostrare un'attività sociale anteriore ai fatti di causa. Su questi temi, tuttavia, il giudice di primo grado ha fornito una motivazione puntuale, non illogica e non contraddittoria che la Corte di appello ha richiamato.
Il Tribunale ha specificato, per ciascuno degli enti in relazione ai quali il dato poteva avere rilevanza, la data di costituzione (1943 per A.N.M.I.L.; 1998 per A.F.E.V.A.; agosto 2008 per O.N.A. ONLUS; 2006 per l'Associazione Esposti Amianto - A.E.A.- poi confluita nella A.I.E.A.). Ha precisato poi che questi enti hanno operato a livello nazionale e nel territorio della regione Piemonte ove aveva sede lo stabilimento ex SACA di C. (gestito prima dalla Eternit Spa e poi dalla Industria Eternit Casale Monferrato Spa che gestivano anche lo stabilimento per la lavorazione dell'amianto sito a C.): una regione nella quale le problematiche relative all'utilizzazione dell'amianto hanno avuto particolare risonanza. I giudici di merito hanno desunto dagli statuti e dalla documentazione allegata agli atti di costituzione di parte civile che le associazioni in parola avessero fatto dell'interesse collettivo alla tutela della salubrità dei luoghi di lavoro e della salute delle persone esposte ad amianto "l'oggetto principale della propria esistenza" e hanno sostenuto che quell'interesse, diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio, ha assunto una consistenza di diritto soggettivo. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, però, i giudici di merito non si sono limitati a richiamare le disposizioni statutarie; hanno anche spiegato - facendo riferimento ad elementi di fatto non sindacabili in questa sede - che queste associazioni hanno documentato di aver svolto un ruolo nel contesto cui si riferiscono i fatti oggetto del procedimento dimostrando così una concreta capacità di rappresentare gli interessi per la cui tutela hanno esercitato l'azione civile nel processo penale. I giudici di merito hanno ritenuto che un tale requisito potesse essere soddisfatto dall'aver operato nel territorio della regione Piemonte senza che fosse necessario un preciso riferimento allo stabilimento di C. e tale motivazione non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità.
Ed invero, un ente che abbia come scopo statutario la tutela di un interesse collettivo, può sostenere di aver subito un danno iure proprio solo in quanto l'interesse diffuso perseguito si traduca nella salvaguardia di situazioni storicamente circostanziate, manifestatesi in un contesto determinato, ma, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, per soddisfare questo requisito, non è richiesto il "radicamento dell'associazione nello specifico contesto operativo in cui la lesione sia maturata, pena uria inammissibile neutralizzazione delle istanze di tutela, attesa l'impossibilità che enti esponenziali di un interesse collettivo o diffuso possano avere una capillare articolazione in qualunque realtà ove possano determinarsi situazioni di danno all'interesse rappresentato" (così testualmente, pag. 6 della motivazione, Sez. 3, n. 4562 del 05/10/2018, Caccialanza non massimata). In questa prospettiva si è osservato che "le persone giuridiche e gli enti di fatto sono legittimati a costituirsi parte civile non soltanto quando il danno riguardi un bene su cui gli stessi vantino un diritto patrimoniale, ma più in generale quando il danno coincida con la lesione di un diritto soggettivo, come avviene nel caso in cui offeso sia l'interesse perseguito da un'associazione in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, con l'effetto che ogni attentato a tale interesse si configura come lesione della personalità o identità del sodalizio" (Sez. 3, n. 38290 del 3/10/2007, Abdoulaye, Rv. 238103, riguardante la Federazione Pirateria Audiovisiva; nello stesso senso, con riferimento ad associazioni antiracket, Sez. 1, n. 29700 del 17/5/2011, Licari, Rv. 250536, e, in motivazione, Sez. 6, n. 38921 del 01/06/2017, Helg, Rv. 271107). Il radicamento territoriale dell'attività dell'associazione, dunque, è necessario, ma non deve essere inteso con rigido riferimento al luogo esatto nel quale i fatti oggetto di imputazione si sono verificati.
5.2. Col quattordicesimo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione per non essere stata accolta la richiesta di esclusione di CGIL Piemonte stante la contestuale costituzione di CGIL Nazionale.
Nel respingere questa richiesta la Corte di appello ha così motivato: "l'interesse comune a CGIL Nazionale e CGIL Piemonte della tutela dei lavoratori non è incompatibile con l'esistenza di uno specifico e distinto diritto dell'autonoma articolazione territoriale per la concreta attività da quest'ultima svolta a livello locale e la CGIL Piemonte ha rappresentato di avere svolto attività sindacale con il proprio personale" (pag. 22). Secondo la difesa, tale motivazione sarebbe manifestamente illogica per aver ritenuto rilevante ai fini dell'ammissibilità della costituzione quanto "rappresentato" dalla CGIL Piemonte in assenza di qualsiasi riscontro documentale volto a dimostrare l'attività in concreto svolta in relazione allo stabilimento di C..
A questo proposito si deve osservare che il radicamento della CGIL Piemonte nel territorio della regione non è contestato dalla difesa e che - come già chiarito - ciò è sufficiente a far ritenere che vi sia uno stretto collegamento tra il pregiudizio alle finalità statutarie che la parte civile costituita assume di aver patito e la concreta situazione storica cui i fatti oggetto del processo si riferiscono. La difesa non contesta, peraltro, che la CGIL Piemonte abbia svolto attività sindacale negli stabilimenti Eternit della regione. Si deve ricordare allora che, nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commessi con violazione della normativa antinfortunistica la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali "è ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato", purché "l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita dì credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali" (Sez. 4, n. 27162 del 27/04/2015, Perassi, Rv. 263825; Sez. 4, n. 46154 del 24/11/2021, Totire, Rv. 282412).
La CGIL Piemonte ha addotto a fondamento della propria legittimazione la compromissione di un proprio specifico interesse e di una propria finalità statutaria differenti rispetto a quelli addotti dalla CGIL Nazionale e, sotto il profilo dell'ammissibilità della costituzione, ciò è sufficiente, fatta salva la necessità di verificare in giudizio se un tale specifico interesse e una tale diversa finalità statutaria siano effettivamente esistenti e sia possibile quindi ritenere un danno sia per l'articolazione nazionale che per l'articolazione territoriale del medesimo ente (sull'argomento: Sez. 6, n. 38921 del 01/06/2017, Helg, Rv. 271107). Quest'ultimo tema, tuttavia, non deve essere trattato in questa sede nella quale si procede all'esame delle sole questioni relative alla costituzione delle parti e non anche di quelle relative alle statuizioni civili della sentenza impugnata.
6. Tirando le fila di quanto sin qui argomentato si deve concludere che la sentenza impugnata non merita censura per aver disposto l'estromissione delle parti civili C.C., D.D., B.B., E.E. e A.A. (eredi di G.G.), ma neppure per non aver estromesso dal processo le parti civili A.N.M.I.L., A.F.E.V.A., O.N.A. ONLUS (attualmente ONA APS), A.I.E.A., Medicina Democratica - Movimento di Lotta per la Salute Onlus e CGIL Piemonte.
7. Procedendo nell'esame dei motivi di ricorso proposti nell'interesse di Stephan F.F. devono essere adesso esaminate le questioni processuali inerenti alla dedotta nullità della sentenza di primo grado (primo motivo), alla ritenuta violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. e all'ipotizzato contrasto tra l'interpretazione di questa norma e i principi convenzionali e unionali (secondo e terzo motivo). Subito dopo si valuteranno i dedotti profili di legittimità costituzionale della normativa in materia di prescrizione (quarto motivo), per poi addentrarsi nell'esame delle doglianze relative alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto colposo.
8. Col primo motivo, i difensori dell'imputato deducono la nullità della sentenza di primo grado per carenza assoluta della motivazione, che sarebbe frutto di un massiccio uso della tecnica del "copia-incolla" e sarebbe stata ripresa in larga parte dalle motivazioni della sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino in data 13 febbraio 2012 nel c.d. processo "Eternit 1" nel quale erano state ascritte a F.F. violazioni degli artt. 434 e 437, commi 1 e 2, cod. pen. La difesa si duole che la Corte di appello abbia escluso la sussistenza di tale nullità, pur tempestivamente dedotta nell'atto di gravame. Sostiene che la motivazione della sentenza di primo grado è mancante perché costituita, in larga parte, dalla pedissequa riproduzione della motivazione di un'altra sentenza. Si sarebbe verificata, dunque, una nullità rilevante ai sensi degli artt. 125, comma 3, 178, comma 1, lett. c) e 180 cod,, proc. pen. che avrebbe dovuto comportare, ai sensi dell'art. 604, comma 4, cod. proc. pen. la restituzione degli atti al giudice di primo grado.
I difensori del ricorrente non ignorano che, per giurisprudenza costante, "la mancanza assoluta di motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall'art. 604 cod. proc. pen., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (La Corte ha precisato che la mancanza di motivazione è causa di nullità della sentenza e non invece di inesistenza della stessa)" (fra le tante: Sez. U, n. 3287 del 27/11/2008, dep. 2009, R., Rv. 244118; Sez. 6, n. 58094 del 30/11/2017, Amorico, Rv. 271735; Sez. 6, n. 26075 del 08/06/2011, B., Rv. 250513); sostengono, tuttavia, che tale interpretazione sarebbe in contrasto con i principi costituzionali,
8.1. Sulla questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi. Con argomentazioni che il Collegio condivide, è stata ritenuta "manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 604 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che il giudice di appello, in caso di mancanza grafica della motivazione della sentenza appellata, ne dichiari la nullità e trasmetta gli atti al giudice di primo grado, in quanto non sussiste contrasto né con l'art. Ili, comma 2, Cost. che, limitandosi a stabilire che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, demanda alla legge ordinaria la disciplina delle conseguenze dell'inosservanza di tale prescrizione, né con l'art. 24 Cost., posto che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non ha copertura costituzionale e, in ogni caso, va intesa nel senso che deve essere data la possibilità di sottoporre tali questioni a due giudici di diversa istanza, anche se il primo non le abbia decise tutte" (Sez. 6, n. 32373 del 04/06/2019, Aiello, Rv. 276831; Sez. 5, n. 341 del 18/11/2021, dep. 2022, Pirrottina, Rv. 282381).
8.2. Nel caso di specie, la difesa sostiene che la motivazione della sentenza di primo grado sarebbe inesistente perché, nel redigerla, il Tribunale avrebbe fatto ampio uso della tecnica del "copia incolla" e interi pezzi della motivazione sarebbero tratti da una sentenza non definitiva resa in altro procedimento. La difesa si duole che la nullità della sentenza di primo grado sia stata esclusa con argomentazioni incongrue, parlando di una motivazione "per relationem", e sostiene che la sentenza di appello sarebbe affetta da una sorta di nullità "derivata" dalla nullità della sentenza di primo grado: i giudici di appello, infatti, non avrebbero potuto fare rinvio alla sentenza del Tribunale neppure per quanto non espressamente dedotto nell'atto di gravame essendo tenuti a redigere la motivazione "mancante".
Il ricorso coglie nel segno quando sostiene che, nel caso di specie, non può parlarsi di motivazione per relationem. Tale espressione, infatti, sta ad indicare casi nei quali un provvedimento è motivato facendo riferimento al contenuto di atti del medesimo procedimento e così non è nel caso di specie.
Si deve osservare tuttavia che - come anche la sentenza impugnata sottolinea - i passaggi argomentativi che la sentenza di primo grado avrebbe ripreso dalla motivazione di altra sentenza sono in larga parte riferiti al contenuto di documentazione che proveniva dal procedimento nel quale l'altra sentenza era stata pronunciata e tale documentazione è stata ritualmente acquisita agli atti, sicché nulla consente di ritenere che il Tribunale abbia operato una trasposizione acritica di elementi di prova acquisiti aliunde e abbia omesso una compiuta valutazione degli stessi. Rileva in tal senso la constatazione che, come emerge dalla lettura della sentenza di primo grado e dai documenti allegati all'atto di ricorso, le prove documentali utilizzate nel processo c.d. "Eternit 1" sono state integralmente prodotte anche nel presente procedimento e gran parte dei verbali delle dichiarazioni rese dai testimoni escussi in quel processo sono stati acquisiti nel presente procedimento e dichiarati utilizzabili ai fini della decisione.
La constatazione che elementi di prova assunti nell'ambito di un diverso procedimento siano stati riportati in sentenza con le parole utilizzate dal giudice che quegli atti aveva assunto, non porta a ritenere che tali elementi di prova non siano stati valutati. Nulla, infatti, vieta ad uri giudice di esprimere il proprio pensiero facendo proprie le parole da altri utilizzate.
La difesa, peraltro, non sostiene che le emergenze probatorie siano state riportate in maniera inesatta nella sentenza di primo grado. Sostiene, invece, che, scegliendo di copiare le parole utilizzate da altri, il Tribunale si sarebbe reso inadempiente al proprio obbligo motivazionale e ciò avrebbe ripercussioni anche sulla sentenza di appello, atteso che i giudici di secondo grado non avrebbero potuto limitarsi ad integrare la motivazione e a rispondere alle doglianze formulate nell'atto di appello, ma avrebbero dovuto motivare ex novo la condanna.
8.3. A sostegno di tale argomentazione, i difensori del ricorrente citano il principio affermato dalla Terza Sezione penale di questa Corte con la sentenza n. 19633 del 08/02/2022, Magrini, Rv. 283171, secondo la quale: "È illegittima la motivazione del giudice di appello che si fondi sulla pedissequa riproduzione -realizzata mediante l'applicazione informatica del "copia-incolla" - di intere pagine dell'ordinanza custodiale e che trascuri del tutto le motivazioni della sentenza di primo grado, risolvendosi in abnorme "contemplatici" dell'attività di indagine preliminare e tradendo la sua precipua fisionomia di "revisio prioris istantiae", pur se nel circoscritto ambito del "devolutum". (Iri motivazione, la Corte ha precisato che tale modello motivazionale non è nemmeno riconducibile al paradigma della motivazione "per relationem", considerato che in nessun caso la motivazione del provvedimento genetico della custodia cautelare può ritenersi congrua rispetto alle esigenze di giustificazione di una sentenza di appello) (nello stesso senso: Sez. 5, n. 8343 del 24/10/2012, dep. 2013, E., Rv. 254651).
La citazione non è pertinente. Nel caso esaminato dalla sentenza n. 19633/2022 è stata ritenuta nulla una sentenza pronunciata in grado di appello che aveva omesso di esaminare i motivi di gravame. In particolare, la nullità è stata dichiarata: con riferimento alla posizione di un imputato, perché i giudici di secondo grado avevano pedissequamente riprodotto la sentenza di primo grado senza nulla aggiungere; con riferimento alla posizione di altro imputato, perché i giudici di appello avevano riprodotto addirittura (anche in questo caso senza nulla aggiungere) il contenuto dell'ordinanza cautelare. Ciò che veniva stigmatizzato, dunque, non era l'uso della tecnica del copia incolla in quanto tale, ma piuttosto la mancata valutazione dei motivi di appello e delle censure avanzate dalla difesa. Una situazione analoga si è verificata nel caso deciso da questa Corte di legittimità con la sentenza n. 8343/2012 (richiamata dalla sentenza Magrini). Anche in questo caso, infatti, la sentenza di appello è stata annullata perché, "l'acritico richiamo alle particolari coordinate ed all'impianto argomentativo del titolo custodiale ha fatto sì... che il giudice di appello disattendesse, ingiustificatamente, pertinenti deduzioni difensive, espressamente dedotte negli atti di gravame" (così testualmente, pag. 16 della motivazione).
Ben diverso è il caso in esame, nel quale il quadro probatorio sottoposto al Giudice di primo grado era rappresentato anche (e in parte non minima) dai verbali delle prove assunte in altro procedimento. Nel riferire il contenuto di quegli atti, il Tribunale ha utilizzato le parole della sentenza redatta dai giudici che quelle prove avevano assunto. Il Giudice di primo grado, tuttavia, ha esaminato i documenti e i verbali acquisiti unitamente alle prove che erano state assunte di fronte a lui, sicché nulla consente di sostenere che non vi sia stata una completa valutazione delle emergenze istruttorie. Nei motivi di ricorso, peraltro, non ci si spinge a sostenere che, avendo usato la tecnica del "copia incolla", il Giudice di primo grado abbia riportato in termini non corretti il contenuto delle prove. La difesa, infatti, non contesta le circostanze di fatto riferite nella sentenza di primo grado, ma le conclusioni che il Tribunale ne ha tratto.
