Cassazione Penale, Sez. 4, 02 agosto 2024, n. 31657 - Mortale infortunio all'interno di una cava per l'estrazione del marmo. Ruolo del Direttore responsabile dei lavori/RSPP e del preposto/sorvegliante di cava
- Cava, Miniera e Industria Estrattiva
- Direttore dei Lavori
- Dirigente e Preposto
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Lavori in Quota
- Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta da:
Dott. DOVERE Salvatore - Presidente
Dott. VIGNALE Lucia - Giudice
Dott. CALAFIORE Daniela - Giudice
Dott. CENCI Daniele - Relatore
Dott. CIRESE Marina - Giudice
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
A.A. nato a V. (...)
B.B. nato a C. (...)
avverso la sentenza del 12/04/2023 della CORTE APPELLO di GENOVA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELE CENCI;
sulle conclusioni, come in atti rassegnate, del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dr.ssa SILVIA SALVADORI
uditi i Difensori:
è presente l'Avvocato Enrico MARZADURI, del Foro di LUCCA, in difesa di A.A.;
è presente altresì l'Avv. Adriano MARTINI, del Foro di MASSA, in difesa di B.B.;
che concludono come in atti.
Fatto
1. La Corte di appello di Genova il 12 aprile 2023, in parziale riforma della sentenza, appellata dagli imputati, con cui il Tribunale di Massa il 7 giugno 2021, all'esito del dibattimento, ha riconosciuto - anche - A.A. ed B.B. responsabili, in cooperazione colposa tra loro ex art. 113 cod. pen., del reato di omicidio colposo, con violazione della disciplina antinfortunistica, in conseguenza condannandoli, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante, alla pena di giustizia, condizionalmente sospesa, invece, riconosciuta agli imputati l'attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen. e stimata la stessa, insieme con le già riconosciute attenuanti generiche, prevalente sull'aggravante, ha rideterminato per entrambi la pena, riducendola; con conferma nel resto.
2. I fatti, in sintesi, come concordemente ricostruiti dai Giudici di merito.
2.1. La mattina del 29 agosto 2015 si è verificato un mortale infortunio sul lavoro all'interno di una cava per l'estrazione del marmo in Toscana.
In particolare, in quel momento gli operai B.B. e C.C. stavano cercando di staccare una "bancata" di marmo di notevoli dimensioni dalla parete di una montagna, al livello della cava di 715 metri sul mare. Era già stato usato, come di prassi, l'esplosivo, e si era creata una crepa, detta "pela", ma il blocco, pur agganciato alla parete soltanto in parte e privo di piede di appoggio, non era caduto in basso; si era allora provato, come previsto, ad inserire nella crepa sia dei paletti di ferro ("c.d. "punciotattura") sia delle sacche poi riempite con acqua (c.d. "idrobag") per fare leva sulle due parti della fessura e divaricarla onde far precipitare il blocco, ma invano; dunque, B.B. aveva messo in moto un escavatore e con la benna agganciata alla fine del braccio meccanico aveva più volte colpito violentemente la parete onde causare la precipitazione; durante tale fase di picconatura, C.C. era rimasto ad una distanza di circa dieci metri; poi, però, non essendo nemmeno i colpi riusciti a far staccare il blocco, C.C. si era avvicinato alla fessura, rimanendo dalla parte che riteneva solida ma, proprio in quel momento, si era allargata una ulteriore frattura, che prima non era stata notata essendo presenti molti detriti sulla superficie, che non era stata adeguatamente pulita (si tratta di profilo di colpa quello relativo alla mancata pulizia della superficie ritenuto esistente dal Tribunale, alla p. 34, ed invece valutato non adeguatamente provato dalla Corte di appello, alla p. 9), fessura posta a 56 centimetri all'interno rispetto a quella che si stava tentando di allargare, sicché il blocco sul quale il malcapitato era in piedi si era staccato, cadendo nel vuoto. C.C. era così precipitato per nove metri, procurandosi gravissime lesioni (trauma toracico con lacerazione del cuore) che in pochi minuti, nonostante il tempestivo intervento dei soccorsi, lo hanno condotto a morte.
Durante tutte le operazioni descritte la vittima non indossava la cintura di sicurezza, il cui impiego, invece, naturalmente con aggancio a un solido punto fisso, era obbligatoria in base al documento di sicurezza e salute in materia di cave (acronimo: D.D.S.) della cava.
2.2. Sono stati sottoposti a processo penale, oltre al datore di lavoro e gestore della cava D.D. (irrevocabilmente dichiarato responsabile dell'omicidio colposo), il direttore responsabile dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale, A.A., ed il preposto e sorvegliante di cava, B.B..
Si è ritenuto, infatti, che A.A., nella duplice qualità suindicata: non si sia attivato per far rispettare le prescrizioni del documento di sicurezza e salute - D.D.S. - in merito all'obbligatorio utilizzo da parte dei lavoratori che operavano in prossimità dei cigli e comunque con il rischio di precipitazione, come la vittima, delle cinture di sicurezza; non abbia chiesto al datore di lavoro di fornire ai dipendenti un idoneo numero di cinture, essendone presente nella cava soltanto una per circa 15-18 lavoratori; non abbia vigilato circa l'impiego delle stesse da parte dei lavoratori; comunque, non abbia individuato e valutato i fattori di rischio e non abbia individuato le necessarie misure di sicurezza.
Quanto a B.B., si è ritenuto: non avere lo stesso vigilato affinché C.C. indossasse la cintura di sicurezza e la ancorasse a punti solidi; non avere informato il datore di lavoro della situazione; avere consentito che il collega accedesse alla zona pericolosa e partecipasse alle descritte operazioni senza avere previamente indossato ed agganciato dispositivo di protezione individuale.
Con ciò entrambi gli imputati con-causando l'evento.
3. Ciò premesso, ricorrono per la cassazione della sentenza gli imputati tramite separati ricorsi curati da distinti Difensori di fiducia. La Difesa di A.A. è affidata a quattro motivi; quella di B.B. a cinque.
4. Ricorso di A.A..
4.1. Con il primo motivo, richiamata la contestazione contenuta nell'editto ed i profili di colpa riconosciuti sussistenti in capo all'imputato da parte del Tribunale e della Corte di appello, lamenta promiscuamente violazione di legge e vizio di motivazione, che sarebbe contraddittoria e manifestamente illogica, in relazione alla risposta al primo motivo di appello, incentrato sulla violazione dell'art. 521 cod. pen. per lesione del diritto di difesa.
La risposta che si rinviene alla p. 6 e che esclude profili di nullità richiamando la costante giurisprudenza in tema di reati colposi trascura, infatti, ad avviso del ricorrente, che, "in realtà, siamo di fronte ad un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello originariamente ascritto, incompatibile con il profilo omissivo legato al mancato utilizzo della macchina taglia-blocchi per punciotattura al fine dell'esecuzione del taglio a monte della bancata, così come descritto nell'imputazione... nell'ipotesi portata avanti dalla Procura, l'adozione di imbragature o cinture di sicurezza non avrebbe avuto alcun significato posto che l'impiego di tali macchine impedisce per ragioni di sicurezza un contatto diretto degli operai con il punto di lavorazione" (così alla p. 7 del ricorso), come confermato dall'ispettore della A.S.L. escusso all'udienza del 6 maggio 2019.
La lesione del diritto di difesa conseguente ad un mutamento così radicale della prospettiva dell'addebito sarebbe dimostrata dal richiamo (alle pp. 8-9, testo e nota n. 1, del ricorso) al contenuto della lista testimoniale depositata dalla Difesa di A.A., con testi e con capitoli chiamati a chiarire l'impiego della c.d. macchina taglia blocchi, come indicato dal P.M. nell'editto, non altro.
Avere giustificato la condanna con il mancato impiego delle imbracature tese ad evitare precipitazioni avrebbe, dunque, comportato la condanna per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non si è potuto esercitare pienamente il diritto di difesa, con richiamo al principio di diritto affermato nel precedente di legittimità, stimato pertinente, di Sez. 4, n. 6564 del 23/11/2022, dep. 2023, Spampinato, Rv. 284101.
Irrilevante sarebbe, dunque, avere potuto la Difesa esaminare i testi, compreso il funzionario A.S.L. verbalizzante, perché l'originario difetto di contestazione, la mancanza di integrazione/modifica della stessa da parte del P.M. non solo - si assume - non hanno consentito di valutare l'opportunità di un rito alternativo, ma non hanno consentito, "in modo ancor più lesivo per il diritto di difesa, di considerare la necessità dell'introduzione di nuove prove sia sul piano testimoniale che valutativo. A quest'ultimo riguardo avrebbe potuto essere di certo significativo... approfondire ulteriormente l'aspetto legato alla preparazione ed esperienza professionale del dipendente circa l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, sull'adeguatezza dei corsi svolti, laddove il Tribunale e la Corte non hanno ritenuto di accontentarsi delle attestazioni rilasciate al dipendente e del materiale didattico che testimoniavano in realtà la formazione effettuata proprio con riferimento al rischio di caduta dall'alto e sull'utilizzo delle cinture (...). Molto banalmente, di sicuro interesse avrebbe potuto essere l'audizione di testimoni, colleghi del C.C., sulla circostanza se avessero mai visto la vittima indossare e poi utilizzare la cintura di sicurezza durante le lavorazioni, posto che, come stabilito all'esito del processo di merito, quel giorno era comunque disponibile idonea imbragatura che il dipendente ritenne di non adoperare; tutto questo tenuto in considerazione il fatto che l'uomo aveva un'esperienza lavorativa di oltre trent'anni in cava a svolgeva mansioni anche di sorvegliante" (così alle pp. 10-11 del ricorso).
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente si duole di vizio di motivazione della sentenza in riferimento alla ipotizzata regola cautelare violata.
Ad avviso dei decidenti di merito, il lavoratore, atteso il tipo di attività cui era intento, avrebbe dovuto obbligatoriamente essere assicurato con imbragatura fissata saldamente alla parete.