8.4. Non ha alcun pregio la tesi secondo la quale avendo riprodotto alla lettera ampi stralci della parte motiva di altra pronuncia il giudice di primo grado non avrebbe compiuto una autonoma valutazione delle emergenze probatorie. Si osserva in proposito che la "autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta con l'indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza" è espressamente prevista, a pena di nullità, quale requisito delle ordinanze in materia cautelare dall'art. 292, comma 2, lett. c bis) cod. proc. pen., ma nessuna analoga previsione esiste per le sentenze. Al giudice della cognizione, infatti, si chiede di compiere una valutazione esauriente, logica e coerente delle emergenze istruttorie sicché l'uso della tecnica del "copia incolla" può tradursi in un vizio della sentenza solo se comporta un vizio di motivazione. Nel caso di specie - come emerge dalla lettura dell'allegato 16 bis all'atto di ricorso ove sono evidenziate le parti della sentenza di primo grado che sarebbero state copiate - il Giudice di primo grado si è avvalso della motivazione di altra sentenza principalmente per riportare il contenuto di elementi di prova che nei due procedimenti coincidevano, ma non ha omesso di riferire sulle prove assunte nel corso del dibattimento né ha omesso di confrontarsi con le argomentazioni difensive, sia per quanto attiene al ruolo di gestore dello stabilimento di C. attribuito all'imputato; sia per quanto attiene all'evoluzione delle conoscenze scientifiche riguardanti i pericoli per la salute connessi all'inalazione delle fibre di amianto; sia per quanto attiene alle condizioni igienico ambientali dello stabilimento nel periodo compreso tra il 1976 e il 1982.
Non rileva in contrario - come sostiene la difesa (pag. 25 dell'atto di ricorso) - che, per quanto riguarda il ruolo svolto da F.F., il giudice di primo grado sia giunto alle stesse conclusioni cui giunse il Tribunale di Torino con la sentenza del 13 febbraio 2012. La circostanza che si tratti di conclusioni coincidenti, infatti, non consente di ritenere che non vi sia stata da parte del Giudice di primo grado una compiuta valutazione delle risultanze processuali, né depone in tal senso che le due sentenze utilizzino in parte le stesse parole: un dato dal quale si può desumere soltanto che il Tribunale ha fatto proprie le argomentazioni da altri utilizzate per trasfonderle nella propria decisione. Su questo tema, peraltro, la sentenza di appello ha ulteriormente motivato replicando alle obiezioni formulate nei motivi di gravame e, nel censurare la motivazione della sentenza impugnata, la difesa non sostiene che essa sia frutto dell'uso della tecnica del "copia incolla" né che la Corte territoriale non abbia compiuto una autonoma valutazione delle emergenze istruttorie.
8.5. Come si è detto, il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse dell'imputato, è incentrato sull'uso della tecnica del "copia incolla". È tuttavia doveroso riferire che, secondo i difensori, proprio a causa dell'uso di tale tecnica, il giudice di primo grado avrebbe fatto riferimento nella motivazione a verbali di deposizioni testimoniali assunte nel diverso procedimento che erano stati prodotti dal PM, ma quello stesso giudice aveva dichiarato inutilizzabili ai fini della decisione con ordinanze del 16 aprile 2018 e del 14 giugno 2018 (allegati 16 ter e 16 quater all'atto di ricorso).
Come è indicato nella nota 27 della pag. 19 del ricorso, i verbali dichiarati inutilizzabili (ma in concreto utilizzati perché citati nella sentenza di primo grado) sarebbero quelli relativi alle deposizioni rese nel processo "Eternit 1" dai testi S.S., T.T., U.U., V.V., W.W., X.X., Y.Y., Z.Z. e A.A.A.. Dalla lettura degli allegati al ricorso emerge che, nell'ordinanza del 16 aprile 2018, il Giudice dispose che fossero espunti dal fascicolo per il dibattimento i "verbali di prova di altro procedimento, depositati dal PM, non coincidenti con quelli relativi ai soggetti di cui all'elenco in oggi depositato dalla pubblica accusa" (elenco nel quale, in effetti, non compaiono i nomi dei testimoni indicati nella nota 27 dell'atto di ricorso); nell'ordinanza del 14 giugno 2016 -- preso atto che il PM aveva prodotto su supporto informatico tutti gli atti del primo procedimento Eternit - il Giudice dispose che i verbali di prova non compresi tra quelli "di cui all'elenco depositato dal PM" (in particolare, i verbali "contenuti nella cartella R.G.N.R. 5219/09") non fossero "utilizzabili ai fini della decisione, ferma la loro presenza materiale all'interno del fascicolo".
In più occasioni, citando prove documentali e verbali di deposizioni testimoniali, la sentenza di primo grado riferisce che si tratta di verbali delle deposizioni rese nel primo processo Eternit "acquisite agli att". A pag. 18 (nota 3) il Tribunale spiega che "il materiale acquisito al fascicolo del dibattimento comprende... atti e documenti depositati dal PM e archiviati nella USB prodotta dall'organo dell'accusa, molti dei quali facenti parte del compendio probatorio del "primo processo Eternit", nell'ambito del quale F.F. già figurava come imputato".
Tanto premesso - ed anche ammettendo che i verbali delle dichiarazioni rese nel primo processo Eternit dai testimoni S.S., T.T., U.U., V.V., W.W., X.X., Y.Y., Z.Z. e A.A.A. siano stati indebitamente utilizzati dal giudice di primo grado - si deve osservare che, nel ricorso, la difesa non ha sostenuto che queste testimonianze abbiano fornito elementi indispensabili alla decisione e neppure che, espungendo dalla sentenza di primo grado ogni riferimento ad esse, la motivazione avrebbe richiesto integrazioni o approfondimenti che la Corte di appello ha omesso di fornire. A ciò deve aggiungersi che la sentenza di secondo grado non menziona queste testimonianze e la difesa non sostiene che la Corte di appello s.e ne sia avvalsa ai fini della decisione. Ne consegue che il primo motivo di ricorso non merita accoglimento neppure sotto questo particolare profilo.
9. Col secondo motivo (cui è strettamente connesso il terzo) i difensori dell'imputato deducono violazione dell'art. 649 cod. proc. pen. e vizi di motivazione per non essere stata ritenuta operante la preclusione processuale conseguente al definitivo proscioglimento di Stephan F.F., per intervenuta prescrizione, dalle accuse formulate nei suoi confronti nell'ambito del procedimento c.d. "Eternit 1" che lo vedeva imputato di violazione degli artt. 434 e 437, commi 1 e 2, cod. pen.
9.1. Nell'esposizione dei motivi di ricorso si è già riferito che, nel presente procedimento, il Giudice dell'udienza preliminare ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen. all'esito della quale questa norma è stata dichiarata illegittima, per contrasto con gli artt. 117 Cost. e 4 del protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, "nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale" (Corte cost. sentenza n. 200 del 2016).
In questa sentenza la Corte costituzionale ha definito "errata" (così testualmente par. 4) la tesi, sostenuta dal Giudice remittente, secondo la quale l'art. 649 cod. proc. pen. avrebbe potuto essere considerato compatibile con l'art. 4, prot. 7 CEDU (come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo) solo ritenendo che l'identità tra il fatto storico oggetto di giudizio definitivo e quello oggetto della nuova azione penale fosse determinata dall'identità della condotta contestata (intesa in senso materiale quale azione od omissione) ed escludendo così dal fatto storico rilevante ai fini del bis in idem ogni riferimento all'evento, anche naturalisticamente inteso. Secondo la Corte costituzionale, è conforme all'art. 4 del protocollo n. 7 alla CEDU come interpretato dalla giurisprudenza europea - e quindi all'art. 117 Cost. - che, nel valutare l'identità del fatto ai fini della applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., si tenga conto "della trìade condotta-nesso causale-evento naturalistico".
Pertanto, nel fare applicazione del citato art. 649, "il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica". Nel caso in cui la precedente sentenza definitiva abbia riguardato la lesione dell'integrità fisica di una persona, la Corte costituzionale ha chiarito che, per verificare se vi sia bis in idem, "occorrerà accertare se la morte o la lesione siano già state specificamente considerate, unitamente al nesso di causalità con la condotta dell'imputato, cioè se il fatto già giudicato sia nei suoi elementi materiali realmente il medesimo, anche se diversamente qualificato per il titolo, per il grado e per le circostanze" (così testualmente, par. 12) .
9.2. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale, il tema si è posto più volte all'attenzione di questa Corte, che ha sviluppato, richiamandoli, i principi espressi dalle Sezioni unite con la sentenza n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799: una pronuncia cui la Corte costituzionale aveva fatto esplicito riferimento per ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha compiuto una "affermazione netta e univoca a favore dell'idem factum" (così testualmente Corte cost. n. 2000 del 2017 par. 7 e par. 8) ed escludere che, sotto questo profilo, vi fosse stata, nel diritto vivente, una limitazione all'operatività dell'art. 649 cod. proc. pen. idonea a determinare un contrasto con l'art. 4, prot. 7, CEDU e, di conseguenza, con l'art. 117 Cost.
Prendendo le mosse dalla sentenza del e Sezioni unite e da quella della Corte costituzionale, si è affermato che, "ai fini della preclusione del giudicato, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona" (Sez. 4, Sentenza n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270387); si è sottolineato, inoltre, che "la preclusione processuale derivante dal divieto di "bis in idem" prescinde dalla configurabilità di un astratto concorso formale e opera solo quando vi sia identità tra il fatto storico, oggetto di giudicato, e quello oggetto del nuovo giudizio" (Sez. 7, Ordinanza n. 42994 del 20/10/2021, C., Rv. 282187). Si è chiarito inoltre che, "in tema di divieto di un secondo giudizio, le nozioni di "bis in idem" processuale e di "bis in idem" sostanziale non coincidono in quanto la prima, più ampia, ha riguardo al rapporto tra il fatto storico, oggetto di giudicato, ed il nuovo giudizio e, prescindendo dalle eventuali differenti qualificazioni giuridiche, preclude una seconda iniziativa penale là dove il medesimo fatto, nella sua dimensione storico-naturalistica, sia stato già oggetto di una pronuncia di carattere definitivo; la seconda, invece, concerne il rapporto tra norme incriminatrici astratte e prescinde dal raffronto con il fatto storico (In applicazione del principio, la Corte, nonostante la qualificazione sostanziale del fatto storico consentisse il concorso formale tra il delitto di cui all'art. 642 cod. pen. e quello di cui all'art. 497-bis cod. pen. e, quindi, la non operatività del "Bis in idem" sostanziale, ha ravvisato il "bis in idem" processuale, in quanto il precedente giudizio aveva riguardato il medesimo fatto storico, qualificato ai sensi dell'art. 642 cod. pen.) (Sez. 7, n. 32631 del 01/10/2020, Barbato, Rv. 280774).
Di recente questi principi sono stati ribaditi con riferimento ad un caso in cui la decisione definitiva aveva ad oggetto una condanna per lesioni volontarie e la vittima di quelle lesioni era deceduta a causa delle stesse. Prendendo le mosse dalla citata sentenza della Corte costituzionale - dopo aver compiuto un ampio excursus sulla giurisprudenza europea in materia - la sentenza Sez. 5, n. 1363 del 25/10/2021, dep. 2022, Abdurahmanovic, Rv. 282536 ha affermato che "non contrasta con il principio del "ne bis in idem" - non ricorrendo l'identità del fatto considerato in tutti i suoi elementi costitutivi - la condanna per il delitto di omicidio preterintenzionale nei confronti di un soggetto già condannato per lesioni personali con sentenza divenuta irrevocabile in relazione alla medesima condotta, ma il giudice del secondo procedimento, in ossequio al principio di detrazione, deve assicurare, mediante un meccanismo di compensazione, che le sanzioni complessivamente applicate siano proporzionate alla gravità dei reati considerati". Nello stesso senso, peraltro, questa Corte di legittimità si era già pronunciata ritenendo immuni da censure decisioni con le quali i giudici di merito avevano escluso l'identità del fatto, rilevante ai fini della preclusione di cui all'art. 649 cod. proc. pen., nel caso in cui lesioni oggetto di pronuncia definitiva avessero, successivamente alla stessa, determinato la morte della persona offesa (Sez. 5, n. 52215 del 30/10/2014, Carbognani, Rv. 261364).
In sintesi: l'affermazione secondo la quale, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, da considerare in tutti i suoi elementi costitutivi sulla base della triade condotta-nesso causale-evento, non essendo sufficiente la generica identità della sola condotta, costituisce un approdo consolidato della giurisprudenza di legittimità, tanto più dopo la pronuncia della Corte costituzionale secondo la quale, così interpretata, la disciplina dell'art. 649 cod. proc. pen. non entra in contrasto, tramite la normativa convenzionale, con l'art. 117 Cost. (fra le tante: Sez. 3, n. 21994 del 01/02/2018, Pigozzi, Rv. 273220; Sez. 2, n. 52606 del 31/10/2018, Biancuzzi, Rv. 275518; Sez. 2, n. 1144 del 06/12/2018, dep. 2019, Delle Vergini, Rv. 275068).
Ne consegue che la verifica dell'esistenza di un bis in idem, che determini l'applicazione del citato art. 649 e il divieto di un nuovo giudizio, non deve essere compiuta confrontando gli elementi delle fattispecie astratte di reato, bensì i fatti che, in concreto, sono oggetto del giudicato rispetto a quelli che, in concreto, sono oggetto della nuova contestazione. Come efficacemente affermato dalla Corte costituzionale infatti (par. 11 della sentenza n. 200/2016): "nel sistema CEDU (e... anche in base alla Costituzione repubblicana), l'esercizio di una nuova azione penale dopo la formazione del giudicato deve... dipendere esclusivamente dal raffronto tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, ed è perciò permessa in casi di diversità, ma sempre vietata nell'ipotesi di medesimezza del fatto storico (salve le deroghe, nel sistema convenzionale, previste dal secondo paragrafo dell'art. 4 protocollo n. 7)".
9.3. Applicando questi principi al caso che si occupa si deve esaminare l'imputazione che era stata formulata nel procedimento c.d. "Eternit 1", verificare come questa contestazione si sia "sviluppata" h quel processo e confrontarla col fatto del quale F.F. è accusato nel presente giudizio.
È utile a tal fine prendere le mosse dalla lettura del capo di imputazione formulato nel procedimento concluso con la dichiarazione di prescrizione avendo riguardo ai profili per i quali - in tesi difensiva - vi sarebbe coincidenza tra i fatti in allora contestati e quelli oggetto del presente giudizio.
In quel procedimento F.F. fu accusato, al capo A), del delitto di cui all'art. 437, commi 1 e 2, cod. pen. per aver omesso di collocare nello stabilimento di C. (e in altri stabilimenti, ma il dato non rileva in questa sede) "idonei impianti di aspirazione localizzata; idonei sistemi di ventilazione dei locali; idonei sistemi di lavorazione dell'amianto a ciclo chiuso, volti a evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione dell'amianto; idonei apparecchi personali di protezione". In ipotesi accusatoria, dal fatto erano derivati "più casi di malattia infortunio in danno di lavoratori addetti... ad operazioni comportanti esposizione incontrollata e continuativa ad amianto, e deceduti o ammalatisi per patologie riconducibili ad amianto". I "casi di malattia-infortunio in danno di lavoratori addetti" erano specificati nell'imputazione, ove erano elencati e identificati i lavoratori ammalati o deceduti per patologie asbesto-correlate e, tra questi, c'era anche G.G., indicato non tra i deceduti, ma tra gli ammalati, con indicazione della malattia contratta: "asbestosi".
F.F. fu inoltre accusato, al capo B), "del reato di cui all'art. 434 cod. pen., per aver commesso fatti diretti a cagionare un disastro e dai quali è derivato un pericolo per la pubblica incolumità", tra questi fatti - per quanto rileva in questa sede - v'era l'omessa adozione di "provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici, necessari per contenere l'esposizione all'amianto" in vari stabilimenti e, tra questi, nello stabilimento di C. In tesi accusatoria il disastro era "avvenuto", perché l'amianto era stato "immesso in ambienti di lavoro e in ambienti di vita su vasta scala e per più decenni mettendo in pericolo e danneggiando la vita e l'integrità fisica sia di un numero indeterminato dì lavoratori sia di popolazioni e causando il decesso di un elevato numero di lavoratori e di cittadini". Doveva pertanto trovare applicazione l'art. 434, comma 2, cod. pen. Anche in questo caso, l'imputazione comprendeva un elenco delle persone la cui vita e integrità fisica erano state messe in pericolo o danneggiate dalle condotte contestate e, tra queste, compare G.G., quale lavoratore operante nello stabilimento di C. affetto da asbestosi.
Poiché queste erano le accuse, non può ragionevolmente dubitarsi che la condotta contestata a F.F. nel procedimento definitivamente concluso con dichiarazione di prescrizione fosse la stessa della quale egli è oggi accusato. Pertanto, nel rispetto dei principi di diritto che sono stati sopra illustrati, ai fini dell'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., è necessario valutare se l'evento sia il medesimo.
Nel compiere tale valutazione si devono ripercorrere brevemente le vicende che, nel primo procedimento, hanno condotto alla dichiarazione di prescrizione, pronunciata dalla Corte di appello di Torino con sentenza del 3 giugno 2013 quanto al reato di cui all'art. 437 cod. pen., contestato al capo A), e dalla Prima Sezione penale di questa Corte con la sentenza n. 7941/15 del 19 novembre 2015, quanto al reato di cui all'art. 434 cod. pen., contestato al capo B).
9.4. La difesa sostiene l'identità dell'evento con riferimento alla contestata violazione dell'art. 437, commi 1 e 2, cod. pen.