Infatti, ad ogni sequenza della lavorazione che era in corso sarebbe corrisposta una specifica tecnica per garantire la sicurezza. Certamente - si assume - l'imbragatura era necessaria per apporre i picchetti e le sacche da riempire con l'acqua, sebbene non fu adoperata, ma non mentre il compagno B.B. colpiva con la benna la parete, poiché in tale fase della lavorazione, come è logico e come è emerso (p. 10 della sentenza impugnata), la vittima si teneva a debita distanza dal punto pericoloso. Così stando le cose, la Corte di merito non si sarebbe avveduta di una chiara incongruenza della motivazione, poiché, terminata da pochi attimi la battitura della parete con la benna, era assolutamente irragionevole l'avvicinamento da parte dell'operaio, sino a quel momento - legittimamente - privo di trattenuta, alla zona interessata, già in sé pericolosa, avvicinamento della p.o. da ritenersi nel concreto contesto inutile, estraneo al ciclo di lavorazione, imprudente, non ipotizzabile e non prevedibile.
4.3. Con il terzo motivo censura promiscuamente violazione di legge (art. 33 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) e mancanza e contraddittorietà della motivazione in tema di specifico addebito mosso all'imputato A.A..
In particolare, si ritiene che la Corte di appello non si sia confrontata adeguatamente con il terzo motivo di appello, ove si era sottolineato, tra l'altro, che l'osservanza sulle misure di sicurezza antinfortunistiche dovesse essere svolta dal preposto e sorvegliante di cava B.B., mentre A.A. non solo aveva adeguatamente individuato e valutato i rischi - tanto che nessuna carenza del D.D.S. viene rilevata dai Giudici di merito - ma anche non era previsto un costante monitoraggio da parte del direttore responsabile dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale, onere di monitoraggio che incombeva, invece, sul sorvegliante di cava - preposto.
Il ragionamento svolto dai decidenti mostrerebbe la sua astrattezza, ove non considera che, comunque, è emerso che quel giorno era disponibile in cantiere una imbracatura e che il lavoratore, pur adeguatamente formato, non aveva inteso indossarla.
Non meno astratto sarebbe il passaggio motivazionale, che si rinviene alla p. 8 della sentenza impugnata, sulla sostanziale disincentivazione all'impiego dell'imbracatura, essendone presente un unico esemplare per tanti lavoratori, essendo emerso che quella mattina C.C. non aveva incontrato nessuna difficoltà a reperire il dispositivo di protezione individuale ed infatti si era recato proprio nel magazzino ove in effetti era l'imbracatura ma non la aveva indossata.
La sentenza non si sarebbe misurata nemmeno con i rilievi difensivi nell'atto di appello (p. 14) sulla validità ed efficacia dei corsi seguiti dal lavoratore, anche sotto il profilo della prevenzione del pericolo di precipitazione.
4.4. Con il quarto e ultimo motivo si denunzia mancanza e manifesta illogicità della motivazione sotto il profilo della omessa graduazione del trattamento sanzionatorio, specialmente a raffronto con la posizione del coimputato B.B., cui sono stati ascritti più profili di colpa, mentre in sentenza nessuna motivazione, ad avviso del ricorrente, si rinviene che spieghi perché si sia ritenuto di non operare un distinguo tra le diverse posizioni.
5. Ricorso nell'interesse di B.B..
5.1. Con il primo motivo preliminarmente si richiamano e si confrontano tra loro i profili di colpa originariamente contestati nell'editto, quelli ritenuti in primo grado e quelli riconosciuti dalla Corte di appello, che, in ultima analisi, si riconducono a due, cioè: a) non avere provveduto a far indossare alla vittima l'imbracatura; b) non avere impedito alla vittima, priva di imbracatura, di avvicinarsi alla zona pericolosa.
Quindi si denunzia la violazione dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., sancita a pena di nullità dall'art. 522 cod. proc. pen., in ragione della divergenza tra il fatto, inteso come condotta attiva ed omissiva che ha cagionato l'evento descritto nel capo di imputazione, e quello posto a fondamento delle decisioni.
Nel confutare il primo dei motivi di appello (pp. 11 e ss.), la sentenza impugnata (alla p. 6) liquida la censurata discrepanza tra accusa e sentenza "come un fenomeno di addizione di nuovi ed aggiuntivi profili di colpa rispetto a quelli contestati. Così, però, non è (...in realtà) Il Tribunale... identifica e segue una diversa formulazione del fatto oggetto dell'accusa: altre condotte colpose hanno cagionato la morte (...ma) Il capo di imputazione non contiene affatto un qualcosa che assomigli ad "addebiti generali" di imprudenza, negligenza o imperizia, ma definisce con ordine e metodo la casistica di colpa generica e specifica che ritiene rimproverabile al prevenuto" (così alla p. 7 del ricorso).
Né varrebbe il richiamo, che si legge alla p. 6 della sentenza impugnata, alla concreta possibilità che vi è stata di sottoporre ad esame e controesame il teste di accusa, in quanto, attesa la radicale modifica dell'impostazione, la Difesa è stata privata della facoltà di scegliere un rito alternativo ovvero introdurre in lista testimoni o nominare consulenti, facoltà non più recuperabili.
Dopo avere escluso la contestazione di non avere provveduto o fatto provvedere alla idonea pulizia del piazzale, che poteva nascondere la seconda fessura (p. 9 della sentenza impugnata), la Corte di appello - si sottolinea criticamente - cambia ancora impostazione, riducendo gli addebiti colposi, in sostanza, a due, cioè: 1) non aver provveduto a far indossare alla vittima l'imbracatura; 2) non avere impedito alla vittima, priva di imbracatura, di avvicinarsi alla zona pericolosa; entrambi presupponenti un potere di coercizione dell'imputato che, però, ad avviso della Difesa, nessuna norma gli attribuisce.
5.2. Con l'ulteriore motivo censura la violazione delle disposizioni degli artt. 6 e 7 del D.P.R. 9 aprile 1959, n. 128, 2, lett. c), del D.Lgs. 25 novembre 1996, n. 624, e 19 del D.Lgs. n. 81 del 2008, che definiscono la posizione di garanzia del "sorvegliante di cava" e del preposto ed il relativo statuto prevenzionistico
Richiamato il ragionamento della Corte di appello alle pp. 6-7, lo si sottopone a serrata censura, evidenziando come, in base alle norme vigenti prima della riforma operata con decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215, il sorvegliante di cava non fosse equiparabile al preposto ma fosse soltanto un primus inter pares, cioè un operaio come gli altri, nel caso di specie cavatore e gruista, sorvegliante nel senso di avente il solo compito in più di sorvegliare i colleghi e di segnalare al datore di lavoro eventuali comportamenti di rilievo disciplinare dei colleghi ma senza poteri coercitivi e sanzionatori o di allontanamento dal luogo di lavoro, che solo la richiamata novella, non in vigore però al momento dei fatti, ha introdotto. Donde la insussistenza di entrambi gli addebiti ritenuti dalla Corte di appello ossia: 1) non avere provveduto a far indossare alla vittima l'imbracatura; 2) e non avere impedito alla vittima, priva di imbracatura, di avvicinarsi alla zona pericolosa.
Si lamenta poi la violazione degli artt. 589 e 40 cod. pen. nella parte in cui definiscono la nozione della condotta di "cagionare per colpa" ovvero di "non impedire per colpa".
A proposito della pretesa censurabile "parcellizzazione" delle fasi da parte della Difesa, di cui si legge alla p. 7 della sentenza impugnata, osserva il ricorrente come, all'opposto, ogni segmento dell'operazione presentava propri rischi ed andava doverosamente affrontato rispettando regole prevenzionistiche specifiche, idonee allo scopo: in particolare, a differenza delle due fasi precedenti, nella terza B.B. colpiva violentemente la roccia con la benna montata al termine di un braccio meccanico lungo otto metri e non vi era necessità che il collega C.C. fosse imbracato ma era invece sufficiente, come ragionevolmente avvenne (p. 10 della sentenza di appello), che si tenesse a debita distanza. Ergo: nel contesto dato, "parcellizzare non solo non è scorretto, ma è piuttosto doveroso. La motivazione è, sul punto, illogica" (così alla p. 10 del ricorso).
5.3. Oggetto del terzo motivo di impugnazione è la violazione dell'art. 589 cod. pen. e, nel contempo, la ritenuta mancanza ed illogicità della motivazione in merito alla portata impeditiva della prevenzione non adottata.
Si sottolinea essersi la vittima avvicinata a piedi al ciglio, poggiando i piedi su una porzione di roccia che non sarebbe dovuta cadere, ma che, invece, cadde; e ciò mentre l'imputato B.B. era impegnato nella manovra di retromarcia della pala meccanica.
Mancherebbe nel caso di specie la causalità della colpa, difetterebbe cioè la prova del nesso di evitabilità tra la regola cautelare che si assume violata e l'evento lesivo, sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, la Difesa sottolinea che il medico legale, dopo avere individuato la causa della morte nel "trauma toracico con lacerazione del cuore", non afferma con assolutezza che l'origine fu la precipitazione ma che, come si legge alla p. 5 della sentenza del Tribunale ed alle pp. 10-11 della relazione del medico legale dr.ssa Gamba, che si richiamano per stralcio, "durante la caduta, prima di raggiungere il suolo, il corpo può avere urtato porzioni sporgenti (di roccia) aggettanti verso la traiettoria della caduta". Di ciò, però, non si è tenuto conto, ossia, ad avviso del ricorrente, si è dato per assodato l'effetto salvifico del trattenimento ad opera dell'imbracatura: ma, anche se l'operaio fosse stato imbracato, comunque avrebbe potuto sbattere assai violentemente nella prima parte della caduta, prima di essere trattenuto dalla fune, su pericolosi spunzoni di roccia, che - ugualmente - ne avrebbero potuto causare il decesso.