Osserva in proposito che il Tribunale di Torino, con sentenza del 13 febbraio 2012, affermò la penale responsabilità di F.F. per la violazione dell'art. 437, comma 2, cod. pen. considerata quale autonomo titolo di reato e non come aggravante del reato di cui all'art. 437, comma 1, cod. pen. Pertanto, ritenne consumate tante violazioni dell'art. 437, comma 2, cod. pen. quanti erano i lavoratori affetti da patologie asbesto-correlate; dichiarò il reato estinto per prescrizione in tutti i casi in cui dalla contestata omissione erano derivate patologie insorte prima del 13 agosto 1999; affermò la responsabilità di F.F. relativamente alle patologie insorte in epoca successiva a quella data.
Secondo la difesa, così operando, il Tribunale di Torino ritenne accertato il nesso causale tra l'omissione delle cautele in materia di infortuni sul lavoro e l'insorgenza delle malattie indicate nel capo di imputazione (ivi compresa l'asbestosi contratta da G.G.) e, infatti, riconobbe ai lavoratori costituitisi parti civili e ai loro eredi il risarcimento del danno derivante dalle malattie insorte dopo il 13 agosto 1999. La difesa sostiene che la sentenza della Corte di appello di Torino del 3 giugno 2013 (che ha riformato la sentenza del Tribunale di Torino sopra citata dichiarando la prescrizione del reato contestato al capo A), non avrebbe "messo in discussione" i presupposti fattuali sui quali la condanna di primo grado era fondata. I giudici di appello, infatti, si sarebbero limitati ad affermare che gli eventi lesivi che avevano colpito i singoli lavoratori (e tra questi G.G.) costituivano circostanza aggravante del reato di cui all'art. 437, comma 1, cod. pen., sicché il termine di prescrizione doveva essere calcolato a decorrere dalla data di cessazione della consumazione del reato, e, trattandosi di reato omissivo proprio di natura permanente, la consumazione era cessata con la dismissione delle attività produttive.
La difesa dell'imputato rileva che la sentenza della Corte di appello di Torino del 3 giugno 2013 ha statuito definitivamente sull'imputazione di cui all'art. 437 cod. pen., perché il ricorso proposto da F.F., volto ad ottenere l'assoluzione nel merito, è stato dichiarato inammissibile, e sostiene che il giudicato intervenuto riguardo a questo reato copre tutti gli elementi fattuali rilevanti nel presente giudizio perché riguarda sia la condotta (omissione di cautele atte a prevenire malattie e infortuni), sia l'evento (malattia contratta da G.G. e conseguente decesso), sia il nesso di causalità tra la prima e il secondo. La definitività di tale accertamento - si sostiene - non può essere più messa in discussione sotto nessun profilo, neppure quello relativo alla completezza e adeguatezza con cui lo stesso è stato eseguito. Non rileva in contrario che la sentenza definitiva abbia dichiarato estinto il reato, perché tale dichiarazione non osta all'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen. Neppure rileva la circostanza che, nel primo procedimento, fosse stato contestato a F.F. di aver causato la malattia di G.G. e non la sua morte, trattandosi di eventi di diversa gravità, ma di una condotta rivolta verso la medesima vittima.
9.5. La lettura della sentenza pronunciata dalla Corte di appello di Torino il 3 giugno 2013 e della sentenza n. 7941/15 del 19 novembre 2015 della Prima Sezione penale di questa Corte non fornisce riscontro alla tesi difensiva.
Con la sentenza del 3 giugno 2013, infatti, la Corte di appello di Torino ha interpretato l'imputazione relativa alla violazione dell'art. 437 cod. pen. in termini assai chiari e ha testualmente affermato (pag. 394 e ss.) "che agli imputati, con la formulazione dell'addebito di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, è stato contestato anche, in forma comprensibile, di avere causato un disastro all'interno degli stabilimenti". Ne ha tratto la conclusione che "le singole malattie-infortuni prese in considerazione non rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie (sicché da esse, diversamente da quanto ha ritenuto il Tribunale, non possono essere fatti decorrere i termini di prescrizione del reato)" La sentenza in esame sottolinea che "le singole malattie non rappresentano... altrettanti eventi del reato in esame, che ha, invece, ad oggetto un fenomeno unitario di enormi proporzioni (il disastro), ancora in atto, del quale le malattie (quelle già verificatesi e quelle che, nella previsione del capo di imputazione, ancora si verificheranno) costituiscono la manifestazione concreta". Ricorda, infine, che anche il Tribunale - pur avendo considerato la fattispecie di cui all'art. 437, comma 2, cod. pen. quale titolo autonomo di reato e non come circostanza aggravante - non ha ritenuto di dover prendere in specifica considerazione "ognuna delle malattie-infortuni verificatesi e gli esiti delle stesse" e, per questo, con le "ordinanze dibattimentali 12.04.2010 e 4.04.2011" (che le difese avevano impugnato unitamente alla sentenza), ha sostenuto che l'accertamento dell'evento unitario costituito dal disastro interno agli stabilimenti prescindesse "dai singoli accadimenti che lo integrano". Secondo la sentenza in esame "soccorrono al riguardo le indagini epidemiologiche, posto che il loro oggetto di studio è sempre costituito da un gruppo di soggetti, mentre, in nessun caso, esse hanno la funzione di indagare le vicende dei singoli individui". Ponendosi in questa prospettiva, la sentenza in esame osserva che "l'evento disastro, a differenza delle singole malattie, è effettivamente suscettibile di prova mediante l'esame dei testimoni informati (e non già, dunque, di tutte le persone offese), attraverso l'acquisizione di documentazione atta a comprovare l'insorgenza e la ricorrenza delle patologie asbesto-correlate all'interno della popolazione presa in considerazione e, soprattutto, per mezzo dell'audizione dei consulenti tecnici nominati dalle parti e della lettura delle rispettive relazioni redatte al precipuo fine di accertare se possa essere correttamente ravvisato un nesso di causalità tra le condizioni di polverosità presenti all'interno degli stabilimenti e le patologie accusate dai dipendenti".
Poiché questo è il contenuto della sentenza che ha definitivamente prosciolto F.F. dall'imputazione relativa a violazione dell'art. 437 cod. pen. si deve concludere che, dal raffronto tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, non emerge identità di eventi. Ed invero, proprio in ragione del fatto che l'evento contestato non era costituito dalle singole malattie, ma si trattava di un disastro (inteso quale incremento nella insorgenza di malattie asbesto-correlate tra i lavoratori operanti nello stabilimento), nel processo definitivamente concluso non fu neppure esaminato il tema del nesso causale tra l'esposizione di ciascun lavoratore al rischio di contrarre malattie asbesto-correlate e nessun approfondimento fu compiuto riguardo alle caratteristiche di ciascuna delle malattie contestate, all'epoca in cui erario insorte, alla riferibilità di tali conseguenze lesive alla condotta omissiva specificamente ascritta a F.F. (che anche in quel processo era imputato quale "responsabile della gestione" della società esercente lo stabilimento di C. a partire dal giugno 1976).
Alle medesime conclusioni conduce la lettura della sentenza Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, F.F., Rv. 262788, con la quale è stata annullata senza rinvio, per essere il reato estinto ex art. 157 cod. pen., la sentenza della Corte di appello di Torino del 3 giugno 2013, secondo la quale il termine di prescrizione del reato di cui all'art. 449, comma 2, (erroneamente qualificato dalla Corte di appello quale autonomo titolo di reato) non aveva ancora iniziato a decorrere, essendo ancora in atto l'evento disastro concretamente verificatosi.
Con riferimento al reato di cui all'art. 449 cod. proc. pen., la Prima Sezione penale di questa Corte ha precisato: che "il reato di disastro innominato contempla, nella forma aggravata, un evento che è appunto il disastro verificatosi; il disastro è da intendere, perché sia assicurata, seguendo le rime obbligate desumibili dalla descrizione degli "altri disastri" nominati contemplati nel medesimo Capo I, la sufficiente determinatezza della fattispecie, come un fenomeno distruttivo naturale di straordinaria importanza (Corte cost. n. 327 del 2008); il pericolo per la pubblica incolumità, in cui risiede la ragione della incriminazione e che individua il bene protetto, funge da connotato ulteriore del disastro e serve a precisarne sul piano della proiezione offensiva le caratteristiche (Corte cost. n. 327 cit.); il persistere del pericolo, e tanto meno il suo inveramento quale concreta lesione dell'incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto (Corte cost. cit.) e non essendo elementi del fatto tipico non possono segnare la consumazione del reato, perché, come icasticamente osserva Sez. 4, n. 32170 del 28/05/2014, Vicini (in un precedente del tutto conforme alla presente pronuncia), "non si deve confondere l'evento pericoloso con gli effetti che ne sono derivati" (così testualmente, Sez. 1, n. 7941/2014, cit., pag. 77 della motivazione).
Per quanto riguarda le malattie e le monti, la sentenza in esame ha chiarito (pagg. 77 e 78 della motivazione):
- che si tratta di eventi "estranei e ulteriori" rispetto all'evento disastro, "costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio, non oggetto di contestazione formale e in relazione ai quali, in entrambi i giudizi di merito, era stata espressamente respinta qualsiasi richiesta volta alla verifica dei nessi di causalità con la contaminazione ambientale";
- che nel giudizio di merito non risultavano essere stati evocati, in relazione ai singoli casi, "né la natura di malattia professionale dell'asbestosi, né saperi scientifici che consentissero di escludere con elevata credibilità razionale eziologie alternative del mesotelioma polmonare e di risolvere univocamente il problema del rapporto tra periodi di esposizione, responsabilità dell'imputato in relazione a tali periodi, nonché eventuale effetto acceleratore delle esposizioni frazionate a lui imputabili (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943)".
9.6. Per quanto esposto, il raffronto tra la prima contestazione - per come si è sviluppata nel processo - e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, consente di ritenere l'identità della condotta, ma non l'identità del fatto storico. Diverso è, infatti, l'evento naturalistico contestato nel presente procedimento (e oggetto del presente ricorso) che non è rappresentato dal "disastro" verificatosi all'interno dello stabilimento (concretamente manifestatosi con l'insorgere tra i dipendenti di malattie asbesto-correlate) bensì dalla morte di G.G..
10. Delle argomentazioni sin qui sviluppate si deve tenere conto nel valutare se debba essere accolta la richiesta avanzata dalla difesa dell'imputato di attivare la procedura prevista dall'art. 267 del Trattato Fondativo dell'Unione Europea (TFUE).
Il quesito che, secondo la difesa, dovrebbe essere sottoposto alla Corte di Giustizia riguarda l'interpretazione dell'art. 50 della Carta UE e dell'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di (Omissis). Si dovrebbe chiedere alla Corte di spiegare se queste norme debbano essere interpretate nel senso di vietare un secondo giudizio ogniqualvolta la contestazione abbia ad oggetto condotte identiche, a prescindere dal fatto che l'evento conseguente a quelle condotte possa essere diverso.
Secondo la difesa, l'obbligo di sollevare la questione pregiudiziale discende dall'affermazione contenuta al paragrafo 5 della sentenza n. 200/2016 della Corte costituzionale, ove si legge: "la giurisprudenza europea, che "resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l'ha originata" (sentenza n. 236 del 2011), non permette di isolare cori sufficiente certezza alcun principio (sentenza n. 49 del 2015), alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l'opzione compiuta con nettezza a favore dell 'idem factum (questa sì, davvero espressiva di un orientamento sistematico e definitivo)". La stessa Corte costituzionale, infatti, con questa frase, avrebbe individuato profili di incertezza nell'interpretazione del concetto di bis in idem fornita dalla giurisprudenza europea.
Va subito detto che, con l'affermazione secondo la quale "la giurisprudenza europea... non permette di isolare con sufficiente certezza alcun principio alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., ove si escluda l'opzione compiuta con nettezza a favore dell'idem factum" la Corte costituzionale non ha sostenuto che la giurisprudenza europea sia dubbiosa quanto alla possibilità di inserire l'evento in senso naturalistico tra gli elementi da prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto ai sensi dell'art. 4, prot. 7, CEDU. Ha affermato, piuttosto, che nessuna indicazione inequivoca in tal senso o in senso contrario può essere desunta da quella giurisprudenza; univoca, invece, nel ritenere che la medesimezza del fatto debba essere apprezzata "alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio" e nel recepire, quindi, a dispetto della lettera del citato art. 4, "il più favorevole criterio dell'idem factum... anziché la più restrittiva nozione di idem legale" (così testualmente, Corte cost. n. 200/2016 par. 4).
Come la Corte costituzionale ha voluto sottolineare, infatti (par. 6 della sentenza in esame), "la tutela convenzionale affronta il principio del ne bis in idem con un certo grado di relatività, nel senso che esso patisce condizionamenti tali da renderlo recessivo rispetto a esigenze contrarie di carattere sostanziale", sicché, a fronte di una chiara opzione in favore dell'idem factum, le conseguenze che derivano sul piano processuale da tale identità non sempre sono tali da vietare un nuovo giudizio. È significativo in tal senso - e la Corte costituzionale non ha omesso di ricordarlo - il secondo paragrafo dell'art. 4, prot. 7, CEDU che permette la riapertura del processo penale se fatti sopravvenuti a nuove rivelazioni sono in grado di inficiare una sentenza già passata in giudicato, non solo quando si tratta di una sentenza di condanne. (come previsto nell'ordinamento italiano dagli artt. 629 e ss. cod. proc. pen.), ma anche se si tratta di sentenza di assoluzione.
A ben guardare, nell'evidenziare l'esistenza di incertezze nel riconoscimento del principio del divieto di doppio giudizio, la sentenza n. 200 del 2016 non fa altro che porre in luce ciò che negli anni successivi sarebbe emerso con evidenza, vale a dire che - ferma restando la configurabilità di un "idem" solo in presenza di fatti corrispondenti tra loro, sia sotto il profilo scorico-naturalistico, sia con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona - la giurisprudenza europea non è univoca nell'attribuire carattere assoluto al diritto della persona a non subire un nuovo processo in relazione a fatti per i quali sia già stata giudicata, ma, a determinate condizioni, ammette che, pur in presenza di "idem factum" possa esservi un nuovo processo. La difesa, peraltro, sembra essere consapevole che, nella sentenza n. 200 del 2016, la Corte costituzionale non ha evidenziato una incertezza interpretativa nel concetto di "idem factum" con riferimento all'art. 4, prot, 7, CEDU. Chiede, infatti, che sia sollevata questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE. Ipotizza, dunque, che possa esservi differenza tra l'interpretazione dell'art. 4, prot. 7, fornita dalla Corte EDU e l'interpretazione dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione fornita dalla Corte di Giustizia UE.
10.1. Prima di procedere a valutare se, nel caso di specie, la corretta applicazione del diritto comunitario lasci adito a ragionevoli dubbi (condizione necessaria - come meglio si dirà più avanti - perché la procedura prevista dall'art. 267 TFUE possa essere attivata) è doveroso ricordare che la Corte costituzionale si è nuovamente occupata dell'art. 649 cod. pen. (ancora una volta con riferimento agli artt. 117 Cost. e 4, prot. 7, CEDU) con la sentenza n. 149 del 10 maggio 2022 che ha dichiarato l'art. 649 cod. proc. pen. costituzionalmente illegittimo "nella parte in cui non prevede che il giudice pronunci sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsti dall'art. 171-fer della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), che, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l'illecito amministrativo di cui all'art. 174-bis della medesima legge".
La decisione assume rilevanza ai fini che qui interessano perché la Corte costituzionale ha ribadito - richiamando la sentenza n. 200 del 2016 e i precedenti ivi citati - che il diritto al ne bis in idem, riconosciuto, a livello internazionale, dall'art. 4, paragrafo 1, prot. 7, CEDU deve essere considerato "immanente alle garanzie di cui agli artt. 24 e 111 Cost." (paragrafo 5.1.) e perché ha fornito alcune importanti precisazioni sul significato che tale garanzia assume nel quadro convenzionale. Nel paragrafo 5.1.1. della sentenza n. 149 del 2022, infatti, la Corte ha chiarito che la garanzia convenzionale prevista dal citato art. 4 mira "a tutelare l'imputato non solo contro la prospettiva dell'inflizione di una seconda pena, ma ancor prima contro la prospettiva di subire un secondo processo per il medesimo fatto: e ciò a prescindere dall'esito del primo processo, che potrebbe anche essersi concluso con un'assoluzione". Ha sottolineato, quindi, che "la ratio primaria della garanzia -- declinata qui non quale principio "ordinamentale" a valenza oggettiva, funzionale alla certezza dei rapporti giuridici, ma quale diritto fondamentale della persona - è... quella di evitare l'ulteriore sofferenza, e i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata". Per quanto riguarda l'identità del fatto sulla quale si fonda il diritto dell'imputato a non subire un secondo processo, la Corte costituzionale ha ricordato (paragrafo 5.1.2.) che esso si identifica, sulla base di una giurisprudenza ormai costante della Corte EDU, a partire almeno dalla sentenza della Grande Camera del 10 febbraio 2009, (Omissis) contro Russia (paragrafi 79-84),... nei medesimi fatti materiali sui quali si fondano le due accuse penali, indipendentemente dalla loro eventuale diversa qualificazione giuridica" e che, quando i fatti materiali siano gli stessi, il divieto di un secondo processo scatta se vi è una precedente decisione "non importa se di condanna o di assoluzione, che concerna il merito della responsabilità penale dell'imputato e sia divenuta irrevocabile, non essendo più soggetta agli ordinari rimedi impugnatori (Corte EDU, sentenza (Omissis), paragrafo 107)".