Sotto ulteriore profilo, osserva il ricorrente che "sarebbe stato doveroso considerare come la caduta del sig. E.E. sia avvenuta non per effetto di un disequilibrio, ma perché la vittima venne coinvolta in una vera e propria frana: è allora evidente come il coinvolgimento in una frana non rientri nel novero dello spettro prevenzionistico dei DPI in questione" (così alla p. 22 del ricorso).
5.4. La Difesa di B.B. con il quarto motivo si duole della violazione dell'art. 589 cod. pen. e della contraddittorietà tra la ricostruzione del fatto operata in sentenza e le conclusioni cui la sentenza giunge in merito al rimprovero colposo mosso all'imputato e alla esigibilità di una diversa condotta, richiamando e mettendo a confronto plurimi passaggi motivazionali delle sentenze di merito.
Sottolinea in modo particolare che, per affermare la responsabilità del ricorrente, i decidenti sono costretti ad affermare che l'iniziativa di C.C. di recarsi sul ciglio subito dopo la battitura tramite benna comandata da B.B. non fosse un'iniziativa autonoma e sganciata dal resto ma parte complementare dell'operazione (pp. 10-11 della sentenza di appello). Tuttavia, nel fare ciò, i giudici non avrebbero colto né che in quel momento B.B., impegnato con la pala in retromarcia, non poteva esercitare, anche ove mai dovuto, alcun controllo, né che la vittima, pur potendo munirsi di cintura, quella mattina non lo fece, né che il ricorso alla "martellatura" all'inizio dei lavori era ipotetico ed eventuale, né che era ovvio che tale violenta operazione avrebbe indebolito il balconcino, con la conseguenza che non era affatto scontato che alcuno si dovesse avvicinare a piedi al punto del "balconcino" che era stato ripetutamente picconato e che, quindi, con ogni logica, era ancora più pericoloso di prima, né che si sarebbe potuto controllare la eventuale dilatazione della fessura in altro modo. Con la conseguenza, ad avviso del ricorrente, che non sussiste alcun elemento dimostrativo che consenta di affermare che B.B. abbia disposto o abbia tollerato che C.C. affrontasse un pericolo evidente. E, dunque, la decisione sarebbe viziata per manifesta incongruenza tra premesse e conclusioni, per illogicità della motivazione nella determinazione dei doveri gravanti su B.B. durante la conduzione del pesante mezzo meccanico. Aggiungendo che, anche ammesso che tra i suoi compiti rientrasse quello di impedire al collega C.C. di tornare sul ciglio o di costringerlo ad indossare in tal caso la cintura di sicurezza, nelle circostanze concrete in cui si svilupparono gli eventi di quel giorno, l'imputato B.B. non era in condizioni di poter percepire l'esistenza di quei presupposti affinché i compiti astratti dovessero trovare immediata esecuzione.
5.5. Infine, con l'ultimo motivo, svolto dalla difesa B.B. in via subordinata rispetto ai precedenti, si denunzia la violazione dell'art. 133, comma 1, n. 3, cod. pen., in quanto, pur avendo escluso uno degli addebiti che erano stati affermati in primo grado (quello cioè di non avere pulito la superficie, così non consentendo di vedere, siccome nascosta dai detriti, la ulteriore fessura, quella cioè che, aprendosi improvvisamente, ha provocato il distacco della roccia e la precipitazione della vittima, cfr. p. 9 della sentenza impugnata) ed essendo quindi risultato minore il grado della colpa, si è ugualmente proceduto, ma - si ritiene - illegittimamente, partendo dalla sanzione individuata in primo grado di due anni di reclusione, pena-base che, invece, si sarebbe dovuta ridurre.
6.Le Difese degli imputati con istanze del 3 e del 29 novembre 2023 hanno chiesto la trattazione orale.
Il P.G. della Corte di cassazione nella memoria del 10 gennaio 2024 ha chiesto dichiararsi inammissibili entrambi i ricorsi.
Con note del 26 e del 30 gennaio 2024 le Difese di A.A. e di B.B. hanno dichiarato di aderire all'astensione dalle udienze penali proclamata dalle Camere penali per il giorno 8 febbraio 2024: il processo è stato, quindi, rinviato al 28 marzo 2024, sospesi i termini di prescrizione.
Il 20 febbraio è stata rinnovato da parte della Difesa la richiesta di trattazione orale.
Il P.G. della Corte di cassazione con ulteriore memoria del 21 febbraio 2024 ha chiesto rigettarsi entrambi i ricorsi.
Diritto
1. Premesso che la prescrizione maturerà non prima del 29 agosto 2030, il ricorso di A.A. è parzialmente fondato, mentre risulta infondato quello nell'interesse di B.B.; per le ragioni che ci si accinge a spiegare.
2. Appare preliminarmente necessario affrontare il primo dei motivi dei ricorrenti, i quali hanno posto il tema della corrispondenza tra l'accusa elevata dal P.M. e la contestazione per cui è stata adottata condanna. In particolare, entrambi hanno sottolineato con particolare efficacia argomentativa la profonda differenza, e persino la incompatibilità, tra la contestazione originaria, incentrata sul mancato impiego della macchina "tagliablocchi" nell'attività di esecuzione del distacco della "bancata" di marmo dalla parete della cava e i profili di colpa ravvisati, invece, sussistenti dai giudici di merito (cfr. punti nn 4.1 e 5.1 del "ritenuto in fatto") e cioè, quanto a A.A.: non essersi attivato per far rispettare le prescrizioni del documento di sicurezza e salute (D.D.S.) in merito all'obbligatorio utilizzo da parte dei lavoratori che operavano in prossimità dei cigli e comunque con il rischio di precipitazione, come la vittima, delle cinture di sicurezza; non avere chiesto al datore di lavoro di fornire ai dipendenti un idoneo numero di cinture, essendone presente nella cava soltanto una per circa 15-18 lavoratori; non avere vigilato circa l'impiego delle stesse da parte dei lavoratori; non avere individuato e valutato i fattori di rischio e non avere individuato le necessarie misure di sicurezza; e, quanto a B.B.: non avere vigilato affinché C.C. indossasse la cintura di sicurezza e la ancorasse a punti solidi; non avere informato il datore di lavoro della situazione; avere consentito che il collega accedesse alla zona pericolosa e partecipasse alle descritte operazioni senza avere previamente indossato ed agganciato dispositivo di protezione individuale.
Al riguardo, va osservato come alla p. 6 della sentenza impugnata si escluda la nullità della sentenza per mancata contestazione del fatto diverso, anche tramite richiamo di pertinente giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, n. 6564 del 23/11/2022, dep. 2023, Spampinato, Rv. 284101, e Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, P.C. in proc. Di Landa, Rv. 273265), richiamando il consolidato principio secondo il quale in materia di colpa l'apprezzamento di un profilo di colpa aggiuntivo e persino diverso da quello originariamente contestato, nel quadro di addebiti generali in termini di imperizia imprudenza negligenza, non determina necessariamente una mutazione del fatto con conseguente obbligo di contestazione suppletiva ai sensi degli articoli 516 e ss. cod. proc. pen. Ha rammentato la Corte di appello che la giurisprudenza di legittimità in tema di contestazioni è attestata su un criterio sostanziale collegato al diritto di difesa e che, in conseguenza, ravvisa un vizio processuale soltanto laddove la difesa non sia stata in grado di svolgersi compiutamente relazione al fatto diverso: affermazione che - osserva il Collegio - è in linea con il principio di diritto fissato da Sez. U, n. 16 del 19/96/1999, Di Francesco, Rv. 205619 ("Con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione"), quasi testualmente ribadito da Sez. U, n. 36651 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051, e poi fatto proprio da numerose sentenze conformi delle Sezioni semplici, che valorizzano l'esigenza evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi in concreto (tra le quali: Sez. 2, n. 17565 del 15/03/2017, Beretti, Rv. 269569; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio e altri, Rv. 265946; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucerà e altri, Rv. 254419; Sez. 3, n. 36817 del 14/06/2011, T.D.M., Rv. 251081).
In effetti, come sottolineato dai giudici di merito, il contraddittorio nel presente processo vi è stato ed è stato approfondito, il funzionario verbalizzante è stato esaminato e contro-esaminato ampiamente dalle Parti, che già sin dall'atto di appello hanno sollevato il tema circa la corrispondenza o meno tra il fatto contestato e quello accertato, con la conseguenza che non può parlarsi di condanna intervenuta "a sorpresa" per un fatto diverso, sicché appare non illogica né incongrua la motivazione che esclude nel caso di specie essersi in presenza di una nullità derivante dalla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza ex art. 521 cod. proc. pen.
3. Venendo, quindi, al ricorso di A.A., il secondo ed il terzo motivo di ricorso sono fondati, con assorbimento del quarto (in tema di trattamento sanzionatorio).
Occorre premettere che A.A. è stato riconosciuto responsabile di cooperazione colposa nel reato di omicidio colposo nella duplice veste di direttore responsabile dei lavori e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale.
3.1. Con specifico riferimento alla qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale, è appena il caso di rammentare che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è, pacificamente, un consulente del datore di lavoro privo di poteri decisionali e gestionali, con il compito di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhan e altri, Rv. 261107; e, tra le Sezioni semplici successive, Sez. 4, n. 49761 del 17/10/2019, Moi Loris, Rv. 277877, e Sez. 4, n. 11708 del 21/12/2018, dep. 2019, David Marco, Rv. 275279), con la conseguenza che "In materia di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ha l'obbligo di elaborare, nel documento di valutazione dei rischi, i sistemi di controllo sull'attuazione delle misure precauzionali richieste dal tipo di attività lavorativa, ma non è tenuto a controllare che il datore di lavoro adempia alle misure indicate nel documento, sicché risponde per eventuali eventi lesivi, ai sensi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen., solo nel caso in cui abbia omesso l'elaborazione delle misure preventive e protettive o dei sistemi di controllo delle stesse" (Sez. 3, n. 37383 del 15/07/2021, Di Chio, Rv. 281969); nessun rimprovero è stato mosso a A.A. circa il contenuto del documento di sicurezza. Inoltre A.A., in qualità di responsabile del servizio prevenzione e protezione aziendale, non aveva obbligo di presenza sul luogo di lavoro.