La sentenza in esame osserva che, "per quanto... la lettera dell'art. 4 Prot. n. 7 CEDU enunci un divieto di "perseguire" o "punire" nuovamente taluno nell'ambito di "procedimenti penali" per un "reato", la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo afferma che tali concetti devono essere interpretati alla luce dei noti criteri Engel, da tempo utilizzati dalla Corte EDU per fissare il perimetro applicativo della "materia penale" ai fini degli artt. 6 e 7 della Convenzione (sentenze (Omissis), paragrafo 52; A e B contro Norvegia, paragrafi 105-107). Decisiva non è, dunque, la qualificazione della procedura e della sanzione come "penale" da parte dell'ordinamento nazionale, ma la sua natura sostanzialmente "punitiva" da apprezzarsi, appunto, sulla base dei criteri Engel" (par. 5.1.3.).
Nello sviluppare la propria argomentazione la Corte cositituzionale dà atto che, almeno a partire dalla sentenza Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A. e B. c. Norvegia, la giurisprudenza europea ha affermato che "non necessariamente l'inizio o la prosecuzione di un secondo procedimento di carattere sostanzialmente punitivo in relazione a un fatto per il quale una persona sia già stata giudicata in via definitiva nell'ambito di un diverso procedimento, pure di carattere sostanzialmente punitivo, dà luogo a una violazione del ne bis in idem. Una tale violazione, infatti, deve essere esclusa allorché tra i due procedimenti vi sia una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta", così che essi rappresentino una risposta coerente e sostanzialmente unitaria al medesimo illecito (Corte EDU, sentenza A e B contro Norvegia, paragrafo 130).
La Corte costituzionale ha riconosciuto dunque (par. 5.1.3.) che, nella giurisprudenza europea (in particolare dopo la sentenza pronunciata dalla Grande Camera nel caso A e B contro Norvegia), il diritto della persona a non subire un nuovo processo in relazione a fatti per i quali sia già stata giudicata, non ha carattere assoluto e, pur in presenza di un idem factum, a determinate condizioni, si ammette che un nuovo procedimento possa iniziare o proseguire.
La Corte costituzionale ha osservato, infine (par. 5.1.3. ultima parte), che "ad approdi assai simili negli esiti a quelli... della giurisprudenza di Strasburgo è pervenuta la Corte di giustizia dell'Unione europea sulla corrispondente garanzia apprestata dall'art. 50 CDFUE (Grande Sezione, sentenze 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, cit.; in causa C-524/15, Menci; in cause C-596/16 e C-597/16, Di Puma e altri)".
In sintesi, con la sentenza n. 149 del 2022, la Corte costituzionale ha ribadito che la giurisprudenza europea è univoca nell'interpretare il bis in idem con riferimento ai fatti materiali e tuttavia - a partire dalla sentenza Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A. e B. c. Norvegia - ammette la possibilità di un nuovo giudizio a carattere sostanzialmente punitivo, anche quando il fatto sia il medesimo, purché i procedimenti siano avvinti da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto ("sufficiently closely connected in substance and in time").
10.2. Nell'esaminare la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia avanzata dalla difesa dell'imputato si deve tenere conto di queste premesse concettuali.
Nel caso oggetto del presente ricorso, infatti, non si discute se, in presenza dì un idem factum, sia possibile un nuovo giudizio, se il primo e il secondo procedimento perseguano finalità complementari e colpiscano disvalori differenti e neppure se vi sia tra i due procedimenti una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta", così che essi rappresentino una risposta coerente e sostanzialmente unitaria al medesimo illecito, ma se i due procedimenti abbiano o non abbiano ad oggetto il medesimo fatto storico-naturalistico. Il principio del ne bis in idem, dunque, viene in considerazione quale espressione del diritto fondamentale della persona ad evitare "l'ulteriore sofferenza, e i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata" (Corte cost. n. 149 del 2022, par.5.1.1.).
Si deve sottolineare allora che, nella citata sentenza n. 200 del 2016 la Corte costituzionale ha esaminato proprio in questa prospettiva la compatibilità tra l'art. 649 cod. proc. pen. e l'art. 4, prot.7, CEDU; ha considerato il diritto al ne bis in idem come immanente alle garanzie di cui agli artt. 24 e 111 Cost. e ha concluso che non contrasta con l'interpretazione dell'art. 4, prot.7, CEDU - come consolidatasi nella giurisprudenza della Corte EDU - una lettura dell'art. 649 cod. proc. pen. che imponga di "valutare, con un approccio storico-naturalistico, l'identità della condotta e dell'evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto a causa della prima" (così, testualmente, par. 8 della sentenza in esame).
Questo nucleo interpretativo del concetto di idem factum, non è stato smentito dalla giurisprudenza europea successiva (non solo quella della Corte EDU, ma anche quella della Corte di Strasburgo) che, impregiudicata la nozione di idem factum, ha in qualche modo "indebolito" il divieto di un secondo processo facendo virare la garanzia convenzionale verso lina dimensione sostanziale prima inedita perché agganciata al profilo dell'entità della sanzione complessivamente irrogata.
Si tratta, all'evidenza, di un profilo che non può rilevare nel caso oggetto del presente giudizio, né sotto il profilo del "doppio binario sanzioriatorio", perché, nel caso di specie, il primo procedimento è stato definito e il secondo avviato nell'ambito del sistema sanzionatorio penale (e, proprio per questo, si è posto il problema dell'operatività dell'art. 649 cod. proc. pen.); né sotto il profilo della proporzione sanzionatoria, perché il primo procedimento si è concluso con una dichiarazione di prescrizione.
Come si è detto, però, la questione interpretativa che, secondo la difesa, dovrebbe essere sottoposta alla Corte di Giustizia UE è ben diversa. A questa Corte non si dovrebbe chiedere di interpretare l'art. 50 della Carta UE e l'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen nella prospettiva della possibilità di un nuovo procedimento a carattere punitivo ("bis"), bensì nella prospettiva della medesimezza del fatto ("idem"). In tesi difensiva, l'interpretazione di queste norme, quale desumibile dai principi affermati dalla Corte di Giustizia, sarebbe più restrittiva di quella affermata dalla Corte EDU, univoca nel ritenere che, col termine "same offence", l'art. 4, prot. 7, CEDU abbia fatto riferimento a "fatti identici o sostanzialmente identici", intesi come un "complesso di circostanze fattuali concrete tra loro legate da un nesso inscindibile spazio-temporale, riferibili alla medesima persona" (Grande Camera, 10/2/2009, caso (Omissis) contro Russia, par. 84).
In altri termini, secondo la difesa, ancorché le citate disposizioni abbiano già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, residuerebbero ragionevoli dubbi sulla reale portata delle stesse, che potrebbe imporre una nozione di idem factum più restrittiva rispetto a quella indicata dalla Corte EDU nell'interpretare l'art. 4 prot. 7 e vietare un secondo giudizio di carattere punitivo in ogni caso di identità della condotta a prescindere dal fatto che l'evento causato da quella condotta possa essere diverso.
10.3. Tirando le fila del discorso, i passaggi argomentativi che imporrebbero di rivolgersi alla Corte di Giustizia UE per ottenere una chiara interpretazione dell'art. 50 della Carta UE e dell'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen sono i seguenti.
- Con la sentenza della Grande Camera, 10/2/2009 (caso (Omissis) contro Russia) la Corte EDU ha riconosciuto la necessità di superare l'incertezza interpretativa che si era venuta a creare sull'operatività del divieto di bis in idem.
Ha perciò esaminato i trattati e gli strumenti internazionali che sanciscono tale divieto e ha constatato che non tutti usano gli stessi termini. Ha affermato, però, che, pur in presenza di terminologie diverse, la necessità eli rendere pratici ed effettivi - non teorici o illusori - i diritti riconosciuti nella Convenzione EDU impone di collegare il divieto di un nuovo processo alla identità degli atti materiali (idem factum) e non alla qualificazione giuridica di quegli atti (idem legale). Su queste basi - come già chiarito - la Corte EDU ha concluso che l'art. 4, prot. n. 7, deve essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi (par. 82), dovendosi intendere per fatto "l'insieme di circostanze... concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale" (par. 84).
- Con la sentenza n. 200 del 2016, la Corte costituzionale ha sostenuto che i principi affermati dalla Corte EDU non chiedono di escludere dal fatto storico rilevante ai fini del bis in idem il riferimento all'evento naturalisticamente inteso. Ha affermato quindi che, nel valutare l'identità del fatto ai finì della applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., deve tenersi conto "della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico".
- La difesa sostiene che non vi è necessaria coincidenza tra l'interpretazione dell'art. 4, prot. 7, CEDU fornita dalla Corte Europea e l'interpretazione dell'art. 50 della Carta UE fornita dalla Corte di Giustizia. Sarebbe doveroso, pertanto, ai sensi dell'art. 267 TFUE, verificare se le due nozioni siano coincidenti e se l'interpretazione data all'art. 649 cod. proc. pen. dalla Corte costituzionale, oltre ad essere conforme all'art. 4, prot. 7, CEDU come interpretato dalla giurisprudenza europea (e quindi all'art. 117 Cost.), sia anche conforme all'art. 50 della Carta UE (e all'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen).
10.4. Come noto, l'art. 267, comma 3, TFUE prevede per i giudici di ultima istanza l'obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia UE in ogni caso in cui si debbano interpretare norme comunitarie. Tuttavia, secondo la lettura che di questa norma è stata data dalla stessa Corte UE, l'obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all'interpretazione delle norme comunitarie non sussiste quando "il giudice nazionale abbia constatato che la questione non sia pertinente né rilevante, che la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e che la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi" (tra le altre, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997; Sez. 3, n. 33101 del 07/06/2022, Prandini, Rv. 283519; Sez. 6, Sentenza n. 44436 del 04/10/2022, Palamara, Rv. 284151).
Muovendo da questa premessa si deve osservare che la tesi secondo la quale il divieto di bis in idem sancito dall'art. 50 della Carta EDU avrebbe significato e portata più ampi rispetto al divieto di bis in idem sancito dall'art. 4, prot. 7, CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo non trova alcun riscontro nella lettura della giurisprudenza europea, tanto più se si considera che tale ipotizzata divergenza dovrebbe riferirsi alla nozione di medesimo fatto e non alla possibilità che, pur in presenza di un medesimo fatto, sia celebrato un nuovo processo e alle aperture introdotte in tal senso dalla già citata sentenza della Grande Camera, 15/11/2016, caso A. e B. c. Norvegia, cui sono seguite importanti sentenze della Corte di Giustizia UE che, partendo dalla premessa dell'identità del fatto storico oggetto di differenti giudizi, hanno valutato, nella prospettiva del citato art. 50, se un secondo giudizio e una seconda sanzione fossero in concreto possibili (Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-524/15, Menci; Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Reai Estate c/Consob; Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-596/16 e C-597/16, Di Puma c/Consob e Consob c/ Zecca).
Come già argomentato, infatti, nel caso oggetto del presente ricorso, non si tratta di valutare se il divieto sancito dal primo paragrafo dell'art. 4, prot. 7, CEDU possa essere superato; in che modo un tale superamento possa essere temperato e se esso sia compatibile con l'interpretazione dell'art. 50 della Carta EDU fornita dalla Corte di Giustizia. Ci si deve chiedere, invece, se la giurisprudenza relativa all'interpretazione dell'art. 50 della Carta EDU (e dell'art. 54 della Convenzione per l'applicazione dell'accordo di Schengen) consenta di enucleare una nozione di idem factum diverse rispetto a quella elaborata dalla Corte Europea nella quale sia compresa solo l'identità della condotta senza che possa avere rilevanza la diversità dell'evento in senso naturalistico.
10.5. L'esame della giurisprudenza europea non fornisce spunti in tal senso.
La Corte di Giustizia ha più volte affermato che la nozione di stesso fatto ai sensi dell'art. 50 della Carta UE deve essere interpretata facendo riferimento "alla sola identità dei fatti materiali, ricomprendente un insieme di fatti inscindibilmente collegati tra loro, indipendentemente dalla qualificazione giuridica dei fatti medesimi o dall'interesse giuridico tutelato" (sentenza 21 settembre 2023, causa C-164/22, Juan; sentenza 29 aprile 2021, C-665/20, punto 17, e giurisprudenza ivi citata; sentenza 16 novembre 2010, causa C-261/09, Mantello). Ha affermato inoltre - e sì tratta di principi consolidati - che "l'identità dei fatti materiali deve essere intesa come un insieme di circostanze concrete derivanti da eventi che sono, in sostanza, gli stessi, in quanto coinvolgono lo stesso autore e sono inscindibilmente legati tra loro nel tempo e nello spazio". Ha sottolineato, infine, che il divieto di bis in idem non trova applicazione quando i fatti di cui si tratta non sono "identici", bensì soltanto "analoghi" (sentenza 23 marzo 2023, C- 365/21, MR, punti 37 e 38 e giurisprudenza ivi citata; sentenza 28 ottobre 2022, C-435Ì/22, punto 129 e giurisprudenza ivi citata).
Nel definire la nozione di stesso fatto, la Corte di Giustizia non si limita ad esprimere concetti coincidenti con quelli affermati dalla citata sentenza (Omissis) contro Russia; utilizza anche - e il dato è significativo perché non può essere casuale - la stessa terminologia usata dalla Corte EDU in quella sentenza. Le due Corti affermano dunque, concordemente, che il divieto di bis in idem non opera in presenza di fatti semplicemente analoghi, ma solo in presenza di fatti "identici o sostanzialmente identici" e, nel definire l'idem factum, entrambe fanno riferimento a circostanze inscindibilmente legate sotto il profilo spaziotemporale, riferibili alla medesima persona. Anche la Corte di Giustizia, come la Corte EDU, precisa che l'identità del fatto non è esclusa dalla diversità dell'interesse giuridico tutelato, ma neppure la Corte di Giustizia esclude (come non lo fa la Corte EDU) che tra gli elementi identitari del fatto vi sia l'evento in senso naturalistico, sicché nulla fa supporre che le Corti europee abbiano dato significati diversi al divieto di doppio giudizio sancito dagli artt. 50 della Carta UE, dall'art. 54 della Convezione di applicazione dell'accordo di Schengen e dall'art. 4, protocollo n. 7, CEDU.
La stessa Corte di giustizia, del resto, nell'affrontare il tema del doppio binario sanzionatorio (un tema che, come già chiarito, postula l'identità del fatto) ha affermato che i principi che presiedono alla valutazione dell'identità del fatto ai fini del divieto di doppio processo sancito dall'art. 50 della Carta, sono consolidati.
Al paragrafo 37 della sentenza della Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson Real Estate c/Consob si legge infatti: "secondo la giurisprudenza della Corte, il criterio rilevante al fine di valutare l'esistenza di uno stesso reato è quello dell'identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, che hanno condotto all'assoluzione o alla condanna definitiva dell'interessato (v., per analogia, sentenze del 18 luglio 2007, Kraaijenbrink, C-367/05, EU:C:2007:444, punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 16 novembre 2010, Mantello, C-261/09, EU:C:2010:683, punti 39 e 40). L'articolo 50 della Carta vieta quindi di infliggere, per fatti identici, più sanzioni di natura penale a seguito di procedimenti differenti svolti a tal fine".
In questa sentenza la Corte di giustizia ribadisce che la nozione di medesimo fatto è frutto di un orientamento consolidato, dunque di una interpretazione non controversa. Afferma, poi, che il fatto è il medesimo quando vi è "identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro" e che l'articolo 50 della Carta vieta "di infliggere, per fatti identici, più sanzioni di natura penale a seguito di procedimenti differenti svolti a tal fine".
Nella medesima prospettiva, altra sentenza intervenuta sul tema del "doppio binario sanzionatorio" (Grande Sezione 20 marzo 2018, C-524/15, Menci) ha affermato: che l'art. 50 della Carta UE non pone un divieto assoluto alla celebrazione di un nuovo giudizio, ma spetta al giudice nazionale accertare di volta in volta, "tenuto conto del complesso delle circostanze del procedimento principale, che l'onere risultante concretamente per l'interessato dall'applicazione della normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso" (par. 64). Tale affermazione non ha diretta rilevanza ai fini che qui interessano, ma, nel compierla, la Grande Sezione ha espressamente richiamato la giurisprudenza CEDU relativa all'art. 4, prot. 7, Convenzione EDU. Ha ricordato inoltre che, ai sensi dell'art. 52, paragrafo 3, della CDFUE se questa Carta contiene "diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione", fatta salva la possibilità che "il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa". Ha precisato che "i requisiti ai quali l'articolo 50 della Carta, in combinato disposto con l'articolo 52, paragrafo 1, della medesima, assoggetta un eventuale cumulo di procedimenti e di sanzioni penali nonché di procedimenti e di sanzioni amministrative di natura penale,... assicurano un livello di tutela del principio del ne bis in idem che non incide su quello garantito all'articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo" (par. 62 della sentenza in esame). In questa sentenza, dunque, la Corte di Giustizia ha chiarito che, per quanto riguarda la nozione di medesimo fatto, non vi sono divergenze nell'interpretazione dell'art. 50 della Carta dei diritti UE e nell'interpretazione dell'art. 4, prot. 7, CEDU e i diritti che conseguono al divieto di bis in idem sancito dall'art. 50 della Carta EDU hanno lo stesso significato e la stessa portata dì quelli conferiti dalla Convenzione.