Quanto alla comprovata presenza nel magazzino della cava di una unica cintura di sicurezza, osserva il Collegio, da un lato, che la stessa è descritta come efficiente e a norma (p. 8 della sentenza impugnata) e, dall'altro, e soprattutto, che la decisione non indica quante cinture fossero previste nel D.D.S., quante eventualmente fossero necessarie, atteso il numero di lavoratori impiegati ed il tipo di attività da svolgersi, né se il giorno dell'infortunio il dispositivo in questione occorresse ad altri lavoratori, aspetto che impone un approfondimento da parte dei giudici di merito.
3.2. Passando a considerare il diverso - e concorrente - ruolo ricoperto dall'imputato, di direttore responsabile, è utile rammentare che si tratta di figura peculiare della normativa in materia di cave e miniere.
Ai sensi dell'art. 6 del D.P.R. 9 aprile 1959, n. 128 (recante "Norme di polizia delle miniere e delle cave"), il titolare dell'impresa estrattiva deve nominare un direttore responsabile in possesso delle capacità e delle competenze necessarie all'esercizio di tale incarico sotto la cui responsabilità ricadono costantemente i luoghi di lavoro. Spetta al direttore responsabile l'obbligo di osservare e far osservare le disposizioni normative e regolamentari in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Ai sensi del successivo art. 7, i direttori (e i capi servizio, i sorveglianti), nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, oltre ad attuare le misure di sicurezza previste dal decreto, devono:
a) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le norme essenziali di polizia mineraria mediante affissione, negli ambienti di lavoro, di estratti delle presenti norme e, quando non sia possibile l'affissione, con altri mezzi;
b) fornire, mantenere in buono stato, rinnovare e, quando ciò venga riconosciuto necessario dall'ingegnere capo, aggiornare con i progressi della tecnica i mezzi di protezione individuale previsti dal presente decreto;
c) disporre ed esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza e facciano uso dei mezzi di protezione individuale messi a loro disposizione, adottando, quando ne abbiano i poteri, o proponendo i provvedimenti disciplinari del caso, fino al licenziamento in tronco, nei confronti dei lavoratori inadempienti.
Tali previsioni, non abrogate dal D.Lgs. n. 81 del 2008, sono state ritenute in rapporto di integrazione con la disciplina generale contenuta nel D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, atteso che la peculiarità del lavoro svolto nelle cave e nelle miniere, che giustifica la previsione di specifiche norme antinfortunistiche relative alle modalità di svolgimento di quel particolare lavoro, non esclude l'applicazione della più generale disciplina antinfortunistica (Sez. 4, n. 16620 del 24/03/2016, Depetris, Rv. 266642). Mutatis mutandis, ciò può ritenersi anche rispetto al D.Lgs. n. 81 del 2008, che ha preso il luogo del D.Lgs. n. 626/1994.
Nel complesso, come già rilevato da Sez. 4, n. 4793 del 06/12/1990, dep. 1991, Bonetti, Rv. 191797, in motivazione), il direttore dei lavori è il punto di riferimento apicale nel sistema di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nel contesto delle cave e delle miniere; la figura sulla quale incombe l'obbligo di osservare e far osservare le norme del D.P.R. n. 128 del 1959 e di quelle della disciplina generale in materia prevenzionistica.
Tuttavia, anche in questo settore sono previste ulteriori figure (a parte l'imprenditore); come già scritto, l'art. 7 menziona i capi servizio e i sorveglianti.
In particolare, con riferimento a questi ultimi si è stabilito che essi hanno una posizione assimilabile a quella del preposto; assumono, quindi, la qualità di garante dell'obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintendono alle attività, impartiscono istruzioni, dirigono gli operai, attuano le direttive ricevute e ne controllano l'esecuzione (cfr. Sez. 4, n. 24764 del 17/04/2013, Bondielli, Rv. 255400).
Ne consegue che all'articolazione dei garanti corrisponde, secondo il più recente ma consolidato insegnamento di questa Corte, una precisa definizione dei concreti contenuti dei rispettivi obblighi prevenzionistici. Essa è particolarmente evidente nel caso di strutture organizzative complesse (in tal caso vale il principio secondo il quale è generalmente riconducibile alla sfera di responsabilità del preposto l'infortunio occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa e a quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo: Sez. 4, n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv. 269972; nello stesso senso v. già Sez. 4, n. 24136 del 06/05/2016, PC, Di Maggio e altri, Rv. 266853), destinata a diluirsi in un onnicomprensivo obbligo datoriale solo nei contesti produttivi nei quali vi è un rapporto diretto del datore di lavoro con la stessa esecuzione dei lavori.