Anche la Corte costituzionale, del resto, nella sentenza n. 149/2022 (par. 5.1.) dà atto che vi è sostanziale coincidenza tra gli approdi interpretativi raggiunti dalla Giurisprudenza di Strasburgo riguardo all'art. 4, prot. 7, CEDU e dalla Corte di Giustizia UE riguardo alla corrispondente garanzia apprestata dall'art. 50 CDFUE.
10.6. In conclusione, nulla consente di ipotizzare che la Corte di Giustizia UE abbia interpretato, o possa voler interpretare, l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea in termini diversi, e più restrittivi, rispetto a quelli utilizzati dalla Corte EDU per interpretare l'art. 4, prot. 7, CEDU (criteri cui la Corte costituzionale ha fatto riferimento nella citata sentenza n. 200/2016). Soprattutto, nulla consente di ritenere che, nell'interpretare queste norme, si sia mai inteso affermare che il principio del ne bis in idem vieti di procedere due volte contro una stessa persona in relazione alla medesima condotta anche quando dalla stessa siano derivati eventi naturalisticamente diversi.
11. Col quarto motivo, la difesa chiede a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 158, primo comma e 589 cod. pen. con riferimento agli artt. 24, comma 2, 25, 27 e ili Cost. e agli artt. 10 e 117 Cost. (laddove richiamano gli artt. 6, 3 e 8 della CEDU) "nella parte in cui, facendo decorrere la prescrizione dall'evento e non dalla condotta, consentono la celebrazione di un processo quando le prove sono disperse e inattendibili e perciò è ontologicamente inaffidabile la ricerca della verità materiale" e "nella parte in cui, facendo decorrere la prescrizione dall'evento e non dalla condotta, consentono la celebrazione di un processo a notevole distanza dai fatti, per di più senza affidabilità della ricerca della verità materiale" impedendo così che la pena svolga la necessaria funzione rieducativa e ponendosi in contrasto con le esigenze di tutela della dignità della persona umana.
I difensori sottolineano che buona parte del materiale probatorio è andata smarrita o non può più essere acquisita per la morte di coloro che avrebbero potuto testimoniare, sicché non v'è stata la possibilità di celebrare un "giusto processo", né per quanto riguarda l'esatta ricostruzione degli accadimenti, né per quanto riguarda la possibilità di esercitare efficacemente il diritto di difesa. Rilevano, inoltre, che il lungo tempo trascorso dai fatti non si concilia con la funzione rieducativa della pena che verrebbe ad essere inflitta a una persona diversa da quella che, molti anni prima, si sarebbe resa responsabile della condotta illecita.
Secondo la difesa, i principi del giusto processo trovano riconoscimento anche nell'art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Inoltre, il principio della funzione rieducativa della pena è riconosciuto nell'art. 1 di quella Carta perché, come anche la Corte costituzionale ha affermato (sentenza n. 364 del 1988), una pena che non avesse funzione rieducativa sarebbe contraria al principio di tutela della dignità umana. Alla luce di queste considerazioni, la difesa insta affinché sia chiesto, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia dell'Unione europea di "interpretare gli artt. 1 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea per verificare se siano compatibili con tale interpretazione gli artt. 158, primo comma, e 589 cod. pen., nel testo applicabile in ragione del tempo del commesso reato, nella parte in cui consentono che si dia corso al processo dopo decenni dalla condotta" e consentono dunque un processo "ontologicamente inidoneo ad un affidabile accertamento della verità materiale e lesivo del diritto di difesa e della dignità della persona, non essendo più la pena idonea a svolgere la funzione rieducativa".
11.1. Gli argomenti sviluppati non colgono nel segno.
La circostanza che nei reati di evento il termine di prescrizione sia fatto decorrere dal verificarsi dell'evento stesso muove dalla constatazione che, solo in quel momento, tutti gli elementi costitutivi del reato possono ritenersi integrati.
La dottrina è concorde nel ritenere che la ratio giustificativa dell'istituto della prescrizione non sia riconducibile a unità. Tra le finalità dell'istituto, però, v'è certamente la possibilità che lo Stato scelga di rinunciare alla propria potestà punitiva per effetto del decorso del tempo e, in questa prospettiva, non è affatto illogico - e non è dunque censurabile in termini di manifesta irragionevolezza -che, nei casi in cui un evento dannoso o pericoloso sia elemento costitutivo del reato, quel tempo inizi a decorrere proprio dal verificarsi del danno o del pericolo, atteso che solo in quel momento sorge la pretesa punitiva correlata alla consumazione di quel determinato reato.
Il secondo importante punto di vista cui possono essere ricondotte le teorie sulla ratio della prescrizione è quello che tende a descriverla come un meccanismo di tutela dell'imputato nei confronti di un'azione penale che proceda in modo lento, negligente, indefinito e incontrollabile nel tempo, ma anche in questa prospettiva non vi sono ragioni per ritenere censurabile la scelta di far decorrere il termine prescrizionale dal verificarsi dell'evento. Le indagini, infatti, non possono essere iniziate e l'azione penale non può essere esercitata se non quando tutti gli elementi costitutivi della fattispecie siano realizzati e quindi, nei reati di evento, quando l'evento si verifica.
La tesi secondo la quale un processo che si svolga dopo molto tempo dai fatti non è, per definizione, un "giusto processo" perché il decorso del tempo incide sulla possibilità di esercitare efficacemente il diritto di difesa, si fonda su affermazioni apodittiche nella loro assolutezza. La scarsa qualità del materiale probatorio conseguente al decorso del tempo, infatti, può risolversi in un elemento di svantaggio non solo per la difesa, ma anche per l'accusa, che deve provare la responsabilità dell'imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio".
A ciò deve aggiungersi che, se ci si pone nella prospettiva della difficoltà di raccogliere prove o della inaffidabilità delle prove acquisite, la previsione di termini di prescrizione più lunghi in ragione della maggior gravità della fattispecie non avrebbe ragion d'essere, così come non avrebbe ragion d'essere l'esistenza di reati imprescrittibili che, invece, è riconosciuta anche a livello sovranazionale. L'art. 157, ultimo comma, cod. pen. prevede che non si estinguano per prescrizione "i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti" e non si comprende per quali ragioni una tal scelta - come quella di far decorrere il termine di prescrizione dei reati di evento dal verificarsi di quell'evento -dovrebbe essere incompatibile con le regole del giusto processo.
Per quanto riguarda, poi, la funzione rieducativa della pena e le esigenze di tutela della dignità umana che tale funzione esprime, basta rammentare che a questa funzione si affiancano quelle retributiva e di prevenzione generale e speciale. Nel determinare il trattamento sanzionatorio, peraltro, il giudice può certamente tenere conto del tempo trascorso dal fatto e degli eventuali mutamenti che esso abbia determinato nella condizione soggettiva dell'imputato, sicché la funzione tendenzialmente rieducativa della pena e la tutela della dignità umana ben possono essere salvaguardate anche in caso di condanna inflitta per una condotta risalente nel tempo.
11.2. Come noto, tenendo conto della natura sostanziale dell'istituto della prescrizione, questa Corte ha temperato le conseguenze che possono derivare dal tempo eventualmente trascorso tra la condotta e l'evento in caso di successione di leggi.
Si è affermato che, "in tema di successione di leggi penali, nel caso in cui l'evento del reato intervenga nella vigenza di una legge penale più sfavorevole rispetto a quella in vigore al momento in cui è stata posta in essere la condotta, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta" (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, P., Rv. 273934). Tale principio è stato ribadito proprio in un procedimento per omicidio colposo con inosservanza della normativa antinfortunistica in materia di amianto nel quale il decesso delle persone offese era intervenuto a molta distanza dalla condotta (Sez. 4, n. 13582 del 23/01/2019, Grandi, Rv. 275800).
Muovendo da queste premesse, nel caso in esame, il termine di prescrizione deve essere calcolato con riferimento alla normativa applicabile nel novembre 1982, data nella quale - secondo quanto riferito dai giudici di merito - fu disposta la chiusura dello stabilimento di C. e G.G. smise di lavorarvi. Il dies a quo del termine prescrizionale, tuttavia, e rappresentato dalla data della morte, intervenuta il 7 dicembre 2008, e non si vede in che modo tale scelta normativa, legata alla constatazione che, in quel momento, si è verificata l'offesa ed è sorta la pretesa punitiva dello Stato, possa considerarsi confliggente con i principi costituzionali e convenzionali richiamati dalla difesa.
11.3. Non è inutile precisare che, alla luce dei principi affermati dalla sentenza Sez. 4, n. 13582 del 23/01/2019, Grandi, Rv. 275800 (e tenuto conto del fatto che il giudice di appello ha applicato all'imputato le attenuanti generiche con criterio di equivalenza rispetto alla ritenuta aggravante), il termine prescrizionale individuato sulla base della disciplina dell'art. 157, comma 2, cod. pen. nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 5 dicembre 2005 n.251 (c.d. "ex Cirielli") è pari a 10 anni, aumentati fino a quindici ai sensi dell'art. 160 cod. pen. nel testo all'epoca vigente. A questo termine, che sarebbe scaduto il 7 dicembre 2023, deve aggiungersi la sospensione del termine di prescrizione verificatasi dalla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, disposta dal G.U.P. con ordinanza del 24 luglio 2015, fino alla decisione della Corte, intervenuta con la citata sentenza n. 200/2016, pronunciata il 31 maggio 2016 (312 giorni). Deve essere aggiunto, inoltre, il periodo di sospensione del termine di prescrizione verificatosi nel giudizio di primo grado dal 14 giugno al 19 dicembre 2017 per un rinvio conseguente all'adesione dei difensori ad una astensione dalle udienze (189 giorni). Ne consegue che il termine di prescrizione non è ancora decorso e scadrà il 21 aprile 2025.
12. Esaurite le questioni preliminari si può procedere all'esame dei motivi aventi ad oggetto la ritenuta sussistenza del reato colposo.
Si deve ricordare a tal fine che, come emerge dalla lettura del capo di imputazione, a F.F. è stato contestato di aver cagionato la morte di G.G., avvenuta per asbestosi il 7 dicembre 2008, nella qualità di "responsabile della gestione" dapprima della Eternit Spa e poi della Industria Eternit Casale Monferrato Spa esercenti lo stabilimento di lavorazione dell'amianto sito in C.; qualità che, in tesi accusatoria, egli rivestì a partire dal giugno 1976 e fino alla chiusura dello stabilimento, avvenuta alla fine del 1982.
Come risulta dalla sentenza di primo grado (e sì tratta di circostanze non controverse) lo stabilimento di C. era inizialmente gestito dalla S.A.C.A. Cemento Amianto Spa, ma, nel 1953, l'intero pacchetto azionario di questa società fu acquistato da Eternit Spa Nel 1958, lo stabilimento fu concesso in affitto dalla S.A.C.A. alla Eternit che vi installò macchinari, impianti e attrezzature di sua proprietà. Il 22 luglio 1980, la S.A.C.A. Cemento Amianto Spa mutò la denominazione in Industria Eternit Casale Monferrato Spa Con effetto dal 31 dicembre 1980, Eternit Spa conferì lo stabilimento di C. alla Industria Eternit Casale Monferrato Spa Questo stabilimento era dunque, nei fatti, un reparto dello stabilimento di Casale Monferrato gestito da Eternit Spa
La sentenza di primo grado riferisce che, a partire dal 1972, la Eternit Spa passò sotto il controllo di società svizzere facenti capo alla famiglia F.F. A partire da quella data, infatti, la società (che era in difficoltà finanziarie) deliberò aumenti di capitale e le nuove azioni furono acquistate, per la quasi totalità, da società di partecipazione controllate da quella famiglia che giunse così a possedere la maggioranza delle azioni di Eternit Spa Nel 1980, Eternit Spa si trasformò in una holding che coordinava l'attività di quattro imprese industriali, le quali gestivano stabilimenti a C., C., Rubiera, B. e S.. Tra queste c'era l'Industria Eternit Casale Monferrato Spa che, come detto, gestiva gli stabilimenti di Casale Monferrato e C.. Il "gruppo svizzero" aveva al vertice una holding, la Amiantus AG, che fu intestataria delle azioni di Eternit Spa dal 1972 al 1975. Nel 1975 queste azioni passarono ad altra holding del gruppo, la Amindus AG, e nel 1984 passarono alla Eternit AG 1923 che gestiva in Svizzera gli stabilimenti per la produzione di cemento-amianto della famiglia F.F.
I giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto che, dal 1976, F.F. fosse al vertice del gruppo svizzero nel settore amianto. Il fratello dell'imputato, F.F., ha dichiarato infatti (la deposizione, resa nel corso del processo "Eternit 1", è stata acquisita agli atti e dichiarata utilizzabile ai fini della decisione) che, a partire dalla metà degli anni settanta, il padre (Omissis), proprietario e gestore del gruppo, si ritirò gradualmente affidando al figlio (Omissis) il settore industriale amianto e al figlio Thomas il settore cemento.
Secondo l'ipotesi accusatoria, l'imputato avrebbe cagionato la morte di G.G., (dipendente dello stabilimento dal 7 maggio 1955 al 26 novembre 1982) "per imprudenza, negligenza, imperizia e inosservanza delle norme sull'igiene del lavoro e, segnatamente, degli artt. 2087 cod. civ., 4 lett. a), b), c), d), 19, 20, 21, 33 D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303; 377 e 387 D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547; 157 e 176 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124".
Più specificamente, è stato contestato a F.F.: di aver omesso "l'individuazione e la realizzazione dei provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici, necessari per contenere l'esposizione all'amianto (impianti di aspirazione localizzata; adeguata ventilazione dei locali; utilizzo di sistemi a ciclo chiuso; limitazione dei tempi di esposizione; procedure di lavoro atte ad evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione dell'amianto; sistemi di pulizia degli indumenti di lavoro in ambito aziendale)"; di aver omesso di fornire ai dipendenti "idonei apparecchi personali di protezione" verificandone l'effettivo impiego; di aver omesso di sottoporre i lavoratori esposti ad amianto a "controlli sanitari adeguati" e di allontanare i lavoratori dall'esposizione a rischio "per motivi sanitari inerenti la loro persona"; di aver omesso di informare e formare i lavoratori "circa i rischi specifici derivanti dall'amianto e circa le misure per ovviare a tali rischi".
I giudici di merito hanno ritenuto fondata l'imputazione sia con riferimento alla posizione di F.F. quale gestore dei rischi connessi all'uso dell'amianto in tutti gli stabilimenti facenti capo al gruppo; sia per quanto riguarda la sussistenza del nesso causale tra la morte di G.G. e l'esposizione ad amianto nel periodo 1976-1982. Hanno ritenuto dunque: che, se F.F. si fosse attenuto alle regole cautelari imposte, già all'epoca, dal D.P.R. n. 303/56, oltre che a quelle previste dal D.P.R. n. 547/55 e dal D.P.R. 1124/65, tale evento non si sarebbe verificato; che tale evento fosse prevedibile ed evitabile (ed anzi fu, in concreto, previsto); che abbia rappresentato la concretizzazione del rischio che le regole cautelari violate miravano a prevenire.
13. Il quinto, il sesto e il settimo motivo del ricorso riguardano la posizione gestoria che le sentenze di merito hanno attribuito all'imputato e pertanto possono essere esaminati congiuntamente.
La difesa lamenta vizi di motivazione per essere stati ritenuti significativi dell'ingerenza di F.F. nella gestione dello stabilimento di C. elementi di prova che non deporrebbero in tal senso. Deduce, inoltre, violazione di legge (art. 40, comma 2, cod. pen. artt. 2087, 2497, 2639 cod. civ.) sottolineando che i giudici di merito avrebbero confuso i poteri di direzione e coordinamento che l'odierno ricorrente esercitò (e gli competevano nell'ambito di una organizzazione complessa come quella del gruppo Eternit) con quelli propri di un amministratore di fatto, così erroneamente attribuendo a lui la gestione delle società controllate e, tra queste, della società proprietaria dello stabilimento di C.
I difensori non contestano che F.F. avesse un ruolo di vertice all'interno del "gruppo svizzero", contestano invece che, in ragione di questo ruolo, egli abbia assunto su di sé la gestione delle società controllate. In tesi difensiva gli elementi acquisiti nel corso del giudizio dimostrerebbero soltanto che F.F. svolse attività di direzione e coordinamento delle società controllate, le quali mantenevano totale autonomia gestionale. Secondo i difensori ricorrenti, ciò comporta che una eventuale inadeguata gestione del rischio connesso all'utilizzazione dell'amianto non potrebbe essere ascritta all'odierno imputato, ma al datore di lavoro e ai dirigenti della Eternit Spa e della Industria Eternit Casale Monferrato Spa
La questione è proposta nel quinto e sesto motivo sotto il profilo del vizio di motivazione; nel settimo motivo, sotto il profilo della violazione di legge (art. 2087, 2497, 2639 cod. civ. e 40 comma 2 cod. pen.) e questo profilo deve essere preliminarmente esaminato.
13.1. Si deve subito rilevare che, nel caso di specie, il riferimento all'art. 2497 cod. civ. e alla giurisprudenza civile relativa all'applicazione di questa norma non è pertinente. Ed invero, all'epoca dei fatti (1976-1982), questa disposizione aveva tutt'altro contenuto: non era riconosciuta l'esistenza di aree di aggregazione tra imprese caratterizzate dalla unitarietà dell'indirizzo gestionale; l'attività di direzione e controllo (oggi espressamente prevista proprio dall'art. 2497 cod. civ.) non era positivamente disciplinata; il titolare dell'attività direzionale non era identificato presuntivamente in colui che esercita il controllo organico o di fatto sulle altre componenti del gruppo come avviene oggi ai sensi dell'art. 2497 sexies cod. civ. Neppure era vigente l'attuale testo dell'art. 2639 cod. civ. in base al quale: per i reati previsti dal titolo XI, Libro V, del Codice civile, "al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione". Negli anni 1976-1982, la figura del gruppo di imprese aveva rilievo nel sistema giuridico italiano solo in alcune ipotesi espressamente disciplinate, come nel caso di "società controllate o collegate" previsto dall'art. 2359 cod. civ.
È pertinente, invece, il riferimento all'art. 2087 cod. civ. Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, infatti, la posizione gestoria attribuita a F.F. trova fondamento in questa norma che pone in capo all'imprenditore l'obbligo di "adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" e ad essa si collegano le disposizioni del D.P.R. n. 303/56 che pongono a carico del datore di lavoro precisi obblighi di tutela della salute dei propri dipendenti. Si osserva in proposito che è risalente nel tempo - ed era già stato affermato nel periodo cui si riferisce l'imputazione - l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale" La individuazione dei destinatari delle norme di prevenzione degli infortuni va compiuta non tanto in relazione alla qualifica rivestita dall'agente nell'ambito dell'organizzazione imprenditoriale, quanto e soprattutto con riferimento alle reali mansioni esercitate, che importano l'assunzione di fatto delle responsabilità a queste inerenti..." (Sez. 6, n. 237 del 08/02/1968, Turco, Rv. 107448).
Come emerge dalla lettura delle sentenze di primo e secondo grado, i giudici di merito hanno attribuito a F.F. la posizione di gestore degli stabilimenti italiani (e, per quanto qui rileva, dello stabilimento di C.), perché hanno ritenuto che egli ne sia stato amministratore di fatto - esercitando in maniera continuativa i poteri tipici di tale qualifica - in quanto, nell'ambito dell'attività imprenditoriale che svolse al vertice del gruppo svizzero, assunse su di sé la specifica gestione del rischio amianto con riferimento a tutte le imprese facenti parte del gruppo e, in questa materia, per il tramite dei propri stretti collaboratori, impartì direttive agli amministratori e ai dirigenti di tutte le società controllate. Svolse dunque, con specifico riferimento al rischio amianto, il ruolo proprio del datore di lavoro, facendosi carico delle scelte riguardanti le misure di prevenzione o protezione che ciascuna società facente parte del gruppo avrebbe dovuto adottare per prevenire o ridurre al minimo il rischio di inalazione di fibre di amianto da parte dei lavoratori; un rischio che - lo si deve ricordare - era connaturato all'attività delle imprese delle quali F.F. era stato chiamato ad occuparsi, aventi ad oggetto la produzione di manufatti che erano realizzati utilizzando l'amianto come materia prima. Che tale sostanza fosse pericolosa per la salute, peraltro, era noto da tempo, tanto che in Italia la legge 12 aprile 1943, n. 455 aveva esteso l'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali, oltre che alla silicosi, anche all'asbestosi, definita, all'art. 4, come "fibrosi polmonare che, provocata da inalazione di polvere di amianto, si manifesta particolarmente con presenza negli alveoli, nei bronchioli e nel connettivo interstiziale di "corpuscoli dell'asbestosi" con tracheo-bronchite ed enfisema, ed all'esame radiologico con velatura del campo polmonare o con striature od intrecci reticolari più o meno intensi, maggiormente diffusi alle basi".
13.2. Come noto, la giurisprudenza di legittimità più recente esclude che la posizione di garanzia derivante dall'art. 2087 cod. civ. sia da se sola sufficiente ad integrare l'elemento oggettivo del reato omissivo improprio colposo. Si è osservato in proposito che la posizione di garanzia non è concetto da solo sufficiente a definire quale comportamento si sarebbe dovuto attuare, ma l'indagine va estesa "alle pertinenti regole comportamentali, che sì impongono nel caso concreto per la loro riconosciuta efficacia cautelare" (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997, pag. 294 della motivazione). Si è sottolineato inoltre che, "nell'individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dall'identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi rivestiva" (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, Rv. 254094, pag. 17 della motivazione). Solo in questo modo, infatti, è possibile individuare i soggetti cui compete la gestione dello specifico rischio che si è concretizzato nel verificarsi dell'evento e, solo dopo averli individuati, si può passare a verificare se la concreta gestione del rischio doveva avvenire osservando la regola cautelare che si assume violata e se il rispetto di questa regola avrebbe potuto evitare l'evento. È chiarificatrice in tal senso la sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, nella quale si legge (pag. 103 della motivazione): "Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell'idea di rischio: tutto il sistema è conformato per governare l'immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l'uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli. Il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in diverse guise in relazione alle differenti situazioni lavorative. Dunque, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare. Soprattutto nei contesti lavorativi più complessi, si è frequentemente in presenza di differenziate figure di soggetti investiti di ruoli gestionali autonomi a diversi livelli degli apparati; ed anche con riguardo alle diverse manifestazioni del rischio. Ciò suggerisce che in molti casi occorre configurare già sul piano dell'imputazione oggettiva, distinte sfere di responsabilità gestionale, separando le une dalle altre. Elsse conformano e limitano l'imputazione penale dell'evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. Allora, si può dire in breve, garante è il soggetto che gestisce il rischio". In altri termini, come la stessa sentenza chiarisce (pag. 102 della motivazione) "l'individuazione della responsabilità penale passa, non di rado, attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall'altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno".
13.2. I giudici di merito hanno fatto applicazione dei principi di diritto sopra enunciati senza incorrere in errori logici e in contraddizioni.
Hanno ritenuto infatti che, pur non avendo mai avuto alcun ruolo formale nelle società che gestirono lo stabilimento di C., F.F. abbia assunto sulla propria persona precise responsabilità nella gestione del rischio amianto conseguente alle attività produttive che venivano svolte in quello stabilimento (e in tutti gli altri stabilimenti facenti capo ad imprese controllate dal gruppo svizzero); abbia assunto, quindi, con riferimento a quello specifico rischio, il ruolo di imprenditore ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. e di datore di lavoro ai sensi dell'art. 4 D.Lgs. n. 303/56.
A tali conclusioni i giudici di merito sono giunti analizzando le modalità di gestione di questo specifico rischio attuate all'interno del gruppo di imprese del quale prima Eternit Spa e poi Industria Eternit Casale Monferrato Spa facevano parte.
Dalle sentenze di merito emerge:
- che, nel giugno 1976, subito dopo essere stato incaricato dal padre di occuparsi delle imprese che lavoravano amianto, F.F. organizzò un convegno informativo a Neuss al quale furono invitati a partecipare tutti i dirigenti del gruppo e, nella relazione introduttiva di quel convegno, spiegò che la direzione generale di Amiantus AG (la società capogruppo) aveva costituito "l'organo Amiantus" che si proponeva "di procedere nell'ambito di due fondamentali e problematici settori: 1) Problemi materiali - Risanamento delle aziende perseguendo provvedimenti tecnici ed effettuando controlli - Lavorazione nel cantiere - Assistenza al lavoratore per mezzo di informazioni, educazione e controllo medico; 2) Problemi politici - Sindacati (collaborazione con i sindacati come per esempio in Svezia, oppure con i sindacati internazionali come per esempio l'I.C.F.) - Giornalisti e mass-media - Eliminazione della concorrenza (prodotti privi di amianto come per esempio rivestimenti per pavimenti in fibre di vetro, mattoni in calcestruzzo ecc.)" (si veda, a pag. 67 e ss. della sentenza di primo grado, il testo della introduzione al convegno);
- che all'esito di questo convegno fu elaborato un documento, denominato "Hauls 1976", col quale furono impartite ai dirigenti degli stabilimenti nei quali si lavorava l'amianto linee guida su come gestire dal punto di vista pratico i problemi connessi; quel documento individuava anche alcune situazioni tipo nelle quali i dirigenti avrebbero potuto trovarsi e spiegava loro cosa avrebbero dovuto fare; spiegava, inoltre, in che modo i dirigenti avrebbero dovuto rispondere, per non creare inutili allarmi, a chi avesse rivolto loro domande relative alla pericolosità dell'amianto e alle iniziative adottate per ridurne l'aerodispersione;
- che il centro Amiantus, effettivamente costituito, si occupava di tutte le problematiche tecniche relative all'uso dell'amianto;
- che tra F.F. e I.I. (Amministratore Delegato di Eternit Spa) intercorse una corrispondenza riservata nella quale si trattavano i problemi della sicurezza del lavoro e della nocività dell'amianto e, in una lettera, F.F. parlò anche dei buoni risultati ottenuti con la distribuzione del documento "Hauls 1976"; riferibile - quindi - a scelte gestionali da lui compiute;
- che delle tematiche relative alla gestione del rischio amianto si occupavano i direttori tecnici delle società del gruppo, sempre nominati su indicazione della proprietà svizzera;
- che fu nominato su indicazione della proprietà svizzera anche Hans Meier, direttore tecnico di Eternit Spa, il quale al momento della nomina, avvenuta nel 1973, ricevette l'incarico di introdurre "un nuovo sistema di resoconto tecnico secondo le istruzioni della società Amindus e del centro Amianto" e si impegnò a rendere conto mensilmente delle proprie attività, non soltanto "alla direzione di Genova" (ove la Eternit Spa aveva la sede legale), ma anche alla Amindus AG;
- che Eternit Spa stipulò con la Amiantus AG contratti di consulenza aventi ad oggetto la gestione della pericolosità dell'amianto.
I giudici di merito hanno evidenziato inoltre: che i problemi tecnici della lavorazione dell'amianto e i connessi problemi per la salute dei lavoratori erano studiati da centri posti sotto la diretta gestione del "gruppo svizzero" e, in particolare, da un laboratorio situato a N. denominato "Asbest Institut", diretto dal Prof. P.P. (esperto del settore), ove anche il responsabile del Servizio Igiene del Lavoro della Eternit Spa, N.N., effettuò la propria formazione e dove confluivano le misurazioni e le analisi effettuate dai servizi periferici (comprese quelle effettuate da N.N.); che, secondo le dichiarazioni rese dallo stesso N.N., i servizi periferici ricevevano direttive vincolanti sul modo in cui eseguire tali misurazioni e sulle iniziative da adottare in materia di igiene del lavoro.
Dall'insieme di questi elementi, ì giudici di merito hanno dedotto che il rischio amianto era gestito a livello centrale, in attuazione di precise scelte di politica industriale compiute ai più alti vertici del "gruppo svizzero" (controllante le società italiane) e, quindi, sotto la supervisione di F.F.
II ruolo di datore di lavoro e gestore del rischio, dunque, è stato attribuito all'imputato desumendolo da una serie di indici concreti. Nella prospettazione delle sentenze di merito, tale ruolo non discende soltanto dall'esercizio di una attività imprenditoriale pericolosa, ma dall'aver creato una struttura destinata ad occuparsi specificamente del rischio amianto ed essersi concretamente ingerito nella gestione di quel rischio destinata ad avere ricadute sui costi della produzione e, quindi, sull'attività di tutte le imprese controllate.
Nell'ambito di tale funzione gestoria, la condotta doverosa omessa è stata individuata nel mancato rispetto delle disposizioni in materia di tutela della salute dei lavoratori all'epoca vigenti (in specie quelle del D.P.R. n. 303/1956). Se è vero, infatti, che solo con la legge 27 marzo 1992, n. 257 fu vietato in Italia l'utilizzo dell'amianto e la produzione di manufatti contenenti amianto, è pur vero che da tempo era nota - ed era ben nota anche a F.F. che relazionò sul punto nell'introdurre il convegno di Neuss - la nocività per la salute di questo materiale e che l'art. 21 D.P.R. n. 303/1956 così testualmente recitava: "Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro. Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nell'atmosfera. Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri. Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all' inumidimento del materiale stesso. Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e l'eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro. Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai commi precedenti, e non possono essere causa di danno o incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dal comma precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione. I mezzi personali posso essere altresì prescritti dall' Ispettorato del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al comma terzo e quarto del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà di tipo tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri".
13.3. Per quanto esposto le doglianze difensive non colgono nel segno quando sostengono che i giudici di merito hanno attribuito a F.F. il ruolo di amministratore di fatto (o dì datore di lavoro di fatto) desumendolo da poteri di direzione e coordinamento che egli era tenuto a svolgere essendo al vertice di una organizzazione imprenditoriale complessa. Così argomentando, infatti, la difesa trascura che all'imputato è stato attribuito un ruolo gestorio con specifico riferimento al rischio amianto e tale ruolo è stato desunto - con motivazione completa, non contraddittoria e non manifestamente illogica - dal fatto che quel rischio veniva gestito a livello centrale: i direttori tecnici erano nominati su indicazione del "gruppo svizzero" e ad esso dovevano riferire; in questa materia i direttori di stabilimento ricevevano disposizioni sulla base di decisioni assunte a livello centrale e ad esse dovevano attenersi; il responsabile del SIL di Eternit Spa N.N. fu formato all'Asbest Institut, si atteneva per eseguire le misurazioni alle indicazioni che gli venivano fornite a livello centrale e inviava a quel centro le relazioni predisposte all'esito dei sopralluoghi eseguiti negli stabilimenti. A conforto di tali conclusioni, la sentenza di primo grado richiama (pag. 62) le dichiarazioni rese nel procedimento "Eternit 1" da L.L. (dirigente del gruppo dal 1979; direttore generale di Eternit Spa dal 9 settembre 1983; amministratore delegato dall'11 maggio 1984, vicepresidente e amministratore delegato dal 28 giugno 1983) secondo le quali "P.P. ha ricevuto... tutte le misurazioni che sono state fatte. Dall'Italia, per esempio, dovevamo mandare tutti i risultati che N.N. ha fatto e sono passati anche a N." (pag. 53 della trascrizione) e "le direttive in materia di amianto arrivavano direttamente dall'istituto di Neuss per iscritto ai diversi stabilimenti, oppure arrivavano dalla società Ametex..., precedentemente esistente con la denominazione Amiantus" (pag. 56 della trascrizione. Il verbale, acquisito al fascicolo per il dibattimento e dichiarato utilizzabile ai fini della decisione, è allegato - col n. 34 - all'atto di ricorso).
13.4. La circostanza che a F.F. sia stato attribuito il ruolo di datore di lavoro e gestore del rischio amianto ai sensi degli artt. 2087 cod. civ. e delle norme in materia di igiene del lavoro all'epoca vigenti, porta ad escludere che possa esservi errore di diritto nell'aver applicato lo schema di responsabilità di cui all'art. 40, comma 2, cod. pen.
Si deve tuttavia rilevare che dottrina e giurisprudenza dubitano della possibilità di qualificare come omissiva la condotta dei datori di lavoro e dei dirigenti cui venga imputato dì aver cagionato la morte di lavoratori durevolmente esposti alla inalazione di fibre di amianto. Come è stato osservato, non può "ritenersi omissiva la responsabilità dell'imprenditore che abbia mancato di adottare le cautele per ridurre entro i limiti consentiti il contatto dei lavoratori con la sostanza pericolosa" perché ciò significherebbe "porre indebitamente in non cale la previa condotta positiva dell'imputato, che ha predisposto la struttura produttiva al cui interno è avvenuta l'esposizione della vittima all'agente tossico" (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997, pag. 300 della motivazione). Ed invero, consentendo ai lavoratori di svolgere la propria opera in una fabbrica priva di adeguati dispositivi di prevenzione e protezione, l'imprenditore viola un divieto e, in astratto, la differenza tra causalità commissiva e omissiva è chiara nel senso che ""nella prima viene violato un divieto; nella seconda è un comando ad essere violato" (Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Catalano, Rv. 247015, pag. 44 della motivazione). Per converso, "il comportamento omissivo non può essere inteso in senso assoluto, nel senso cioè di ritenersi sussistente solo nel caso di assoluta mancanza di azione da parte del soggetto, ma è comprensivo anche dei casi in cui il soggetto pone in essere un comportamento diverso da quello dovuto" (Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010, Catalano, Rv. 247015, pag. 45 della motivazione).
Ai fini che qui interessano, peraltro, la distinzione tra azione e omissione non deve essere sopravvalutata.