Orbene, tirando le file di quanto sin qui esposto, occorre rilevare che la sentenza impugnata, a fronte della redazione di idoneo DDS, della sicura presenza sul posto di lavoro di preposto e di una cintura di sicurezza, ed altresì di quanto appresso si scriverà a riguardo dei restanti motivi del ricorso del B.B., non ha svolto alcun approfondimento in merito: alle modalità con le quali il direttore dei lavori aveva strutturato l'organizzazione dei lavori, se esse fossero adeguate; alla previsione e/o alla necessità di un numero maggiore di dispositivi di protezione individuale, al loro acquisto, alle disposizioni dettate per assicurare il loro effettivo ed appropriato utilizzo da parte dei lavoratori, anche rispetto alle diverse fasi delle lavorazioni; alla formazione e all'informazione somministrate ai lavoratori, e segnatamente al C.C..
Colgono quindi nel segno il secondo ed il terzo motivo del ricorso del A.A..
4. Passando, a questo punto ai residui motivi nell'interesse di B.B., il secondo, il terzo ed il quarto, da trattarsi congiuntamente, sono infondati. Trascurano, infatti, che in entrambe le sentenze di merito (pp. 9-11 di quella impugnata e pp. 31 e ss. di quella di primo grado) si ricostruisce con puntualità la posizione di garanzia di preposto concretamente rivestita da B.B., peraltro per sua stessa ammissione in sede di esame a dibattimento, in base alle disposizioni di servizio ed alla concreta distribuzione del lavoro nella cava. Ciò elimina rilevanza al mutamento di disciplina per effetto della legge n. 215 del 2021 sottolineato dalla Difesa con il secondo motivo, in quanto la previsione di specifiche norme antinfortunistiche relative alle modalità di svolgimento di quel particolare lavoro in cava non esclude l'applicazione della più generale disciplina antinfortunistica (in tal senso, sia pure con riferimento alla disciplina previgente al D.Lgs. 2008, n. 81, v. Sez. 4, n. 16620 del 24/03/2016, Depetris, cit.; Sez. 4, n. 4489 del 26/01/1987, Ricotta, Rv. 175638). Infatti B.B., in base al regolamento interno aziendale allegato al documento di sicurezza e salute in materia di cave (DSS), in qualità di preposto, avrebbe dovuto dotare gli addetti alla manovra di cinture di sicurezza, verificare dopo l'azione dell'escavatore l'esistenza di eventuali pericoli ed eliminarli prima di consentire l'accesso del personale nella zona circostante la bancata (p. 10 della sentenza impugnata). E, anche ove fosse stato privo di poteri autoritativi, ad esempio, sui colleghi - come pone in luce la Difesa - sicuramente avrebbe dovuto evitare di proseguire le pericolose attività in presenza di collega che si fosse rifiutato, ad esempio, di indossare la necessaria imbragatura, conseguentemente sospendendo le operazioni; ciò in quanto, appunto, "preposto", con la connessa posizione di preminenza rispetto agli altri lavoratori, cui poteva/doveva impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro (cfr. al riguardo Sez. 4, n. 9491 del 10/01/2013, Ridenti, Rv. 254403; Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237468; Sez. 4, n. 43343 del 18/12/2002, dep. 2003, Marigioli e altri, Rv. 226339; Sez. 3, n. 11406 del 06/07/1999, Di Raimondo, Rv. 215065).
Il ricorrente, in ogni caso, trascura che, al momento della precipitazione la vittima si trovava su di un "balconcino" (peraltro già più volte violentemente percosso per provocare il distacco della pietra) e, dunque, lavorava in quota con un rischio di precipitazione dall'alto, sia indotta sia non indotta, che imponeva la previa corretta imbragatura (con chiarezza: pp. 6-7 e 10 della sentenza di appello e pp. 19 e ss. di quella di primo grado); mentre non trova riscontro nella sentenza impugnata (p. 7) l'affermazione che la morte sia potuta avvenire a causa dell'urto in fase di caduta contro spunzoni di roccia (come si pone in luce nel terzo motivo di impugnazione), anziché per effetto del contatto diretto del corpo di C.C. con il suolo sottostante dopo un volo di nove metri.
Hanno poi sostenuto i giudici di merito, con motivazione non incongrua né illogica, che non rileva se nel momento esatto, "puntiforme", della precipitazione della vittima lo sguardo dell'imputato fosse diretto altrove, siccome impegnato a guidare in retromarcia il mezzo meccanico (v. spec. il quarto motivo di ricorso): infatti - si è visto - era l'intera operazione, siccome pericolosa ed in quota, che andava affrontata previa necessaria imbragatura dell'operaio che a terra coadiuvava il collega a bordo del mezzo meccanico (pp. 6-8 della sentenza impugnata), peraltro come prescritto nel DDS.
4.1. Quanto alle censure in punto di trattamento sanzionatorio, i giudici di merito sono partiti, con sufficiente motivazione, da una pena-base mite inferiore al valore medio edittale (p. 11 della sentenza), onde può trovare applicazione nel caso di specie il principio secondo cui "La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen." (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). Anche l'ultimo motivo, pertanto, è infondato.
5. Consegue l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti di A.A., con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Genova, ed il rigetto del ricorso di B.B., che va condannato (art. 616 cod. proc. pen.) al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di A.A. con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Genova.
Rigetta il ricorso di B.B. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 28 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 2 agosto 2024.