Come si è detto, F.F., è stato chiamato a rispondere della morte di G.G. in ragione di una posizione gestoria fondata sulla constatazione che le scelte imprenditoriali relative al rischio amianto erano compiute in Svizzera ad opera dei vertici del gruppo ed egli subentrò in questa posizione di vertice a partire dal 1976. In questa situazione non rileva tanto che la posizione di F.F. sia qualificata come posizione gestoria o posizione di garanzia. All'imputato, infatti, sono state attribuite condotte attive ed omissive consistite, da un lato, nell'aver continuato a utilizzare amianto (come si vedrà più avanti, anche la crocidolite - c.d. amianto blu - già messa al bando in alcuni paesi); dall'altro, nell'aver adottato misure di prevenzione e protezione insufficienti non solo ad eliminare, ma anche a ridurre al minimo l'inalazione di polveri, pur consapevole che ciò comportava rischi per la salute e che la tecnologia metteva a disposizione strumenti più idonei rispetto a quelli adottati.
13.5. Come si è detto, nei motivi quinto e sesto la difesa deduce vizi di motivazione della sentenza di primo grado e di quella impugnata.
Per quanto riguarda il ruolo svolto dall'imputato nelle società che gestivano lo stabilimento di C., la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595). Ne consegue che le due sentenze devono essere lette congiuntamente e questo è certamente possibile perché - come già chiarito - la nullità della sentenza di primo grado (dedotta col primo motivo di ricorso) non può essere ritenuta sussistente.
Col quinto motivo, più che evidenziare una carenza della motivazione o profili di contraddittorietà o manifesta illogicità della stessa, la difesa sostiene che gli elementi valutati dai giudici di merito come significativi della diretta gestione del rischio amianto da parte di Stephan F.F. (in specie: gli esiti del convegno di Neuss; l'invio ai dirigenti degli stabilimenti nei quali si utilizzava l'amianto del documento "Hauls 76"; il contenuto della corrispondenza intercorsa tra F.F. e I.I.; l'istituzione del Servizio Sicurezza e Igiene del Lavoro e le sue modalità di funzionamento) potrebbero essere interpretati in senso diverso rispetto a quello che è stato loro attribuito dai giudici di merito. Sviluppando tali argomentazioni la difesa chiede a questa Corte di legittimità una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione. Come noto, però, l'apprezzamento degli elementi di prova posti alla base della decisione e del loro significato è riservato in via esclusiva al giudice di merito, e non può integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207945).
Analoghe osservazioni devono essere formulate con riferimento alla parte del sesto motivo nella quale la difesa fornisce una rilettura delle emergenze dibattimentali e sostiene che i giudici di merito avrebbero qualificato come gestione diretta una mera attività di direzione e coordinamento, inevitabile nell'ambito di un gruppo cui facevano capo mille società, delle quali almeno un centinaio operava nel settore del cemento-amianto. Per questa parte, infatti, i rilievi formulati dalla difesa sono meramente oppositivi e, come tali, sostanziano una valutazione alternativa a quella operata dai giudici di merito che non può essere presa in considerazione ai fini del sindacato in sede di legittimità.
Si è già spiegato perché, nel caso di specie, il richiamo alla giurisprudenza civile che fa applicazione degli artt. 2497 e 2639 cod. civ. non è pertinente.
14. Con i motivi ottavo, nono e decimo, la difesa deduce vizi di motivazione quanto alla ritenuta inosservanza da parte dell'imputato delle regole cautelari vigenti all'epoca dei fatti. I difensori del ricorrente osservano: che la scelta di proseguire nella lavorazione dell'amianto, pur nella consapevolezza della nocività del materiale, era conforme alle conoscenze scientifiche del tempo e una scelta diversa non era imposta dalla normativa vigente (motivo 8); che furono adottate misure per ridurre la polverosità dell'ambiente in modo da contenere i limiti di esposizione entro i valori soglia indicati dalla ACGIH (American Conference of Governmental Industrian Hygienists) e dai contratti collettivi di lavoro (furono adottate dunque misure di protezione conformi alle regole cautelari più accreditate) (motivi 8 e 9); che i giudici di merito hanno attribuito rilievo a deposizioni testimoniali in sé irrilevanti perché la polverosità dell'ambiente non prova che, nel periodo considerato, fossero disperse oltre a polveri di cemento anche fibre di amianto, né, tanto meno, che si trattasse di fibre respirabili essendo state definite tali (nella "consulenza Nesi-D.D.D.") solo particelle con "diametro non superiore a 3 micron" e comunque aventi "un rapporto lunghezza/diametro almeno 3 a 1" (motivo 9); che, come concordemente riferito dai consulenti sentiti in giudizio, vi è un livello, pari a 25 f bre per centimetro cubo (ff/cc), al di sotto del quale l'esposizione ad amianto non è in grado di determinare effetti di tipo fibrotico e non è provato che, tra il 1976 e il 1982, nello stabilimento di C. quel livello sia stato superato (motivo 9); che gli investimenti compiuti per tutelare la salute dei lavoratori sono stati valutati inadeguati sulla base di dati incompleti perché la documentazione contabile della Eternit Spa e della Industria Eternit Casale Monferrato Spa, custodita dal curatore fallimentare delle due società, è andata persa in gran parte in occasione di una alluvione che ha determinato l'allagamento dei locali nei quali era collocata (motivi 8 e 10 e motivi aggiunti del 18 aprile 2024). Col decimo motivo, i difensori deducono, inoltre, violazione di legge per essere stata ritenuta una condotta contraria a regole cautelari pur in presenza dì un ragionevole dubbio in relazione alla situazione ambientale esistente presso lo stabilimento di C. tra il 1976 e il 1982 e pur essendo stato accertato (e riconosciuto dai giudici di merito) che durante la gestione svizzera la situazione ambientale negli stabilimenti era migliorata rispetto a quella preesistente.
14.1. La sentenza impugnata dedica alla situazione ambientale nello stabilimento di C. e agli interventi adottati nel periodo considerato un intero paragrafo, che va da pag. 28 a pag. 57. In queste pagine sono certamente citate anche deposizioni testimoniali che parlano genericamente della polverosità dell'ambiente di lavoro, ma il nucleo essenziale della motivazione è un altro.
La sentenza impugnata e la sentenza di primo grado danno atto che in una consulenza acquisita agli atti (indicata come "consulenza Nesi-D.D.D."), eseguita nell'ambito di altro procedimento concluso con sentenza irrevocabile del 25 gennaio 1991 del Tribunale di Torino (Sezione distaccata di Chivasso), si era accertato che tra il 1978 e il 1982 nello stabilimento di C. vi era stata una "massiccia riduzione delle concentrazioni di fibre". Ritengono tuttavia che, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, ciò non consenta di concludere che, nel periodo della gestione svizzera, i limiti di esposizione siano stati contenuti entro i valori soglia indicati dalla ACGIH o dai contratti collettivi di lavoro.
A questo proposito le sentenze di merito osservano che, anche nella "consulenza Nesi-D.D.D.", le misurazioni eseguite nel 1978 dall'Istituto di Medicina del Lavoro dell'Università di Pavia, furono valutate inattendibili perché rilevarono valori mediamente al di sotto della metà dei valori rilevati dal servizio interno (SIL). Sottolineano, inoltre, che tali misurazioni furono eseguite su incarico di Eternit Spa in tempi e luoghi indicati dalla committente e che dalla documentazione non emergono né le modalità dei prelievi né i metodi usati per eseguire le analisi.
Secondo i giudici di merito, anche i dati acquisiti dal Servizio di igiene del lavoro interno (SIL), documentati dalle relazioni semestrali predisposte dall'aprile 1978 al novembre 1981, non possono essere considerati affidabili: in primo luogo, perché manca l'indicazione delle date e della metodica di conteggio delle fibre; in secondo luogo, perché non risultano essere state monitorate alcune delle operazioni più a rischio. La sentenza di primo grado argomenta in tal senso (pag. 65 della motivazione) anche sulla base delle dichiarazioni rese da N.N. (responsabile del SIL) nel primo processo Eternit (il verbale, acquisito agli atti, è senza dubbio tra quelli dichiarati utilizzabili ai fini della decisione) secondo il quale le misurazioni "venivano eseguite solo nei punti di campionamento previsti dal protocollo di P.P." e dunque non necessariamente erano idonee a fornire indicazioni sulla complessiva situazione dello stabilimento.
La sentenza impugnata e quella di primo grado sottolineano, inoltre, che persistenti criticità furono rilevate anche dal SIL:
- nella relazione dell'aprile 1978, furono segnalate "alte concentrazioni" di fibre nel locale dove avveniva la lavorazione del materiale causate dal disintegratore utilizzato per lo sfilacciamento dell'amianto dal quale fuoriusciva una "notevole quantità di fibre, visibile anche a occhio nudo, le quali si disperdevano per tutto il locale circostante";
- questa stessa relazione riferisce che, tra queste fibre, vi era anche il c.d. amianto blu (corcidolite), sicché tale qualità di amianto era ancora utilizzata nel 1978 ancorché fosse noto che si trattava di un materiale particolarmente pericoloso perché suscettibile di frammentarsi in fibre sottilissime più facilmente inalabili e benché, nell'introdurre il congresso di Neuss, Scnmidheiny avesse e riferito che l'uso dì tale prodotto era ormai "proibito in molte nazioni" (pag. 67 e ss. della sentenza di primo grado);
- solo nel novembre 1978, in una successiva relazione, il SIL attestò che l'uso del disintegratore era cessato;
- nel novembre 1978, lo stesso SIL segnalò l'inefficienza dell'aspirazione di una sega a disco installata nel reparto finissaggi che, funzionando, inquinava "in modo massiccio la zona circostante" e rendeva la "lavorazione molto pericolosa";
- a giugno del 1979, il SIL segnalò la necessità di eliminare l'accumulo di detriti nei finissaggi sottolineando che, anche se da tempo si era passati alla lavorazione ad umido, tuttavia, i residui umidi essiccati restavano in loco e potevano diventare fonte di inquinamento;
- nel dicembre 1979, persistevano criticità nel reparto finissaggio e alcune lastre erano rifinite con un "pialletto elettrico" che generava "un notevole quantità di polvere" idonea, appena asciutta, ad inquinare la zona di lavoro;
- nel mese di aprile del 1980, e poi di nuovo a novembre di quell'anno, il SIL segnalò nel reparto finissaggio una "concentrazione di fibre molto elevata", superiore ai limiti di concentrazione stabiliti;
- ad aprile del 1981, il SIL segnalò che i sacchi vuoti continuavano a non essere stivati sotto aspirazione (come avveniva invece in altri stabilimenti) e gli operatori, vuotato il sacco, lo scuotevano; una operazione che provocava una notevole dispersione di fibre;
- tale criticità persisteva a novembre 1981, quando il SIL rilevò che ancora non era stato introdotto un impianto di aspirazione nella zona di stivaggio dei sacchi e segnalò che, durante la frantumazione delle canne di scarto, si produceva notevole polverosità.
Poiché provenienti dal Servizio di igiene del lavoro interno alla società, le segnalazioni contenute in questi rapporti sono state considerate dai giudici di merito significative del fatto che la situazione ambientale esistente nello stabilimento di C. nel periodo 1976-1982, pur essendo gradualmente migliorata, non fosse adeguata agli standard richiesti dalla pericolosità del prodotto utilizzato. I giudici di merito osservano che non tutti i miglioramenti necessari furono realizzati; anzi, alcune segnalazioni rimasero lettera morta e anche l'introduzione nel reparto impasti di una lavorazione a ciclo chiuso avvenne con gradualità: la macchina impasti, infatti, era stata sostituita già nel 1976, ma nell'aprile del 1978 il disintegratore era ancora in uso. Ne desumono che esigenze di tipo economico e tecnico-produttivo furono ritenute prevalenti sulla tutela della salute dei lavoratori. Sottolineano in tal senso: che la crocidolite (della quale era nota la particolare pericolosità),, fu utilizzata per la produzione di tubi fino alla chiusura degli stabilimenti, perché idonea a garantire una maggior resistenza del prodotto; che, fino al 1976, la preparazione dell'impasto continuò a non essere eseguita in un ciclo completamente chiuso, ma fu utilizzato un disintegratore per lo sfilacciamento dell'amianto dal quale fuoriusciva una "notevole quantità di fibre visibile anche a occhio nudo"; che non si intervenne nel reparto di stivaggio dei sacchi vuoti per dotarlo di un aspiratore; che non si introdusse un macchinario a ciclo chiuso per la frantumazione delle canne da scartare perché difettose. Come riferito anche dal teste A.A.A. all'udienza del 24 maggio 2018, infatti, a C., diversamente da quanto avveniva a C., tale frantumazione non avveniva in un apposito mulino, ma a cielo aperto, e la relazione SIL del novembre 1981 documenta che, per frantumare le canne che costituivano scarti di lavorazione, gli operai di C. procedevano a sollevarle in aria facendole ricadere al suolo con violenza (il SIL consigliò di frantumarle, invece, per "schiacciamento") (pag. 150 e pag. 156 della sentenza di primo grado).
I motivi di ricorso non si confrontano con queste argomentazioni e, ancora una volta, hanno carattere meramente oppositivo perché valorizzano gli interventi che furono eseguiti per ottenere un miglioramento della situazione igienica, senza però smentire efficacemente il significato probatorio degli elementi valorizzati dai giudici di merito e, soprattutto, senza evidenziare profili di contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.
14.2. Non ha maggior pregio l'argomento secondo il quale i valori rilevati dal SIL non furono mai superiori a quelli indicati dalla ACGIH e dai contratti collettivi di lavoro. Anche per questa parte i motivi di ricorso non si confrontano con la motivazione delle sentenze di merito che hanno ritenuto inattendibili tali misurazioni perché limitate ad alcuni reparti ed eseguite con modalità non specificate, inidonee quindi a documentare un livello di esposizione inferiore ai valori soglia sopra indicati. Secondo la definizione che gli stessi difensori richiamano, l'esposizione professionale ad un agente patogeno è "la concentrazione di un determinato agente, potenzialmente dannoso per la salute, misurata nella zona respiratoria del lavoratore con campionamenti di tipo personale ed espressa con media ponderata in funzione del tempo su un periodo di riferimento di otto ore". Ne consegue che le misurazioni eseguite dal SIL non sono idonee ad attestare un livello di esposizione dei lavoratori generalmente inferiore ai valori soglia individuati dall'ACGIH (o a quelli concordati con le rappresentanze dei lavoratori). Di queste misurazioni, infatti, non sono note né le modalità né i tempi di durata; con riferimento ad alcune situazioni critiche (lo stivaggio e la frantumazione) nessuna misurazione fu eseguita; nell'aprile del 1980, proprio il SIL rilevò che nel reparto finissaggio si registrava ancora una concentrazione di fibre superiore ai limiti stabiliti. Pertanto, nessun profilo di contraddittorietà o manifesta illogicità può essere ipotizzato per aver ritenuto i rapporti del SIL inidonei a provare una effettiva e stabile riduzione della diffusione di fibre di amianto al di sotto dei valori soglia indicati dall'ACGIH e per essere stato attribuito valore indiziario, nel senso del superamento di tali valori, alle criticità riscontrate dallo stesso SIL riguardo allo svolgimento di singole lavorazioni.
Come noto, i valori limite relativi alla concentrazione di fibre di asbesto in ambiente di lavoro sono stati introdotti in Italia solo con il D.M. 16/10/1986, seguito dal D.Lgs. n.277/1991. Prima di quella data, la legislazione italiana non indicava le concentrazioni massime ammissibili, ma faceva riferimento, anche per quanto concerne l'amianto, all'art. 21 D.P.R. n. 303/1956. Anche nel contesto normativo delineato a partire dal 1986, peraltro, si è ritenuto che l'obbligo di prevenzione contro gli agenti chimici gravante sul datore di lavoro sorga a prescindere dal fatto che le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, purché ulteriori abbattimenti siano tecnologicamente possibili. "I valori-limite vanno intesi, infatti, come semplici soglie di allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per ridurre al minimo i rischi, in relazione alle conoscenze, acquisite in base al progresso tecnico, comporta l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo" (Sez. 4, n. 46392 del 15/05/2018, Beduschi, Rv. 274272, pag. 20 della motivazione).
14.3. I giudici di merito hanno fatto buon governo di tali principi di diritto quando hanno rilevato che nello stabilimento di C. non furono adottate tutte le misure possibili (e consentite dalla tecnologia dell'epoca) per ridurre al minimo il rischio alla salute conseguente all'utilizzo delle fibre di amianto; rischio che era ben noto all'odierno imputato fin da quando aveva assunto la direzione del gruppo.
Nel criticare la motivazione sviluppata per giungere a tali conclusioni, la difesa non ne evidenzia profili di contraddittorietà o manifesta illogicità, invoca dunque una inammissibile rilettura del compendio probatorio. Ignora, inoltre, il dato, sul quale pure la sentenza di primo grado si è soffermata (pag. 141), che nel periodo 1976-1982 i valori soglia indicati dalla ACGIH non erano affatto universalmente riconosciuti come idonei ad assicurare la salute dei lavoratori: già nel giugno del 1972, nel corso del XXXIV Congresso di Medicina del Lavoro, M. Governa, aveva sostenuto che quei valori non fossero idonei a garantire un'efficace prevenzione; nel 1975, l'Associazione degli Igienisti Industriali italiani aveva proposto un valore limite ponderato di 2 ff/cc, ben inferiore a quello di 5 ff/cc indicato dagli igienisti americani, e aveva escluso che potessero essere ipotizzati valori soglia per la crocidolite, in quanto inserita tra le sostanze cancerogene del gruppo A.
Come è stato efficacemente chiarito dalla sentenza Sez. 4, n. 3567 del 05/10/1999, dep. 2000, Hariolf, Rv. 216209: l'obbligo imposto dall'art. 21 D.P.R. n. 303/56 al datore di lavoro che opera in un determinato settore, altro non è che "l'obbligo di tenere conto delle indicazioni della scienza e della tecnica per quel settore di attività al fine di prevenire gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali o al fine di ridurre - abbattere finché è tecnicamente possibile - i rischi di infortuni o di malattie professionali". Poiché l'attività imprenditoriale è attività pericolosa consentita, l'imprenditore deve attivare le misure preventive che, sulla base delle conoscenze del momento, sono le più idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi; quindi, deve ridurre il più possibile le esposizioni indipendentemente dal costo dì tali iniziative. In questi casi, dunque, la regola cautelare è una regola aperta, che deve tenere conto dell'evoluzione delle conoscenze come dell'evoluzione tecnologica, e la condotta doverosa deve essere ricostruita sulla base della situazione esistente nel momento in cui il garante era chiamato ad operare. In altri termini: "se una sostanza è tossica, e purtuttavia ne è consentita la manipolazione", l'agente (nel caso in esame l'imprenditore) "dovrà fare riferimento, nel momento in cui opera, ai mezzi di prevenzione esistenti e, se ne esistono di idonei ad eliminare l'esposizione, dovrà eliminarla; diversamente dovrà ridurla nei limiti in cui lo consentono i mezzi conosciuti che siano disponibili in quel momento" (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016, dep. 2017, Ferrentino, Rv. 270379, pag. 36 della motivazione).
Le sentenze di primo e secondo grado si sono soffermate sia sul bagaglio di conoscenze del quale F.F. disponeva, sia sulla possibilità di adottare misure più efficaci per ridurre il rischio connesso alla inalazione delle polveri. Pertanto, nessuna violazione di legge e nessun profilo d contraddittorietà o manifesta illogicità può essere ravvisato nella individuazione della condotta doverosa. Ne consegue che, sul piano della causalità generale, le motivazioni fornite dai giudici di merito si sottraggono alle censure del ricorrente.
15. Conclusioni diverse si impongono con riferimento al tema della causalità individuale, affrontato dalla difesa dell'imputato nell'undicesimo motivo di ricorso.
Dalle sentenze di merito risulta che G.G. lavorò nello stabilimento di C. dal 1955 al 1982, inizialmente nel reparto mescole, poi nel reparto sformatura canne e nel reparto finizione (lavorazioni che si svolgevano nella stessa porzione di capannone). Non v'è dubbio che, durante tutto questo periodo, egli sia stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto. In data 6 maggio 2004, l'INAIL riconobbe che G.G. era affetto da asbestosi, in ragione di una "evidenza radiologica di grado (Omissis)" con presenza di "placche pleuriche, ispessimenti pleurici e versamento pleurico" (pag. 61 della sentenza impugnata). La morte intervenne il 7 dicembre 2008 per asbestosi. La causa della morte è stata confermata dalla dott.ssa Q.Q., incaricata, quale consulente tecnico del PM, di esaminare i campioni di tessuto prelevato in sede di riscontro diagnostico. Nella sentenza impugnata si legge (pag. 61) che la dott.ssa Q.Q. ha rilevato "un quadro di asbestosi in stadio avanzato, con un polmone in fase terminale, con una fibrosi massiva che non lasciava spazi aerei; all'esame autoptico veniva rinvenuto parecchio materiale dentro gli alveoli, in particolare corpuscoli ferruginosi (sono le fibre di amianto che vengono attaccate dai macrofagi e rivestite) che deponeva, quindi, per un'asbestosi al terzo o quarto stadio, con corpuscoli risultati essere microfibre di amianto anfibolico, quindi, crocidolite o tremolite".
La dott.ssa Q.Q. ha confermato tali conclusioni nel corso della rinnovazione istruttoria disposta in grado di appello. Ha dichiarato infatti (pag. 71 della sentenza impugnata): "Nel parenchima polmonare il quadro era quello di una asbestosi conclamata e non c'erano dubbi in quanto era un quadro addirittura didattico... c'era una fibrosi polmonare diffusa". Ha aggiunto poi che, nei tessuti polmonari da lei esaminati, "c'erano tantissimi corpuscoli dell'asbesto, non solo i due corpuscoli dell'asbesto per centimetro quadrato, come indicato in alcune linee guida..., non era necessario neanche arrivare ai dieci campionamenti che vengono richiesti, perché quelli sono importanti soprattutto quando l'asbestosi è in fase iniziale, che non sempre si manifesta nello stesso modo in tutte le aree e questo quadro era bilaterale ed era una fibrosi avanzata". Quanto alla riferibilità della patologia ad esposizione professionale, la dott. ssa Q.Q. ha dichiarato di aver riscontrato "la presenza di più di mille corpuscoli di asbesto per grammo di tessuto polmonare secco", che è il limite indicativo di esposizione occupazionale secondo la Consensus Conference di Helsinki del 1997.
15.1. Se nel giudizio di merito era stata contestata la riferibilità della morte all'asbestosi ed erano state formulate ipotesi alternative (si era parlato dì una brocopneumopatia cronico-ostruttiva da fumo di sigaretta e si era anche ipotizzata l'insorgenza di un mesotelioma), il tema è stato abbandonato nei motivi di ricorso nei quali la difesa non contesta che G.G. sia morto per asbestosi.
Nella rinnovazione istruttoria disposta in grado di appello ci si è soffermati particolarmente sulla rilevanza causale degli anni di esposizione compresi tra il 1976 e il 1982. Su questo tema, dalla lettura della sentenza impugnata emergono opinioni scientifiche differenti che è doveroso sintetizzare.
La dott.ssa Q.Q. è stata interpellata dalla Corte di appello: sul momento di probabile insorgenza della asbestosi; sulla possibile incidenza degli ultimi anni di esposizione in un quadro come quello riscontrato al momento del decesso; sulla possibilità che la patologia progredisca anche dopo che è cessata l'esposizione.
Nel riferire il contenuto di tali dichiarazioni, per quanto riguarda l'insorgenza della patologia, la sentenza impugnata scrive (pag. 72): "a fronte dì un caso di asbestosi conclamata come quello riscontrato, tenuto conto dell'epoca del decesso (2008) rispetto ai periodi di esposizione professionale e del periodo di latenza medio per l'insorgenza dell'asbestosi dalla prima esposizione (15 anni per un'asbestosi non così conclamata)" la dott. Q.Q. ha ritenuto di potersi pronunciare "avuto riguardo allo specifico caso del sig. G.G. e della diagnosi istologica, per un range tra i venti ed i trent'anni dal decesso (1978-1988)". La sentenza riporta poi, nei seguenti termini, il contenuto delle dichiarazioni rese dalla consulente: "l'esposizione è stata elevata anche in anni passati, non certo dieci anni prima, anche perché tutta quella fibrosi, ed era anche bilaterale, soprattutto ai lobi inferiori, perché l'asbestosi a differenza de la silicosi si osserva prevalentemente nei lobi inferiori, non è avvenuta subito perché l'evoluzione dell'asbestosi è di anni ed è progressiva".
Per quanto riguarda l'incidenza degli ultimi anni di esposizione (a fronte di una esposizione protrattasi sin dal maggio del 1955), la sentenza riporta nei seguenti termini le dichiarazioni della dott.ssa Q.Q.: "il rapporto dose-risposta c'è sicuramente nell'asbestosi, "nel senso che più ci sono concentrazioni elevate, più si ha probabilità di avere un'asbestosi; l'altro discorso", cioè, "quando è potuta avvenire la prima esposizione che ha provocato poi l'asbestosi, io non glielo posso dire"". La Corte di appello riferisce, inoltre, che la dott.ssa Q.Q. ha precisato "di non poter escludere nessuna esposizione, "nel senso che, anche l'esposizione cumulativa negli anni può peggiorare un quadro di asbestosi, nel senso che io continuo a respirare amianto anche a basse dosi, però il polmone trattiene ancora maggiormente l'amianto e quindi l'amianto continua ad avere il suo effetto fibrogeno nel parenchima polmonare".
Per quanto riguarda, infine, l'evoluzione della malattia dopo la cessazione all'esposizione, la sentenza impugnata così riporta il pensiero della dott.ssa Q.Q.: "l'amianto nel polmone determina un processo infiammatorio, che ha in sé la liberazione di citochine e di tante altre sostanze che stimolano i fibroblasti, che producono la fibrosi e, di conseguenza, progressivamente aumenta la fibrosi: "se io continuo a respirare - un discorso fisiopatologico - se io continuo a respirare amianto, anziché depositarsi magari nelle aree di fibrosi, si va a depositare nelle aree ancora non fibrotiche e poi, progressivamente, anche queste aree si trasformano, cioè, è un discorso un po' diverso dalle neoplasie, la fibrosi polmonare, sono due aspetti diversi".
Nelle pagine 73 e 74 della motivazione, la sentenza impugnata riporta l'opinione di altro CT del PM, dott. B.B.B., secondo il quale i riscontri radiologici a disposizione evidenziano segni di asbestosi "nel 2002 e un episodio acuto nel 2003", anche se già in precedenza G.G. "lamentava una forma di dispnea, di mancanza di fiato, situazione che induce a ritenere verosimile che l'inizio della malattia possa coincidere con l'inizio dell'esposizione, con progressivo accumulo delle fibre nel polmone e ingravescenza della patologia fino allo stadio terminale, anche nel periodo successivo alla cessazione dell'esposizione".
La sentenza impugnata riporta, a pag. 74 e 75, la tesi sostenuta dal consulente della difesa prof. Canzio Romano e riferisce che, in grado di appello, questi non ha sollevato obiezioni in merito alla diagnosi di asbestosi né riguardo al fatto che la asbestosi sia una malattia dose-dipendente. Ha sostenuto, però, che il 2002 può essere il momento in cui è stata formalizzata la diagnosi di asbestosi, ma, pur diagnosticata in quella data, la patologia era "sicuramente già iniziata nei primi anni di esposizione" e, una volta iniziata, si è evoluta "in gran parte perché c'è stata un'esposizione che è continuata a partire dal momento dell'inizio e in parte perché - come credo che siamo d'accordo tutti a dire - dopo la sospensione dell'esposizione la fibrosi può poi continuare ad evolvere".
Quanto alla incidenza causale del periodo di esposizione correlato a quello in cui l'imputato rivestiva posizione di garanzia, il consulente della difesa ha sottolineato: che certamente nel periodo in esame vi è stato un drastico abbattimento del livello di esposizione; che, "come sostenuto non solo dal consulente della difesa, prof. C.C.C., ma anche dall'Ing. D.D.D., consulente dell'accusa", "vi sarebbe stata un'esposizione cumulativa stimata nella misura del 99,8% ante 1976 ed in quella dello 0,2% post 1976" e, in considerazione di tale diversa quantità di esposizione cumulativa, si può affermare con ragionevole certezza che, "se quegli anni di esposizione non ci fossero stati - un po' per la enorme quantità di amianto inalata prima del 1976, un po' per l'evolutività spontanea della malattia - l'asbestosi del sig. G.G. sarebbe arrivata, ad una forma, a un livello, a un grado non distinguibile da quello che in effetti si è realizzato". Con specifico riferimento alla quantità di corpuscoli di asbesto riscontrata nel tessuto polmonare di G.G. - cui la dott.ssa Q.Q. aveva fatto riferimento (segnatamente, circa "30.000... corpuscoli di asbesto" per grammo di tessuto polmonare) - il consulente della difesa ha sostenuto che "il conto dei corpuscoli... non serve per distinguere la responsabilità dei due periodi" e che il numero dei corpuscoli costituisce "un indicatore sintetico, globale, che raccoglie tutto quello che è stato inalato, non può dire quando è stato inalato il corpuscolo A o il corpuscolo B"".
15.2. Così sintetizzato il quadro delle diverse tesi scientifiche, la Corte di appello si limita ad affermare che, nel periodo riferibile alla gestione di F.F., la quantità di fibre di amianto aerodisperse si ridusse, ma la dispersione di fibre non cessò. Sottolinea che, in quel periodo, vi fu una "non trascurabile" inalazione di polveri aerodisperse. Ricorda che l'asbestosi è malattia "dose-dipendente" e conclude che le esposizioni verificatesi nel periodo 1976-1982 contribuirono a causare il decesso di G.G., "aggravando la patologia e, conseguentemente, indebolendo le condizioni generali del paziente, indebolimento che, nel caso di specie, si è manifestato con un precoce decadimento fisico sfociato nell'exitus" (pag. 76 della motivazione).
L'argomentazione contraddice in parte l'affermazione contenuta a pag. 72 (peraltro non argomentata con chiarezza) secondo la quale il periodo di esposizione rilevante ai fini della insorgenza della patologia sarebbe compreso tra i venti e i trent'anni dal decesso (la patologia sarebbe insorta dunque nel periodo 1978-1988); ed è apodittica quando afferma, senza ancorare questa affermazione alle indicazioni scientifiche fornite dai consulenti nel corso del giudizio, che, a fronte di una massiccia esposizione durata per più di vent'anni (dal 1955 al 1976) il protrarsi dell'esposizione dal 1976 al 1982 abbia determinato l'aggravamento della malattia. Nel giungere a tali conclusioni la Corte territoriale non si confronta con le affermazioni della dott. Q.Q., secondo la quale, una volta indotta l'asbestosi, "il quadro di fibrosi polmonare evolve nel tempo con una velocità diversa da paziente a paziente, perché dipende se subentrano altri fattori patologici, se ci sono altri fattori che possono peggiorare il quadro di fibrosi". Manca, dunque, nel caso di specie, un approfondimento scientifico sia per quanto riguarda il momento in cui la fibrosi potrebbe essere insorta, sia per quanto riguarda la rilevanza causale o concausale del periodo di esposizione riferibile all'imputato.
Se è vero infatti che, in tema di malattie derivanti dall'esposizione all'amianto, la responsabilità penale deve essere affermata non solo quando la condotta ascritta all'imputato abbia determinato l'insorgenza della malattia, ma anche quando si sia prodotto un aggravamento della medesima o una riduzione significativa del tempo di latenza (per tutte: Sez. 4, n. 24997 del 22/03/2012, Pittarello, Rv. 253303; Sez. 4, n. 30206 del 28/03/2013, Ciriminna, Rv. 256374); è pur vero che la dichiarazione di responsabilità non può sottrarsi alla necessità di verificare la sussistenza del nesso causale del caso concreto sicché, nel caso oggetto del presente giudizio, non ci si può fermare all'accertamento della ed. causalità generale (id est: della astratta relazione causale tra la condotta e il tipo di evento verificatosi), ma è necessario accertare anche la sussistenza della causalità individuale. Pertanto, non è sufficiente constatare che l'esposizione alle polveri di amianto è indicata da leggi scientifiche generalmente riconosciute come causa del l'asbestosi, ma si deve verificare se la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore "sia insorta o si sia aggravata o si sia manifestata in un più breve tempo di latenza per effetto dell'esposizione al fattore di rischio, così come si è verificata" (sul tema della "causalità individuale" o "causalità singolare": Sez. 4, n. 30206 del 28/03/2013, Ciriminna, già citata; Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017, dep. 2018, Cirocco, Rv. 273095; Sez. 4, n. 22022 del 22/02/2018, Tupini, Rv. 273586).
Sulla base di un principio giurisprudenziale ormai consolidato, "l'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa..., all'amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata all'accertamento: (a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco del processo carcinogenetico" (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943).
Questo stesso principio deve essere applicato, pur con i necessari adattamenti, quando - come nel caso di specie - la morte sia stata determinata da asbestosi. Ne consegue che i giudici di merito non avrebbero potuto limitarsi a dare atto (come nella sostanza hanno fatto) che l'asbestosi è "malattia dose-dipendente"; avrebbero anche dovuto spiegare perché, alla luce del sapere scientifico, sia possibile affermare con elevato grado di probabilità razionale che, non ostante il lunghissimo periodo di esposizione pregresso (1955-1976), l'asbestosi che condusse a morte G.G. sorse o si aggravò a causa dell'esposizione verificatasi tra il 1976 e il 1982.
16. Per quanto esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per nuovo giudizio in ordine alla sussistenza della causalità individuale. Sono assorbiti i motivi riguardanti la sussistenza e il grado della colpa (motivo dodici) e la ritenuta sussistenza di danni risarcibili in capo agli enti e alle associazioni costituite, questione sollevata nei motivi tredici, quattordici e quindici unitamente a quelle relative alla legittimazione alla costituzione (che sono state trattate nella parte iniziale delle considerazioni in diritto). È assorbito anche il sedicesimo motivo, col quale la difesa sostiene che sarebbe stata liquidata alla parte civile Regione Piemonte una provvisionale non richiesta.
La regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità deve essere demandata al giudice di rinvio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Torino, cui demanda anche a regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Dichiara inammissibili i ricorsi di A.A., B.B., C.C., D.D. e E.E., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 9 maggio 2024
Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2024